Informazione

BORGHESI PICCOLI PICCOLI PICCOLI


Da Liberazione del 28/08/2007, pag. 2

Violenti e vendicativi. Ecco i nuovi italiani

In aumento la vendetta e la giustizia fai-da-te. A Roma un intero
condominio lincia un presunto pedofilo. E un uomo getta un secchio di
acido contro tre persone perché chiacchieravano sotto le sue
finestre. Secondo il Viminale cresce la violenza a bassa intensità

Un processo sommario con tanto di testimone, poi il linciaggio.
La giustizia-fai-da-te è esplosa in un residence di Val Cannuta, a
Roma, dove un bimbo di sette anni ha raccontato di aver subìto
pesanti molestie sessuali da parte di un vicino di nazionalità
peruviana, in cambio di qualche soldo e una manciata di caramelle.
Una confessione che ha confermato i peggiori sospetti: da tempo le
famiglie del comprensorio avevano il dubbio che il migrante
rivolgesse attenzioni anomale ai bambini, avvicinandoli e palpandoli.
Così è partita la spedizione punitiva: una cinquantina di persone
hanno bussato ferocemente alla porta del migrante e dopo aver cercato
di farlo confessare l'hanno riempito di pugni, schiaffi e calci.
Soltanto in un secondo tempo il mucchio selvaggio ha chiamato i
carabinieri, che hanno accompagnato l'uomo all'ospedale e poi in
commissariato. Gli inquirenti dicono che molto probabilmente quel
ragazzino di 7 anni dice la verità e che dunque il peruviano passerà
grossi guai giudiziari. Ma non è questo il punto. Gli abitanti del
residence si sono fatti giustizia da soli, prima di qualsiasi
processo. A che serve la polizia se puoi punire il colpevole
nell'immediato? Se lo deve essere chiesto anche quell'inquilino del
quartiere Pigneto, sempre a Roma, che nella notte del 17 agosto ha
rovesciato un secchio di acido addosso a tre uomini che
chiacchieravano sotto le sue finestre, provocando ustioni di secondo
e terzo grado a due di loro, un tunisino e un egiziano. Il terzo è
riuscito a salvarsi, riparato dalla tettoia di un negozio. «Non
stavamo facendo chiasso», hanno raccontato i tre migranti. E in
effetti il colpevole, un italiano di 60 anni, ha poi spiegato agli
agenti di non avercela con i tre malcapitati bensì con i bengalesi
che ogni notte fanno bisboccia sotto casa.
Negli ultimi mesi è aumentato a dismisura il ricorso alla giustizia
fai-da-te, un barbaro senso di giustizialismo da villaggio come il
raid contro i rom di Opera (Milano): nel dicembre 2006 un centinaio
di persone guidate dai consiglieri comunali di An e Lega incendiarono
le tende che avrebbero dovuto ospitare i nomadi. A volto scoperto,
perché è un diritto difendere la città dagli zingari. Pochi mesi più
tardi un ragazzo rom investì e uccise quattro ragazzi di Appignano
(Ascoli Piceno); il giorno dopo alcuni uomini del paese rasero al
suolo il campo nomadi, che per fortuna era stato abbandonato dai rom
per timore di ritorsioni. Occhio per occhio, si leggeva nel codice di
Hammurabi.
Stiracchiando un poco il concetto arriviamo alla strage di Erba, la
piccola Rosa Bazzi che pianifica l'assassinio di una intera famiglia
perché infastidita dai rumori che provengono dal piano di sopra.
Bazzi è una malata di mente, si dirà. Non lo erano di certo quelle
persone di Spinaceto (Roma) che incendiarono l'auto di un vicino di
casa non appena fu arrestato per pedofilia.
Cresce la rabbia popolana che si sfoga, senza freni. Che organizza,
come nella via Anelli di Padova, ronde armate per difendersi dagli
spacciatori e dalle prostitute. O le ronde padane, gruppi di persone
comuni che la notte perlustrano la città a caccia di delinquenti. Si
giustificano dicendo che le forze dell'ordine sono insufficienti, e
dunque meglio se il cittadino si organizza.
Secondo i dati del Viminale, l'Italia è complessivamente meno
violenta rispetto a 15 anni fa. Si muore meno di omicidio, ma sono in
crescita le lesioni dolose, i tentati omicidi, i furti e le rapine.
Una violenza a bassa intensità che avvelena il quotidiano. Nel 1984
il tasso di denunce per lesioni dolose (pestaggi, accoltellamenti e
violenze per intenderci) era del 29,3 ogni 100mila abitanti, nel
2003 del 53,5. Quasi il doppio. Gli italiani sono diventati rissosi,
intolleranti, inclini alla vendetta. Uccidono di meno, ma picchiano
di più.

La. Edu.

http://www.tesseramento.it/immigrazione/pagine52298/newsattach1045_Da%
20Liberazione%20del%2028-08%20b.pdf

Sciopero della fame alla Zastava

Dalla sera del 27 agosto, 15 operai Zastava sono in sciopero della
fame per difendere il diritto al lavoro.
A questi operai va tutta la nostra solidarietà. Invitiamo i singoli e
le organizzazioni che intendano unirsi al movimento di solidarietà ad
inviarci i loro messaggi, che provvederemo a trasmettere a
Kragujevac, ed a farci pervenire le loro idee e progetti per
eventuali prossime iniziative di sostegno, di cui daremo diffusione.
(CNJ)

Sulle proteste operaie di questi giorni alla Zastava si veda anche:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5604

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AGGIORNAMENTI DEL 28 AGOSTO

Da Belgrado scrive: D. Kovacevic

28/08/2007 - La protesta degli operai assieme con i rappresentanti
sindacali è continuata a Kragujevac ieri, 27 agosto, con un raduno di
migliaia di persone davanti al Municipio della città. Nel contempo,
sull'altra riva del fiume Lepenica, davanti alla vecchia sede
amministrativa dello storico gigante automobilistico, attendevano in
fila altri operai altrettanto tesi e furiosi, per poter ritirare le
liquidazioni con cui si risolve definitivamente il loro rapporto di
lavoro con l'Ente della Zastava per l'occupazione e la formazione
(Zastava zapošljavanja i obrazovanja - ZZO), nell'ultimo giorno della
sua attività. Il governo infatti non è venuto meno alla sua
intenzione di chiudere questo Ente alla data prevista del 27 agosto.
Nelle liste occupazionali di questo Ente si trovavano 4412 operai.
Secondo la Direttrice dell'Ente per l'occupazione più di 3000 operai
avrebbero aderito alla proposta di risoluzione del rapporto di lavoro
a fronte di queste liquidazioni, che ammontano a 250 euro per ogni
anno di anzianità. Secondo un'altra informazione giunta ieri sera
(27/8), e rilanciata anche stamane, sarebbero 4300 gli operai decisi
a riscuotere questo denaro.

L'intenzione del Sindacato Zastava Automobili era di chiedere una
proroga dell'attività dell'Ente per l'occupazione e la formazione
(ZZO) almeno fino alla fine di quest'anno, in modo che si potesse nel
frattempo trovare una occupazione o soluzione effettiva per gli
operai nelle liste - nell'amministrazione della città, nella
produzione, nel programma di sostegno sociale per i casi più
complessi. Intanto, il Sindacato "Resistenza operaia" dichiara in un
comunicato di non accettare la decisione del Governo sulla
risoluzione del rapporto di lavoro, e chiede il ritorno degli operai
in produzione. Sono queste due, piuttosto distinte, le posizioni
prevalenti.
Il Sindacato Zastava Automobili ha indetto comunque un raduno di
protesta davanti al Parlamento a Belgrado per giovedì 30 agosto.
Inoltre, alcuni operai hanno iniziato lo sciopero della fame, per
difendere il diritto al lavoro. Sostanzialmente, la coalizione tra
socialisti e radicali maggioritaria nella giunta comunale di
Kragujevac, assieme con il sindaco, appoggiano le richieste del
Sindacato Zastava e degli operai.

La strana difficoltà a stringere "joint ventures" con compagnie
straniere nella sfera della produzione automobilistica è un sintomo
eclatante dell'intenzione del Governo di dismettere le industrie di
grosse dimensioni, forti tanto economicamente quanto
nell'organizzazione dei lavoratori. E' difficile credere che così
tanti negoziati tra la Zastava e produttori stranieri dovessero
necessariamente finire nel nulla - perfino quelli sulla produzione
della "Lada", offerta dalla Togliatti (Russia), oppure quelli con la
Hyundai (*). Questo mentre, nelle zone circostanti, la produzione
automobilistica nei centri produttivi "storici", è continuata: la
Cimos a Capodistria, la Renault a Novo Mesto, la Dacia in Romania, la
Suzuki e la Audi in Ungheria... Ora sono in corso negoziati persino
con la Ford in Croazia, per la produzione vicino a Rijeka/Fiume.

La situazione diventerà ancora più critica per la Zastava Automobili
alla fine di quest'anno, quando il Governo inizierà la procedura per
la vendita ("tender") di questo complesso e la privatizzazione di
altri reparti dell'impresa. In tale occasione si teme che saranno
annunciati ulteriori esuberi con ulteriori licenziamenti, allo scopo
di "snellire" ulteriormente la forza lavoro, prima della procedura di
vendita.

(adattamento del testo a cura di AM per il CNJ)

---

(*) Rispetto agli accordi con le grandi ditte straniere, ricordiamo
che a metà luglio 2007 non era stato ancora definito alcun piano di
produzione per la Zastava10 (la vecchia Punto della FIAT), che dal
2007 doveva essere prodotta a Kragujevac (la linea di montaggio
doveva iniziare a funzionare il 16 luglio scorso). Più recentemente è
stato sottoscritto un accordo di massima con la General Motors, che
però non sarebbe operativo prima di un anno circa (vedi: http://
it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5604 ). E'
verosimile che questi accordi avranno attuazione solo quando saranno
giunti ad una fase avanzata i processi di ristrutturazione in corso,
mirati a smembrare il gruppo statale, privatizzandone i comparti più
attivi, e riducendo la forza lavoro, privata di qualsiasi forza
contrattuale, allo stretto indispensabile. (ndAM)

J. Elsaessers neueste Artikeln ueber Kosovo

Quelle: junge Welt (Berlin) - http://www.jungewelt.de/

1) Ahtisaari präsentiert keine Lösung für Kosovo (22.02.2007)
2) Gespräch mit Wolf Oschlies (22.03.2007)
3) Zoff in der EU (31.03.2007)
4) Deutschlands Botschafter droht Serbien mit weiteren Abspaltungen
(30.04.2007)
5) Bush verspricht Kosovo-Staat (12.06.2007)
6) NATO umzingelt Serben (15.06.2007)
7) Uhr weg, Wodka her (19.06.2007)
8) Kosovo: historische Parallelen (30.07.2007)
9) SIEHE AUCH ...


=== 1 ===

junge Welt, 22.02.2007

Ahtisaari präsentiert keine Lösung für Kosovo

Endrunde der Statusgespräche in Wien. Bomben in Pristina. Zoff in der
UNMIK

Von Jürgen Elsässer

Am gestrigen Mittwoch begann in Wien die angeblich allerletzte Runde
des angeblich letzten Konferenzmarathons über die Zukunft der Provinz
Kosovo. UN-Vermittler Martti Ahtisaari stellte den Delegationen der
Kosovoalbaner und der serbischen Zentralregierung seinen
Lösungsvorschlag vor. Wie auf seiner anschließenden Pressekonferenz
deutlich wurde, konnte er ein weiteres Mal die Führung der Republik
Serbien nicht davon überzeugen, auf ein Fünftel des Staatsgebietes zu
verzichten. Die Belgrader Vertreter verwiesen auf die UN-Charta von
1948 und die KSZE-Schlußakte von 1976, die die territoriale
Integrität der Staaten garantieren.

Parallel wachsen in der Provinz die Spannungen. Nach gewalttätigen
Ausschreitungen albanischer Separatisten am 10. Februar, die zwei
Menschenleben kosteten, kam es am vergangenen Montag zu einer
Bombenexplosion in Pristina, bei der drei Fahrzeuge der UN-Verwaltung
UNMIK zerstört wurden. Die Verantwortung für den Gewaltakt übernahm
die »Kosovo-Befreiungsarmee« UCK. Diese war Ende 1999 formell
aufgelöst und ihre Mitglieder waren in das UN-mandatierte Kosovo-
Schutzkorps KPC integriert worden. Im Untergrund hatten die alten
Strukturen überdauert. Der UCK-Veteranenverband hat mehrfach die
radikale Separatistenorganisation Vetevendosje unterstützt, die die
sofortige Proklamation der Unabhängigkeit Kosovos fordert und nicht
nur die Serben, sondern auch die UN als Feind sieht. Vetevendosje war
Veranstalter der blutigen Demonstration vor zwölf Tagen.

Die Unterstützung des Ahtisaari-Plans durch die EU ist mittlerweile
fraglich geworden. Die Mitgliedsstaaten Slowakei, Rumänien, Schweden
und Spanien haben sich mehr oder weniger offen auf die Seite Belgrads
gestellt. Ausdruck der Differenzen ist auch der Machtkampf an der
UNMIK-Spitze: Vergangene Woche ersetzte UNMIK-Chef Joachim Rücker den
Briten Stephen Curtis als Chef der UN-Polizei durch den Deutschen Uwe
Marquardt. Doch auch dieser mußte jetzt seinen Hut nehmen. Seinen
Posten bekommt der Norweger Trygve Kallenberg. Dessen Bewährungsprobe
wird der 3. März sein- die nächste Großdemonstration von Vetevendosje.


=== 2 ===

junge Welt (Berlin)

22.03.2007 / Inland / Seite 2

»Der albanische Ku-Klux-Klan ist gefährlich«

Über die Zukunft des Kosovo im Falle einer Abspaltung von Serbien.
Ein Gespräch mit Wolf Oschlies

Jürgen Elsässer


Wolf Oschlies war 34 Jahre lang Mitarbeiter außenpolitischer
Think Tanks der Bundesregierung, zuletzt 2001/02 bei der
Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP). Gerade erschien sein
»Lehrbuch der makedonischen Sprache« mit einer profunden
Einführung auch in Kultur und Politik des Landes

Die Schlußrunde der Kosovo-Verhandlungen ist Mitte März in Wien
gescheitert. Warum gingen die Kosovo-Albaner nicht auf den serbischen
Vorschlag einer sehr weitgehenden Autonomie ein?

Ermutigt von der montenegrinischen Sezession aus dem »Staatenbund
Serbien-Montenegro« im Mai/Juni 2006 hat das politkriminelle
Establishment der Kosovo-Albaner endgültig aufgehört, sich um einen
Kompromiß zu bemühen. Man ist überzeugt, die »volle Souveränität«
ohnehin zu bekommen und macht sich einen »schönen Tag« -- auf Kosten der
internationalen Gemeinschaft.
Zu Jahresbeginn rügte der Internationale Währungsfonds (IWF) das
Finanzgebaren der Kosovo-Regierung, die für Luxuswagen und
»Repräsentation« 8,3 Millionen Dollar aus dem Fenster wirft -- so viel
wie der gesamte Jahresetat des Ministeriums für die Rückkehr von
Flüchtlingen. Das Kosovo ist mit 1,3 Milliarden US-Dollar im Ausland
verschuldet, wofür Serbien den Schuldendienst tragen muß. Allein hierbei
wird die serbische Hoheit über das Kosovo stillschweigend anerkannt,
solange Belgrad zahlt -- von 2002 bis 2006 waren das 217,69 Millionen
US-Dollar.

Die Regierung in der Provinz wird von der Demokratischen Liga des
Kosovo (LDK) angeführt, die nicht aus der Terrororganisation UCK
hervorgegangen ist. Müßten die Serben mit dieser LDK nicht einen Modus
vivendi finden können?

Die LDK hat sich gespalten. Ihr letzter Parteitag endete am 9. November
2006 wie eine primitive Wirtshausschlägerei. Um die Nachfolge des
verstorbenen Parteichefs Ibrahim Rugova hatten sich »Präsident« Fatmir
Sejdiu und Exparlamentspräsident Nexhat Daci beworben. Bereits bei
Bekanntgabe der Kandidaturen gingen deren Anhänger mit Fäusten und
Stuhlbeinen aufeinander los, und als Sejdiu mit 189 zu 160 Stimmen
siegte, wurden Pistolen gezogen.

Es hat sich mittlerweile mit Vetevendosje (Selbstbestimmung) eine neue
außerparlamentarische Bewegung im Kosovo gebildet. Ein
Hoffnungsschimmer?

Bestimmt nicht. Die Ziele dieses Kosovo-Ku-Klux-Klans, der sehr
gefährlich ist, kann man aus seinem »Manifesto« entnehmen. Zum einen
sind für diese Radikalen alle Serben ein riesiges Übel -- je mehr
Schaden man ihnen zufügt, desto besser für die Kosovo-Albaner. Zum
zweiten ist die UN-Verwaltung UNMIK nach ihren Worten »undemokratisch«,
»kolonialistisch«, »unerträglich« -- die Kosovaren würden erst aufatmen,
wenn sie und alle internationalen »Pseudo-Institutionen« das Kosovo
verlassen. Zum dritten brauche das Kosovo weder »Standards« noch
internationale »Status-Verhandlungen«, sondern allein ein »Referendum
des Volkes von Kosovo«, das der Rest der Welt gefälligst zu respektieren
habe. Was dann geschieht, wird nicht erwähnt, liegt aber auf der Hand:
Kurs auf Großalbanien.

Alle Parlamentsparteien des Kosovo distanzieren sich vom Ziel
Großalbanien.

Nur äußerlich. Der albanische Außenminister Besnik Mustafaj warnte
Mitte März 2006 in Skopje vor kosovarischer Aggression: »Albanien kann
keine Unveränderlichkeit seiner Grenzen garantieren, sobald das Kosovo
unabhängig wird.«

Was würde passieren, wenn das Kosovo ein souveräner Staat wird?

Die Zukunft des Kosovo steht im Zeichen von vier Kriegen -- Kriegen! --,
von denen drei bereits geführt werden: Albaner gegen Albaner -- siehe
die Gegnerschaft der Kosovo-Parteien; Albaner gegen Serben -- siehe das
Pogrom vom März 2004, laut damaligem Kosovo-Ombudsmann der Vereinten
Nationen Nowicki, der reagierungsamtliche »Versuch einer ethnischen
Totalsäuberung des Kosovo von Serben«; Albaner gegen UNMIK -- siehe die
von Vetevendosje geschürten Unruhen, die im Februar 2007 zwei Tote und
Dutzende Verletzte forderten. Vermutlich sehr bald nach dem etwaigen
Abzug der internationalen Gemeinschaft aus dem Kosovo wird der Balkan
zudem eine Neuauflage der Balkan-Kriege von 1912 erleben, nur daß
diesmal die vereinten Balkan-Völker nicht gegen die Türken als
gemeinsamen Feind antreten, sondern gegen die Bedrohung aus dem Kosovo.


=== 3 ===

http://www.jungewelt.de/2007/03-31/047.php

31.03.2007 / Schwerpunkt / Seite 3
Zoff in der EU

Kosovo-Debatte in der Außenministerrunde in Bremen offenbart
Differenzen. Mindestens sechs Regierungen lehnen Abspaltung der
südserbischen Provinz ab

Von Jürgen Elsässer


Wenige Stunden vor dem Treffen der Außenminister der EU-
Mitgliedsländer am Freitag in Bremen kam es im Kosovo erneut zu einem
Bombenanschlag: Um ein Uhr nachts erschütterte eine schwere Explosion
das orthodoxe Kloster Visoki Decani. Nach Auskunft der Mönche war vom
nahegelegenen Hügel eine Granate abgefeuert worden. Die serbischen
Heiligtümer in der Provinz, viele von ihnen unersetzliche
Kulturdenkmäler aus dem frühen Mittelalter, sind den albanischen
Separatisten ein besonderer Dorn im Auge, weil sie die historischen
Ansprüche der christlichen Slawen auf die Region illustrieren.
Bereits Mitte dieser und in der vergangenen Woche waren Sprengsätze
in oder bei serbischen Häusern in der Stadt Mitrovica im Norden der
Proinvz explodiert. Obwohl niemand verletzt wurde, sind die
Zwischenfälle Ausdruck der steigenden Spannungen in der Region.

Diese Spannungen lagen auch über dem Treffen in Bremen. Der deutsche
Außenminister Frank-Walter Steinmeier beschwor seine Amtskollegen, an
einer gemeinsamen Linie in der Kosovo-Frage festzuhalten und den
Vorschlag des UN-Sondergesandten Martti Ahtisaari weiter zu
unterstützen, der eine von der EU kontrollierte Abspaltung der
Provinz von Serbien vorsieht. Die EU plant die Entsendung von rund
1500 Polizisten und Beamten in das Kosovo – zusätzlich zu den dort
bereits stationierten 16000 NATO-Soldaten der sogenannten
Schutztruppe KFOR, die nicht abgezogen werden sollen. Nach
Schätzungen von EU-Haushaltsexperten dürfte ein Protektorat Kosovo
die Europäische Union bis zum Jahre 2011 »sage und schreibe 500
Milliarden Euro« kosten, war am Freitag der Märkischen Allgemeinen zu
entnehmen. Es liege im »unmittelbaren europäischen
Sicherheitsinteresse«, daß der UN-Sicherheitsrat in einer
»vertretbaren Frist« eine Entscheidung treffe, betonte Steinmeier. EU-
Erweiterungskommissar Olli Rehn mahnte, daß Einigkeit in der EU über
dieses Thema »der Schlüssel für eine UN-Resolution im Sicherheitsrat«
sei.

Trotz dieses Drucks der EU-Spitzen hielten unter anderem
Griechenland, Zypern, Spanien und Italien auch auf der Bremer
Konferenz an ihren Vorbehalten fest, meldete die Nachrichtenagentur
AP. Selbiges trifft auch auf Rumänien zu, wie Staatspräsident Trajan
Basesku noch am Vorabend des Treffens deutlich machte: Jede Lösung
müsse von den Prinzipien der völkerrechtlichen Souveränität und der
Unantastbarkeit der Grenzen ausgehen.

Powerplay

Der offene Widerstand einiger Mitgliedsländer bei der Bremer
Zusammenkunft war nur der vorläufige Schlußpunkt einer turbulenten
Woche für die Befürworter einer Unabhängigkeit des Kosovo. Am Montag
hatte der UN-Sonderbeauftragte Ahtisaari seinen Abspaltungsplan, der
bisher nur den Konfliktparteien und dem UN-Generalsekretär übergeben
worden war, der internationalen Öffentlichkeit vorgestellt. Am
Dienstag hatte sich die NATO hinter seine Vorschläge gestellt.
Bereits am Mittwoch aber hatte der russische Präsident Wladimir Putin
höchstpersönlich zum Telefon gegriffen und seinem US-Amtskollegen
George W. Bush ein weiteres Mal verdeutlicht, daß Moskau keine Lösung
mittragen werde, die nicht auch von Belgrad unterstützt wird. Als
sich dann am Donnerstag die Balkan-Kontaktgruppe – also Emissäre aus
Rußland, den USA, Großbritannien, Frankreich, Deutschland und Italien
– trafen, verlief die Debatte wegen des russischen Njets ergebnislos.

Ebenfalls am Mittwoch verabschiedete das slowakische Parlament eine
Entschließung mit den Stimmen der Regierungsparteien und der meisten
Oppositionsabgeordneten, in der eine Unabhängigkeit des Kosovo
abgelehnt wird. Allerdings war der Text auf Druck aus Brüssel und
Washington abgeschwächt worden. Während die Regierungsparteien Smer
(Sozialdemokraten) und SNS (Nationalisten) ursprünglich kategorisch
jede Separation als völkerrechtlich verworfen hatten, ist jetzt nur
noch von der Ablehnung »voller und uneingeschränkter Unabhängigkeit«
die Rede, was streng genommen nicht gegen die »kontrollierte
Unabhängigkeit« unter EU-Kuratel spricht.

Vorteil Pflüger

Verwässerung machte aber auch den Freunden des albanischen
Separatismus einen Strich durch die Rechnung. Eigentlich wollte das
Europäische Parlament am Donnerstag einen Entschließungsantrag
verabschieden, der sich voll hinter den Ahtisaari-Plan stellt (siehe
jW vom 30.März). Doch dem unermüdlichen Tobias Pflüger von der
Linkspartei war es gelungen, bei den vorbereitenden Sitzungen im
zuständigen Ausschuß die Formulierung in dem Antrag unterzubringen,
daß »alle Regelungen hinsichtlich des künftigen Status des Kosovo im
Einklang mit dem Völkerrecht stehen müssen«. Diese Passage ist nun
Teil der verabschiedeten Resolution – sie zu streichen hatte sich die
Mehrheit der Strasbourger Deputierten nicht getraut. Doch die
Enthaltung der meisten Sozialdemokraten an diesem Punkt spricht
Bände. Jedenfalls: Nimmt man den Text wörtlich, ist er durch diesen
Einschub als Rückhalt für die separatistische Position wertlos geworden.

Nächste Woche wird der Ahtisaari-Plan voraussichtlich erstmals im
Sicherheitsrat debattiert werden. Rußland hat allerdings bisher für
eine Verschiebung des Tagesordnungspunktes plädiert und ersatzweise
vorgeschlagen, die Mitglieder des höchsten UN-Gremiums sollten sich
zuerst im Kosovo persönlich über die Lage informieren. Sollte es
dennoch zu einer Debatte in New York kommen, hat der serbische
Premier Vojislav Kostunica sein Kommen angekündigt.



=== 4 ===

30.04.2007 / Ausland / Seite 7


Ein Wolf im Zobelpelz


Vertreter der Sicherheitsratsmitglieder haben das Kosovo besucht.
Deutschlands Botschafter droht Serbien mit weiteren Abspaltungen

Jürgen Elsässer

Am Freitag und Sonnabend haben Vertreter der 15 Staaten, die derzeit im
UN-Sicherheitsrat vertreten sind, sich einen persönlichen Eindruck von
der Situation im Kosovo gemacht. Der ungewöhnliche Besuch war auf
russische Initiative im höchsten Gremium der internationalen
Staatengemeinschaft beschlossen worden, um den Diplomaten eine
Entscheidungshilfe bei der Beschlußfassung über den Plan des
Kosovo-Beauftragten Martti Ahtisaari zu geben. Dessen Memorandum sieht
die Abspaltung der Provinz von Serbien und ihre Eigenstaatlichkeit unter
EU-Aufsicht vor.

Zu den aus der Provinz vertriebenen Serben bekamen die Besucher jedoch
keinen Kontakt, obwohl diese mit einer spektakulären Aktion auf sich
aufmerksam gemacht hatten: Etwa 15000 hatten sich, aus Zentralserbien
kommend, an der internen Grenze zum Kosovo in einer kilometerlangen
Marschkolonne eingefunden, durften jedoch nicht weiterziehen. Immerhin
trafen sich die Diplomaten mit Bischof Artemije im Kloster Gracanica.
Der höchste serbische Geistliche in der Provinz machte deutlich, daß
eine Unabhängigkeit Kosovos nicht akzeptabel ist und übergab eine
Aufstellung der 156 Kirchen und Klöster, die Albaner seit dem Einmarsch
der NATO-Truppen im Sommer 1999 zerstört haben.

Außerdem besuchten die UN-Vertreter das Dorf Svinjare bei Mitrovica, das
bei den antiserbischen Pogromen im März 2004 komplett zerstört worden
war, sowie die Stadt Orahovac. Von deren 5000 serbischen Bürgern waren
unter den Augen der NATO-Soldaten in den letzten acht Jahren 3800
vertrieben und 14 getötet worden. 250 ihrer Häuser und sechs Kirchen
hatten Albaner gebrandschatzt, 50 Häuser oder Wohnungen illegal
konfisziert. Die meisten der übriggebliebenen Serben leben nun im Ghetto
Velika Hoca, das vor kurzem von einer Künstlerdelegation, der auch der
österreichische Schriftsteller Peter Handke angehörte, besucht worden
war (vgl. jW vom 10. April). Ljubisa Djuricic, der stellvertretende
Bürgermeister Orahovacs, sagte den Vertretern der Sicherheitsratsmächte,
daß die Serben wie in einem »Reservat« eingesperrt seien, ihr Dasein sei
eine »Imitation von Leben« geworden.

Vorher hatten sich die hohen Besucher bereits mit Agim Ceku getroffen,
dem Ministerpräsidenten der Provinz, der zu bis Sommer 1999
Oberbefehlshaber der albanischen Untergrundarmee UCK gewesen war. Ihm
werden zahlreiche Kriegsverbrechen zur Last gelegt. Im Gegensatz zu
seinem Amtskollegen Vojislav Kostunica in Belgrad, der der UN-Delegation
am Donnerstag penible Listen über Vertreibungs- und Tötungsdelikte in
der Provinz vorgelegt hatte, verzichtete Ceku auf Dokumente und
vertraute allein auf die Macht des gesprochenen Wortes -- und die guten
Beziehungen zu den NATO-Mächten. Damit lag er nicht falsch. US-Vertreter
Zalmay Khalilzad, Botschafter in Kabul und Bagdad und Neocon-Hardliner,
sagte hinterher: »Ich glaube, hier gab es eine Menge Fortschritte. Wir
haben den Verantwortlichen (in Pristina) gratuliert.« Es sei »wichtig,
den Kosovo-Status-Prozeß zu einem erfolgreichen Abschluß zu bringen.«
Der französische Abgesandte Jean Marc de La Sablier zeigte sich
»beeindruckt über (...) Pristinas Engagement, (...) besonders in Bezug
auf die Minderheiten«.

Da Deutschland derzeit keinen Sitz im Sicherheitsrat hat, war es in der
Delegation nicht vertreten. Trotzdem schoß ein deutscher Diplomat den
Vogel ab -- und zwar der BRD-Botschafter in Belgrad, Andreas Zobel. Der
hatte bereits Mitte April öffentlich geunkt, die Entsendung der
UN-Mission ins Kosovo werde nichts bringen, höchstens zur Verzögerung
einer Lösung für das Kosovo »um zwei weitere Monate führen«. Überdies,
so wußte der Diplomat im voraus, könnten die UN-Emissäre nur
herausfinden, daß »Serben und Albaner nicht zusammenleben können«. Das
sagt ein Mann, der seit Jahresanfang 2005 in Belgrad amtiert -- wo
immerhin 100000 Albaner friedlich mit den Serben zusammenleben.

Besonderes Mißfallen erregte, daß Zobel die serbische Regierung
aufforderte, dem Ahtisaari-Plan zuzustimmen, also der Abspaltung des
Kosovo -- ansonsten werde »auch die Frage der Vojvodina und des
Sandschak« thematisiert werden. In beiden serbischen Landesteilen gibt
es separatistische Bestrebungen, in einem Fall seitens der ungarischen
Minderheit, im anderen seitens der muslimischen Bosnjiaken. Die
serbischen Parteien reagierten mit einhelliger Empörung, die Regierung
sprach von einer »ungeheuren Einmischung« in die inneren
Angelegenheiten. Zobel redete sich später heraus, er sei mißverstanden
worden und habe überdies nur seine persönlichen Meinung vertreten -- was
einem Botschafter verboten, also eigentlich Grund zur Abberufung ist.
Wie mißverständlich er war, zeigte das Statement der ungarischen
Regierung: Die verwahrte sich gegen Zobels Unterstellung, sie habe
territoriale Ansprüche an Serbien.


=== 5 ===

http://www.jungewelt.de/2007/06-12/index.php

jungeWelt, 12.06.2007

Flucht nach vorn

Bush verspricht Kosovo-Staat

Von Jürgen Elsässer

Der russische Bär verblüfft die Weltöffentlichkeit derzeit mit
überraschenden Finten, während der amerikanische Elefant schwer durch
den Porzellanladen stampft. Man vergleiche: Da macht Präsident
Wladimir Putin in Heiligendamm den USA das Angebot, zum Schutz vor
hypothetischen iranischen Raketen eine Radaranlage in Aserbaidschan
gemeinsam zu betreiben. Das Plazet aus Baku haben seine Emissäre
zuvor in mehr oder weniger klandestinen Gesprächen eingeholt. Der
Clou dabei: Aserbaidschan, so dachte man, gehört längst zur US-
Einflußzone, da durch lukrative Verträge der Ölkonzerne bestochen.

Wäre Präsident George Bush ähnlich clever, hätte er seine Ankündigung
vom Sonntag, das Kosovo müsse jetzt endlich unabhängig und es dürfe
in der UNO nicht endlos weiterverhandelt werden, ebenfalls mit
ungewöhnlicher Rückendeckung präsentiert. Die islamischen Regime
haben eigentlich sehr viel Sympathie für einen neuen Moslemstaat in
Europa. Deswegen unterstützten Saudi-Arabien, Iran, Pakistan und
Indonesien die Sezession ihrer bosnischen Glaubensbrüder aus
Jugoslawien Anfang der neunziger Jahre mit Geld und Waffen. Doch für
einen neuen Staat Kosovo macht keines der genannten Länder einen
Finger krumm, solange die Albaner die US-Okkupation im Irak und in
Afghanistan mit eigenen Truppen unterstützen. Aber originell wäre
gewesen, wenn der Texaner wenigstens mit einem der gekauften Scheichs
aus den kleinen Emiraten vor seine trunkenen Fans in Tirana getreten
wäre. Doch nicht einmal das hat er fertiggebracht.

So wirkt sein provokanter Vorstoß wie schlechte Improvisation. Sein
Problem ist nicht nur, daß Rußland fest an der Seite Serbiens steht:
Putin hat Premier Vojislav Kostunica am vergangenen Sonnabend in
Petersburg ein weiteres Mal versichert, daß er im Sicherheitsrat sein
Njet gegen ein unabhängiges Kosovo sprechen werde. Viel mehr macht
Bush zu schaffen, daß es auch innerhalb der NATO keine Einigkeit
gibt. Sein Frust in Heiligendamm muß groß gewesen sein, als ihm
ausgerechnet der neue französische Präsident Nicolas Sarkozy, den man
bisher mit guten Gründen für den ersten Yankee im Elyseepalast halten
konnte, in der Kosovo-Frage widersprochen hat. Er verlangte ein
halbjähriges Moratorium und sprach sogar, ein weiterer Tabubruch, von
der Möglichkeit einer anderen Lösung als der des serbenfeindlichen
Vermittlers Marti Ahtisaari.

Viel wird jetzt davon abhängen, ob sich die Bundesregierung, die
derzeit das Kommando der Kosovo-Besatzungstruppe KFOR innehat, den US-
Hardlinern anschließt oder den französischen Zauderern. Klar ist das
nicht: Gegen Kanzlerin Angela Merkel steht Frank-Walter Steinmeier,
der relativ bedächtige Außenminister.

=== 6 ===

http://www.jungewelt.de/2007/06-15/057.php

JungeWelt, 15.06.2007

15.06.2007 / Titel / Seite 1
NATO umzingelt Serben

Von Jürgen Elsässer


Einiges deutet darauf hin, daß die NATO in Kürze die Abspaltung des
Kosovo von Serbien auch ohne UN-Beschluß durchsetzen wird. Milan
Milanovic, der Vorsitzende des Serbischen Nationalrates in der
mehrheitlich von Albanern bewohnten Provinz, berichtet in serbischen
Medien am Mittwoch von Truppenbewegungen der Kosovo-Besatzungstruppe
KFOR. »KFOR und Kosovo-Polizei KPS haben den Nordteil des Kosovo
umzingelt, während unsere Volksgruppe in den Enklaven Zentralkosovos
ohne Schutz bleibt.« Und weiter: »So werden Furcht und Defätismus
verbreitet, um die mögliche Unabhängigkeit des Kosovo zu
erleichtern.« Offensichtlich dient der Aufmarsch dem Ziel, eine
Pufferzone zwischen dem serbischen Siedlungsgebiet im Nordkosovo und
der Republik Serbien zu schaffen. Falls die albanische
Provinzregierung in Pristina das Kosovo zu einem eigenen Staat
erklärten sollte, hat der Serbische Nationalrat mit einem Verbleib
der Nordregion bei Serbien gedroht.

Ebenfalls am Mittwoch hat Rußland gegen seinen Ausschluß von den
Gesprächen über den künftigen Status des Kosovo protestiert. Moskau
war zur Tagung der sogenannten Balkan-Kontaktgruppe am Vortag in
Paris nicht eingeladen worden – ein klarer Verstoß gegen die
Geschäftsgrundlage der Runde, die seit Anfang der neunziger Jahre
zusammentritt. Hintergrund ist die Hartnäckigkeit, mit der sich
Rußland gegen die Abspaltung des Kosovo ausgesprochen hat, zuletzt
auf dem G-8-Gipfel in Heiligendamm. Ohne den Störenfried konnten die
Vertreter aus Deutschland, Großbritannien, Italien, Frankreich und
den USA das Treffen nutzen, um das Sezessionsprojekt zu bekräftigen.
Auch beim NATO-Treffen am gestrigen Donnerstag in Brüssel wurde
Rußland brüskiert: Die versammelten Verteidigungsminister gaben den
USA für die Stationierung eines Raketenabwehrsystems in Polen und
Tschechien grünes Licht und verlangten nicht einmal dessen
Unterstellung unter das Bündnis.

Die antiserbische Orientierung der NATO ist umso brisanter, als die
Financial Times am Donnerstag von wachsender albanischer
Gewaltbereitschaft berichtete. Demnach sollen 40 Prozent der
Kosovoalbaner mit Protesten gedroht haben, falls Rußland die
Unabhängigkeit des Kosovo weiter im UN-Sicherheitsrat blockiert. Drei
Prozent kündigten sogar an, sie würden in diesem Fall zu den Waffen
greifen. Bei einer geschätzten Bevölkerungszahl von zwei Millionen
wären das 60 000 Kämpfer. Die Zahlen hat das UN-Entwicklungsprogramm
UNDP nach einer repräsentativen Umfrage bekanntgegeben. Bereits am
Dienstag war ein albanisches Waffendepot in Serbien ausgehoben
worden. Nach Auskunft des serbischen Innenministers Dragan Jocic
waren 15 Kilo Sprengstoff aus dem Kosovo über die Grenze geschmuggelt
worden, um Anschläge durchzuführen. Verantwortlich ist eine Gruppe
von Wahabiten, also fundamentalistische Moslems mit Verbindungen nach
Saudi-Arabien.

Selbst in der CDU/CSU fürchtet man eine Zuspitzung auf dem Balkan.
Der Obmann der Bundestagsfrak tion im Auswärtigen Ausschuß, Karl-
Theodor zu Guttenberg (CSU), sagte am Mittwoch, weder sollte Rußland
von seinem Veto-Recht im UN-Sicherheitsrat Gebrauch machen, noch
sollten die USA die Unabhängigkeit des Kosovo einseitig anerkennen.


=== 7 ===

http://www.jungewelt.de/2007/06-19/044.php

19.06.2007 / Schwerpunkt / Seite 3
Uhr weg, Wodka her

Einige Kleinigkeiten haben die Abspaltung des Kosovo in den letzten
Tagen wieder erschwert. Neuer NATO-Plan zur Loslösung der serbischen
Provinz in Moskau vorgestellt

Von Jürgen Elsässer


Sage keiner, Weltgeschichte sei nicht lustig. Der neueste Albanerwitz
beispielsweise geht so: Kommt ein US-Präsident nach Tirana, nimmt ein
Bad in der Menge und verspricht die Loslösung der Provinz Kosovo von
Serbien. Schon fünf Sekunden später hat sie sich tatsächlich
losgelöst – allerdings nicht die Provinz, sondern die Uhr, und zwar
die von George W. Bush höchstselbst. Kein guter Joke? Zugegeben.
Dafür aber wahr: Genauso geschah es am 10.Juni 2007, beim ersten
Staatsbesuch eines US-Präsidenten in Alba nien. Im Unterschied zu
anderen Stops auf seiner Europa-Reise – Prag, Heiligendamm, Rom –
wurde Dubblejuh von einer tausendköpfigen Menschenmenge bejubelt,
viele wollten ihr Idol berühren und küssen. Doch ganz uneigennützig
war die Liebe der Skipetaren nicht, wie die Filmaufnahmen des
albanischen Staatsfernsehens aus dem Örtchen Fushe Kruje in der Nähe
von Tirana zeigen: In den ersten Sekunden sieht man, daß der US-
Präsident beim Händeschütteln eine Armbanduhr trägt. Nach fünf bis
zehn Sekunden ist sie weg. Böse Stimmen sagen: Geklaut. Und zwar von
einem der albanischen Sicherheitsleute. Sprecher des Weißen Hauses
dementierten energisch. Das machte die Geschichte noch glaubwürdiger.

Kurz bevor seine Uhr abhanden kam, hatte Bush den Albanern noch eine
neue Mafiarepublik versprochen: Es dürfe »keine endlosen
Verhandlungen über ein Thema geben, zu dem wir uns bereits eine
Meinung gebildet haben«. Und weiter: »Eher früher als später muß man
sagen: Genug ist genug. Kosovo ist unabhängig.« Das klang ganz
danach, daß die USA in Kürze die Proklamation des Kosovo zu einem
neuen Staat anerkennen würden – auch ohne UN-Votum. Doch am
vergangenen Freitag verkündete US-Sondergesandter Frank Wiesner bei
einem Besuch in der Krisenregion, daß Serben und Albaner
weiterverhandeln sollten. Das Moratorium solle – so die Medien in
Pristina – 120 Tage dauern. Das klang nicht wie das »eher früher als
später« des US-Präsidenten vom Sonntag zuvor. Was war geschehen? War
Bush sauer wegen der Uhr?

Sarkozy lallt

Das Nachverhandeln hatte zuerst der frischgebackene französische
Präsident Nicolas Sarkozy ins Gespräch gebracht, er wollte den
Konfliktparteien sogar sechs Monate Zeit geben. Dies hatte er zum
Verdruß von Bush sehr öffentlichkeitswirksam während des G-8-Gipfels
vorgeschlagen. Dabei könnte eine Rolle gespielt haben, daß sich der
Franzose in Heiligendamm sehr gut mit seinem russischen Amtskollegen
verstand. Die FAZ berichtete über Sarkozys Abschlußpressekonferenz:
»Dann erschien der neue Präsident und entschuldigte sich für die
Verspätung. Das Gespräch mit Putin habe länger gedauert. Sarkozy
lallte, Sarkozy lächelte. War der notorische Coca-Cola-Trinker, der
jeden Wein verschmäht, von den Russen mit Wodka abgefüllt worden? Er
hatte seine Mimik und seine Gesten nicht unter Kontrolle. Sarkozy
wirkte angeheitert, die Szene ist urkomisch.«

Den Mitschnitt der Pressekonferenz, den die französischen
Fernsehsender nicht zeigten, kann man sich im Netz auf DailyMotion
und YouTube ansehen. Bis zum gestrigen Montag sahen ihn über 15
Millionen Franzosen – mehr als das Endspiel der Fußball-WM 1998.

Der Haken

Das 120-Tage-Moratorium, auf das sich die NATO-Führungsmächte Ende
vergangener Woche verständigt haben, hat allerdings einen Haken:
Falls sich Albaner und Serben in dieser Frist nicht einigen, soll
automatisch der Plan von Vermittler Martti Ahtisaari in Kraft treten,
der eine Unabhängigkeit des Kosovo unter EU-Kontrolle vorsieht.
Dieser Verkoppelung wird Rußland im UN-Sicherheitsrat kaum zustimmen.
Am gestrigen Montag wurde der neue NATO-Plan erstmals in Moskau
vorgestellt und erörtert.


=== 8 ===

http://www.jungewelt.de/2007/07-30/041.php

Junge Welt, 30.07.2007

1908, 1999, 2007

Kosovo: Bis Mitte November wird weiterverhandelt, aber dann droht
eine Eskalation mit historischen Parallelen. Bundesregierung auf
Schlingerkurs

Von Jürgen Elsässer


Woher kommen diese Albaner eigentlich?«, fragte Otto von Bismarck,
der deutsche Kanzler, auf der Berliner Balkankonferenz 1878. »Wir
sind eine kleine Fliege, die der ganzen Welt den Magen umdrehen
wird«, antwortete der türkisch-albanische Diplomat Abdullah Fraseri.
Bekanntlich kam es nicht genauso, aber ähnlich: Nicht Albanien, wohl
aber eine benachbarte Provinz des Osmanischen Reiches lieferte den
Zündfunken für den ersten Weltkrieg. Deutschland und die anderen
Großmächte hatten 1878 einen Formelkompromiß bei der Neuordnung
Südosteuropas gefunden: Bosnien sollte de jure weiterhin türkisch
bleiben, de facto aber von den Österreichern verwaltet werden. 1908
brach Wien diesen Vertrag und annektierte die Provinz auch de jure.
Aus Rache wurde 1914 Thronfolger Franz Ferdinand in Sarajevo erschossen.

Ungefähr 100 Jahre später versuchten es die NATO-Mächte mit einem
ähnlichen Formelkompromiß: Nach ihrem Angriffskrieg gegen Jugoslawien
1999 setzten sie im UN-Sicherheitsrat die Resolution 1244 durch, die
das Kosovo de jure dem südslawischen Staat beläßt, de facto aber der
Verwaltung der Vereinten Nationen unterstellt. In der Folge
befürworteten die Westmächte jedoch die vollständige Abtrennung der
Provinz und ihre von der EU kontrollierte Übergabe an die albanische
Bevölkerungsmehrheit – so der Plan des UN-Vermittlers Martti
Ahtisaari. Dies wäre völkerrechtlich möglich, sofern entweder Belgrad
zustimmt oder wenigstens der UN-Sicherheitsrat eine solche Lösung
billigt. Wenn beide Bedingungen nicht gegeben sind, kann sich das
Kosovo nur einseitig, also durch einen Akt illegaler Willkür, zu
einem selbständigen Staat erklären. Genau dies hat US-Präsident
George W. Bush kurz nach dem G-8-Gipfel bei seinem Staatsbesuch in
Tirana vorgeschlagen. Es dürfe »keine endlosen Verhandlungen über ein
Thema gegeben, zu dem wir uns bereits eine Meinung gebildet haben«.
Und weiter: »Eher früher als später muß man sagen: Genug ist genug.
Kosovo ist unabhängig.«

120 Tage Frist

In der Folge ist der US-Präsident jedoch zurückgerudert. Bei einem
Treffen mit seinem russischen Amtskollegen Wladimir Putin Anfang Juli
in Kennebunkport einigten sich die beiden, den Konflikt zumindest
nicht auf kurze Distanz zu eskalieren. US-Diplomaten reisten in der
Folge nach Pristina, um die Führung der Kosovoalbaner von der
einseitigen Proklamation eines unabhängigen Staates wieder
abzubringen. Ihr Premier Agim Ceku hatte dies zunächst für Ende Mai
2007, in der Folge dann für den 28. November angekündigt. Am 23. Juli
erreichte US-Außenministerin Condoleezza Rice vom Kosovopräsidenten
Fatmir Sejdiu die Zusicherung, daß dieser Termin vom Tisch ist. Vorerst.

Am 20. Juli waren außerdem die Verhandlungen im Weltsicherheitsrat
über eine »konditionierte Unabhängigkeit« für die Provinz an der
russischen Vetodrohung gescheitert. Das höchste UN-Gremium übertrug
das Mandat für weitere Gespräche zunächst an die sogenannte
Balkankontaktgruppe, die es ihrereits am vergangenen Mittwoch an ein
Trio weiterreichte: Die USA, die EU und Rußland sollen nun eine
Lösung finden, und zwar in einem Zeitraum von 120 Tagen. Die EU-
Delegation soll vom deutschen Spitzendiplomaten Wolfgang Ischinger
geführt werden. Eine Einigung des Trios in dieser Frist ist
unwahrscheinlich. Rußland hat bereits angekündigt, nicht länger auf
der Grundlage des Ahtisaari-Planes verhandeln zu wollen, sondern nur
auf der Basis der UN-Resolution 1244, also des Status quo.

Daß Bush sich darauf einläßt, ist extrem unwahrscheinlich: Wenn er
seine Ankündigung vom Staatsbesuch in Tirana nicht wahr macht und der
neue Staat Kosova bis zum Jahresende nicht proklamiert wird, werden
die Albaner die Vereinigten Staaten des Verrats bezichtigen. Im Zorn
könnten sie das Amselfeld in Brand setzen.

Drohung oder Bluff?

Weitaus wahrscheinlicher ist deshalb, daß die USA nach Ablauf der 120
Tage durchzocken und den neuen Albanerstaat Kosova auch ohne UN-Segen
und gegen den Widerstand Moskaus anerkennen. Bundeskanzlerin Angela
Merkel hat Anfang vergangener Woche gegenüber Putin damit gedroht,
daß einige größere EU-Staaten diesem Schritt folgen könnten. Doch es
ist nicht ausgeschlossen, daß sie damit nur blufft. Tage zuvor hatte
sie nämlich gesagt, daß eine Kompromißlösung gefunden werden müsse,
die für beide Seiten, also auch für die Serben, akzeptabel ist.
Ähnlich haben sich bis in die jüngste Vergangenheit auch
Außenminister Frank- Walter Steinmeier (SPD) und
Verteidigungsminister Franz- Josef Jung (CDU) geäußert.

Hintergrund des deutschen Zögerns ist, daß die serbische Regierung
mit Rückendeckung von über 90 Prozent der Parlamentsabgeordneten mit
einer Art neuer Hallstein-Doktrin liebäugelt. Wie die BRD bis Mitte
der sechziger Jahr die diplomatischen Beziehungen mit allen Staaten
stornierte, die die DDR anerkannten, so will Serbien mit allen
Staaten brechen, die die Republik Kosova unterstützen. Dies könnte
den deutschen Zugriff auf die boomende serbische Ökonomie bremsen.
Statt dessen würden russische Unternehmen bei der Privatisierung der
Staatsbetriebe des Balkanstaates die Nase vorn haben. Zwar könnten
sich westliche Investoren im Gegenzug an den Bodenschätzen des neuen
Albanerstaates schadlos halten. Doch wenn Belgrad nicht kooperiert,
könnten diese gar nicht exportiert werden: Alle schnellen
Verkehrsverbindungen des Kosovo laufen nach Norden über Serbien. Die
Grenzen zu Albanien, Montenegro und Mazedonien sind bergig und für
Schwertransporte nahezu unpassierbar.

Außerdem muß Merkel bei einem deutsch-amerikanischen Vorpreschen eine
Spaltung der EU fürchten: Neben der Slowakei, Zypern, Rumänien und
Griechenland ist auch Spanien gegen die Sezession des Kosovo. Selbst
auf die Unterstützung durch Frankreich kann sie derzeit keine Wetten
abschließen, wie in diesen Tagen das Lybien-Solo von Präsident
Nicolas Sarkozy zeigte.



=== 9 ===

SIEHE AUCH:

---

http://www.jungewelt.de/2007/07-30/043.php

30.07.2007 / Schwerpunkt / Seite 3
»Das könnte ein Horrorszenario werden«

Gegen eine einseitige Unabhängigkeitserklärung des Kosovo müßten die
KFOR-Truppen vorgehen. Ein Gespräch mit Rainer Stinner

---

http://www.jungewelt.de/2007/07-30/042.php

30.07.2007 / Schwerpunkt / Seite 3
Deutsche Politik im Dilemma

Krieg für die Albaner?

---

http://www.jungewelt.de/2007/07-24/028.php

24.07.2007 / Ansichten / Seite 8
Stichtag 28.11.

Kosovo: Sieg Serbiens in der UNO

---

http://www.jungewelt.de/2007/07-14/062.php

14.07.2007 / Titel / Seite 1
Diesmal mit Sahne!

Endlich wieder ein Kriegsparteitag der Grünen!...

---

http://www.jungewelt.de/2007/06-07/004.php

07.06.2007 / Ausland / Seite 6
Schlappe für die Separatisten

Kosovo-Unabhängigkeit kommt nicht vom Fleck. Rußland bleibt
konsequent beim »Njet«


IL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA RIPARTE DA VICENZA

1) 6-16 settembre: IL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA RIPARTE DA VICENZA
Comunicato della Rete nazionale Disarmiamoli!

2) QUAL’E’ IL VERO PROGRAMMA DELL’ULIVO? 
COMUNICATO DELLA RETE NAZIONALE DISARMIAMOLI!, 25 luglio 2007

3) Verso una Manifestazione internazionale a Vicenza - Novembre 2007
Comitato degli abitanti e dei lavoratori di Vicenza est – Contro la costruzione di una nuova base a Vicenza – Per la conversione della caserma Ederle ad usi civili - www.comitatovicenzaest.splinder.com - www.altravicenza.it


=== 1 ===

IL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA RIPARTE DA VICENZA
 
Comunicato della Rete nazionale Disarmiamoli!

 

Dal 6 al 16 settembre prossimo tutte le realtà del movimento contro la guerra italiano si ritroveranno al campeggio indetto dal Presidio permanente NODalMolin. Tra esse la Rete nazionale Disarmiamoli.

 

L’assemblea dello scorso 14 luglio ha evidenziato la determinazione e la forza di coloro che nel nostro paese non sono disposti a mediare sugli obiettivi storici del NO alla guerra senza se e senza ma, rafforzati in questi anni da esperienze territoriali capaci di inceppare i vari progetti di devastazione dei territori, dalla Val di Susa alle decine di mobilitazioni e lotte nel centro e sud del paese.

 

Le esperienze concrete provenienti da questi anni di resistenza sono un bagaglio formidabile per gestire una battaglia che si preannuncia lunga e difficile: impedire al governo statunitense di impiantare una base strategica utile alle presenti e future guerre di conquista in Medio Oriente ed in Eurasia.

 

UNA GUERRA SEMPRE MENO “FREDDA”

 

I segnali che giungono dai vari fronti di conflitto e di scontro politico – diplomatico ci dicono dei preparativi in atto verso nuovi e sempre più devastanti scenari bellici.
Dai paesi baltici alla Polonia, dalla repubblica Ceca al Kossovo la tensione tra Ovest ed Est è tornata ad essere altissima, sull’onda della spinta  statunitense e NATO, impegnate da anni in una nuova corsa all’egemonia mondiale.

 

Uno sguardo anche superficiale alla cartina dell’Europa centro orientale chiarisce i termini dello scontro. Il crollo del muro di Berlino ha determinato un immenso spostamento di paesi e risorse nell’area di influenza degli USA, della NATO e della U.E . Il fenomeno è avvenuto attraverso guerre di conquista e disgregazioni di interi Stati, “rivoluzioni arancioni” e decisioni “sovrane” dei vari governi.
Il cosiddetto “scudo antimissilistico” USA vuole ora mettere a frutto questo nuovo rapporto di forza territoriale anche sul terreno militare.
L’alleanza militare tra Russia, Cina ed alcuni importanti paesi centro asiatici  (OCS - Organizzazione di Cooperazione di Shanghai), evidenzia il livello ed il terreno della potenziale risposta dell’asse avverso all’egemonismo occidentale. Durante il mese di agosto le grandi esercitazioni militari dell’alleanza orientale hanno visto la presenza, come osservatori, di Iran e India. È’ di questi giorni la richiesta ufficiale di ingresso nell’alleanza da parte dell’Iran.

 

Queste nuove prove di forza Ovest/Est si determinano in un contesto che vede la recrudescenza del conflitto in Iraq e Afghanistan, le fortissime pressioni e minacce all’Iran, i costanti tentativi di destabilizzazione del Libano da parte di chi (Israele, USA, Francia in primis) non può accettare l’attuale rapporto di forza nel paese dei cedri, prodotto della cocente sconfitta Israeliana subita la scorsa estate per mano della resistenza libanese.

 

I dati parziali ed appena accennati sopra ci servono per contestualizzare le scelte di politica estera dell’attuale governo di centro sinistra.
Tutte le decisioni prese dall’esecutivo Prodi nei primi 16 mesi di governo indicano la volontà di affiancare attivamente, su tutti i fronti di guerra, gli obiettivi indicati dall’amministrazione Bush e dalla NATO.
La base al Dal Molin suggellerebbe un orientamento che potremmo definire “attivamente subalterno”, dettato evidentemente dalla determinazione dell’industria italiana di armi ed idrocarburi a non perdere neppure una commessa emergente dal bagno di sangue in atto e futuro. Neppure le cortine fumogene “multilateraliste” del Ministro degli Esteri possono nascondere l’evidenza. Lo scenario libanese dei prossimi mesi rischia di spazzare definitivamente via ogni banco di nebbia.

 

DA VICENZA UN SEGNALE DI LUNGO RESPIRO PER IL MOVIMENTO ITALIANO ED EUROPEO.

 

Le giornate del campeggio ci permetteranno di approfondire l’analisi della situazione nella quale il movimento contro la guerra si troverà ad agire nei prossimi mesi.
Le scelte politico – militari USA NATO in Italia hanno spinto in questi mesi varie realtà a coagularsi intorno alla battaglia di Vicenza, a partire dalle conseguenze che il militarismo comporta per i vari territori.
Pensiamo alla battaglia di Novara contro gli F35, alle lotte contro le industrie delle armi a Colleferro, alla resistenza dei vari comitati contro le ipotesi di ampliamento delle basi di camp Darby, Sigonella, Taranto, Napoli, in Sardegna. Pensiamo ai tanti comitati antimilitaristi incontrati in tutta Italia durante le tappe delle tre Carovane contro la guerra, per il disarmo e la pace.
Contemporaneamente la lotta contro lo contro lo scudo antimissilistico ha già determinato le condizioni minime per un coordinamento con i movimenti polacchi e cechi.

 

Si tratta di rafforzare questa rete di resistenze, dandogli prospettive di mobilitazione costante sui territori, attraverso campagne coordinate, capaci di legare il particolare al generale.

 

Il questa prospettiva la Rete nazionale Disarmiamoli sarà presente a Vicenza, portando come contributo alla discussione la mobilitazione e la petizione popolare contro lo scudo antimissilistico e la proposta di Legge di iniziativa popolare per la revisione dei trattati internazionali, le basi e le servitù militari. Due campagne che hanno riscosso interesse in tutto il paese e che possono essere nei prossimi mesi elementi di mobilitazione costante e condivisi tra le diverse realtà territoriali.

 

Durante i giorni del campeggio sarà presente un banchetto di Disarmiamoli! per la raccolta delle firme e la diffusione di materiale.

 

Occorre battersi con determinazione perché i cantieri al Dal Molin non vengano aperti, nel contempo dobbiamo agire politicamente perché il movimento contro la guerra mantenga  e rafforzi l'indipendenza dei movimenti dimostrata con la manifestazione del 9 giugno. 
Ampi settori della società italiana sono oramai indisponibili ad accettare supinamente le cortine fumogene di un “governo amico” in grado di realizzare - con il placet di una “sinistra di governo”  vergognosamente subalterna – una politica estera ed interna innervata di un militarismo interventista senza precedenti nella storia della Repubblica.

 

Solo rafforzando l’autonomia e l’indipendenza del movimento NoWar potremo inceppare i meccanismi bellicisti che vedono e vedranno sempre di più il nostro paese avamposto delle guerre di conquista USA / NATO e del polo europeo.

 

La Rete nazionale Disarmiamoli!

 

 

24 agosto 2007

=== 2 ==

Date: July 25, 2007 5:55:22 PM GMT+02:00
Subject: QUAL’E’ IL VERO PROGRAMMA DELL’ULIVO? - COMUNICATO DELLA RETE NAZIONALE DISARMIAMOLI!

QUAL’E’ IL VERO PROGRAMMA DELL’ULIVO?

Comunicato della Rete nazionale Disarmiamoli! 

Martedì 25 luglio il governo Prodi ha trovato, di nuovo, una maggioranza per la sua politica estera. 

Intorno alla relazione del Ministro degli Esteri D’Alema, nella quale il Massimo ha rivendicato tutte le patrie “missioni umanitarie” - a partire da quella jugoslava - si sono uniti in un sol uomo tutti i senatori del centro sinistra, dai più moderati ai “sinistri radicali”. Questi ultimi, però, attendono una svolta sull’Afghanistan, come recita un comunicato firmato da 42 di loro. 
Poi tutti al mare, alla faccia degli 82 civili trucidati quotidianamente dalle truppe “alleate” in quello sfortunato paese, così lontano dalle coscienze dei benpensanti. 

Nella relazione di D’Alema nessuna parola sulla base in costruzione a Vicenza, niente sullo scudo antimissilistico, silenzio sugli F35 a Cameri, sull’accordo militare Italia / Israele. 
Le risoluzioni che parlavano di argomenti scomodi sono state censurate dalla Presidenza del Senato. Strano modo di trattare la politica estera... Forse vale la pena lasciare una delega in bianco all’ambasciatore USA in Italia Ronald Spogli, molto più schietto sulle scelte del nostro governo in materia.

Dopo la relazione di D’Alema nessuna parola d’ordine della grande manifestazione NoWar dello scorso 9 giugno ha riecheggiato in aula. Silenzio. 
Quando finirà questo anomalo “Aventino” che impedisce di dare voce a milioni di italiani contrari alle missioni all’estero, alle esorbitanti spese militari che decurtano risorse alla spesa sociale, ad una militarizzazione della società sempre più evidente? 

La crisi della rappresentanza, il distacco tra il “palazzo” ed i sentimenti, i bisogni della maggioranza della popolazione sta toccando in questi giorni le punte più alte della storia repubblicana, com’emerge dal placet a D’Alema e dalle scelte “sociali” del governo Prodi, con l’ulteriore controriforma delle pensioni ed il “protocollo su welfare e mercato del lavoro”.

Più guerra in casa e missioni all’estero, meno salari, meno pensioni, precarietà per i lavoratori, immensi profitti e regalie per industriali, manager e finanzieri. 
Ad un anno dal suo insediamento emerge con estrema chiarezza il vero programma di governo dell’Ulivo !

Ci attende un lungo autunno di resistenza e di lotta, durante il quale affinare una comune capacità di esercitare nuovi rapporti di forza nella società, valorizzando un’indipendenza dal quadro politico oramai imprescindibile, al di là dei futuri assetti istituzionali e di governo: Nessuna prova d’appello per un ceto politico che oggi avalla e sostiene scelte che comprometteranno la vita e la libertà sociale d’intere generazioni, in Italia e nei paesi occupati: Afghanistan, Kosovo, Libano, Iraq, Palestina... 

La battaglia di Vicenza sarà il primo banco di prova di questa nuova fase del movimento italiano contro la guerra, contro un governo antisociale e di guerra.

La Rete nazionale Disarmiamoli!

www.disarmiamoli.org  info@disarmiamoli.org  3381028120  3384014989  3407106022


=== 3 ===

Manifestazione internazionale a Vicenza - Novembre 2007 - per riunire e rafforzare i movimenti

FERMIAMO LA GUERRA ORA !  STOP THE WAR NOW!

APPELLO per l'impegno immediato dei movimenti contro la guerra con preghiera di massima diffusione - Inviateci l'adesione - Segnalateci la disponibilità per traduzioni, collaborazioni e appoggio organizzativo - Segnalateci la disponibilità ad ospitare una conferenza nella vostra città nei mesi di settembre e ottobre - Inviateci indirizzi email utili di associazioni, siti, giornali - Non esitate ad inviarci le vostre proposte e segnalazioni - In allegato il documento "per un presente senza basi di guerra" già pubblicato da Peacelink, Attac, Nonluoghi, Lilliput, Megachip, Altravicenza ...

Le guerre in Afghanistan e Iraq continuano quotidianamente da anni sotto i nostri occhi, contro la volontà di intere popolazioni. Non solo: i governi preparano nuovi gravi progetti bellici. Dall'Italia già da anni continuano ad avvicendarsi soldati per il fronte.

Controllo dell'informazione, corruzione della politica, militarizzazione, distruzione ambientale, guerra permanente, rischi globali, repressione, impoverimento.

Aumento delle spese militari, truppe d'occupazione, acquisto di aerei da guerra, progetti militari aggressivi, nuove basi d'attacco nelle città che abitiamo.

Per pagare le guerre contro i popoli si tagliano i salari, le pensioni che ci spettano, gli ospedali ai lavoratori.

Basta! Non lo possiamo accettare, è il momento di reagire. Ci rivolgiamo ai milioni di persone che sono scese in piazza nel 2003 contro la guerra: la situazione è peggiorata da allora e siamo di fronte a un pericoloso e rapido processo di riarmo che va contrastato.

Sono morte centinaia di migliaia di persone, quasi tutti civili, molti i bambini, non possiamo stare a guardare. Noi siamo per la solidarietà internazionale e la pace.

Ci rivolgiamo a studenti e lavoratori: siate autonomi dalle vostre organizzazioni se queste non sono conseguenti nei fatti alla politica di pace che affermano a parole di voler perseguire! Osiamo insieme, fermiamo i nuovi progetti di guerra. Non si può arretrare.

Vi invitiamo a partecipare ad una grande manifestazione a Vicenza: la questione della costruzione della nuova base di guerra nell'area Dal Molin ci riguarda tutti. Come è indispensabile pretendere la conversione ad usi civili di tutte le basi militari presenti, che sottraggono spazio e risorse alla vita di tutti noi.

Nessuno sconto, da parte dei movimenti per la pace, alle scelte del governo italiano, ai politici e alle organizzazioni che lo sostengono.

Vi invitiamo a discutere questo breve appello, che verrà tradotto in molte lingue, a diffonderlo e a comunicarci la vostra adesione a questi indirizzi il prima possibile:

Per informazioni: comitato.viest@... annabortolotto@..., patrizia.cammarata@..., andrea.licata@..., giustifederico@..., riccardobocchese@... , zenere_raffaele@...

Per donazioni: vedi su www.comitatovicenzaest.splinder.com

Siti: www.comitatovicenzaest.splinder.com - www.altravicenza.it (Segnala sul tuo sito l'evento, verrà aggiunto alla lista!)

Telefoni/Fax ... (verranno a breve diffusi)

Primissime adesioni: "Comitato degli abitanti e dei lavoratori di Vicenza est – Contro la costruzione di una nuova base a Vicenza – Per la conversione della caserma Ederle ad usi civili -  Confederazione Cobas - Partito di Alternativa Comunista (sezione italiana della Lega Internazionale dei Lavoratori, Lit) - "Via le truppe" – Comitato per il ritiro delle truppe - Il Comitato Solidarietà Immigrati - S.Pio X di Vicenza - Il Comitato per l'Unità della Sinistra di Monticello Conte Otto (VI) - Megachip, democrazia nella comunicazione

Seguiranno assemblee aperte in Italia ed all'estero per potenziare questo percorso.


Fonte: Information Guerrilla - "Un'altro mondo è possibile, un'altra informazione è necessaria"
http://www.informationguerrilla.org


--- ALLEGATO ---

IL COMITATO DEI CITTADINI E LAVORATORI DI VICENZA EST SI RIVOLGE AL MOVIMENTO PER LA PACE: PER UN PRESENTE SENZA BASI DI GUERRA


Una serie di proposte sociali di immediata attuazione rivolte a chi lotta contro la guerra e la militarizzazione: subito una nuova grande manifestazione internazionale dopo l’estate. Blocchiamo il Dal Molin e poi chiudiamo la Caserma Ederle. Assemblee e scioperi dei lavoratori. Rilanciamo la lotta ed esigiamo la fine delle guerre in corso. Creiamo l’inospitalità ai progetti di guerra. Manteniamo alto il profilo politico. Il governo sia inequivocabilmente la nostra controparte.

Manteniamoci coerentemente sempre dalla parte dei deboli.

 

Un quartiere di Vicenza non può mettere in discussione il Patto Atlantico”, Un politico della Destra ad una Tv locale il 17 febbraio 2007

 

Il Comitato Vicenza Est da mesi è molto impegnato nella lotta contro la costruzione di una nuova grande base di guerra e della definitiva trasformazione di Vicenza in città militare. Non abbiamo nessuna intenzione di fermarci. Anzi, siamo molti interessati a rilanciare la mobilitazione come a febbraio 2007.

Il disegno e i promotori della militarizzazione sono a noi noti: il progetto di Vicenza come città militare è un progetto di guerra del Pentagono, che sta avvenendo con il pieno consenso delle massime istituzioni in Italia, a cominciare dal Governo.

 

Comitato Vicenza Est: una breve presentazione

Abbiamo organizzato per molte settimane le proteste rumorose con le pentole davanti alla Caserma Ederle, i picchetti al mattino, per quindici giorni di seguito, con messaggi in inglese contro la guerra rivolti ai soldati, conferenze informative molto partecipate contro il progetto Dal Molin e a favore della conversione ad usi civili della Caserma Ederle nel quartiere. Abbiamo dato la parola ai disertori americani reduci dall’Iraq e al gruppo Emergency alle nostre iniziative, e invitato a collaborare tutti i gruppi e comitati contro la guerra e per la conversione dei siti militari. Abbiamo partecipato al contro G8 di Rostock 2007 e stretto rapporti internazionali con il movimento contro la guerra (Germania, Slovenia, Stati Uniti, Giappone ...). Abbiamo stretto gemellaggi con analoghi comitati in Italia che lottano contro la guerra e propongono la conversione ad usi civili delle basi militari. A nostro avviso bisogna mobilitarsi affinché le basi militari siano chiuse oggi, non in futuro: sulla Caserma Ederle abbiamo diffuso un questionario nel quartiere. Siamo in contatto con studiosi di fama internazionale (Noam Chomsky, Chalmers Johnson, Luca Mercalli, Philip Rushton e molti altri).

Abbiamo girato l’Italia con i nostri relatori, diffuso articoli, partecipato a trasmissioni radiofoniche e televisive, collaborato e favorito la nascita di comitati affini al nostro, portato la nostra posizione al presidio. 

Abbiamo partecipato come Comitato a tutte le manifestazioni contro la nuova base e siamo favorevoli al blocco popolare dei lavori allargato al massimo e ad un fronte unico che si organizzi contro la guerra e contro la nuova base .

 

Abbiamo appoggiato scioperi e proposto iniziative sul tema dell’economia civile e del lavoro.

Per noi è evidente: il raddoppio della base militare avviene a causa della presenza della Caserma Ederle e della scarsa protesta degli anni passati e vogliamo invertire questa situazione.

Abbiamo sempre lottato per mantenere alto il livello della protesta e non ridurre la questione a un problema tecnico/urbanistico. Siamo consapevoli dell’impatto devastante delle basi militari, ma vi abbiamo sempre collegato la loro finalità, la guerra contro il Sud povero.

Sin dall’inizio abbiamo lavorato non solo contro la base al Dal Molin, ma anche contro tutte le strutture collegate (lavori alla Caserma Ederle, nuovi villaggi militari... ) 

Trasparenza e democrazia interna hanno sempre regolato i nostri rapporti con tutte le realtà del movimento, abbiamo posto le questioni con forza ma con chiarezza, nella convinzione che paura e ipocrisia rappresentino un grave pericolo per il movimento e la sua unità. Il quartiere è il luogo in cui si svolge la nostra attività a favore della pace, dell’ecologia e della solidarietà internazionale.

Siamo consapevoli che non è abbastanza e che siamo solo all’inizio: dobbiamo intensificare la protesta e potenziare l’attività di studio e ricerca.
Ritenendo urgente entrare nella logica di un movimento popolare che coinvolga ancora  grandi numeri e porti avanti proposte avanzate, a pieno titolo nel movimento contro la guerra e nel movimento No Dal Molin proponiamo da oggi che:

 

1) Si diffonda urgentemente ed ampiamente un appello per una nuova manifestazione internazionale (che abbia più partenze, dalla Caserma Ederle e dagli altri siti ad essa collegati,e finisca al Dal Molin, ) contro la scelta del governo di militarizzare la politica, l’economia e il territorio per i prossimi decenni.
Riteniamo infatti che la scarsa pressione sul governo e le illusioni sui suoi rappresentanti, locali e nazionali, abbia reso facile la sua firma a maggio.

 

2) Ci rivolgiamo a tutto il movimento contro la guerra affinché la questione della conversione della Caserma Ederle (caserma delle guerre in Iraq e Afghanistan) sia posta in termini concreti: corsi per i lavoratori, progetti, raccolta fondi, assemblee sul tema ... 

Tutto il movimento “No Dal Molin” si unisca con noi per chiedere la chiusura della Ederle.

3) Invitiamo tutti a unirsi nelle iniziative a favore della diserzione dalla guerra.
Aiutiamo i soldati che si rifiutano di partire in guerra e coraggiosamente decidono di disertare per non commettere altri crimini contro i civili.

 

Per tutte queste iniziative il Comitato richiede il vostro appoggio, anche economico, e vi invita a visitare il nostro sito.

Diverse iniziative organizzate ultimamente  non ci sono apparse sempre chiare, a volte ci sono sembrate troppo deboli  e, nei fatti, schiacciate sulla critica al solo Comune, evitando di porre in agenda in modo forte e coerente le gravi responsabilità del governo, che non è rappresentato solo da Prodi, ma anche da ministri e parlamentari che lo sostengono.

Per questo vogliamo porre al tutto il movimento (presidio, comitati, associazioni, sindacati,singoli... )  alcune questioni politiche.

1)     Siete con noi nell’organizzare una nuova manifestazione internazionale come a febbraio puntando alla massima partecipazione ?

2)     Siete disponibili ad impegnarvi con noi, anche nel lungo periodo, nella questione della diserzione creando inospitalità al progetto militare a Vicenza?

3)     Qual è la vostra posizione sulle altre basi militari già in guerra, dannose per l’ambiente, e sulla conversione ad usi civili delle stesse? Siete a favore della conversione dei siti militari in città?

4)     Qual è la vostra posizione sulla Caserma Ederle, base di guerra? Bloccato il Dal Molin esigerete con noi l’immediata chiusura della base Ederle e la fine della guerra?

5)     Verrete a protestare davanti alla Gendarmeria Europea contro la presenza di truppe italiane in Iraq e Afghanistan decisa dal governo?

6)     Lavoreremo in autunno alla costruzione di assemblee e scioperi nei luoghi di lavoro facendo pressione sui sindacati che si sono dichiarati contrari alla nuova base?

7)     Ricondurremo insieme la questione Dal Molin al progetto di militarizzare politica ed economia in Italia (aumento spese militari, truppe all’estero, nuove basi)?

8)     Diffonderete insieme a noi in città e provincia manifesti e volantini,in italiano ed inglese, contro la guerra in corso e ai soldati le informazioni utili a uscire dall’esercito?

Abbiamo già deciso di invitare nuovamente molto presto i reduci contro la guerra in Iraq e di promuovere nel quartiere assemblee informative contro il progetto di Vicenza città militare, diffondendo nuove informazioni.Vicenza su la testa ! Né qui né altrove!

Tutto il movimento contro la guerra ci aiuti a vincere questa lotta come punto di partenza, non di arrivo.


Comitato degli abitanti e dei lavoratori di Vicenza est – Contro la costruzione di una nuova base a Vicenza – Per la conversione della caserma Ederle ad usi civili



BASTONATURA VIETNAMITA


In nome della democrazia 
soggiogarono e mentirono 
giustiziarono, uccisero 
bombardarono, sottomisero 
Per questo e per molto di più 
la cosa della quale lo Yankee ha più bisogno 
è di una dose ancora più forte 
di bastonatura vietnamita

 


Quintín Cabrera - fonte: http://www.gennarocarotenuto.it/dblog/articolo.asp?articolo=1268






(english / italiano)


G. Sgrena, T. Di Francesco: Black flag in Bosnia

1) 
Bandiera nera sulla Bosnia
I mujahidin da eroi di guerra protetti dagli Usa, a «cellule dormienti di al Qaeda». Incontro con il leader Abu Hamza
Black flag in Bosnia
The mujahideen from heroes of the war protected by the US, to “sleeping cells of al Qa’eda”. A meeting with their leader Abu Hamza.

2) «E' vero, i mujahidin tagliavano teste»
Intervista all'ex generale Hasan Efendic che ha scritto un libro sui combattenti islamici: «Sono stati creati dagli Usa e ora ci vengono a dire che abbiamo aiutato al Qaeda»

3) Spunto
In pezzi la pace di Dayton. Un vulcano sotto la cenere
Tommaso Di Francesco

4) Bosnia, il seme wahabita
Migliaia di mujahidin sono venuti non per difendere i musulmani bosniaci ma solo per diffondere il wahabismo di stampo saudita.


 
=== 1 ===

Bandiera nera sulla Bosnia


I mujahidin da eroi di guerra protetti dagli Usa, a «cellule dormienti di al Qaeda». Incontro con il leader Abu Hamza

Giuliana Sgrena, Sarajevo

Il Manifesto, 8 luglio 2007


E' venerdì, l'ora della preghiera, numerosi barbuti affluiscono alla moschea re Fahd, la più fastosa tra le numerose costruite con i petrodollari sauditi e i fondi di altri paesi islamici dopo la guerra. Davanti al grande recinto, che ospita anche un'organizzazione umanitaria, sempre saudita, bancarelle che vendono abiti, in stile islamico «ortodosso», e tanti libri religiosi. Sui gradini che portano al grande cancello, Abu Hamza e i suoi due figli distribuiscono volantini per protestare contro la decisione del governo di revocare la cittadinanza a circa 400 mujahidin che hanno combattuto in Bosnia. I «veterani» riuniti nell'organizzazione Ensarije (non ancora autorizzata dal governo), di cui Abu Hamza è il leader, protestano per questa «discriminazione» che penalizza gli «afro-asiatici». Sono i mujahidin arrivati in Bosnia nel 1992-93 attraverso la Croazia, provenienti da diversi paesi islamici - dall'Afghanistan al Maghreb, dalla Cecenia al Pakistan - ma anche dall'occidente. A sponsorizzare questo esercito del jihad era l'Arabia saudita con il beneplacito della Cia dei tempi di Clinton.

Il passaporto come premio


Da parte sua il presidente bosniaco Alja Izetbegovic gratificava i combattenti che si sono distinti per il loro comportamento trucido (mostravano i nemici catturati senza testa) con il passaporto bosniaco. Si dice che persino Osama bin Laden ne abbia ricevuto uno, senza nemmeno passare dalla Bosnia, ma allora non era ancora famoso come dopo l'11 settembre. Gli accordi di Dayton (fine 1995) prevedevano un rimpatrio dei combattenti stranieri (la destinazione spesso non era il paese di origine ma un altro territorio su cui continuare il jihad), ma oltre un migliaio rimasero in Bosnia. Alcuni di loro nel frattempo avevano messo su casa, altri avevano un lavoro nelle organizzazioni umanitarie che hanno fatto da copertura alla diffusione del wahabismo. Finita la guerra c'era ancora molto lavoro da fare per reislamizzare la Bosnia e i soldi non mancavano. I mujahidin avevano scelto, fin dal loro arrivo, come terreno privilegiato la Bosnia centrale, a maggioranza musulmana e se non lo era ancora lo sarebbe diventata. E dopo la guerra si erano concentrati a Zenica, Travnik e, in particolare, a Bocinja, diventato il centro della comunità dei mujahidin (con autorizzazione del presidente Izetbegovic), dove su 600 abitanti almeno 100 erano stanieri. Lo stile di vita imposto a Bocinja era quello dei taleban afghani: hidjab per le donne, barba per gli uomini, vietati alcol, fumo e musica, obbligo per le preghiere.
Le donne che non portavano il velo venivano rapate, i mujahidin giravano con una sciabola e alle ragazze che avevano vestiti troppo corti indicavano la lunghezza di rigore con una sciabolata e se qualcuno osava fare il bagno in costume gli si sparava addosso. Un wahabita locale, Jusuf Barcic, autoproclamatosi sheikh dopo essere stato in Arabia saudita, con i suoi sermoni aveva provocato molti scontri con esponenti dell'islam bosniaco. Barcic era arrivato a proibire alle donne del suo villaggio Kalesija di uscire di casa. Inoltre nel disprezzo della legge istituita si rifiutava anche di rispettare i semafori e forse proprio per questo è rimasto vittima di un incidente stradale un paio di mesi fa. «Errori dei fratelli», li definisce Abu Hamza, allora capo della comunità dei mujahidin di Bocinja, che ora si mostra molto moderato perché teme la deportazione. Ad Abu Hamza è stata revocata la cittadinanza e il suo nome è in una lista di 15 persone ritenute «pericolose per l'ordine pubblico».
Ci dà appuntamento alla moschea di Ilidja, alla periferia di Sarajevo. Abu Hamza abita di fianco alla moschea in una delle case assegnate ai veterani, un edificio a due piani, uno per le donne e uno per i maschi di famiglia, separati anche da una porta con tanto di chiave. Con un atteggiamento affabile, che contrasta con il suo aspetto trucido - robusto, testa quasi rasata, lunga barba folta e riccia, djellaba nera -, ci fa salire in uno studiolo ricavato dall'abbaino. Ha con sé i sei figli, tre dei quali nati da un precedente matrimonio della moglie con un imam rimasto ucciso in guerra.

«Ci sono i leccapiedi Usa»


Medico, studiava a Belgrado quando è iniziata la guerra, trasferitosi in Bosnia, racconta, è subito entrato a far parte della difesa territoriale, «ma viste le incompatibilità tra mujhidin e infedeli», nel 1993 è stata costituita l'unità dei mujahidin, che faceva parte dell'esercito ma con regole particolari: non si beveva, non si fumava, si pregava. E si combatteva sotto un'altra bandiera, che mostra con orgoglio, appesa alla porta in bella mostra. E una bandiera nera con la scritta: «Non c'è altro dio al di fuori di allah e Maometto è il suo profeta». Il piccolo corridoio è pieno di vestiti, «avevo un negozio, spiega, di abiti e libri islamici, ma dopo la revoca della cittadinanza, ho dovuto chiuderlo, ora mi arrangio». E come vive? «Di carità», risponde con fare sornione. Non deve comunque avere problemi, vista la grossa jeep parcheggiata sotto casa e i figli che studiano, le due ragazze sono già all'università. E la moschea chi l'ha costruita? I locali, qui vive anche gente che viene dal Sangiaccato (enclave musulmana in Serbia dove, per la posizione strategica, tra Montenegro e Kosovo, si sono concentrati estremisti islamici per sfuggire a controlli. Qui, per la polizia serba, è stato trovato un campo d'addestramento per mujahidin).
Revocata la cittadinanza, Abu Hamza ha fatto ricorso alla Corte suprema, respinto il ricorso ha chiesto il permesso di soggiorno, rifiutato, ora chiede asilo politico per poter stare vicino ai figli. Quando, lo scorso anno, si è posto il problema della revisione della cittadinanza e la conseguente revoca di circa 400 passaporti, Abu Hamza aveva subito portato in piazza i suoi sostenitori wahabiti da tutta la Bosnia, ci dicono al settimanale Dani, tutti nascosti sotto la copertura di organizzazioni umanitarie - molte ormai chiuse dopo il 2001. Abu Hamza ammette di essere in grado di mobilitare molte persone e per questo è ritenuto un «pericolo per l'ordine pubblico», ma «non ho mai avuto nessun processo», aggiunge. L'anno scorso voleva anche presentarsi alle elezioni ma non aveva le carte in regola. «I problemi sono inziati con l'11 settembre 2001, da allora siamo diventati un pericolo, prima eravamo eroi, ora la gente non ti saluta nemmeno, si è diffusa una islamofobia (peccato che l'80% degli abitanti di Sarajevo sono musulmani), soprattutto i combattenti sono considerati legati a al Qaeda, ci considerano "cellule dormienti". Ora anche negli organismi dello stato e della comunità islamica ci sono leccapiedi degli Usa. C'è anche chi dice che è colpa nostra se la Bosnia non entra in Europa», sostiene il veterano. E aggiunge: «non c'è più rispetto dei diritti umani». Fa una certa impressione sentire parlare di diritti umani dai tagliatori di teste e in un paese dove, anche da parte loro, sono stati commessi i peggiori crimini.

Wahabismo contro tradizione

In molti chiedono giustizia in Bosnia, come in tutta l'ex-Jugoslavia. Il problema è che prima, quando servivano, i mujahidin venivano protetti anche dagli americani, ma ora non servono più, anzi dopo l'11 settembre anche gli Usa si sono resi conto che costituiscono un pericolo. Ma lo sono soprattutto per i bosniaci. Probabilmente è la vostra visione dell'islam che non corrisponde a quella bosniaca, facciamo notare. «Noi non facciamo altro che riprendere la tradizione negata dal comunismo e da Tito». Per la verità non si tratta di tradizione ma di scuola wahabita che affonda le sue radici in Arabia saudita, se anche le donne anziane dei villaggi come Travnik si sono ribellate alle imposizioni dei mujahidin. Ma il rischio che chi ha commesso crimini possa trasformarsi in vittima esiste, se la giustizia dipende da logiche politiche. Molti dei mujahidin privati della cittadinanza sono già fuggiti nei paesi vicini, e se altri dovranno farlo per evitare conseguenze, le uniche vittime saranno i figli.
Nuzeiba, che studia filosofia, teme l'allontanamento del padre, il figlio più piccolo del veterano si butta per terra e prega Allah. Quando chiediamo di conoscere il parere della moglie, Abu Hamza si schernisce: «Mia moglie non vuole parlare con i giornalisti e io rispetto il suo volere». Poi ci mostra una fotografia della famiglia: la moglie appare come un fantasma tutta coperta di nero. Comunque non avremmo potuto vederla.




--- ENGLISH TRANSLATION ---


Black flag in Bosnia

The mujahideen from heroes of the war protected by the US, to “sleeping cells of al Qa’eda”. A meeting with their leader Abu Hamza.

By Giuliana Sgrena

Il Manifesto, 8 luglio 2007

Sarajevo - It’s Friday, the time for prayer, crowds of bearded men throng into the King Fahd mosque, the most ornate of the many built using Saudi oil money and funds from other Islamic countries after the war. In front of the high fencing, which also houses a humanitarian organisation, Saudi as well, are stalls which sell clothes, of the “orthodox” Islamic type, and lots of religious books. On the steps which lead down to the large entrance gate, Abu Hamza and his two sons distribute leaflets to protest against the government’s decision to revoke the citizenship of around 400 mujahideen who had fought in Bosnia. The “veterans”, reformed into an organisation, “Ensarije” (not yet recognised by the government) of which Abu Hamza is the leader, protest at this “discrimination” which penalises the “Afro-Asiatics”. They are mujahideen who came to Bosnia in 1992-3 by way of Croatia, originating from different Islamic countries – from Aghanistan to the Maghreb, from Chechnya to Pakistan – but also from the West. The sponsor of this army of jihadists was Saudi Arabia with the blessing of the CIA during Clinton’s time.

 

The passport as reward

For his part the Bosnian President, Alija Izetbegovic, thanked the fighters who distinguished themselves through their murderous behaviour (they used to show captured enemies without their heads),  by giving them a Bosnian passport. It is said that even Osama bin Laden has received one, without even travelling to Bosnia, but then he was not yet famous as he was after 9/11. The Dayton Accords (at the end of 1995) foresaw a repatriation of the foreign fighters (the destination was often not their country of origin but another area in which to continue the jihad), but actually a majority of them remained in Bosnia. Some of them in the meanwhile had set up

 

home, others had a job within a humanitarian organisation which were a cover for spreading Wahhabism. With the war finished there was still much work to do to “re-Islamise” Bosnia and there was no shortage of money. The mujahideen had chosen, since their arrival, central Bosnia as their preferred land,  the Muslims were the majority (if not the case yet it would become so). And after the war they were concentrated in Zenica, Travnik and, in particular, in Bocinja which became the centre of the mujahideen community (with the authorisation of the President Izetbegovic) where of 600 inhabitants at least 100 were foreigners. The way of life imposed on Bocinja was that of the Afghan Taleban: hijab for the women, beards for the men, alcohol, smoking and music forbidden, prayers mandatory.

 

Women who did not wear the veil were shaved, the mujahideen went around with a sabre and to any young women who had skirts that were too short they showed the length required with a sabre cut and if anyone dared to go bathing in a costume shots were fired around them. A local Wahhabist, Jusuf Barcic, self-proclaimed Sheikh after having been to Saudi Arabia, provoked many clashes with exponents of the Bosniac Islam with his sermons. Barcic ultimately prohibited women in his village Kalesija from leaving their homes. Moreover as the law of the land was undermined people even refused to obey traffic lights and perhaps for this reason there was a victim of a traffic accident a couple of months ago. “Brothers’ mistakes”, Abu Hamza called them, then head of the community of mujahideen in Bocinja, which now appears much more restrained because of their fear of deportation.

 

Abu Hamza has had his citizenship revoked and his name is on a list of 15 people considered “a danger to public order”.

 

We were given an appointment in the mosque at Ilidja, on the outskirts of Sarajevo. Abu Hamza lives beside the mosque in one of the houses allocated to veterans, a building on two floors, one for the women and one for the men of the family, also separated by a door with many locks. In an affable manner which contrasts with his murderous appearance – stocky, close shaved head, a long beard thick and luxuriant, a black Muslim robe (djellaba) – he led us up to a small office set back from the window. He has with him six children, three of these from his wife’s previous marriage to an imam killed in the war.

 

“There are lackeys of America”

 A doctor, he was studying in Belgrade when the war started, then transferred to Bosnia, he says, and immediately started to do his bit for the territorial defence, “but the incompatibilities between the mujahideen and the infidels were clear”, in 1993 the unit of mujahideen was established, which formed part of the army but with special rules: they didn’t drink, they didn’t smoke, they did pray. And they fought under a different flag, which he displays with pride, hanging over the door in full view. It is a black flag with the inscription: “There is no other god except Allah and Mahommed is his prophet”. The little corridor is full of clothes, “I had a shop”, he explains, “of Islamic clothes and books, but after my citizenship was revoked, I had to close it, now I scrape by.” And how does he survive? “On charity”, he replies slyly. However he ought not to have problems given the large jeep parked below the house and the children who are studying, the two daughters are already at university. And who built the mosque? The locals, also people who live here who came from Sandjak (a Muslim enclave in Serbia where, in a strategic position between Montenegro and Kosovo, there are concentrations of Islamic extremists trying to avoid the authorities. Here a training camp for mujahideen was found by the Serbian police).

With his citizenship revoked, Abu Hamza appealed to the Supreme Court, the appeal was rejected and he asked for leave to stay, which was also rejected, now he is claiming political asylum to be able to stay near his children. Last year, when the problem of the revoked citizenship arose and the subsequent cancellation of around 400 passports, Abu Hamza immediately brought his Wahhabi supporters from all over Bosnia into the town square, as reported in the weekly magazine Dani, all using humanitarian organisations as cover ( many by then were closed after 2001). Abu Hamza admits that he is in the process of mobilising a lot of people and for this reason he is deemed “a danger to public order”, but “I have never been prosecuted” he adds. Last year he also wanted to put himself forward in the elections but he did not have the papers in order. “The problems started with 9/11, from then on we have become a danger, before we were heroes, now none of the people greet you, there is a spreading Islamophobia (a shame that 80% of Sarajevo are Muslims), above all the fighters are considered linked to Al Qa’eda, they consider us “sleeper cells”. Now also in the state institutions and the Islamic community there are lackeys of the USA. There are even some who say that it is our fault if Bosnia does not enter Europe”, maintains the war veteran. And he adds: “There is no longer any respect for human rights”. It makes a strong impression to hear talk of human rights from those who cut off heads and in a country where, even on their [Muslim] side, the worst crimes have been committed.

 

Wahhabism against tradition

In many ways they demand justice in Bosnia, as in the whole of former Yugoslavia. The problem is that before, when they were useful, the mujahideen were also under the protection of the Americans, but now they no longer serve a purpose, on the contrary after 9/11 they have realised that they constitute a danger also to the USA. But even more to the Bosniaks. Probably it is your vision of Islam which does not correspond to that of the Bosniaks, we point out. “We are not doing anything other than revive the tradition that was denied by communism and by Tito.” But the truth is it is not from tradition but from the Wahabbi school of thought which is deeply rooted in Saudi Arabia, if even the old ladies of the towns like Travnik have rebelled against the strictures of the mujahideen. But the risk that those who have committed a crime can be transformed into a victim exists, if justice depends on political logic. Many of the mujahideen stripped of their citizenship have already fled into neighbouring countries and if others will have to do it to avoid the consequences, the only victims will be the children.
Nuzeiba, who is studying philosophy, fears the departure of his father, the smallest child of the veteran throws himself on the ground and prays to Allah. When we ask to know the opinion of of his wife, Abu Hamza scornfully says: “My wife does not want to speak with journalists and I respect her wishes.” Then he shows us a photograph of his family: his wife looks like a ghost completely covered in black. In any case we would not have been able to see her.

(Source of the english translation: Tim Fenton through http://groups.yahoo.com/group/yugoslaviainfo/ )


=== 2 ===


«E' vero, i mujahidin tagliavano teste»

Intervista all'ex generale Hasan Efendic che ha scritto un libro sui combattenti islamici: «Sono stati creati dagli Usa e ora ci vengono a dire che abbiamo aiutato al Qaeda»

G. Sgr., Sarajevo

Sulla presenza dei mujahidin nella guerra in Bosnia circolano cifre disparate. «La polizia segreta dell'esercito bosniaco aveva 760 nomi, per i serbi erano 10.000, per i croati 4-5.000, un giornalista tedesco è arrivato fino a 40.000. L'Onu non ha dato cifre, ma ha definito esagerati i numeri che circolano», risponde il generale in pensione (dal 1996) Hasan Efendic, già comandante dell'esercito bosniaco, che sta per pubblicare un libro sui mujahidin in Bosnia. 

Ma chi erano questi combattenti islamici?

Erano di tre tipi: i veri mujahidin venuti per combattere in nome dell'islam e per aiutare i musulmani di Bosnia, pronti a morire per diventare shahed (martiri); poi i cani da guerra - gente che veniva da Afghanistan, Kashmir, Filippine - e fare la guerra è il loro modo di vivere, dove sono trovano moglie e fanno figli; infine le spie, sempre originari dei paesi arabi, ma che vivono e sono stati educati in occidente, venuti in Bosnia per fare la spia, poco importa per chi, se per l'est o per l'ovest.

La percentuale per ogni tipo?

Difficile stabilirlo, ma la maggioranza era del secondo gruppo. Erano tutti organizzati, avevano alle spalle organizzazioni umanitarie, si dividevano tra chi combatteva i serbi, chi i croati, chi il vecchio sistema comunista ma c'era anche chi combatteva contro tutti coloro che non la pensavano come loro. Nel 1993 è stata costituita l'unità dei mujahidin per raggrupparli insieme e comandarli, ma nessuno è mai riuscito a controllarli veramente. 

Sono accusati di crimini terribili.

Sì, però non sono ancora stati provati, i serbi parlano di genocidio per coprire i loro crimini. E' vero tagliavano le teste ma non a donne e bambini. E' impossibile che abbiano commesso tutti quei crimini se erano solo 760 nel loro battaglione, ma altri mujahidin erano distribuiti in altre unità bosniache. Certo, dicevano che erano venuti per salvare i bosniaci ma quando servivano non c'erano mai come a Srebrenica.

Come lo spiega?

Quelli che comandavano lavoravano per servizi stranieri, i mujahidin ubbidivano. E poi non combattevano sotto la bandiera bosniaca ma la loro. Il loro compito era diffondere il wahabismo, la religione ufficiale dell'Arabia saudita. C'era anche uno scontro con l'Iran, nessun iraniano ha combattuto con i mujahidin, gli iraniani venivano come istruttori tecnici. Ma qualche paese arabo mandava i mujahidin per neutralizzare l'Iran e alimentare lo scontro teologico tra sunniti e sciiti. Tra i mujahidin c'erano molti laureati, sono venuti a combattere per propri interessi: per diffondere il wahabismo e per difendere l'islam, dicevano anche di combattere il capitalismo, ma in effetti combattevano solo chi non la pensava come loro.

Allora perché avete costituito un'unità dei mujahidin dentro l'esercito bosniaco?

Perché se avessimo respinto i mujahidin non ci sarebbero arrivati più aiuti dai paesi arabi e in quel momento così difficile, senza armi, avremmo accettato aiuti da chiunque. Avevamo bisogno di soldi e armi ma non di uomini, alla fine della guerra avevamo 250.000 soldati. 

Ora che è finita la guerra il wahabismo è un pericolo?

Non è un pericolo sono una minoranza. Io sono ateo ma sono pronto a morire per l'islam bosniaco, ma è un islam tollerante. I nostri politici sbagliano usando il nazionalismo per mantenersi al potere.

Come sconfiggere il nazionalismo?

E' molto difficile. 

Non a caso, militari come lei e il generale Divijak (serbo bosniaco) siete stati messi da parte...

Nel '42 mio padre, che insegnava in una madrasa, mia madre e mio fratello sono stati uccisi dai serbi. Eppure io ho sposato una serba e sono andato a una scuola militare. L'ho fatto per motivi economici, ma ho accettato quel sistema e sono orgoglioso di averne fatto parte: nel 1950 sono diventato ufficiale e sono arrivato fino a primo comandante dell'esercito di Bosnia. In quale altro paese sarebbe possibile per un figlio di contadini? Certo in quel sistema c'erano dei problemi, il partito unico, ma per il popolo era buono: scuole e assistenza sociale gratuiti per tutti, gli operai godevano di diritti, ferie e vacanze, nessuno chiedeva l'elemosina come ora. In quale parte dell'Europa è nato un uomo come Tito, che ha avuto il coraggio di dire no a Stalin e di fondare il movimento dei non allineati? I mujahidin sono stati creati dagli Usa e adesso ci vengono a dire che noi abbiamo aiutato al Qaeda, io ho sentito per la prima volta quella parola nel 1998. Noi non abbiamo bisogno di mujahidin ma della comunità internazionale per uscire da questa situazione. 

Ora però occorre anche affrontare i problemi della giustizia.

Sono nazionalista ma chi ha commesso crimini deve essere portato davanti al tribunale e non possiamo diventare eroi della nazione appoggiando chi ha commesso crimini.



=== 3 ===


Spunto

In pezzi la pace di Dayton Un vulcano sotto la cenere

Tommaso Di Francesco 

A un anno dagli accordi di Dayton, il Senato Usa nell'ottobre 1996 convocò una commissione d'inchiesta, sollecitato da rivelazioni dei media sul cosiddetto «Bosniagate»: l'amministrazione di Bill Clinton aveva autorizzato triangolazioni di uomini e armi con Arabia saudita e Iran, facendo entrare nel 1992-'93 combattenti mujahidin nella Bosnia Erzegovina dilaniata dalla guerra interetnica tra serbi, croati e musulmani. Il presidente americano venne convocato e ammise tutto. Del resto, di che sorprendersi: non erano gli stessi mujahidin internazionali, prima addestrati da Usa, Pakistan e Arabia saudita in funzione antisovietica in Afghanistan e poi impegnati, nella versione talebanizzata, dagli stessi protettori a riconquistare Kabul dal 1994 al 1996? L'operazione, giustificata per fermare l'aggressione dei serbi di Bosnia, alla fine servì soprattutto a condizionare con massicci fondi dei paesi islamici l'ambiguo islamismo nazionalista del presidente Alja Izetbegovic, sospeso tra vocazione bosniaca e integralismo. E nella guerra che vedeva la ferocia delle milizie serbe e croate, alimentò la crudeltà dei mujahidin.
Tutto questo, a 12 anni dalla fine della guerra, potrebbe avere "solo" il valore della ricerca di verità e giustizia. Senonché i Balcani, cioè il Sud-est dell'Europa, si confermano come il luogo dove il passato non passa. E neanche la miseria. Così, grazie allo strabismo dell'Occidente, il nodo dei mujahidin torna d'attualità. Quella presenza destabilizzò già nel 1996 la Bosnia musulmana, sotto accusa per il fallito attentato a papa Wojtyla in visita a Sarajevo; poi, dopo l'11 settembre 2001 diventò per Washington insopportabile. Migliaia di mujahidin dovevano essere espulsi - molti erano già "rientrati" con i lasciapassare della presidenza Izetbegovic, avallati dagli Usa. E cominciarono catture e voli della Cia, verso Guantanamo. Gli eroi mujahidin erano diventati «terroristi pericolosi al soldo di Al Qaeda». Fino ai nostri giorni, nei quali il governo di Sarajevo ha deciso 400 espulsioni. 
Una decisione faticosa presa dal rappresentante musulmano della presidenza tripartita Haris Silajdzic che così cerca l'appoggio occidentale per accelerare l'unificazione a forza delle due entità statuali invece previste da Dayton. Una «unificazione» sostenuta dagli Usa ma «unilaterale e giuridicamente impossibile», ha denunciato perfino il tedesco Schwarz Schilling, Alto rappresentante per la Bosnia nel suo commiato a fine giugno, dando le consegne al nuovo Alto rappresentante in carica in questi giorni, lo slovacco Miroslav Lajcak. Siamo a un passo dalla disgregazione. E se la comunità internazionale avvierà in Kosovo l'anacronistico riconoscimento di una nuova statualità etnica nei Balcani, il "botto" arriverà subito qui. Perché, mentre i croati di Bosnia chiedono di uscire dalla Federazione croato-musulmana e la costituzione della terza entità dell'Erzegovina, i serbi di Bosnia, guidati dal premier Milorad Dodik, democratico e acerrimo nemico dei ricercati Radovan Karazic e Ratko Mladic, minacciano l'adesione alla Serbia se la loro entità decisa a Dayton, la Republika Srpska, venisse cancellata come chiedono a Sarajevo.


=== 4 ===

dal Manifesto, 12.07.2007

Bosnia, il seme wahabita

Migliaia di mujahidin sono venuti non per difendere i musulmani bosniaci ma solo per diffondere il wahabismo di stampo saudita.

di Giuliana Sgrena, Sarajevo

Obbiettivo dei mujahidin, accorsi a migliaia in Bosnia a inizio anni  '90, non era difendere i musulmani bosniaci e il loro islam tradizionale, ma diffondere il wahabismo di stampo saudita. Il loro compito non s'è  esaurito con gli accordi di Dayton, così in molti sono rimasti, concentrati nelle loro enclave, costruendo e imponendo comunità talebanizzate. Dopo l'11 

(L'intervista originale: «E' vero, i mujahidin tagliavano teste»
Intervista all'ex generale Hasan Efendic che ha scritto un libro sui combattenti islamici: «Sono stati creati dagli Usa e ora ci vengono a dire che abbiamo aiutato al Qaeda» 
di Giuliana Sgrena, su 



“It’s true, the mujahideen did cut off heads”

An interview with former general Hasan Efendic who has written a book on his Islamic fighters: “They were created by the US and now they come to us and say that we helped al Qa’eda”

 

by G. Sgr., Sarajevo


Concerning the presence of mujahideen in the war in Bosnia different numbers are bandied about. “The secret police of the Bosnian army had 760 names, for the Serbs there were 10,000, for the Croats 4-5,000, a German journaist reckoned as high as 40,000. The UN has not given figures, but has declared that the numbers in use are exaggerated”, answers general Hasan Efendic who retired in 1996, when he was commander of the Bosnian army, and who is about to publish a book about his mujahideen in Bosnia.

 

But who were these Islamic fighters?

There were three types: the true mujahideen came to fight in the name of Islam and to help the Muslims of Bosnia, ready to die to become shahed (martyrs); then there were the dogs of war – people who came from Afghanistan, Kashmir, the Phillipines – for whom waging war is their way of life, where they have found wives and had children; finally the spies, always originally from Arabic countries, but who live and have been educated in the West, who came to Bosnia to spy, it makes no difference to them whether for the East or the West.

 

The proportion of each type?

Difficult to establish that, but the majority belonged to the second group.
They were all organised, supported by humanitarian organisations, divided between those who fought the Serbs, those who fought the Croats, or those who fought the old communist system but there were also those who fought against anyone who did not think like them. In 1993 a mujahideen unit was set up to group them all together under a single command, but in fact no-one ever managed to control them.

 

They have been accused of terrible crimes.

Yes, but they have not been proven, the Serbs talk about genocide to cover up their crimes. It is true that they cut off people’s heads but not of women and children.  It is impossible that they committed all those crimes if there were only 760 in their battalion, but other mujahideen were spread out in other Bosnian units. Sure, they said that they had come to save the Bosniacs but when they served there were never any in Srebrenica.

How do you explain that?

Those who were in command worked for the foreign services, the mujahideen obeyed. And then they were not fighting under the Bosnian flag but their own. Their task was to spread Wahhabism, the official religion of Saudi Arabia. There was also a clash with Iran: no-one Iranian fought  alongside the mujahideen, the Iranians came as technical instructors. But some Arab countries were sending mujahideen to neutralise Iran and to fuel the theological conflict between Sunnis and Shiites. Amongst the mujahideen there were many graduates, who came to fight for their own reasons: to spread Wahhabism and to defend Islam, they also spoke of fighting capitalism, but in effect they were only fighting those who did not think like them.

So why did you set up a unit of mujahideen within the Bosnian army?

Because if we had rejected the mujahideen there would not have been any more help from the Arab countries and at that time it was so difficult, with no arms, we would have accepted help from anywhere. We needed money and arms but not men, by the end of the war we had 250,000 soldiers.

Now that the war is finished is the Wahhabism a danger?

It is not a danger they are a minority. I am an atheist but I am ready to die for Bosnian Islam, but it is a tolerant Islam. Our politicians made a mistake using nationalism to maintain power.

 

How can nationalism be overcome?

It is very difficult.

 

Specifically, soldiers like you and General Divijak (Bosnian Serb) were put on opposite sides...

In 1942 my father, who taught in a madrassa, my mother and my brother were killed by Serbs. Even so I married a Serbian woman and went to a military school. I did this for economic reasons, but I accepted that system and I am proud to have  taken part in it: in 1950 I became an officer and I ended up as supreme commander of the army of Bosnia. In what other country would that be possible for a farmer’s son? Sure in that system there were problems, the one party system, but for the general population it was good: schools and free state benefits for all, the workers enjoyed rights, work and holidays, no-one was  asking for charity as they are now. Where else in Europe has there been a man such as Tito, who had the courage to say no to Stalin and to build the non-aligned movement? The mujahideen have been created by the US and now they come to us and say that we have helped al Qa’eda, I heard that word for the first time in 1998. We had no need for the mujahideen but for the international community to get us out of the situation we were in.

 

Now however it is necessary to face the problems of justice as well.

I am a nationalist but those who committed crimes should be taken to the tribunal and we cannot become heroes of the nation while supporting those who committed crimes.




From: elian99 @ tiscali.it
Subject: Fw: Roma (8-9): il movimento 911 al Villaggio Globale
Date: August 20, 2007 10:59:44 PM GMT+02:00


Carissim*, vi preghiamo di far girare quanto più potete questo
messaggio. Comunque grazie per quello che riuscirete a fare.


Il movimento italiano per la verità sull'11 settembre si incontra al
Villaggio Globale

Roma, 8 settembre 2007


Stando alle ultime notizie sembra che l'imminente anniversario degli
eventi dell'11 settembre 2001 vedrà l'iniziativa del movimento
internazionale svilupparsi in molte città e a diversi livelli.

In Europa è senz'altro da seguire e supportare la marcia che per
domenica 9 settembre United for Truth sta organizzando a Bruxelles.
Dalle 14 si attraverserà il cuore della capitale belga lungo la
direttrice nord-sud, da una stazione ferroviaria all'altra. Per
seguire da vicino la preparazione di questo evento e per inviare
adesioni anche dall'Italia il sito di riferimento è: http://virb.com/
unitedfortruth. Un'iniziativa analoga per lo stesso 9 settembre sta
tentando di metterla in piedi a Madrid l'Asociacion por la Verdad
sobre el 11 de Septiembre (www.911truthmadrid.org).
Da sottolineare che nelle intenzioni dei promotori entrambe le
manifestazioni dovrebbero mettere insieme realtà che lavorano sull'11
settembre e gruppi attivi su temi come l'aumento della povertà, la
scomparsa della democrazia, la libertà di espressione e l'opposizione
alla macchina mediatica della "guerra al terrorismo".

Negli Stati Uniti, almeno in alcune città il 911 Truth Movement si
sta impegnando per la prima volta in una campagna per arrivare ad uno
sciopero generale dichiaratamente politico proprio nel giorno del
sesto anniversario, martedì 11. Dovesse riuscire anche solo in due-
tre città, sarebbe comunque una mobilitazione di profondo significato
storico, a quattro decenni di distanza dalle dimostrazioni contro la
guerra in Vietnam. Per gli aggiornamenti conviene andare su www.
911blogger.com. Quello che segue è il volantino: http://
photobucket.com/http://photobucket.com/

In Italia, noi di Faremondo, Aginform (www.aginform.org) e Villaggio
Globale stiamo preparando a Roma un incontro un po' diverso da quello
svoltosi lo scorso anno all'Arena del Sole di Bologna. L'idea, al di
là degli approfondimenti e dei contributi dei ricercatori, è
soprattutto quella di avviare una riflessione che porti il movimento
italiano ad individuare i passi da fare in futuro. Vorremmo
collegarci agli organizzatori della marcia di Bruxelles in quanto
condividiamo appieno l'idea di unire aggregazioni nuove di movimento
che lavorano tutte su questioni profondamente connesse.

Un nodo cruciale su cui si potrebbe trovare l'intesa di tutti è
l'avvio di una nuova investigazione e di una sorta di commissione o
grand jury internazionale sull'11 settembre. Il punto è che per
mettere in piedi un'iniziativa di tale portata bisogna davvero unire
le forze di tutte queste realtà formando una specie di comitato
europeo di coordinamento. Alcuni studiosi (su tutti Griffin, Tarpley
e Meyssan) già da tempo si muovono in questo senso. Tuttavia noi
pensiamo che la spinta principale possa e debba provenire
direttamente dalle nuove aggregazioni che formano il movimento. Su
questa questione vogliamo allora che si apra la discussione, a
partire proprio dall'incontro di Roma al Villaggio Globale.

Non tragga in inganno il grumo di senso contenuto nel titolo: quella
sull'11 settembre non è la danza che altri hanno fatto e stanno
facendo, è la nostra propria danza alla ricerca della verità, di una
diversa consapevolezza e di un nuovo orizzonte di pensiero per
provare a sopravvivere ad una civiltà che ormai può soltanto riuscire
a sottrarre possibilità di futuro al pianeta, alla nostra e alle
altre specie.
Attendendo le vostre idee e le vostre proposte, un saluto a tutti con
la speranza di ritovarci insieme a Roma.

Emanuele Montagna - Faremondo


Ballando sull’11 settembre

La verità dell’autoattentato, l’allineamento della “sinistra”
alla versione ufficiale e il futuro del movimento di inchiesta



Secondo incontro del movimento italiano di inchiesta
sugli eventi dell’11 settembre 2001

Sabato 8 settembre 2007

Roma, C.S.I.O.A. Villaggio Globale,
Lungotevere Testaccio (ex-Mattatoio), via Monte Testaccio 22




A sei anni di distanza da quel fatidico giorno, il movimento
internazionale di inchiesta è diventato una rete multiforme di
attivisti, ricercatori e siti web le cui iniziative sono riuscite ad
aprire più di una crepa nel muro dei mainstream media.
Nel corso del 2007 le coraggiose danze dell’inchiesta non hanno
mancato di aggiungere ulteriori riscontri atti a destituire di
qualsiasi fondamento residuo le varie narrative ufficiali... Fino a
portare in primo piano la verità dell’autoattentato (inside job)
orchestrato dall’interno dei centri di potere Usa al fine di
sprofondare il mondo in quell’oceano di crimini contro l’umanità che
il cover up mediatico quotidiano chiama “guerra al terrorismo”.

Alla crescita di credibilità del movimento di inchiesta il ceto
politico e gli intellettuali di “sinistra” hanno risposto in coro
planetario con un emblematico allineamento alle tesi ufficiali,
fissando così in modo definitivo i contorni della loro inestirpabile
subalternità ai dominanti, quel loro carattere di opposizione falsa-
fittizia-fasulla (fake opposition) del tutto funzionale alla
continuazione delle nefandezze presenti in tante, troppe regioni del
pianeta.

Davanti alla probante cartina di tornasole dell’11 settembre, con
negli occhi l’horror di una “sinistra” mondiale rivelatasi
fiancheggiatrice dei peggiori circoli imperialisti anche all’inizio
del nuovo secolo, il movimento di inchiesta si ritroverà a Roma per
discutere il che fare e il come andare avanti per la propria strada,
dentro e fuori la rete: come e perché continuare, sempre al di fuori
delle mediazioni politico-istituzionali note, a cercare interlocutori
fra le vecchie “basi” insofferenti e in mezzo ai comuni cittadini
formatisi unicamente nella menzogna dei media.



Programma provvisorio

(in attesa di conferme, dell'esito dei contatti in corso e delle
proposte che verranno da gruppi di attivisti):

Ore 18.30 – 20.30
Tavola rotonda coordinata da Emanuele Montagna (Faremondo) e Paolo
Pioppi (Aginform)

Al momento contiamo di avere gli interventi di:

- Webster Griffin Tarpley, autore de La fabbrica del terrore. Made in
Usa, Arianna Editrice/Macro Edizioni (in collegamento da New York,
Ground Zero);
- il Gruppo Zero, in occasione del lancio di Zero. Inchiesta sull’11
settembre, film documentario di Giulietto Chiesa e Franco Fracassi;
- Massimo Mazzucco, responsabile di www.luogocomune.net, autore di 11
settembre 2001. Inganno globale (film e libro), Macro Edizioni (in
collegamento da Los Angeles);
- Julez Edward, coordinatore di 9/9 United for Truth, la marcia di
Bruxelles del 9 settembre (in collegamento dalla capitale belga).

Ore 20.30 – 21.30
Rassegna di video e testimonianze sull’11 settembre

Ore 21.30
UnDC-9, spettacolo teatrale prodotto da Faremondo, con Gabriele
Ciampichetti, Rita Felicetti e Alex Turra. Regia di Gabriele
Ciampichetti

La serata proseguirà con un concerto organizzato dal collettivo del
Villaggio Globale

http://www.eurasischesmagazin.de/artikel/?artikelID=20070710


Vom intakten Jugoslawien zur Terror-Region Kosovo

Was hat dazu geführt, dass das Kosovo zur Zeitbombe werden konnte,
die heute kurz vor der Explosion steht? Die Vorgänge, die dazu
führten, rekapituliert in gewohnt offener Sprache der deutsch-
österreichische Unternehmer und Buchautor Kurt Köpruner. Er nimmt die
Rolle der nationalistischen Terrorgruppen und der internationalen
Gemeinschaft in der Krisenregion aufs Korn. Sein Beitrag ist höchst
aktuell, denn im Sicherheitsrat der Vereinten Nationen liegt ein
neuer Resolutionsentwurf für die Zukunft des Kosovos auf dem Tisch,
eingebracht von den USA und EU-Mitgliedern. Darin wird zwar auf eine
automatische Unabhängigkeit des Kosovo verzichtet, falls sich die
serbische und kosovarische Regierung nicht innerhalb von 120 Tagen
über den Status der Provinz einigen. Russland hat aber vorsorglich
bereits sein Veto angekündigt. Wann die Abstimmung über den Entwurf
erfolgen soll, ist ungeklärt. "Null Chance auf Kosovo-Resolution"
titelten bereits österreichische Medien.

Von Kurt Köpruner, Eurasisches Magazin 07-07 · 31.07.2007


Die Lage im Kosovo ist untrennbar verbunden mit dem Zerfall
Jugoslawiens. Was ist damals, im Frühsommer 1991, passiert?
Jugoslawien war auf dem Höhepunkt einer schweren wirtschaftlichen und
politischen Krise. Die Regierungen von Slowenien und Kroatien wollten
die Unabhängigkeit ihrer Republiken von Belgrad erreichen: Ein
klassischer innerstaatlicher Konflikt, bei dem nach den Regeln des
Völkerrechts jegliche Einmischung von außen streng untersagt ist.

Auch die deutsche Außenpolitik hielt sich, zumindest offiziell, an
die internationalen völkerrechtlichen Standards und an Absprachen mit
den Partnern in der EG - bis genau zum 1. Juli 1991. An diesem Tag
erklärte der damalige Bundeskanzler Helmut Kohl: "Deutschland soll
die EG zur Anerkennung der beiden Republiken veranlassen". Fortan
machte Deutschland massiven Druck auf die übrigen EG-Staaten.

Es gab zahllose eindringliche Warnungen vor den Folgen dieser
Anerkennungspolitik, die markanteste richtete am 10. Dezember 1991
der damalige UN-Generalse kre tär Perez de Cuellar an die zwölf EG-
Außenminister: "Ich bin tief beunruhigt darüber, dass eine verfrühte,
selektive Anerkennung den gegenwärtigen Konflikt ausweiten und eine
explosive Situation hervorrufen könnte". Deutschland schlug die
Warnungen in den Wind: Wenige Tage nach diesem prophetischen Appell
des UN-General sekretärs sprach die deutsche Bundesregierung die
Anerkennung Sloweniens und Kroatiens aus. Die elf weiteren EG-Staaten
folgten am 15. Januar 1992. Sie hatten sich nach monatelangem
Widerstreben dem Druck Deutschlands gebeugt. "Wir konnten uns auf den
Kopf stellen", wurde Ruud Lubbers, der niederländische
Ministerpräsident. später zitiert, "die übrigen Europäer konnten noch
so verwundert dreinschauen - die Deutschen gingen solo zu Werke."


Serbien muss sterbien

Die unmittelbare Folge war die rasche Ausweitung der Balkankriege
unter ständig steigender internationaler Beteiligung. Es trat genau
das ein, was Genscher mit seiner Anerkennungspolitik verhindern
wollte: "Eine weitere Eskalation der Gewaltanwendung". Da man für das
totale Scheitern der eigenen Politik einen Sündenbock brauchte, lief
während der gesamten 1990-er Jahre eine fast beispiellose
Diffamierung des ganzen serbischen Volkes ab. Die Serben sind an
allem schuld, wurde tausendfach "bewiesen", zuletzt 2004 in den
meisten Berichten über die Pogrome im Kosovo: Die kollektive
Alleinschuld der Serben wurde beinahe zum Naturgesetz erhoben.

1999 bekamen die Nato-Fans ihren Krieg - endlich, nach so vielen
Jahren des Herbeiredens und Herbeisehnens. Seit Jahren tönte es
allenthalben: Wenn das "Morden" im Kosovo nicht sofort aufhört, dann
müssen Bomben her. Diese Drohung war ausnahmslos gegen die Serben
gerichtet. Wer also Bomben auf Belgrad wollte, der musste nur dafür
sorgen, dass das Morden nicht aufhört. Eine unmissverständliche
Einladung, ja Aufforderung an die UCK, das Morden fortzusetzen. Und
die hatte verstanden: Das Morden wurde fortgesetzt, die Rechnung ging
auf.

Monate vor und auch während der Verhandlungen in Rambouillet
(Frühjahr 1999) wurden weltweit, auch in Deutschland, alle
Albanischstämmigen im Alter von 18 bis 60 massiv aufgefordert
("Verweigerung wird nicht geduldet"), sich jetzt in die UCK
einzureihen. Dass dies in Jugoslawien eine zusätzliche Mobilisierung
bewirken musste, leuchtete zwar ein, änderte aber natürlich nichts,
denn "der Serbe betreibt ethnische Säuberungen und gehört bestraft,
basta!" Fast vollständig ausgeblendet wurde auch das Bemühen der
Serben um eine friedliche Lösung. Die Serben haben OSZE-Beobachter in
den Kosovo gelassen. Das tut niemand, der einen Völkermord plant.

Wahr bleibt auch, dass die Serben, das serbische Parlament, die
Regierung über eine Autonomie für das Kosovo verhandeln und das von
der OSZE oder der UNO überwachen lassen wollten. Dazu gab es
Vorleistungen, wie die 1.500 OSZE-Beobachter, die monatelang im
Kosovo waren, unwiderlegbar bewiesen. Da hätte man ansetzen müssen,
meinetwegen mit Bombendruck, das hätte unendlich viel Leid erspart.
Doch es ging nicht. Wozu hatte man denn die UCK aufgerüstet? Doch
nicht um eine Autonomie zu verwirklichen! War nicht von Anfang an das
Ziel, ein ethnisch reines Kosovo zu bekommen, gereinigt von allem
Serbischen? Fast vollständig ausgeblendet wurde (und wird) die
Tatsache, dass die weitaus größte Zahl von Flüchtlingen aus Ex-
Jugoslawien seit Jahren in Serbien dahinvegetiert. Vor wem sind die
geflohen? Vor den Serben etwa?


"Terrorbande UCK"

Erinnern wir uns: Die UCK war erstmals 1996 in die internationalen
Schlagzeilen gelangt: Als Terrorbande im Kosovo, die ihre
ultranationalistischen und rassistischen Ziele - ein ethnisch
gesäubertes, rein albanisches Kosovo - mit Mordanschlägen vorantrieb
und mit Drogen- und Waffenhandel finanzierte. Auch viele Kosovo-
Albaner fielen dem UCK-Terror zum Opfer, und selbst der vom Westen
als "Balkan-Ghandi" hofierte Albanerführer Ibrahim Rugova fand sich
auf ihren Todeslisten. So bekannt Methoden und Ziele der UCK im
Westen auch waren und so sehr diese den westlichen Werten -
Rechtsstaatlichkeit, Multikulturalismus, Antiterrorismus usw. - auch
zuwider laufen mochten, so sehr liebäugelten nicht wenige von Anfang
an mit dieser mordenden Bande. Die UCK-Terroristen waren nämlich
Todfeinde der Serben, und nach dem Motto "die Feinde meiner Feinde
sind meine Freunde", gab es folglich - ganz besonders in Österreich
und Deutschland - immer auch Stimmen, die die Morde der UCK als
verständliche Notwehr gegen den Terror der Serben schön zu reden
versuchten.

In den USA allerdings sah man in der UCK zunächst das, was sie war:
eine terroristische Vereinigung. Doch die Politik der USA ist
bekanntlich "flexibel". Mal paktieren sie mit Saddam, rüsten ihn
hoch, um ihn kurz darauf zum Erzfeind zu erklären; mal werden die
Taliban mit Milliarden US-Dollar finanziert, um wenig später in Grund
und Boden gebombt zu werden. Streng nach dieser "Logik" verhielt sich
die US-Politik auch gegenüber der UCK: Noch im Frühjahr 1998 gaben
die USA dem lange zuvor schon zum Balkanschlächter erklärten Slobodan
Milosevic grünes Licht für die militärische Bekämpfung der UCK - um
kurz darauf genau deshalb Bomben auf ganz Serbien zu fordern und
wenig später zu feuern.

Die USA entdeckten die UCK, die sich in idealer Weise als Nato-
Bodentruppe anbot. Nur die Terrorführer der UCK erwiesen sich
zunächst als recht problematisch, auch dann noch, als man sie zu der
Konferenz nach Rambouillet eingeladen und sie zu den Wortführern
aller Albaner erkoren hatte. Die "Friedenskonferenz" von Rambouillet
war indes von vornherein nichts anderes als der Versuch, die längst
beschlossenen US-geführten Nato-Luftschläge gegen Serbien ein wenig
vom Makel der Völkerrechtswidrigkeit zu befreien. Von den Serben
wurde unter Androhung von Luftschlägen ultimativ die Zustimmung zu
einer Lösung des Kosovo-Problems gefordert, die nach Rudolf Augstein
"kein Serbe mit Schulbildung" hätte akzeptieren können, und die nach
Henry Kissinger schlicht absurd war.


Das zweifelhafte Unternehmen Rambouillet

In Rambouillet lief es zunächst ganz und gar nicht nach Wunsch des
Westens. Die UCK-Chefs verhielten sich äußerst unkooperativ, denn sie
wollten bis zuletzt nicht glauben, wie ehrlich es die Nato mit ihnen
meinte. Joschka Fischer flog nach Rambouillet, um sie auf Linie zu
bringen - vergeblich. Selbst US-Außenministerin Madeleine Albright
kniete zunächst förmlich vor den UCK-Rebellen und drohte ihnen
andererseits: "If you don't say 'Yes' now, there won't be any Nato
ever to help you!" Noch am Vorabend des letzten Konferenztages
verweigerte die "misstrauische" UCK ihre Zustimmung zum Ultimatum des
Westens, womit dessen Bombenstrategie hinfällig geworden wäre. - Aber
es sollte letztlich klappen, ein Österreicher, Wolfgang Petritsch,
hatte in letzter Sekunde für den Umschwung gesorgt und die UCK von
den "ehrlichen Absichten" der NATO überzeugt.

Damit war der Weg frei: 78 Tage und Nächte lang bombardierten die 19
Nato-Staaten im Frühling 1999 militärische und zivile Ziele in
Jugoslawien. Sie warfen in 38.000 Angriffen 20.000 Tonnen Sprengstoff
ab, töteten nach eigenen Angaben tausende Menschen und zerstörten die
gesamte Infrastruktur des Landes: Fabriken und Brücken, Schulen,
Krankenhäuser und Kindergärten, Stromversorgung und
Telekommunikation. Dennoch gerieten die Luftschläge zum Fiasko - sie
lösten kein einziges Problem, kosteten aber tausende Unschuldige das
Leben und beraubten Millionen auf Dauer ihrer Existenzgrundlagen -,
wurden aber doch als Erfolgsstory gefeiert. Die Führer der UCK
erhielten, was man ihnen in Rambouillet offenbar für ihr
Wohlverhalten versprochen hatte: die Macht über das Kosovo, das sie
vor den Augen der Nato in ein Inferno verwandelten, in dem Mord und
Totschlag, Drogen-, Waffen- und Menschenhandel an der Tagesordnung
sind, und in dem heute der Rassismus wie in keinem anderen Land der
Welt allgegenwärtig ist. Dennoch stellte EU-Außenpolitiker Javier
Solana Ende Februar 2004, nach einem Besuch im Kosovo, befriedigt
fest: "Der Fortschritt überall in der Provinz ist offensichtlich."


März 2004: Albanische Lügen für das Pogrom an Serben

März 2004: Die ganze Welt blickte für ein paar Tage wieder einmal in
das Kosovo. Was war geschehen? Noch am Montag, dem 15. März 2004,
herrschte Alltag im Kosovo. Um 19.00 Uhr dieses Tages wird in der
Nähe von Pristina Jovica Ivic, ein 18-jähriger Serbe, aus einem
fahrenden Auto angeschossen und lebensgefährlich verletzt. Serben in
Gracanica protestieren lautstark auf der Straße. UNMIK und KFOR, also
ziviler und militärischer "Arm" der UN-Präsenz im Kosovo, riegeln die
Gegend ab. Der oder die Attentäter können nicht ermittelt werden. Die
Straßensperren werden aufgehoben. Unsere Öffentlichkeit erfährt
nichts von dem Vorfall. Kosovarischer Alltag, wie gesagt.

Tags darauf, am Dienstag um halb vier Uhr nachmittags, kommt in der
Nähe der geteilten Stadt Kosovska Mitrovica ein Albanerjunge nach
Hause gerannt. Er berichtet seinen Eltern, dass er mit drei Freunden
in den eiskalten Fluss Ibar gesprungen sei, um diesen zu
durchschwimmen. Seine drei Kameraden seien sofort von den starken
Fluten erfasst und mitgerissen worden, nur er selbst habe sich ans
andere Ufer retten können. Unmittelbar darauf wird eine groß
angelegte Suchaktion gestartet, an der sich auch internationale
Polizisten beteiligen. Kurz vor Mitternacht findet man flussabwärts
einen der vermissten Jungen. Er ist tot.

In den frühen Morgenstunden des nächsten Tages, des Mittwochs, wird
eine weitere Kinderleiche aus dem Fluss gezogen. Am selben Vormittag
verbreiten albanische Fernseh- und Radiostationen im Kosovo pausenlos
die Meldung, dass drei albanische Kinder von Serben in den Tod
getrieben worden seien. Einmal heißt es, eine serbische Bande habe
die Albanerkinder in den Fluss gehetzt, dann ist von serbischen
Jugendlichen die Rede, in anderen Meldungen von einem serbischen Hund.

Der US-Nachrichtensender CNN übernimmt diese Meldungen prompt. Noch
in den Vormittagsstunden des Mittwochs bricht im ganzen Kosovo
ungehemmte Gewalt aus. In dutzenden Städten und Orten, überall dort
im Kosovo, wo noch Serben und andere Nichtalbaner in Enklaven und
abgeriegelten Vierteln leben. Die Gewalt läuft allerorts nach
demselben Schema ab: Ein aufgebrachter, oft vieltausendköpfiger Mob
rottet sich zusammen und marschiert schwer bewaffnet auf die
nichtalbanischen Ghettos los. Soweit diese von KFOR-Soldaten
beschützt werden, werden die Militärposten attackiert und an vielen
Orten buchstäblich in die Flucht gejagt. Steine fliegen,
Kalaschnikows knattern, Hand granaten und Molotow-Cocktails treffen
Häuser und Autos. Kirchen und Klöster werden in Brand gesteckt oder
demoliert. Die Betroffenen - vorwiegend Serben, aber auch Hunderte
Roma - sind zumeist völlig wehrlos, sie verschanzen sich in Gebäuden,
fliehen in KFOR-Unterstände oder in Felder und Wälder. Nur in
Kosovska Mitrovica sind die Serben stark genug, sich zu wehren, nur
dort kommt es zu bewaffneten Zusammenstößen zwischen Serben und
Albanern. Die Kämpfe dauern die ganze Nacht an und gehen auch am
nächsten Tag weiter.


Ein Albaner-Junge sagt die Wahrheit - aber Fakten können geplante
Pogrome nicht verhindern

Es wiederholt sich, was sich im Juni und Juli 1999 im Kosovo
abgespielt hat. Damals wurden nach derselben Methode Zehntausende
Häuser im Kosovo zerstört, zahllose Menschen getötet und
Hunderttausende - die genaue Zahl ist noch immer umstritten - für
immer vertrieben. Auch Dutzende orthodoxe Kirchen und Klöster wurden
schon damals niedergebrannt. All dies vor den Augen der Nato. Genau
das schwebte den Organisatoren des jüngsten Pogroms wieder vor. Es
sollte nun offenbar zu Ende gebracht werden, was damals so
"erfolgreich" begonnen worden war.

Ab Donnerstag, den 18. März 2004, überschlagen sich die Meldungen auf
allen Kanälen: Obwohl Derek Chappell, Sprecher der UNO-Polizei im
Kosovo, schon am Mittwoch Abend verlautbart hatte, dass der
überlebende Albanerjunge ausgesagt habe, dass er und seine Freunde
den Fluss ganz alleine überqueren wollten, ohne also von jemandem
getrieben worden zu sein, wird dieser tragische Unfall in allen
Berichten als Auslöser der Unruhen erwähnt. Reflexartig nimmt die
Öffentlichkeit wieder einmal zur Kenntnis, dass die Serben eben keine
Ruhe geben und sie daher erneut die Rechnung präsentiert bekommen.

Veton Surroi, der Herausgeber der kosovo-albanischen Tageszeitung
"Koha Ditore", bezeichnet das albanische Pogrom als "offensichtlich
organisiert und orchestriert". "Das Ziel", so der bekannte albanische
Intellektuelle weiter, "ist die Verunsicherung und Vertreibung der
serbischen Bevölkerung durch Zerstörung ihrer Häuser und Kirchen."
Auch Harri Holkeri, der oberste UNMIK-Chef, spricht anfangs von einem
offenbar lange vorbereiteten Plan. "Nichts im Kosovo", so Holkeri
wörtlich, "passiert spontan." Admiral Gregory Johnson, der Nato-Chef
für Südeuropa, wird sogar noch deutlicher, er spricht von "organised
and orchestrated actions of the Albanians". Und Johnson wörtlich
weiter: "Es ist eine heuchlerische Lüge, von einem innerethnischen
Konflikt zu sprechen. Was im Kosovo passiert, muss als Pogrom gegen
ein Volk und seine Geschichte genannt werden."


Ein Menschenrechtspräsident verbreitet Propagandalügen zur Aufwiegelung

Im Laufe des Freitags kehrt langsam wieder Ruhe ein im Kosovo.
Mehrere westliche Staaten beschließen, zusätzliche Soldaten zu
entsenden. Man begreift, dass es ein Fehler war, die anfänglich
44.000 KFOR-Soldaten auf zuletzt 18.000 Mann abgebaut zu haben. Der
Sonntag beginnt mit einer Überraschung: Der serbische Sender B92
meldet die Verhaftung des Kosovo-Albaners Halid Berani durch die UNO-
Polizei im Kosovo. Halid Berani ist Präsident einer Organisation mit
dem wohlklingenden Namen: "Council for protection of human rights and
freedoms in Kosovo", zu Deutsch: "Rat zum Schutz von Menschenrechten
und Freiheit im Kosovo". Die UNMIK beschuldigt ihn, die
Falschmeldungen über die drei ertrunkenen Kinder verbreitet zu haben.
Umfangreiches Material sei im Haus Beranis beschlagnahmt worden. Der
Sender B92 schließt seinen Bericht mit der Feststellung, der heutige
Menschenrechtspräsident sei aktives Mitglied der UCK gewesen.

Am Sonntagabend scheint dann wieder der Alltag im Kosovo einzukehren:
Der UNO-Missionschef Harri Holkeri erklärt in einem Interview, der
Begriff "ethnische Säuberung" sei für die Vorfälle der vergangenen
Woche "zu hoch gegriffen". Und wörtlich weiter: "A couple of Serbian
Orthodox Churches have been set on fire" - "ein paar serbisch-ortho
do xe Kirchen wurden angezündet".

War das alles? Serben in Belgrad protestieren gegen diese
Verharmlosung und fordern eine Richtigstellung, widrigenfalls den
Rücktritt Holkeris. Unterdessen meldet sich Ibrahim Rugova, der
Präsident des Kosovos, zu Wort: Die Vorfälle, so Rugova, hätten
gezeigt, dass nur die Unabhängigkeit des Kosovos den Frieden bringen
könne - also eine fortgesetzte Kampfansage des "Balkan-Gandhis".


Zweifelhafte Rolle der Medien

Die Botschaft der internationalen Medien ist bald klar: Beide sind
schuld! Eine krasse Verzerrung der Tatsachen, aber immerhin schon ein
kleiner Fortschritt, denn bislang war fast stets nur von serbischen
Nationalisten die Rede. Dasselbe gilt für die stereotyp wiederholte
Umbenennung des albanischen Pogroms in "Zusammenstöße zwischen
Albanern und Serben". Zusammenstöße gab es ausschließlich in Kosovska
Mitrovica. In allen anderen etwa dreißig Städten und Ortschaften
waren die angeblichen Zusammenstöße regelmäßig eine Jagd albanischer
Krimineller auf einzelne Serben. In Prizren, wo das Hauptquartier des
deutschen KFOR-Kontingents residiert, lebten bis März 1999 insgesamt
70.000 Albaner, l30.000 30.000 Serben und zahlreiche Angehörige von
fast einem Dutzend weiterer Nationalitäten. Nach den Nato-Bomben
mussten fast alle Nichtalbaner aus der Stadt. Vor dem Pogrom von 2004
standen 100.000 Albaner ganzen 63 Serben gegenüber, danach war die
Stadt "serbenrein". - Zusammenstöße?

Nahezu jeden Tag seit dem Einmarsch der Nato im Kosovo 1999 kam es
dort zu Gewalttaten - und das ist nicht im Mindesten übertrieben. Es
wurde nur kaum darüber berichtet. Der Westen steht heute hilflos vor
dem Desaster, das er selbst anrichtete. Die Lage im Kosovo 2004
spottet jeder Beschreibung. Angehörige nichtalbanischer Minderheiten
können ihre Häuser, bzw. Wohnviertel nicht ohne Begleitung
bewaffneter KFOR-Soldaten verlassen. Kinder müssen mit KFOR-Bussen
zur Schule gebracht werden. Hausfrauen fahren ebenfalls mit KFOR-
Fahrzeugen zum Einkaufen. Arbeitsplätze gibt es so gut wie keine. Die
tägliche Angst vor Mord- und Brandanschlägen ist enorm, die
Lebensperspektiven sind gleich null. Viele Nichtalbaner bleiben nur
deshalb im Kosovo, weil sie dort wenigstens nicht verhungern, denn
UNO, OSZE und zahllose private Hilfsorganisationen sorgen dafür, dass
es wenigstens genug zum Essen gibt.

Ich habe ständig Kontakt mit Bekannten. Viele befürchten, dass das
Märzpogrom der Auftakt für die endgültige Vertreibung aller
verbliebener Nichtalbaner aus dem Kosovo war. "Rache" - mit diesem
Zauberwort wird schon seit Jahren um Verständnis für die Übergriffe
albanischer Extremisten geworben, für Massenvertreibung, für Mord,
für Terror, für tausendfache Brandstiftung. Verantwortlich für all
diese Verbrechen sind Extremisten, die schon seit Mitte der neunziger
Jahre ein ethnisch reines albanisches Kosovo herbeibomben wollten.
Auch damals hat man deren Verbrechen mit dem Wort "Rache"
schöngeredet. Trotz all der unbestrittenen Probleme war das Kosovo zu
dieser Zeit im Vergleich zu heute jedoch ein multikulturelles
Paradies. Leider haben sich inzwischen die Mächte im Westen mit
Verbrechern verbündet.

Perspektiven für das Kosovo? Man hat alle denkbaren Lösungsvarianten
x-mal durchgespielt: eine Teilung des Kosovos, eine völlige
Abtrennung des Kosovos von Serbien, die Wiederherstellung der
serbischen Souveränität, ein Protektorat des Europarates und was
sonst noch alles. Es gibt keine Lösung, die nicht eine Unzahl neuer
Probleme schaffen würde. Die Hoffnung auf ein friedliches
Zusammenleben der albanischen Mehrheit mit den anderen Völkern im
Kosovo wurde ins Reich der Phantasien geschossen.


Kosovo: Reisetipps für Lebensmüde

Die jüngsten Ereignisse in und um Serbien haben vermehrte
Aufmerksamkeit auf das Kosovo gerichtet, auch ein Wiederaufleben von
Berichten bewirkt, die ganz im Mainstream liegen und die Wirklichkeit
im Kosovo vollständig verzerrt darstellen. Diese Ereignisse waren die
Aufnahme in die Partnerschaft für den Frieden im Dezember 2006. Der
Wahlsieg des "demokratischen Blocks" im Januar 2007. Der Ahtissaari-
Plan einer "kontrollierten Unabhängigkeit" für das Kosovo vom März
2007. Die Wiederaufnahme der Assoziierungsverhandlungen im Juli 2007.

Wie die Wirklichkeit im Kosovo aussieht, kann man beispielsweise aus
dem Umgang mit Orts- und Straßenschildern erahnen: Ich habe im
Kosovo, außerhalb serbischer Zentren oder Enklaven, kein einziges
entzifferbares serbisches Wort gesehen. Mitunter ist zu lesen, dass
"nur ein lebensmüder Albaner seinen Fuß in serbisch dominiertes
Gebiet setzen" würde. Das ist die Renaissance des alten Bilds der
Serben als blutrünstige Banditen. Entsprechend erscheinen Albaner als
die wehrlosen und "traumatisierten" Opfer der Serben.

Das glatte Gegenteil davon trifft weitaus eher zu. Nur ein
lebensmüder Serbe wird seinen Fuß in albanisches Gebiet setzen.
Umgekehrt ist das absolut kein Problem, wie ich aus eigenem Erleben
weiß: Letzthin schlief ich schlecht in meinem Hotelzimmer im
serbischen Teil von Kosovska Mitrovica und ich ging um 4 Uhr früh
hinunter ins Lokal, um nach einem Aspirin zu fragen. Da war
mutterseelenallein ein junges Mädchen an der Theke; ich kam mit ihr
ins Gespräch und es stellte sich heraus, dass sie Albanerin war. Ich
fragte sie aus. Ihr Leben hier schien die normalste Sache der Welt zu
sein. Man zeige mir ein einziges serbisches Mädchen, das in einem
albanischen Restaurant oder Hotel angestellt ist, und ich werde nie
mehr ein Wort gegen den albanischen Nationalismus verlieren. Aber es
gibt mit Sicherheit kein einziges, jedenfalls kein lebendes.

Am 28. Juni 2007 brachte Phoenix einen langen Bericht über das
Kosovo. Ich kenne dessen Autor, wahrlich kein blinder Serbenfreund.
Er zeigte ein ausführliches Interview mit einem albanischen Gastwirt
in dessen Lokal, das sich mitten im serbischen Teil von Kosovska
Mitrovica befindet. Man sah Gäste, Albaner wie Serben. Man zeige mir
ein einziges serbisches Gasthaus im albanisch dominierten Kosovo, und
ich werde nie mehr ein Wort gegen den albanischen Nationalismus
verlieren. Es gibt keines, jedenfalls keines, das nicht zertrümmert
oder abgefackelt ist.

Wer jetzt ins Kosovo fährt, möge einmal seinen albanischen Begleitern
sagen, dass er gern in ein serbisches Gasthaus gehen würde. Schon für
diese Bitte braucht man einigen Mut. Oder man gehe zur Tankstelle und
sage etwa die serbischen Wörter "dobro" (gut) oder "hvala" (danke).
Da knistert es sofort, der fremde Gast zieht alle Blicke auf sich,
und ich kann ihm nur raten, dann schnell ein paar deutsche Sätze zu
sagen, sonst könnte es leicht "brenzlig" werden. Ich habe dies alles
selbst mehrfach probiert, aber auch das Gegenteil erlebt: Zu Ostern
2007 war ich mit einer Gruppe zwei Tage lang im serbischen Orahovac
und Velika Hoca. Die ganze Zeit war ein Albaner bei uns, das war die
selbstverständlichste Sache der Welt.


Wann endet endlich die internationale Geduld mit diesen aufgehetzten
Banden?

Das albanische Pogrom von 2004 gegen die Serben kann niemand
ungeschehen machen, aber viele wollen es verharmlosen: "Einige
Häuser" seien abgebrannt worden - es waren knapp Tausend. Weit über
zehntausend Menschen wurden vertrieben, selbst KFOR-Soldaten mussten
flüchten. Es gab 20 oder 30 Tote, die offiziellen Zahlen sind
widersprüchlich. Auch KFOR-Soldaten kamen seinerzeit ums Leben. Über
30 Kirchen und Klöster sind niedergebrannt worden. Und dieser
rassistische, nationalistische Gewaltausbruch geschah unter den Augen
der internationalen Gemeinschaft.

So etwas wird weltweit relativiert mit dem albanischen Wunsch nach
Unabhängigkeit. Natürlich verurteilt man das Pogrom, erklärt es aber
umgehend damit, dass eben die albanische Geduld langsam zu Ende gehe,
was man ja doch irgendwie verstehen müsse. Wann endet endlich die
internationale Geduld mit diesen aufgehetzten Banden, vor denen eine
ganze Armada von Soldaten aus 36 Ländern jede serbische Siedlung
beschützen muss? Auch jedes einzelne nichtalbanische Schulkind muss
Tag für Tag von der Haustüre abgeholt werden, um es im gepanzerten
Wagen zur Schule zu bringen und später dann wieder nach Hause. Doch
davon ist weltweit nichts zu lesen.

Ich war zu Ostern auch in Decani, in dem von italienischen KFOR-
Soldaten beschützten Kloster. Vier Tage vor meinem Besuch wurde
wieder einmal eine Granate auf das Kloster abgefeuert. Es war der 39.
Granatenangriff, bezeugt von einer ganzen Kompanie Italiener, die mit
Panzern und viel Stacheldraht das Kloster rund um die Uhr bewacht.
Ein Kosovo, in dem solches möglich ist, will unabhängig sein? Ein
geradezu irrsinniges Begehren!

Die Kosovo-Albaner sind kollektives Opfer der Mord- und Hetzkampagnen
einer Gruppe von kriminellen, fanatisch nationalistischen und
rassistischen Terroristen. Ein Albaner, der da nicht voll mitzieht,
schwebt in permanenter Lebensgefahr. Dazu kommt die internationale
antiserbische Stimmung, die dem albanischen Opferwahn seit 20 oder
mehr Jahren ständig neue Nahrung verleiht. Diese Anti-Stimmung heizt
sich immer wieder an dem geteilten Mitrovica auf. Ich habe die Grenze
zwischen serbischem und albanischem Teil schon oft passiert, in
beiden Richtungen, auf der Durchreise mit dem PKW oder mal eben zu
Fuß auf einem abendlichen Spaziergang. Die Serben da drüben sind im
Durchschnitt nicht halb so fanatische Nationalisten und Rassisten wie
die Albaner.


Welchen Schluss zog die internationale Gemeinschaft aus diesem Desaster?

Ein früherer UNMIK-Chef, der Deutsche Michael Steiner, hat die Formel
geprägt: "Standards vor Status". Das sollte heißen, "jetzt schafft
erst einmal ein paar jener politischen, sozialen und rechtlichen
Standards, die man von jedem unabhängigen Staat erwartet, dann reden
wir vom Status" des Kosovos. Und da gab es dann eine ganze Liste von
Standards, zum Beispiel den, dass jedermann in einem eventuell
unabhängigen Kosovo leben können muss, ohne Tag für Tag fürchten zu
müssen, eine Kugel in den Kopf oder das Haus abgebrannt zu bekommen.
Oder, dass die mit Waffengewalt vertriebenen Menschen - keineswegs
nur Serben - alle wieder zurückkehren können. Dies und anderes hieß
"Standards vor Status".

Das sind Dinge, die wirklich das allermindeste darstellen, was man
von einem Staatsgebilde fordern muss. Und was ist geschehen? Schlicht
nichts! Nicht ein einziger dieser Standards wurde erfüllt, es gab
nicht einmal die geringste Verbesserung der Lage. Welchen Schluss zog
die internationale Gemeinschaft aus diesem Desaster? Man vergaß die
Standards vollständig und redet nur noch vom Status. Kein einziger
Kommentator oder "Experte" kommt heute mehr auf die Idee zu fragen,
was für ein kriminelles Gemeinwesen da anerkannt werden soll. Wenn
ich nicht wüsste, dass es noch ein paar Medien gibt, etwa das
EURASISCHE MAGAZIN, die die Dinge ähnlich sehen wie ich, würde ich
längst an meinem Verstand zweifeln.

Letzthin traf ich in Travnik (Bosnien-Herzegowina) eine EU-
Abgeordnete, eine Grüne, gut aussehend, dynamisch und eloquent. Sie
wirkte angeblich drei volle Jahre als Bürgermeisterin von Pec im
Kosovo. Ich fragte sie, was sie denn zu den katastrophalen
Lebensbedingungen der Leute in den Ghettos sage? Mehr als ein "na, so
schlimm ist es nicht", habe ich aus ihr nicht herausgebracht. Und
solche Leute stehen dann vor den Kameras und erklären, dass die
Geduld der Albaner bald zu Ende gehe. Man verfällt offenbar allzu
leicht dem (fraglos vorhandenen) albanischen Charme, übersieht ganz,
welch verblendete, ja verrückte Rassisten man vor sich hat. Dabei
muss man nur ganz wenig an der Freundlichkeit kratzen und es kommt
die rassistische Bestie unverhüllt zum Vorschein, die jeden Mord und
jede Vertreibung absolut gut heißt.

*

Kurt Köpruner, geboren 1951 im österreichischen Bregenz am Bodensee,
lebt seit 1989 in Deutschland, wo er eine Maschinenfirma leitet und
mit dieser zahlreiche Geschäftskontakte zu den Regionen Ex-
Jugoslawiens unterhält. Stets politisch interessiert, hat Köpruner
sich auf dem West-Balkan umgeschaut und seine kritische Sicht der
dortigen Zustände und Entwicklungen, dazu auch der Rolle der
internationalen Gemeinschaft in dieser Krisenregion 2001 in dem Buch
"Reisen ins Land der Kriege. Erlebnisse eines Fremden in
Jugoslawien", Diederichs Verlag, 352 Seiten, gebunden, ISBN
3-7205-2413-2 ausgebreitet. Das Buch war ein verdienter Erfolg,
erlebte in Deutschland mehrere Auflagen und wurde ins Serbische und
Japanische übersetzt.

"Es ist offenbar Köpruners Absicht, Misstrauen zu stiften, wenn allzu
einfache Erklärungen für komplexe Ereignisse geboten werden", schrieb
der frühere Berliner Senator für Wissenschaft und Forschung und
ehemalige SPD-Bundesgeschäftsführer Peter Glotz in einem Vorwort für
das Buch. Und er erläuterte das "Erfolgsgeheimnis" des Autors:
Köpruner ist kein "Balkanexperte", er steht "mit einem
durchschnittlich informierten Leser auf der gleichen Stufe", tritt
nicht als "Lehrmeister" auf, lässt "die Leser an seinen wachsenden
Erfahrungen teilnehmen" - in der Form eines "schlicht (und
vorzüglich) erzählten Erlebnisberichts".

(italiano / slovenscina)

Evropska laž!

Quali sono gli esiti, visibili e concreti, della retorica e della demagogia "europeiste" (laddove per "europeista" si intende l'annessionismo alla Unione politica Europea) nei Balcani? Divisione e chiusura. Un nuovo esempio viene dalla Slovenia, dove, dopo la "indipendenza", ci si mette anche la UE a chiedere di - letteralmente - tagliare i ponti con gli altri territori jugoslavi. 
La retorica e la demagogia "europeiste" non sono novità. In tempi non sospetti (1926) il poeta sloveno triestino Srečko Kosovel nella sua raccolta "Integrali" cantava, stigmatizzandola, la "menzogna europea" ("evropska laž"). Ed anche Hitler portò divisione e morte in nome del Nuovo Ordine Europeo. (a cura di IS)


DESTRUKCIJE


O laž, laž, evropska laž!
Samo destrukcija lahko te ubije!
Samo destrukcija.
In katedrale in parlamenti:
laž, laž, evropska laž.
In Društvo narodov laž, 
laž, evropska laž.

Rušiti, rušiti!
Vse te muzeje faraonov,
vse te prestole umetnosti.
Laž, laž, laž.
O Sofija, o katedrala.

O mrtveci, ki boste rešili
Evropo. O mrtveci
beli, ki stražite Evropo.
O laž, laž, laž.

Rušiti, rušiti, rušiti!
Milijoni umirajo,
a Evropa laže.
Rušiti. Rušiti. Rušiti!


Srečko Kosovel
(da "Integrali", 1926)


UE:SCHENGEN, SLOVENIA DEMOLISCE PICCOLI PONTI CON LA CROAZIA

(ANSA) - ZAGABRIA, 9 AGO - Nell'ambito dei preparativi per l'introduzione in pieno del regime di Schengen al confine con la Croazia, per ora solo Paese candidato all'Unione europea, la Slovenia ha iniziato a chiudere alcuni piccoli valichi di confine, usati per lo piu' dalla popolazione locale, e in alcuni casi ha deciso di abbattere dei ponti su alcuni fiumi di confine. Lo scrive oggi il quotidiano di Zagabria Vecernji list. Il governo di Lubiana sta in queste settimane accelerando la costruzione delle infrastrutture necessarie ai confini esterni dell'Ue con la Croazia per essere pronta, il primo gennaio prossimo, ad adottare pienamente le misure previste dall'accordo di Schengen. Su di una linea di confine terrestre di 670 chilometri, le due ex repubbliche jugoslave hanno 60 valichi di confine, 25 di carattere internazionale, 11 per il traffico solo tra i cittadini dei due rispettivi paesi, e 24 per il traffico della popolazione locale che li usa con permessi speciali. Da adattare agli standard di Schengen, ne sono rimasti ancora 16, tre dei quali le autorita' slovene hanno deciso di chiudere demolendo i ponti sul fiume Sutla. L'ultimo, quello che collegava il villaggio Hum, in territorio croato, alla stazione ferroviaria distante 500 metri, ma in territorio sloveno, e' stato abbattuto, stando al giornale croato, negli scorsi giorni. ''Si trattava di un ponte di legno, costruito prima della Seconda guerra mondiale, largo quattro metri e rafforzato da travi in acciaio che riusciva a sopportare il peso anche di camion con 25 tonnellate di carico'', scrive Vecernji list, citando le reazioni stupite e tristi di alcuni abitanti del luogo che da oggi si vedono inutili i permessi per il traffico transfrontaliero locale, emessi in base a un accordo tra Zagabria e Lubiana del 1994. ''Siamo consapevoli che gli sloveni devono rispettare le severe regole di Schengen ha detto uno di loro ma siamo amareggiati dai metodi usati dalle loro autorita' ''.(ANSA). COR
09/08/2007 16:24 


http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/8146/1/50/

Quell'Europa che abbatte i ponti

22.08.2007    scrive Franco Juri


Dal primo gennaio 2008 la Slovenia, salvo ritardi, entrerà a pieno titolo tra i paesi Schengen. E si prepara ad essere confine esterno dell'area Ue di libera circolazione. Abbattendo ponti e bloccando sentieri

"Sono le direttive di Schengen, noi non possiamo farci nulla“. Rispondono più o meno così i funzionari sloveni ai quali viene chiesto perché dal primo gennaio 2008 tutti i ponti sui fiumi che segnano il confine tra Slovenia e Croazia e non sono catalogati come valichi di frontiera verranno abbattuti. 
Soprattutto quelli sui fiumi Kolpa (Kupa) e Sotla (Sutla). Di cui tre, presso le località di Hum e Strmec, sono stati già abbattuti. Tre piccoli ponti di legno sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale, ma non all'Europa. 
Sembra un piccolo remake dell'abbattimento dello "Stari most“, il vecchio ponte di Mostar, ma questa volta in sordina e con regia UE. 
La stampa slovena quasi non ne parla, il governo è laconico, ma le genti di confine che sin dai tempi jugoslavi ne fanno uso per comunicare, incontrarsi, lavorare o visitare i parenti dall'altra parte, protesta e si mobilita. 
E' gente che parla quasi gli stessi dialetti e i cui legami, anche famigliari, sono strettissimi. A Čedan, piccola località croata di confine sul Kupa (Kolpa) croati e sloveni hanno protestato insieme; sportivi, locali operatori turistici, giovani organizzati in due associazioni turistico-ricreative: la "Kupa“ croata e la "Kostel“ slovena. Erano in procinto di restaurare insieme il vecchio ponte di legno che collega le due sponde in una delle aree più suggestive della regione. 
"Noi i ponti vogliamo costruirli e non abbatterli!“, gridano all'unisono gli abitanti croati e sloveni di Čedan e Kostel guardando verso Lubiana e Bruxelles. Ma le loro voci fino a lì non arrivano. La Commissione Europea vuole, anzi esige, che la nuova linea di Schengen, prevista lungo il confine sloveno-croato a partire dal 2008, salvo nuovi ritardi, sia "controllabile al massimo“ e quindi senza ponti né strade o sentieri dove non ci siano valichi ufficializzati. 
In cantiere c'è pure il progetto di interrompere, con veri e propri ostacoli fisici, anche la viabilità di tanti sentieri incostuditi che attraversano il confine, usati dalla popolazione locale. Il muro di Schengen non ha pietà e non vuol sentir ragioni. 
La Slovenia ha faticato persino a far accettare ai burocrati dell'UE l'accordo di piccolo traffico di frontiera e cooperazione (SOPS) stipulato con la Croazia nel 1994 ma ratificato ed entrato in vigore solo sette anni più tardi a causa delle scaramucce e dei contenziosi tra i due stati ex jugoslavi. 
Il SOPS, nato sulla falsariga di analoghi accordi tra l'ex Jugoslavia, l'Italia e l'Austria, rende più facile la vita e la comunicazione tra le popolazioni locali a cavallo del confine. Prevede delle agevolazioni doganali per gli abitanti dell'area interessata, una maggior permeabilità, con l'apertura di valichi non internazionali destinati esclusivamente alla popolazione locale e regolarizza l'uso dei terreni coltivati e delle proprietà che spesso si estendono oltre confine. 
Questi accordi furono determinanti nello sviluppo delle aree di frontiera italo-slovene e sloveno-austriache. Il governo di Lubiana, a sua detta, ha dovuto faticare per far accettare il SOPS dalla Commissione europea. Ma i ponti e i sentieri che non passano attraverso i valichi internazionali e locali (60 in tutto lungo 670 km di frontiera) quelli no che non li può difendere dai dettami di controllo e sicurezza di Schengen. 
La Slovenia è un paese di transito, l'impatto delle migrazioni da sud-est verso l'UE che passano per i Balcani la coinvolge in pieno e poi c'è la preoccupazione crescente per il terrorismo e la crminalità organizzata. Ma non è difficile notare anche che la Slovenia, il ruolo di vedetta e guardia confinaria europea, lo vuole assumere in pieno e con uno zelo ispirato pure dai contenziosi con la Croazia, quello di frontiera inanzitutto. L'aspetto meno chiaro infatti del prossimo spostamento sud-orientale di Schengen è la (ancora) mancata definizione del confine di mare e di terra tra Slovenia e Croazia 

Il confine sarà deciso da un arbitrato internazionale 

Nell'attesa di Schengen, Lubiana e Zagabria, dopo sedici anni di contenziosi ormai inaciditi, sembrano decise a scegliere la via dell'arbitrato o di un procedimento giudiziario internazionale. 
La Slovenia, fin'ora più restia in quanto convinta di poter risolvere il contenzioso a suo favore in ambito UE, ora scioglie ogni remora e propone la Corte per la riconciliazione e l'arbitrato dell' OSCE guidata da Robert Badinter, lo stesso giudice francese che segnalò, nel 1992, con la sua commissione di arbitrato voluta dalla Comunità europea e dall'ONU, la fine della Jugoslavia e l'opportunità di riconoscere la Slovenia e la Croazia in base al reciproco riconoscimento del confine lungo la linea che divideva le due repubbliche jugoslave. 
Ora la la Croazia sostiene che l'oggetto di un arbitrato dovrebbe essere solo l'inesistente confine di mare da stabilire presso il Tribunale per il diritto marittimo di Amburgo, mentre la Slovenia, politicamente compatta sul proprio teorema, sostiene che non è stabilito nemmeno il confine terrestre e che quindi bisogna arbitrare su tutta la linea di frontiera. 
Sul negoziato che negli ultimi giorni sembra aprire degli spiragli incoraggianti, lasciando intravedere il compromesso di un procedimento su tutto il confine presso la Corte di giustizia dell'Aia, incombe però ancora l'ombra delle intercettazioni telefoniche che dimostrerebbero - secondo le accuse lanciate dall'ex premier Tone Rop - che il premier croato Ivo Sanader e quello sloveno Janez Janša (ai tempi del misfatto leader dell'opposizione), si accordavano, a pochi giorni dalle elezioni slovene del 2004, sugli incidenti nel golfo di Pirano. 
A settembre la commissione parlamentare d'indagine continuerà ad appurare la verità. Compito non facile vista la situazione caotica in cui sta scivolando la SOVA (i servizi segreti sloveni) nei cui uffici segreti, secondo l' opposizione, si stanno bruciando chili di documenti, verbali e registrazioni compromettenti. E si avvicinano pure due importanti scadenze elettorali; le elezioni presidenziali di ottobre in Slovenia e quelle politiche di novembre in Croazia. Anche i tempi per un pacato accordo sull'arbitrato internazionale si fanno stretti.


Propagande: La falsification des prétendues vidéos d’Al-Qaida a été
prouvée



22 AOÛT 2007 - Des résumés d’une présentation de Neal Krawetz, expert
en informatique américain, à l’occasion de la « BlackHat conference »
pour la sécurité informatique à Las Vegas le 3 août (http://
blog.wired.com/27bstroke6/files/bh-usa-07-krawetz.pdf) circulent
actuellement dans quelques rares médias imprimés et surtout sur des
sites web internationaux. Krawetz a présenté des preuves que les
prétendues bandes vidéo d’Al-Qaida ont, en règle générale, été
manipulées.

Les bandes vidéo d’Al-Qaida ont été retravaillées par l’entreprise
américaine IntelCenter. A l’aide d’un exemple, Krawetz a montré
comment le prétendu logo de l’émetteur d’Al-Qaida « As Sahab » a,
tout comme le logo d’IntelCenter, été ajouté à cette bande vidéo de
façon identique.

IntelCenter est une entreprise privée qui rend des « services » aux
services secrets. L’entreprise collabore étroitement avec le
Pentagone, son personnel se recrute surtout parmi les anciens
collaborateurs des services secrets de l’armée américaine. L’année
dernière déjà, le groupe anti-guerre états-unien « Prison Planet »
avait prouvé qu’IntelCenter avait sous-titré des images d’Al-Qaida de
l’an 2001 avec de nouveaux textes de l’an 2006.

Les jugements concernant le fait indéni able de ces falsifications
diffèrent. Le 4 août, la junge welt a écrit : « Tout cela renforce le
vieux soupçon que le Pentagone lui-même se cache derrière les menaces
de l’Al-Qaida. Celles-ci ont toujours apparu à un moment où elles
étaient d’une grande importance pour l’administration Bush. »

Il est intéressant qu’un rapport du site Telepolis du 7 août dénie
cela en se référant, comme preuve, à une déclaration du porte-parole
d’IntelCenter – un fait qui en dit long ! Le blog politique
DaRockwilda a expliqué le 6 août pourquoi il n’était
vraisemblablement pas possible qu’il existe une entreprise de
production de bandes vidéo propre à Al-Qaida, vu le niveau technique
des moyens de reconnaissance actuels des services secrets : « S’il y
avait vraiment une organisation terroriste mondiale de l’envergure
prétendue qui dispose d’une voie de communication quelconque vers
l’Occident, pourquoi cette voie n’a-t-elle pas été découverte,
identifiée et utilisée pour arrêter les leaders d’Al-Qaida ? Peut-
être parce qu’Al-Qaida n’est qu’un fantôme de propagande des
militaires bellicistes de Washington et d’autres capitales ? [...]
N’acceptez pas qu’on vous fasse croire que les pouvoirs publics sont
capables de trouver le moindre petit « téléchargeur de musique »,
alors qu’ils n’accepteraient jamais qu’une agence de médias des
terroristes puisse produire ses petits films en toute tranquillité. »

http://www.voltairenet.org/article150971.html


On Aug 15, 2007, at 2:18 PM, Coord. Naz. per la Jugoslavia wrote:

> AL-QAIDA-VIDEOS MADE BY PENTAGON
>
> www.jungewelt.de
>
> Junge Welt, 04.08.2007 / Ausland / Seite 2
>
> Al-Qaida-Videos made by Pentagon
>
> US-Computerexperte weist Manipulationen an Aufnahmen nach
>
> Von Rainer Rupp
>
> Der amerikanische Computerexperte Neal Krawetz hat auf der »BlackHat-
> Konferenz« für Computersicherheit, die bis Freitag in Las Vegas
> stattfand, Beweise dafür vorgelegt, daß sogenannte Al-Qaida-Videos in
> der Regel digital manipuliert wurden. Urheber sei die Firma
> IntelCenter, die dem Pentagon nahesteht und für die Herausgabe der
> Videobänder verantwortlich zeichnet. Mit der von Krawetz
> vorgestellten neuen Technologie läßt sich zurückverfolgen, wann und
> mit welcher Kamera ein digitales Bild aufgenommen wurde sowie wann
> und wie es mit welchem Bildbearbeitungsprogramm geändert wurde.
> Seinen Coup präsentierte Krawetz bei der Analyse eines Videos von
> 2006, auf dem Bin-Laden-Stellvertreter Aiman Al Zawahiri gezeigt
> wird. Neben anderen Manipulationen konnte Krawetz nachweisen, daß
> sowohl das As-Sa hab-Logo der angeblichen Medienabteilung von Al
> Qaida als auch das Logo von IntelCenter zu genau der gleichen Zeit
> dem Video beigefügt wurden.
>
> IntelCenter ist eine Privatfirma für nachrichtendienstliche
> »Dienstleistungen«, spezialisiert auf die Überwachung von Videos und
> Bandaufnahmen mit »terroristischem« Hintergrund im Internet. Das
> Unternehmen arbeitet dabei in engem Schulterschluß mit dem Pentagon,
> sein Personal besteht vorwiegend aus ehemaligen Mitarbeitern des US-
> Militärgeheimdienstes, weshalb es auch als »zivile« Frontorganisation
> des Pentagon betrachtet werden kann. In der Vergangenheit trat
> IntelCenter immer wieder als Mittler zwischen der angeblichen
> »Medienabteilung von Al Qaida« und der westlichen Presse auf. Auch
> für die Veröffentlichung des jüngsten »Bin-Laden-Videos« war
> IntelCenter verantwortlich. Die Aufnahmen des Bandes stammten
> allerdings aus dem Jahr 2001 und waren mit neuem Text versehen
> worden. Bereits zweimal habe IntelCenter in den letzten fünf Jahren
> dieses Video zurechtgeschnitten und als neue Botschaft von Bin Laden
> präsentiert, belegte die US-Antikriegsgruppe »Prison Planet«, die die
> Aktivitäten der Firma verfolgt, bereits im Oktober 2006.
>
> Die Tatsache aber, daß das As-Sahab-Logo von Al Qaida zur gleichen
> Zeit wie das Firmenlogo von IntelCenter dem Al-Zawahiri-Video
> beigefügt wurde, beweist, daß IntelCenter die Videos zumindest
> manipuliert, wenn nicht sogar produziert hat. Damit wird der alte
> Verdacht bekräftigt, daß das Pentagon selbst hinter den Al-Qaida-
> Drohungen steckt. Diese tauchten immer zu einem Zeitpunkt auf, an dem
> sie für die Bush-Administration von höchstem Nutzen waren.
>

http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2007-07-14%
2006:04:47&log=invites

Les collabos de la Wehrmacht réhabilités en Ukraine

Jean-Marie Chauvier


ROMAN CHOUKHEVITCH honoré en Ukraine pour son 100ème anniversaire
Ancien chef nationaliste, il fut commandant ukrainien de la Wehrmacht
(bataillon « Nachtigall »), capitaine dans le Schuztmannshaft
bataillon 201, puis commandant suprême de l’Armée d’Insurrection
Ukrainienne. (UPA)


Réhabilité solennellement par le président Viktor Iouchtchenko, l’un
des chefs historiques de l’OUN (Organisation des Nationalistes
Ukrainiens) et commandant suprême de l’Armée d’Insurrection
ukrainienne (UPA), ROMAN CHOUKHEVITCH, voit son 100ème anniversaire
célébré en Ukraine.
Des cérémonies ont lieu en plusieurs endroits d’Ukraine occidentale,
principalement à Lviv (Lvov, Lemberg) et à Kiev. C’est la figure d’un
héros national légendaire qui se construit. Il avait résisté « aux
deux totalitarismes » dit la nouvelle vérité officielle opposée à
l’ancienne- soviétique- qui faisait de l’OUN et de l’UPA des «
fascistes », une version aujourd’hui qualifiée de « calomnie
stalinienne ».
C’est un moment important dans la formation de la Mémoire nationale
en Ukraine, opposée à d’autres « mémoires »...


ROMAN CHOUKHEVITCH avant de commander l’UPA, fut chef de « Nachtigall
» (Wehrmacht, juin 1941) engagée dans l’invasion hitlérienne de
l’URSS le 22 juin 1941, et de la police nazie (SS) le Schutzmanshaft
bataillon 201 affecté à la chasse aux Partisans (soviétiques) en
Biélorussie en 1941-42.

Cet hommage à Choukhevitch s’inscrit dans une longue série.
Les anciens combattants de l’Armée Rouge, des organisations juives et
des sources polonaises et russes contestent la vague de
réhabilitations en cours de ce qu’ils considèrent comme des «
criminels de guerre ».
Les Polonais jugent l’UPA responsable de « massacres génocidaires »
de dizaines de milliers de Polonis en Volhynie en 1943. Ces
accusations sont rejetées par les sympathisants de l’OUN et de l’UPA
qui ont désormais les faveurs du pouvoir à Kiev.
Pour honorer la mémoire du GENERAL CHOUKHEVITCH, et de l’UPA se sont
rassemblés les militants des organisations nationalistes et néo-
nazies le 30 juin. Ils se sont heurtés aux contre-manifestants
communistes et socialistes. Les forces spéciales anti-émeutes les ont
séparés sans gros incident. Un tribunal a interdit les manifestations
et une exposition de photos nationalistes. Le Parti socialiste a
installé dans le centre-ville un piquet arborant la pancarte : «
Choukhevitch, assassin du peuple ukrainien ». (Le commandant de l’UPA
est accusé de meurtres de villageois ukrainiens) « Un
Hauptschturmführer SS consacré héros de l’Ukraine » s’indigne
l’hebdomadaire russophone libéral de Kiev « Stolitchnye Novosti ». Un
autre journal signale que la réhabilitation de l’UPA fera l’objet
d’un projet de loi de « Notre Ukraine », le parti du président
Iouchtchenko. Dans leur ensemble, les médias de Kiev sont plutôt
favorables. La campagne de réhabilitation est également appuyée par
« ! Pora », l’organisation de choc de la « révolution orange ». A
l’inverse, le parti des Régions, le PC (implantés à l’Est et au Sud)
le PS dans une moindre mesure, sont hostiles aux initiatives du
président Iouchtchenko. Celles-ci, et en général les réhabilitations
de chefs nationalistes ou de légions SS dans divers pays d’Europe
centrale et orientale (Estonie, Lettonie, Lituanie, Roumanie
etc... ), allant de pair avec le démontage de monuments aux « soldats
libérateurs du nazisme » (soviétiques) sont observés en Occident
assez favorablement. Ces réhabilitations permettent en effet de
construire une nouvelle « mémoire nationale » axée sur la
dénonciation des « crimes du communisme ». Les gouvernements et
médias occidentaux évitent cependant de rappeler les aspects les
moins sympathiques des nationalismes- comme leur rôle dans la Shoah.
Leurs références traditionnelles aux SS, croix gammées et autres
saluts hitlériens ne sont pas souhaitées, et les gouvernements est-
européens s’! efforcent qu’ils n’apparaissent plus. Seules des
minorités extrémistes conservent les symboles fascistes et nazis, et
le terme « judéobolchévisme » est banni du vocabulaire.

Le 14 octobre seront célébrés les 65 ans de l’UPA, dont le président
Iouchtchenko voudrait faire voter la reconnaissance officielle comme
mouvement de résistance nationale, ce qui ne manquera pas de soulever
de nouvelles controverses.

Sur ce rapport (historique et actuel) des Ukrainiens à la
collaboration nazie, un dossier paraîtra dans « Le Monde Diplomatique
» d’août. (Jean-Marie Chauvier)


http://www.shukhevych.netfirms.com/roman/shukhevych00ukr.htm
(pour plus d’information sur Choukhevitch)


HOMMAGE A SIMON PETLIOURA :
à Poltava... et à Paris. Quelques remous.
Depuis plusieurs années déjà, Simon Petlioura, l’un des leaders de la
première république indépendante d’Ukraine (1918-20) et chef des
armées nationalistes aux prises avec les « Rouges » et... les juifs
pendant la guerre civile, a fait l’objet de nouvelles célébrations en
Ukraine et en France.
A Poltava (Ukraine) un monument à Simon Petlioura sera érigé, la
première pierre a été posée par le président Iouchtchenko qui, ces
derniers jours a par ailleurs participé à divers séminaires et
cérémonies sur le thème de la terreur bolchévique en Ukraine.
A Paris également, le leader nationaliste de la guerre civile Simon
Petlioura a été honoré. Il y a eu quelques réactions...

Le 25 mai, 1926, Paris, le « terroriste juif » Sholom Schwartzbard
assassine Simon Vassilievitch Petlioura, militant nationaliste
(1879-1926)
France-Ukraine.com ?
Simon Petlioura - Homme politique ukrainien (Poltava, 1879 - Paris,
1926). Ministre de la Guerre de la République indépendante d’Ukraine
en 1917, Petlioura devint président du directoire ukrainien et hetman
(chef de l’armée) deux ans plus tard.


Proclamée en novembre 1917, la République autonome ukrainienne,
dirigée depuis Kiev par Simon Petlioura, a face à elle, dès décembre
1917, une république soviétique d’Ukraine, soutenue par les
bolcheviques, basée à Kharkiv et dirigée par Rakoski. Occupée
jusqu’en décembre 1918 par les armées allemandes après la signature
du traité de Brest-Litovsk (mars 1918), l’Ukraine, de nouveau dirigée
par le gouvernement de Petlioura, voit se dérouler jusqu’en 1921 de
violents combats qui opposent les armées blanches de Wrangel et
Denikine aux bolcheviques.
En 1920, le gouvernement nationaliste s’allie avec la Pologne dans
une guerre contre la Russie, mais l’avancée des troupes bolcheviques
permet au gouvernement soviétique de prendre le contrôle de
l’Ukraine. Chassé par les bolchevistes en 1920, Simon Petlioura se
réfugia à Paris, où il périt assassiné, abattu à la terrasse d’un
café du Quartier Latin, par un terroriste juif, Schwartzbard pour
venger les pogroms organisés en Ukraine.
L’événement est vite devenu international. Les Américains juifs, par
exemple, ont envoyé de l’argent pour couvrir les frais du procès pour
Schwartzbard. A l’étonnement de certains et à la joie des autres,
Schwartzbard fut acquitté.
Simon Petlioura est enterré au cimetière de Montparnasse à Paris.
France-Ukraine.com
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Lu sur www.menapress)

« Un tueur de Juifs ukrainien honoré sous l'Arc de Triomphe ! »

Jeudi 25 mai 2006 à 17 heures 30, s’est tenue, à Paris, sur la tombe
du soldat inconnu, une commémoration en l’honneur de Simon Petlioura,
ancien chef du gouvernement ukrainien pendant la courte indépendance
de l’Ukraine, qui dura de 1918 à 1920. Petlioura fut responsable de
l’organisation de pogromes qui causèrent la mort de milliers de Juifs
en 1919 et 1920.

Cette commémoration s’est tenue en présence de l’ambassadeur
d’Ukraine en France, Yuriy Sergeyev. Elle marquait le 80ème
anniversaire de la mort du pogromiste ukrainien.

Des dizaines de massacres organisés de Juifs sont à mettre à l’actif
de Petlioura et de son "Armée nationale ukrainienne". Le premier
d’entre eux eut lieu à Orinin, où 5 Juifs furent massacrés, des
femmes juives violées et de nombreuses autres battues à coups de plat
de sabre.

A Brazlav, ce sont 82 Juifs qui furent égorgés et 12 autres blessés,
au cours d'une action d’extermination déclenchée par les alliés et
les supplétifs de Petlioura. En 1920, des unités de l’armée de Simon
Petlioura égorgèrent près de 700 Juifs et en blessèrent 800, au cours
d’un pogrome qui eut lieu à Hodorkov (district de Kiev) et qui dura
près de douze heures.

Le 25 mai 1926, à Paris, un Juif révolutionnaire du nom de Samuel
Schwartzbard, abattit, de six coups de revolver, l’Ukrainien
Petlioura, alors réfugié en France, pour venger sa famille décimée
par ses pogromes. La Ligue contre les Pogroms, à laquelle adhérèrent
notamment Albert Einstein et André Malraux, et qui deviendra plus
tard la Ligue Internationale Contre le Racisme et l’Antisémitisme
(LICRA), fut créée un an plus tard, suite à la médiatisation du
procès de Schwartzbard, qui fut finalement acquitté par la cour
d’assises de la Seine.

Un important dispositif policier avait été mis en place, ce jeudi,
afin d’évacuer, sans préavis, les touristes présents sur toute
l’esplanade de l’Arc de Triomphe au moment de la cérémonie. Une
dizaine de militaires français, en treillis, étaient en outre postés
dans le tunnel faisant la jonction entre les Champs-Élysées et l’Arc
de Triomphe. Une représentation de la LICRA, emmenée par son
président, Patrick Gaubert, par ailleurs député européen, a été
refoulée par la police jusqu’à l’intersection de l’Avenue des Champs-
Élysées et de la Rue de Presbourg.

Un correspondant officiel de la Metula News Agency a assisté à cette
surprenante commémoration. Les officiels français lui ont demandé de
quitter les lieux, mais le représentant de la Ména, ayant rétorqué
qu’il ne quitterait les lieux que s’il était contraint de le faire
par l’usage de la force, a finalement été le seul journaliste
n’appartenant pas à l’organisation de cette commémoration à être en
mesure de couvrir l’événement.

Des représentants de l’Etat français accompagnèrent la cérémonie,
notamment en interprétant des morceaux de musique de circonstance.

NDLR : l’historiographie nationaliste ukrainienne, réhabilitant
Petlioura, estime qu’il n’est pas responsable et aurait même tenté de
limiter les pogromes perpétrés, dit-on, par toutes les armées de la
guerre civile russe – blanche, rouge, anarchiste, nationalistes.