Informazione

L'accusa di uno scrittore americano-nigeriano che vive tra Lagos e
gli Usa

"Caro Occidente smetti di salvare l'Africa"

(la Repubblica, 31 luglio 2007)

UZODINMA IWEALA

L'autunno scorso, poco dopo il mio ritorno dalla Nigeria, mi sono
sentito chiamare da una disinvolta studentessa, una bionda che
portava intorno alla vita un filo di perle africane intonate ai suoi
occhi azzurri. «Salviamo il Darfur!» gridava la ragazza da dietro un
tavolo coperto di opuscoli che esortavano gli studenti a mobilitarsi
subito: «Take Action Now! Stop Genocide In Darfur!».

Data la mia avversione per la facilità con cui gli studenti dei
college si imbarcano nelle cause più in voga, stavo passando oltre;
ma la ragazza mi ha bloccato gridando: «Non vuole aiutarci a salvare
l'Africa?».

A quanto pare, in questi ultimi tempi l'Occidente, oppresso dai sensi
di colpa per la crisi che ha creato in Medio Oriente, si rivolge
all'Africa per redimersi. Studenti idealisti, celebrità come Bob
Geldof e politici come Tony Blair si sentono investiti della missione
di portare la luce nel Continente Nero. E atterrano qui per
partecipare a seminari e programmi di ricerca, o per raccogliere
bambini da adottare - un po' come i miei amici di New York quando
prendono la metropolitana per andare al canile municipale a cercare
un randagio da portarsi a casa.

Questa la nuova immagine che l'Occidente dà di se stesso: una
generazione sexy e politicamente attiva, che per diffondere il verbo
privilegia i paginoni dei rotocalchi con in primo piano la foto di
qualche celebrità, su uno sfondo di africani stremati. E non importa
se a volte le star impegnate nei soccorsi hanno volti emaciati - sia
pure volontariamente - quanto quelli degli affamati che vogliono
soccorrere.

L'aspetto più interessante è forse il linguaggio usato per descrivere
quest'Africa da salvare. Ad esempio, la campagna pubblicitaria di
"Keep a Child Alive" ("Mantieni in vita un bambino"), che ha scelto
lo slogan "Io sono africano", presenta le foto di celebrità
occidentali, per lo più di pelle bianca, con la faccia dipinta di
"segni tribali", sotto la scritta "I am African" in lettere cubitali;
e in basso, in caratteri più piccoli: «Aiutaci a fermare la strage».

Ma per quanto benintenzionate, le campagne di questo genere
promuovono lo stereotipo dell'Africa come una sorta di buco nero di
malattia e di morte. Le notizie di stampa si concentrano
invariabilmente sui leader corrotti del continente, sui signori della
guerra, sui conflitti "tribali", sul lavoro minorile e sulle donne
sfigurate da abusi e mutilazioni genitali. Per di più, queste
descrizioni sono spesso precedute da titoli del tipo: "Riuscirà Bono
a salvare l'Africa?" Oppure: "Brangelina salverà l'Africa?" Anche se
i rapporti tra l'Occidente e il continente africano non sono più
apertamente basati su idee razziste, questi articoli hanno molto in
comune con i resoconti dei tempi d'oro del colonialismo, quando i
missionari europei venivano inviati in Africa per portarci
l'istruzione, Gesù Cristo e la "civiltà".

Non c'è un solo africano che come me non apprezzi gli aiuti
provenienti dal resto del mondo. Ma ci chiediamo fino a che punto
quest'aiuto sia genuino, o se non venga dato nello spirito
dell'affermazione di una superiorità culturale. Mi sento avvilito
quando prendo parte a manifestazioni di solidarietà ove il conduttore
recita l'intera litania dei disastri africani, prima di presentare
qualche personaggio, per lo più bianco e facoltoso, che elenca le sue
iniziative in favore dei poveri africani affamati. Vorrei sparire
ogni volta che sento uno studente benintenzionato descrivere le danze
dei villaggi come segno di gratitudine delle popolazioni per i
soccorsi ricevuti. O quando un regista di Hollywood gira l'ennesimo
film sull'Africa con un occidentale nel ruolo di protagonista -
mentre noi africani, che pure siamo esseri umani in carne ed ossa,
veniamo usati al servizio delle fantasie proiettate dall'Occidente su
se stesso. Queste descrizioni, oltre a passare sotto silenzio il
ruolo preminente del mondo occidentale in molte delle situazioni più
disastrose del continente, ignorano il lavoro incredibile che gli
africani hanno compiuto e continuano a compiere per risolvere i loro
problemi.

Perché i media parlano spesso dell'indipendenza «concessa agli Stati
dell'Africa dai dominatori coloniali», dimenticando le lotte e il
sangue sparso dagli africani per conquistarla? Come mai l'impegno per
l'Africa di Bono o Angelina Jolie sono oggetto di smisurate
attenzioni, mentre l'opera di africani come Nwankwo Kanu o Dikembe
Mutombo è praticamente ignorata? E come si spiega che in Sudan le
esibizioni da cow boy di un diplomatico Usa di medio livello ricevano
più attenzione degli sforzi di numerosi Paesi dell'Unione africana,
che hanno inviato aiuti alimentari e truppe, e si sono impegnati in
negoziati estenuanti nel tentativo di raggiungere un accordo tra le
parti coinvolte in questa crisi?

Due anni fa ho lavorato in Nigeria in un campo di accoglienza per
profughi interni, sopravvissuti a una rivolta che ha causato un
migliaio di morti e circa 200.000 rifugiati. I media occidentali,
fedeli alla solita formula, hanno riportato le notizie delle
violenze, ignorando però gli interventi umanitari in favore dei
superstiti da parte dello Stato e dei governi locali, che non hanno
potuto contare su molti aiuti internazionali. In molti casi gli
assistenti sociali hanno speso, oltre al loro tempo, anche una parte
del loro salario per soccorrere i connazionali in difficoltà. Questa
è la gente che lavora per la salvezza dell'Africa, come tanti altri
in tutto il continente, senza alcun riconoscimento per il loro impegno.

Il mese scorso, il Vertice degli 8 Paesi industrializzati si è
incontrato in Germania con un gruppo di celebrità per discutere, tra
l'altro, su come salvare l'Africa. Io mi auguro che prima del
prossimo incontro di quest'organizzazione ci si renda conto di una
cosa: l'Africa non vuol essere salvata. Ciò che l'Africa chiede al
mondo è il riconoscimento della sua capacità di avviare una crescita
senza precedenti, sulla base di un vero e leale partenariato con gli
altri membri della comunità globale.


(deutsch / english.
More articles on apartheid in occupied, ethnically cleansed Kosovo /
weitere Artikeln ueber Apartheid im besetzen, ethnisch-gesaeuberten Kosovo : 
www.roma-kosovoinfo.com )


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Unabhängig von allen Minderheiten? - Kritik am Ahtisaari-Plan
Thursday, 22 February 2007

Bei Gesprächen in Wien verhandeln bis Anfang März Delegationen der serbischen Regierung und der albanischen Selbstverwaltungsorgane des Kosovo über den Vorschlag des UN-Vermittlers Martti Ahtisaari zur Zukunft Kosovos. Die Interessen der nicht-albanischen und nicht-serbischen nationalen Minderheiten wie Roma, Ashkali, Kosovo-Ägypter oder Gorani bleiben dabei ausgeklammert. Martti Ahtisaari hat sich geweigert, die Vertreter dieser Gruppen am Verhandlungsprozess zu beteiligen. Weder die serbische noch die albanische Seite greift ihre Interessen auf. In einem Autorentext für die Wiener Tageszeitung „Der Standard“ kritisiert Stephan Müller das Vorgehen Ahtisaaris und der beiden Verhandlungsdelegationen. Wir dokumentieren Auszüge aus dem Text, der am 22.2.2007 unter der Überschrift „Unabhängig - von allen Minderheiten?“ erschienen ist.

„Die Kosovo-Albaner, die Vereinigten Staaten und die EU wollten es so: Der Kosovo soll unabhängig werden. Das Ziel ist jetzt zum Greifen nahe. Unter den Kosovo-Albanern wird man kaum einen Menschen finden, der nicht die Unabhängigkeit wünschte. Einige wollen sie mit Gewalt und sofort. Allerdings gibt es auch viele, die Angst vor der Unabhängigkeit haben, denn sie trauen es ihren eigenen Leuten (noch) nicht zu, dass sie einen unabhängigen Staat führen können. Mangelnde Erfahrung, Korruption, keine Aussicht auf eine Verbesserung der wirtschaftlichen Lage und ein zu großer Einfluss von Strukturen, die woanders als organisierte Kriminalität bezeichnet werden würden, sind die Hauptsorgen.

Noch größere Sorgen haben die Nicht-Albaner im Kosovo. Und das sind nicht nur die Serben, sondern auch die Roma, Ashkali, Ägypter, Türken, Bosniaken, Gorani und Kroaten. Sie befürchten, dass es für sie keinen Platz im Kosovo geben wird und sie fragen sich, wohin sie sollen, wenn es für sie keinen Platz im Kosovo gibt. Der Ahtisaari-Vorschlag hat diese Sorgen nur verstärkt, denn die Bedürfnisse und Forderungen all dieser ethnischen Gruppen wurden in dem Vorschlag nicht berücksichtigt. Wie auch - sie wurden ja auch nicht gefragt.

Verquerer Denkansatz

Mit einem verqueren Denkansatz, der bestimmten ethnischen Gruppen bestimmte Rechte zuschreibt, genau diese Rechte aber anderen ethnischen Gruppen zugleich vorenthält und den Ansatz, welcher auf einer Zivil- oder Bürgergesellschaft aufbaut, ignoriert, wird im Europa des 21. Jahrhunderts ein ethnisch definiertes, hierarchisches Kastensystems eingeführt. Mit diesem Anachronismus versucht man nun einen modernen, demokratischen und multi-ethnischen Staat aufzubauen. Ob das wohl gut geht?
Dass die ethnischen Minderheiten im Ahtisaari- Vorschlag nicht berücksichtigt worden sind, ist nur der zynische Höhepunkt der Politik der internationalen Staatengemeinschaft und der letzten Jahre. Es spiegelt auch das Verhältnis der Kosovo-Albaner und der serbischen Regierung zu diesen ethnischen Gruppen wider. Serbien reklamiert zwar, dass Kosovo Teil Serbiens sei, in den Verhandlungen ging es Serbien aber nur um die Rechte und Privilegien der Serben im Kosovo. Eine moderne, demokratisch gesinnte Regierung hätte auch die Verantwortung für ihre anderen "ehemaligen" Staatsbürger übernommen und auch die Bedürfnisse und Forderungen der Roma, Ashkali, Ägypter, Türken, Bosniaken, Gorani und Kroaten vertreten.

Alle zukünftigen Staatsbürger

Und eine kosovo-albanische Regierung, die tatsächlich einen "demokratischen, multi-ethnischen" Kosovo schaffen möchte, hätte in den Verhandlungen auch die Bedürfnisse und Forderungen all ihrer "zukünftigen" Staatsbürger - der Roma, Ashkali, Ägypter, Türken, Bosniaken, Gorani und Kroaten und der Serben - vertreten. Und sie hätte nicht nur ein Gremium mit Angehörigen dieser Volksgruppen eingerichtet, dessen einzige Aufgabe darin besteht, die Vorschläge der Kosovo-Albaner abzunicken. 

Internationale Vermittler, die tatsächlich an einem "multi-ethnischen" Kosovo, in dem alle ethnischen Gruppen gleichberechtigt leben können, interessiert gewesen wären, hätten gerade die Bedürfnisse und Forderungen dieser Gruppen aufnehmen müssen, da es sonst niemand tat - vor allem, weil die Vermittler von den Vereinten Nationen dazu auch den Auftrag bekommen hatten.“
(...)
„In sieben Jahren UN-Verwaltung blieb Gerechtigkeit für die meisten Minderheiten im Kosovo ein Traum. Die meisten Minderheitenangehörigen haben auch das Verhalten der internationalen Streitkräfte im Sommer 1999 nicht vergessen, als die schlimmsten Verbrechen begangen worden sind. Wie z. B. das Roma-Viertel im Mitrovica, einst bewohnt von ca. 8000 Menschen, das von einem albanischen Mob unter den Augen und den Kameras der internationalen militärischen Schutztruppe für den Kosovo niedergebrannt wurde. Zahlreiche Menschen wurden dabei getötet.

Roma leben in menschenunwürdigen Lagern

Es ist auch ein Verbrechen, dass die UN-Verwaltung Roma, die 1999 aus ihren Häusern vertrieben worden sind, in menschenunwürdigen Lagern im Kosovo untergebracht hat, deren Boden extrem mit Blei verseucht war. Dies war den Behörden der Vereinten Nationen über Jahre hinweg bekannt. Doch erst nach sieben Jahren bequemte man sich dazu, sie in andere Lager zu übersenden; aber nicht in ihre ehemaligen Häuser, wie man vielleicht hätte annehmen können. Denn das Land gehört jetzt den Kosovo-Albanern und diese müssen zustimmen, wenn jemand in seinen Heimatort zurückkehren will.
Vor dem Krieg lebten bis zu 150.000 Roma, Ashkali und Ägypter im Kosovo. Jetzt sind es noch 35.000. In Prishtina alleine lebten vor dem Krieg geschätzt ca. 15.000, jetzt ca. 300. Ihre Häuser, ganze Siedlungen sind inzwischen von Albanern bewohnt. Illegal. Und ohne Mietzahlungen, aber mit Duldung der internationalen Staatengemeinschaft und der kosovo-albanischen Politiker.

Minderheiten verlassen den Kosovo

Bis zu 100.000 Serben und um die 100.000 Roma, Ashkali, Ägypter, Türken, Bosniaken, Gorani und Kroaten leben noch im Kosovo. Es sollte zu denken geben, dass während sieben Jahren UN-Verwaltung mehr Minderheitenangehörige den Kosovo verlassen haben, als Vertriebene in den Kosovo zurückgekehrt sind. Und warum und wie soll das in einem unabhängigen Kosovo besser werden?
Bis heute noch trauen sich nur wenige Minderheitenangehörige an der Universität in Prishtina zu studieren. Die Albaner haben ihre Universität in Prishtina, die Serben in Mitrovica. Aber wo sollen die anderen studieren?

Kein Thema

Dies alles war nicht Thema bei den Statusverhandlungen und findet sich auch nicht im Ahtisaari-Vorschlag berücksichtigt. Denn dem verqueren Verständnis des Verhandlungsteams nach ist der Kosovo erstmal für die Albaner und dann für die Serben da (denn ihnen gehört ja jetzt das Land). Dass das jetzt besser werden soll, nachdem mit dem Vorschlag von Ahtisaari kein Hindernis mehr auf dem Weg zur Unabhängigkeit existiert und der Kosovo ab Sommer 2007 unabhängig von Kosovo-Albanern regiert werden soll, kann nur ein Mensch glauben, der nicht daran interessiert ist, dass es anders wird.“


Der Autor war von 2000 bis 2002 Minderheitenbeauftragte der OSZE im Kosovo. Er ist Mitarbeiter des Ludwig-Boltzmann-Instituts für Menschenrechte.


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amnesty journal Juni 2007

**KOSOVO**

*Die ersten Opfer*

*Viele Roma im *Kosovo* leben in täglicher Angst. Die UNO-Verwaltung ist Teil des Problems. *

Von Boris Kanzleiter und Dirk Auer

Agim Shaqiri* schlägt vor, dass wir sein zerstörtes Haus besichtigen
sollen. Wir folgen ihm durch ein paar enge Straßen in ein Ruinenfeld.
Shaqiri deutet auf einen Berg aus Schutt: »Hier haben wir früher
gewohnt.« Dann folgte die Flucht nach Deutschland, drei Kinder kamen
dort zur Welt, und vor zwei Jahren wurde die Familie wieder abgeschoben.
Seitdem leben die Shaqiris zur Untermiete, ein paar hundert Meter von
ihrem alten Haus entfernt. »Wir haben nichts«, seufzt der 41-jährige
Vater. »Ich finde keine Arbeit und die Kinder gehen aus Angst nicht in
die Schule. Meine Frau ist krank.« Die Familie lebt von 50 Euro im
Monat. Das Geld schicken Verwandte aus Deutschland.

Der Ort Vushtrii ist unter Roma und Ashkali -- albanisch sprechenden
Roma -- im ganzen *Kosovo* gefürchtet. Gleich zwei Mal waren die
Minderheiten in dieser Kleinstadt zwischen Mitrovica und Pristina in den
vergangenen Jahren das Ziel von Pogromen albanischer Extremisten. Im
Juni 1999, nach dem Einmarsch der Kfor-Truppen, brannte das Roma- und
Ashkali-Viertel zum ersten Mal. Fast alle 4.000 Bewohner mussten
fliehen. Am 18. März 2004 folgte der zweite Überfall. Die Häuser der
Rückkehrer wurden erneut von hunderten Randalierern mit Molotowcocktails
angegriffen. Heute leben in Vushtrii nur noch wenige Roma- und
Ashkali-Familien. Während der UNO-Sicherheitsrat in diesen Wochen über
den zukünftigen völkerrechtlichen Status der Provinz debattiert, geht
bei ihnen erneut die Angst um: »Falls es zu neuer Gewalt kommt, sind wir
die ersten Opfer«, fürchtet Agim Shaqiri.

Die Situation in Vushtrii ist besonders beklemmend, sie ist im *Kosovo*
aber kein Einzelfall. Das European Roma Rights Center (ERRC) in Budapest
schätzt, dass im Sommer und Herbst 1999 über zwei Drittel der etwa
120.000 Roma und Ashkali aus der Provinz vertrieben wurden. Es war die
umfassendste »ethnische Säuberung« von Roma nach dem Zweiten Weltkrieg.
Weil sich einige Roma-Politiker vor 1999 loyal zum Regime von Slobodan
Milosevic verhalten hatten, nahmen albanische Extremisten im Anschluss
an das Nato-Bombardement alle Roma als »Kollaborateure der Serben« in
Kollektivhaftung. Heute bezeichnen einige frühere UCK-Führer, wie der
ehemalige *Kosovo*-Premierminister Bajram Rexhepi, die Ausschreitungen
als »Schande«. Aber trotz aller Bekenntnisse in Pristina zum Aufbau
einer »multikulturellen Gesellschaft« bleiben das Gefühl von Misstrauen
und die alltägliche soziale und räumliche Segregation.

Nicht zuletzt ist dafür auch die internationale Kfor-Truppe und die
Politik der UNO-Übergangsverwaltung verantwortlich. Wie Augenzeugen
berichten, hat die im Juni 1999 in den *Kosovo* eingerückte
*Kosovo*-Truppe die Pogrome nicht gestoppt. Die Abwesenheit von Schutz
durch staatliche Sicherheitsorgane ist ein zentrales Problem der
Diskriminierung von Roma in ganz Osteuropa. In der nationalistisch
aufgeladenen Atmosphäre im *Kosovo* kann das zur Vertreibung von
Tausenden führen.

Zum Gefühl ständiger Unsicherheit trägt auch die Straflosigkeit für die
Kriegsverbrechen bei. Wie die hochrangige Funktionärin der UNO-Mission
im *Kosovo* (UNMIC) Patricia Waring einräumt, haben die von der
internationalen Gemeinschaft aufgebauten Justizorgane im *Kosovo* bisher
keinen der Täter vor Gericht gestellt, die an der systematischen
Vertreibungswelle gegen die Roma beteiligt waren. Damit sei auch nicht
mehr zu rechnen. »Es ist zu viel Zeit vergangen«, sagt Waring. Auch das
Kriegsverbrechertribunal in Den Haag hat in diesem Fall keine einzige
Anklage erhoben.

Das Klima der fortgesetzten Straflosigkeit hat in den vergangenen Jahren
eine tiefe Kluft des Misstrauens geschaffen. Verstärkt wird diese
Distanz durch die Verhandlungen um den zukünftigen völkerrechtlichen
Status des *Kosovo*. Während sich die albanische Bevölkerungsmehrheit
von der angestrebten Unabhängigkeit eine schnelle Lösung der drängenden
sozialen und politischen Probleme erhofft, bestehen die Regierung in
Belgrad und die *Kosovo*-Serben auf die territoriale Integrität
Serbiens. Die Roma und Ashkali als drittgrößte ethnische Gruppe wurden
bei den Verhandlungen vollständig übergangen. UNO-Vermittler Martti
Ahtisaari weigert sich seit 16 Monaten -- trotz zahlreicher Initiativen
von Roma- und Ashkali-Organisationen -- auch nur eine Delegation ihrer
Vertreter zu empfangen. Der frühere Minderheitenbeauftragte der OSZE im
*Kosovo*, Stephan Müller, bezeichnet sein Vorgehen als »zynischen
Höhepunkt der Politik der internationalen Staatengemeinschaft« im *Kosovo*.

Der ehemalige Präsident der Internationalen Romani Union und Abgeordnete
im serbischen Parlament, Rajko Djuric', gibt die Meinung vieler Roma und
Ashkali aus dem *Kosovo* wieder. Er sagt, dass die »volle Durchsetzung
der Menschen- und Bürgerrechte Priorität vor allen territorialen Fragen«
haben sollte. Genau das Gegenteil ist jedoch der Fall.
EU-Erweiterungskommissar Olli Rehn warnt vor »Chaos« auf dem Balkan,
falls *Kosovo* nicht bald für unabhängig erklärt wird. Vor allem die
US-Diplomatie macht Druck für eine schnelle Lösung und warnt vor einem
neuen Aufstand albanischer Nationalisten. Die serbischen
Regierungsorgane warnen dagegen ihrerseits vor eine Welle der Gewalt,
falls *Kosovo* gegen den Willen von Belgrad völkerrechtswidrig von
Serbien abgespalten würde. Ein Kompromiss scheint unmöglich. Die Angst
von Agim Shaqiri in Vushtrii hat gute Gründe.

Verstärkt werden die Probleme für die im *Kosovo* lebenden Roma und
Ashkali durch ein Rückführungsabkommen, das im Frühjahr 2005 zwischen
der Bundesrepublik und der UNMIK geschlossen wurde. Die abgeschobenen
Familien stehen buchstäblich mit leeren Händen da. Die UNO-Verwaltung
erklärt, die soziale Integration der Rückkehrer falle in die
Verantwortung der Gemeinden. Doch die spielen den Ball zurück: Bei einer
Arbeitslosigkeit von offiziell über 40 Prozent und einem monatlichen
Durchschnittseinkommen von rund 250 Euro gibt es im *Kosovo* kaum
Verständnis für die Nöte von abgeschobenen Flüchtlingen.

Bisher wurden vor allem albanisch sprechende Ashkali abgeschoben, deren
Sicherheitssituation die deutschen Innenminister der Länder trotz der
Übergriffe im März 2004 als zufrieden stellend bezeichnen. Die
eigentliche Abschiebewelle, so ist zu befürchten, steht allerdings erst
noch bevor. Wenn die Unabhängigkeit *Kosovo*s durchgesetzt ist und die
UNMIK durch eine von der EU geleitete Mission ersetzt wird, fällt auch
der bislang geltende Abschiebestopp für die serbisch sprechenden Roma.
Insgesamt 38.000 Roma, Ashkali und Ägypter aus dem *Kosovo* leben noch
mit einem ungesicherten Status in Deutschland.

Die Autoren sind freie Journalisten und leben in Belgrad. Sie betreiben

* Name geändert


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Amnesty International Report 2007: Discrimination of Minorities in Kosovo
Thursday, 24 May 2007

According to Amnesty International's annual report, which covers the state of human rights in 153 countries, ethnic minorities continue to face serious discrimination in the Serbian province Kosovo. Acts of violence that are motivated by ethnic hatred are hardly prosecuted; the number of return migrants to Kosovo remains low. People who have been forcibly returned to Kosovo by EU member states receive almost no support by public authorities, critizes AI.

 

 

Amnesty International Report 2007

KOSOVO

An UNMIK regulation in February effectively withdrew the jurisdiction of the Ombudsperson’s Office over UNMIK. The Human Rights Advisory Panel, proposed as an alternative mechanism on 23 March, failed to provide an impartial body which would guarantee access to redress and reparations for people whose rights had been violated by UNMIK. It had not been constituted by the end of 2006. Recommendations to strengthen protection for minorities by the Advisory Committee on the Framework Convention for the Protection of National Minorities, made public in March, were not implemented. The UN Human Rights Committee criticized the lack of human rights protection in Kosovofollowing consideration of an UNMIK report in July. In November the European Court of Human Rights considered the admissibility of a case against French members of the NATO-led Kosovo Force (KFOR) brought by the father of a 12-year-old boy killed in May 2000 by an unexploded cluster bomb that the troops had failed to detonate or mark. His younger son was severely injured.

Inter-ethnic violence

Impunity continued for the majority of perpetrators of ethnically motivated attacks. Most attacks involved the stoning of buses carrying Serb passengers by Albanian youths. In some cases, grenades or other explosive devices were thrown at buses or houses, and Orthodox churches were looted and vandalized. Three predominantly Serbian municipalities declared a “state of emergency” on 2 June following attacks they considered ethnically motivated, and announced a boycott of the UNMIK police and the Kosovo Police Service (KPS). Additional international police were deployed and ethnic Albanian KPS officers withdrawn. 

  • On 1 June, a Serbian youth was shot dead on the road between Zvečan/Zveçan and Žitkovac/Zhitkoc.
  • On 20 June, a 68-year-old Serbian man who had returned the previous year to Klinë/a was reportedly shot dead in his own house.
  • In June, two Romani families reportedly left the village of Zhiti/Žitinje after an incident in which an ethnic Albanian was later arrested.

War crimes trials

Impunity for war crimes against Serbs and other minorities continued.

  • On 11 August former KLA member Selim Krasniqi and two others were convicted before an international panel of judges at Gnjilanë/Gjilan District Court of the abduction and ill-treatment at a KLA camp in 1998 of ethnic Albanians suspected of collaborating with the Serb authorities. They were sentenced to seven years’ imprisonment. A visit to Selim Krasniqi in prison by Prime Minister Agim Çeku provoked an outcry. UNMIK police failed to conduct investigations into outstanding cases of abducted members of minority communities.
  • On 13 October the bodies of 29 Serbs and other non-Albanians exhumed in Kosovo were handed over to the Serbian authorities and to families for burial in Belgrade.

Excessive force by police

  • On 25 May, 33 women, 20 children and three men required treatment for exposure to tear gas and other injuries after UNMIK police beat people and used tear gas in the village of Krusha e Vogël/Mala Kruša. Women had surrounded a convoy of armoured UNMIK vehicles escorting defence lawyers for Dragoljub Ojdanić, indicted by the Tribunal with responsibility for the murder of over 100 men and boys in the village in 1999. An UNMIK inquiry found that the police had used reasonable force, but acknowledged that the incident could have been avoided with adequate preparation.
  • On a number of occasions, UNMIK and KPS officers used excessive force in peaceful demonstrations against UNMIK and the Kosovo status talks by members of the non-governmental Vetëvendosje! (Self Determination!) organization.
  • On 23 August, 15 people were reportedly ill-treated following arrest at Priština police station. The Acting Ombudsperson asked the prosecutor to open an investigation in the case of one man whose arm and nose were broken and eyes injured.
  • On 6 December the commander of Peja/Peć KPS and two KPS officers were suspended following a detainee’s death in custody.

Discrimination

  • Most Romani, Ashkali and Egyptian families living on lead-contaminated sites near Mitrovicë/a voluntarily moved to a former military camp at Osterode at the beginning of 2006. Some Roma remained at one site until it was destroyed by fire. There was a lack of meaningful consultation with the communities before relocation and on the rebuilding of their former homes in the Romani neighbourhood of south Mitrovicë/a. Some of the community returned to newly built houses in December. In February the European Court of Human Rights decided it was not competent to rule on a petition by the communities that their economic and social rights had been violated, on the grounds that UNMIK was not a party to the European Convention on Human Rights.
  • In early 2006, a senior KPS officer was reportedly removed from his post and other officers given training after a complaint to the UNMIK police commissioner by two gay men. After being assaulted on 31 December 2005 in a village outside Priština, they had been taken to hospital by KPS officers and asked to file a complaint, but were later subjected to insulting and degrading abuse when their sexual orientation was discovered. Officers told them, incorrectly, that homosexuality was unlawful in Kosovo.

Refugee returns

The rate of return of people displaced by the conflict in Kosovo remained low, although it was reported in June that some 400 Serbs had agreed to return to Babush village near Ferizaj/Uroševac. Those forcibly returned to Kosovo from EU member states were rarely provided with support and assistance by the authorities. 

Violence against women

Up to three cases a day of domestic violence were reported by the UNMIK police. The Ministry of Justice and Social Welfare agreed in July to provide funding for the women’s shelter in Gjakova/Ðakovica, and promised financial support for other shelters. Trafficking for the purposes of forced prostitution continued to be widespread. Reportedly, 45 criminal proceedings related to trafficking were taking place in
July. Little progress was made in implementing the Kosovo Action Plan of Trafficking, published in 2005.

AI country reports/visits

Reports
  • Europe and Central Asia: Summary of Amnesty International’s concerns in the region, January-June
  • 2006 (AI Index: EUR 01/017/2006)
  • Kosovo/Kosova (Serbia): Human rights protection in post-status Kosovo/Kosova – Amnesty International’s recommendations relating to talks on the final status of
  • Kosovo/Kosova (AI Index: EUR 70/008/2006)
  • Kosovo (Serbia and Montenegro): United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK) – Conclusions of the Human Rights Committee, 86th Session, July 2006 (AI Index: EUR 70/011/2006)
  • Kosovo (Serbia): The UN in Kosovo – a legacy of impunity (AI Index: EUR 70/015/2006)6)

Visit
AI delegates visited Kosovo in April.




L’indipendenza del Kosovo di Bush e perché dobbiamo opporci

di Fosco Giannini , Don Andrea Gallo , Enrico Vigna

su Liberazione del 27/07/2007

Dopo otto anni rimangono devastazione e separazione figlie delle violazioni del diritto internazionale

E’ degli ultimi giorni la notizia ( che ha avuto, significativamente, poca eco) che gli Usa stanno forzando sull’ONU e sul Gruppo di Contatto per ottenere l’indipendenza del Kosovo Metohja, un obiettivo che Bush sta perseguendo da tempo e che sarebbe devastante per l’intera regione balcanica e fonte di nuove e pericolose acutizzazioni dello scontro già in atto tra Usa e Russia sullo “scudo spaziale” europeo. Anche da questo punto di vista la questione Kosovo M. appare più che mai centrale. E da riproporre con decisione nel dibattito politico.
Il 24 marzo 1999 ebbe inizio l’aggressione della Nato alla Repubblica Federale Jugoslava: 78 giorni di bombardamenti, condotti da cacciabombardieri Nato e italiani, anche sulle infrastrutture civili del territorio della Serbia e Montenegro. Giustificata come “umanitaria”, fu una guerra che oggi si vuole - per vergogna? Per coprirne gli orrori? - rimuovere. Essa aveva l’obbiettivo ufficiale “di portare in quella provincia jugoslava la multietnicità, la multireligiosità e un sistema democratico in grado di impedire pulizie etniche contro i kosovari albanesi; fermare le violenze, garantire sviluppo, pace e tolleranza”. Buoni propositi, come per ogni guerra imperialista, visto che il prodotto finale di quella guerra è stato quello di versare più sangue, seminare più divisioni, più odio e molta più miseria sociale.
Dopo otto anni, e 30.0000 militari Onu e Kfor avvicendatisi, secondo le varie fonti Onu, Osce, Kfor, Unmik, niente di tutto quello promesso è stato mantenuto o raggiunto. Il Kosovo M., oggi, è solo una drammatica realtà, il prodotto unico delle violazioni del diritto internazionale. Dati inquietanti rappresentano il fallimento di una missione che tutto ha generato tranne la pace, che ha devastato terra e uomini con i proiettili all’uranio impoverito, compromettendo per lungo tempo la vita di un popolo e lo sviluppo sociale. Neanche i luoghi generalmente considerati sacri sono stati risparmiati: 148 tra chiese e monasteri ortodossi sono stati distrutti.
Il quadro economico evidenzia maggiormente quanto la guerra abbia pesantemente influito sul futuro del Paese. Si registra l’80% di disoccupazione; le attività produttive sono completamente distrutte e l’agricoltura si è ridotta del 60%. Diritti sociali, civili, religiosi, politici: nessuno di questi è oggi praticabile o garantito. La popolazione non albanese vive in “enclavi”, aree circoscritte, in regime d’apartheid.
In questa situazione, l’ex mediatore Onu Athisaari aveva consegnato al Consiglio di Sicurezza un rapporto (su pressioni di Usa e Germania, paese simbolo del neo imperialismo europeo, che torna - dopo il ruolo giocato nello smembrare la Jugoslavia - a svolgere un compito nefasto) col quale si affermava che nel Kosovo M. esistevano gli standard minimi di democrazia e sicurezza per poter concedere l’indipendenza. La “linea Athisaari”, volta a far concedere dall’Onu l’indipendenza al Kosovo M., è stata tuttavia fermata dall’iniziativa di Russia e Cina, che si sono decisamente opposte all’indipendenza e hanno bloccato la discussione al Consiglio dell’Onu ottenendo che passasse al Gruppo di Contatto sul Kosovo M. ( Gruppo formato da Gran Bretagna, Francia, Usa, Italia, Russia, Germania). Un buon risultato, quello di Russia e Cina, che sospende un dramma, ma sconta il limite di aver portato il dibattito in una sede (il Gruppo di Contatto) ove gli USA possono esercitare ancora una forte pressione.
Se è grave, come dicevamo, il nuovo e scientifico attacco di Bush alla Serbia e alla Russia, contenuto nella scelta azzardatissima di premere per l’indipendenza del Kosovo M., altrettanto grave è il fatto che non solo il ministro degli esteri D’Alema - il quale decretò l’adesione dell’Italia all’aggressione della Rfj nel ’99, in qualità di Primo Ministro - ma lo stesso Prodi hanno caldeggiato il processo di indipendenza. Appare ormai chiaro che la definizione dello status di indipendenza del Kosovo M. è un ulteriore tassello della strategia di espansione egemonica e geopolitica Usa e Nato; strategia che un governo di centro sinistra non dovrebbe sostenere, se intendesse, ancora, differenziarsi da un governo di destra. Cosa è possibile fare nel nostro Paese per non essere complici di un ennesimo atto di ingiustizia e illegalità internazionale? Come possiamo impedire l’ultimo – e tragico – smembramento della ex Jugoslavia? Fondamentale sarebbe l’impegno dei senatori e dei deputati comunisti e della sinistra di alternativa, che dovrebbero illuminare la “questione Kosovo” e battersi, incrociando la loro iniziativa con il movimento per la pace, per mettere in discussione l’attuale posizione del governo, chiedendo il rilancio della mediazione delle Nazioni Unite e la prosecuzione delle trattative tra le parti. Ma anche il movimento per la pace dovrebbe impegnarsi per togliere dal buio politico e mediatico la questione Kosovo Metohija, comprendendo e facendo comprendere a livello di massa che la questione Kosovo non è solo un “fatto in sé”, come molti vorrebbero liquidarlo, ma un possibile e verosimile casus belli di una nuova e grave crisi europea ed internazionale. E’ necessario un confronto per costruire una politica estera indipendente, basata sul diritto internazionale, fondata sulla ricerca di soluzioni pacifiche e negoziali dei conflitti. Solo questo costituirebbe una svolta innovativa rispetto ai precedenti governi; solo questo dimostrerebbe una diversa natura del governo Prodi, che, diversamente, consumerebbe sino in fondo il proprio residuo rapporto con il popolo di sinistra e col popolo della pace, finendo per rinchiudersi desolatamente nelle piazze vuote del governismo senza popolo.

Fosco Giannini Senatore Prc, direttore de “ l’Ernesto”
Don Andrea Gallo Coordinatore Comunità di S. Benedetto Genova
Enrico Vigna Portavoce del Forum Belgrado Italia.



(deutsch / francais)


--- francais ---


Comment le parti de la guerre mondiale embrigade les ONG pour la guerre

ONG : De l’aide à la collaboration

par German Foreign Policy

27 JUILLET 2007

Depuis
Cologne (Allemagne)

Le gouvernement de Berlin a utilisé sa présidence du Conseil européen, qui s’est terminée le 30 juin, pour intégrer les ONG dans la politique militaire européenne. Cela ressort des documents de travail du ministère des Affaires étrangères et de la Fondation Bertelsmann. Les ONG (les organisations non gouvernementales) sont associées aux services de l’Etat par des subventions ; le but est de faire accompagner les opérations militaires à l’étranger par de l’aide civile et humanitaire. Le résultat en est que la distinction entre les forces militaires d’occupation et les secouristes non militaires est effacée. Des critiques y voient une raison des attaques croissantes contre les collaborateurs des ONG humanitaires dans les territoires occupés par les troupes occidentales, qui se terminent toujours plus souvent par la mort – 83 fois l’an dernier. Berlin et Bruxelles utilisent le danger croissant que courent les ONG pour les faire participer à un « système mondial d’information pour la sécurité ». Il servirait à mettre systématiquement les informations captées par des civils à disposition de l’armée. Les représentants de grandes ONG critiquent de manière acerbe leur instrumentalisation par des gouvernements.

La priorité

L’intégration d’ONG dans la Politique européenne de sécurité et de défense (PESD) est de première priorité pour Berlin, apprend-on dans un document du ministère des Affaires étrangères qui informe sur les conférences, sur la coopération des institutions de l’UE et des organisations non gouvernementales. Pendant la présidence allemande, ont eu lieu à Bruxelles cinq rencontres lors desquelles des services de l’UE ont discuté avec des collaborateurs supérieurs des ONG (« field experts ») comment leurs organisations pourraient être intégrées le plus tôt possible dans le planning et la réalisation de missions PESD. Entre temps, Bruxelles entretient un comité spécial pour le rattachement institutionnalisé des ONG (« Committee for the Civilian Aspects of Crisis Management – Civ-Com »). Il a le devoir d’analyser les « aspects civils » de « la gestion des crises » militaires [1].

Les instruments

Un rôle décisif est destiné aux ONG europé­ennes pour la création et la transformation de la police et la justice dans les territoires actuels et futurs d’intervention de l’UE. En tant que « Global player », Bruxelles disposerait d’une multitude d’instruments en matière de politique, de développement et de sécurité (« political, developmental and security tools ») pour « réformer le secteur de la sécurité » au sein des états concernés, peut-on apprendre lors d’un congrès organisé par le ministère des Affaires étrangères et la Fondation Bertelsmann (« Partners in Conflict Prevention and Crisis Management : EU and NGO Cooperation »). Les ONG doivent coopérer aux mesures par la formation du personnel (« training ») et la formation de la conscience publique (« awareness-raising ») ; car c’est uniquement ainsi que des autorités judiciaires et policières « fiables » (« Transitional Justice ») peuvent être créées [2].

L’expérience

Parmi les sujets principaux traités lors de ce congrès de Berlin se trouvaient ainsi les missions policières de l’UE en Afghanistan, au Kosovo, en République démocratique du Congo, en Palestine et en Bosnie-herzégovine. Les ONG participantes, dont Swisspeace et amnesty international, ont d’abord été « informées » de l’« utilité » des interventions de l’UE par des représentants du ministère des Affaires étrangères et du European Peacebuilding Liaison Office (EPLO), qui est une plate-forme européenne d’ONG. Puis les représentants des ONG ont eu l’occasion de transmettre aux organisateurs du congrès leurs connaissances des états nommés et des situations spécifiques de conflits qui y règnent (« conflict settings »). Selon les organisateurs, on assure – par la sélection ciblée et la préparation des représentants des ONG – une importance maximale aux informations transmises [3]. L’utilisation des connaissances des ONG, qui peuvent espérer une franchise inconditionnelle de la part de la population dans les territoires occupés, compte parmi les éléments les plus importants de cette collaboration. C’est pourquoi les représentants des ONG étaient aussi invités à une autre conférence internationale (titre : « Paix et justice ») que le ministère des Affaires étrangères a organisé début juillet pour traiter notamment de « la réforme du secteur de la sécurité ». Le critère pour la sélection des ONG était « l’importance de leurs connaissances ».

Les informateurs

Aujourd’hui déjà, de nombreuses ONG sont des informateurs directs pour les opérations militaires. Ils entrent les données sur la situation actuelle de sécurité, récoltées dans des régions d’intervention à l’étranger, dans le système électronique « Safety Information Reporting Service » (SIRS). La banque de données a été développée par les groupes leader de logiciels (Microsoft, Yahoo) à la demande de la « Crisis Management Initiative » (CMI) de l’émissaire spécial de ONU pour le Kosovo, Martti Ahtisaari. Cette banque de données est ouverte aux ONG et aux militaires depuis 2005 [4].

Utilisation à long terme

Le ministère des Affaires étrangères et la Fondation Bertelsmann exigent que l’UE, par la mise à disposition de moyens financiers, crée des capacités utilisables à long terme chez les ONG dont elle compte parmi les financiers les plus importants. Aussi faut-il désigner des « officiers de liaison pour ONG » au sein de la Commission européenne pour pouvoir – lors d’opérations militaires – profiter à tout moment des connaissances des informateurs non gouvernementaux. En outre, les ONG doivent aussi être recensées et évaluées à l’aide de critères d’utilité gouvernementale (« mapping and ranking ») pour garantir dans tout scénario d’intervention imaginable le choix du « meilleur partenaire » [5].

Complémentaire à l’armée

Selon le jugement de Pierre Micheletti, directeur de l’organisation humanitaire internationale « Médecins du Monde », la dépendance des moyens financiers de l’UE amène actuellement déjà beaucoup d’ONG à « participer à des programmes qui les transforment en véritables prestataires de services, pour ainsi dire stratégiquement complémentaires à l’armée ». Par la suite, les ONG sont identifiées aux troupes d’intervention de leurs pays d’origine et déclarées comme cible militaire légitime par les opposants à l’occupation. En 2006, cela a coûté la vie à 83 humanitaires – selon Micheletti ce nombre correspond « au triple du nombre des soldats tués lors de missions de paix de l’ONU ». Le directeur de « Médecins du Monde » met instamment en garde contre « la constante apparition en commun de soldats et d’humanitaires » qui change de façon définitive et irrévocable l’image des ONG : « Si le chevauchement […] des intérêts et des apparences s’enracinent dans la perception publique, toute la logique de l’aide « sans frontières » serait remise en question » [6] – les humanitaires deviennent des collabos.





[1] European Peacebuilding Liaison Office/Crisis Management Initiative/Bertelsmann-Stiftung : Partners in Conflict Prevention and Crisis Management. EU and NGO Cooperation. Federal Foreign Office, Berlin 20–21/6/07. Conference Background Papers

[2] ibid.

[3] International Conference « Building a Future on Peace and Justice », Nuremberg 25– 27/6/07 ; www.peace-justice-conference.info

[4] Crisis Management Initiative : Launching SIRS : The Safety Information Reporting Service.

[5] European Peacebuilding Liaison Office/Crisis Management Initiative/Bertelsmann-Stiftung, loc. cit.

[6] Pierre Micheletti : Schutzlose Helfer ; Le Monde diplomatique du 8/6/07



--- deutsch ---


Von Helfern zu Kollaborateuren 

01.07.2007

BERLIN/NÜRNBERG/GÜTERSLOH (Eigener Bericht) - Die Berliner Regierung hat ihre gestern beendete Ratspräsidentschaft zur weiteren Einbindung nichtstaatlicher Hilfsorganisationen in die europäische Militärpolitik genutzt. Dies geht aus Arbeitspapieren des Auswärtigen Amts und der Bertelsmann-Stiftung hervor. Die NGOs (Non-Governmental Organizations, Nicht-Regierungsorganisationen) werden mit finanziellen Zuwendungen an staatliche Stellen gekoppelt; Ziel ist die zivil-humanitäre Flankierung militärischer Gewaltoperationen im Ausland. Im Ergebnis verwischen die Unterschiede zwischen militärischen Besatzungskräften und nichtmilitärischen Besatzungshelfern. Kritiker sehen darin einen Grund für die zunehmenden Angriffe auf Mitarbeiter ziviler Hilfsorganisationen in Einsatzgebieten westlicher Truppen, die immer öfter tödlich enden - im vergangenen Jahr 83 Mal. Berlin und Brüssel nutzen die steigende Gefährdung der NGOs, um die Organisationen zur Mitarbeit an einem weltumspannenden "Sicherheitsinformationssystem" zu bewegen. Es soll die zivil gewonnenen Erkenntnisse systematisch dem Militär zur Verfügung stellen. Vertreter großer NGOs üben scharfe Kritik an ihrer staatlichen Instrumentalisierung.

Priorität

Die Einbindung von NGOs in die Europäische Sicherheits- und Verteidigungspolitik (ESVP) habe für Berlin "Priorität", heißt es in einem Papier des Auswärtigen Amtes, das über Konferenzen zur Kooperation von EU-Institutionen und Nicht-Regierungsorganisationen Auskunft gibt. Während der deutschen EU-Ratspräsidentschaft fanden in Brüssel mindestens fünf Treffen statt, bei denen EU-Stellen mit leitenden Mitarbeitern von NGOs ("field experts") diskutierten, wie deren Organisationen frühzeitig in Planung und Durchführung sogenannter ESVP-Missionen einbezogen werden können. Brüssel unterhält mittlerweile eigens ein Komitee für die institutionalisierte Anbindung von NGOs ("Committee for the Civilian Aspects of Crisis Management - CivCom"). Es soll "zivile Aspekte" des militärischen "Krisenmanagements" ausloten.[1]

Instrumente

Eine entscheidende Rolle wird den europäischen NGOs beim Auf- und Umbau von Justiz und Polizei in aktuellen und zukünftigen EU-Interventionsgebieten zugedacht. Brüssel verfüge als "global player" über eine Vielzahl entwicklungs- und sicherheitspolitischer Instrumente ("political, developmental and security tools") zur "Reform des Sicherheitssektors" in den betroffenen Staaten, heißt es anlässlich einer Tagung von Auswärtigem Amt und Bertelsmann-Stiftung ("Partners in Conflict Prevention and Crisis Management: EU and NGO Cooperation"). NGOs sollen durch Ausbildung des Personals ("training") und öffentliche Bewusstseinsformung ("awareness-raising") an den Maßnahmen mitwirken, denn nur so seien "verlässliche" Justiz- und Polizeibehörden zu installieren ("Transitional Justice").[2]

Erfahrung

Zu den zentralen Themen der Berliner Tagung gehörten daher die Polizeimissionen der EU in Afghanistan, Kosovo, der Demokratischen Republik Kongo, Palästina und Bosnien-Herzegowina. Die teilnehmenden NGOs, darunter Swisspeace und Amnesty International, wurden zunächst von Vertretern des Auswärtigen Amts und des European Peacebuilding Liaison Office (EPLO), einer europaweiten Plattform von NGOs, über die "Nützlichkeit" der EU-Interventionen gebrieft. Danach erhielten die NGO-Vertreter die Möglichkeit, ihr Wissen über die genannten Staaten und über die spezifischen dortigen Konfliktlagen ("conflict settings") an die Tagungsorganisatoren weiterzugeben. Durch die gezielte Auswahl ("selection") und Vorbereitung ("preparation") der NGO-Repräsentanten sei eine maximale Relevanz ("maximum relevance") der von ihnen übermittelten Informationen sichergestellt worden, erklärten die Veranstalter.[3] Die Nutzung des Wissens von NGOs, die auf vorbehaltlose Offenheit unter der Bevölkerung der Interventionsgebiete hoffen können, gehört zu den wichtigsten Elementen der Kollaboration. Daher waren NGO-Vertreter auch zu einer weiteren internationalen Konferenz eingeladen (Titel: "Frieden und Gerechtigkeit"), die das Auswärtige Amt unter anderem zum Thema "Reform des Sicherheitssektors" in der vergangenen Woche abhielt. Kriterium der NGO-Auswahl war deren "relevante Erfahrung".[4]

Zuträger

Bereits heute sind zahlreiche NGOs unmittelbare Zuträger für Militäroperationen. Sie speisen Daten, die sie in ausländischen Interventionsgebieten über die dortige Sicherheitslage erhoben haben, in das elektronische System "Safety Information Reporting Service" (SIRS) ein. Die Datenbank wurde im Auftrag der "Crisis Management Initiative" (CMI) des UN-Sonderbeauftragten für den Kosovo, Martti Ahtisaari, von führenden Softwarekonzernen (Microsoft, Yahoo) entwickelt und steht seit 2005 sowohl NGOs wie auch Militärs offen.[5]

Langfristig nutzbar

Wie Auswärtiges Amt und Bertelsmann-Stiftung fordern, soll die EU bei den NGOs, zu deren bedeutendsten Finanziers sie zählt, durch gezieltes Bereitstellen von Geldmitteln langfristig nutzbare Kapazitäten aufbauen. Auch müssten "NGO-Verbindungsoffiziere" bei der EU-Kommission eingesetzt werden, um im Verlauf von Militäroperationen jederzeit das Wissen nichtstaatlicher Informanten abrufen zu können. Zudem soll eine Erfassung und Bewertung der NGOs anhand staatlicher Nützlichkeitskriterien ("mapping and ranking") gewährleisten, dass für jedes denkbare Interventionsszenario der "richtige Partner" ausgewählt werden kann.[6]

Komplementär zum Militär

Nach dem Urteil von Pierre Micheletti, Vorsitzender der internationalen Hilfsorganisation "Médecins du Monde" ("Ärzte der Welt") bringt die Abhängigkeit von EU-Finanzmitteln viele NGOs bereits jetzt dazu, sich "in Programme einzubringen, die sie regelrecht zu Dienstleistern umfunktionieren, quasi strategisch komplementär zum Militär". In der Folge werden NGOs mit den Interventionstruppen ihrer Herkunftsländer identifiziert und von den Gegnern der Besatzung zum legitimen militärischen Ziel erklärt. 2006 haben diese Umstände 83 humanitäre Helfer das Leben gekostet - das sind "dreimal so viel, wie Soldaten im Verlauf von UN-Friedensmissionen getötet wurden", sagt Micheletti. Der Vorsitzende von "Médecins du Monde" warnt eindringlich vor einem "beständige(n) Doppelauftritt von Militärs und humanitären Helfern", der das Image der NGOs "unwiderruflich und definitiv" verändert: "Sollte sich die Überlappung von (...) Interessen und Erscheinungsbildern in der öffentlichen Wahrnehmung festsetzen, wäre die komplette Logik der Hilfe 'ohne Grenzen' in Frage gestellt" [7] - aus Helfern werden Kollaborateure.



[1], [2], [3] European Peacebuilding Liaison Office/Crisis Management Initiative/Bertelsmann-Stiftung: Partners in Conflict Prevention and Crisis Management. EU and NGO Cooperation. Federal Foreign Office, Berlin 20./21.06.2007. Conference Background Papers
[4] International Conference "Building a Future on Peace and Justice", Nuremberg 25.-27.6.2007; www.peace-justice-conference.info
[5] Crisis Management Initiative: Launching SIRS: The Safety Information Reporting Service. Conference on Crisis Management and Information Technology, Saint Paul de Vence 11.-14.12.2005. Conference Report
[6] European Peacebuilding Liaison Office/Crisis Management Initiative/Bertelsmann-Stiftung: Partners in Conflict Prevention and Crisis Management. EU and NGO Cooperation. Federal Foreign Office, Berlin 20./21.06.2007. Conference Background Papers
[7] Pierre Micheletti: Schutzlose Helfer; Le monde diplomatique 08.06.2007




( Sul caso del linciaggio, non solo mediatico, subito da una donna rumena nell'Italia razzista del 2007, si veda anche: 
"Presunzione di colpevolezza per la rumena presunta rapitrice di bimbo" di G. Carotenuto,
<< Bimbo sequestrato da rom, "caso di psicosi"
Il gip scarcera la donna romena accusata di aver tentato di sequestrare il piccolo di tre anni. L'unica testimone ha ritrattato. >>
<< Palermo: Romena Accusata Tentato Sequestro Bimbo, Mi Hanno Picchiato In Carcere >>

Sulla disinformazione strategica in merito ad "Al Qaeda" - dall'11 Settembre fino agli attentati di Londra ed oltre - abbiamo diffuso in questi anni molte decine di preziosi articoli, in varie lingue, tutti reperibili nel nostro archivio:



La guerra, il razzismo, le false notizie e il diritto all’ignoranza

La “zingara” di Palermo era del tutto innocente, e non c’è mai stato nessun tentato sequestro di bambini in spiaggia a Isola delle Femmine. Anche la cellula di Al Qaeda formata da medici musulmani presunti terroristi, che era sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo tre settimane fa, non è mai esistita. Nel silenzio osceno dei media, sono stati scagionati tutti. La “società aperta” è sotto attacco. Ma da parte di chi?

 

di Gennaro Carotenuto

La signora Maria Feraru, 45 anni, cittadina romena, è stata completamente scagionata dall’accusa infamante di aver tentato di rapire un bimbo di tre anni sulla spiaggia di Isola delle Femmine, in provincia di Palermo. Portava una gonna sospetta, e ciò è bastato a scatenare la follia collettiva. Dai media, ai bar di tutta Italia, ai forum in Internet, in molti avevano chiamato al linciaggio, al farsi giustizia da sé. I media, trattandosi di una “zingara”, avevano immediatamente presunto la colpevolezza. C’erano perfino le motivazioni: tratta di bambini, qualcuno aveva perfino parlato di traffico di organi, in una corsa ad evocare più orrore possibile senza alcun riscontro. Non importa che il luogo più improbabile per rapire un bambino sia una spiaggia affollata o un supermercato, dove appena un paio di mesi fa era stato inventato un falso sequestro analogo, questa volta in norditalia. E non importa che non esista un solo caso di “zingara” condannata per sequestro di persona in Italia. La maggioranza degli abitanti di questo paese –senza alcuna vergogna- tra un giorno o un mese sarà di nuovo disposta a credere che gli zingari rapiscono i bambini. O che i nazisti -è più o meno lo stesso- fecero le Fosse Ardeatine per colpa dei partigiani che non si consegnarono. Del resto lo dice anche Mike Buongiorno!

UNA FALSA NOTIZIA NON NASCE DAL NULLA 
Nasce da rappresentazioni collettive, mentalità collettive, che la precedono e la sostengono. E’ quello che ci ha insegnato già negli anni ’20 Marc Bloch, con La guerra e le false notizie. Siamo disposti a credere tutto quello che ci rende chiaro un quadro. Gli zingari, o i musulmani o i politici sono sempre colpevoli. I carabinieri (o gli Stati Uniti), secondo da dove si guarda, hanno sempre torto o sempre ragione. Gli italiani (e non solo loro) sono così disposti a credere che gli zingari rapiscono i bambini, tanto da ribaltare l’onere della prova: sei tu –chi scrive sta ricevendo diversi messaggi in tal senso- a dover dimostrare che gli zingari non rapiscono i bambini, non loro a dover citare un solo caso di condanna passata in giudicato.

Per far tenere in piedi la loro rappresentazione collettiva rivendicano il diritto all’ignoranza: non sappiamo dirti quale “zingaro” ha rapito un bambino, ed è stato condannato per questo, ma siccome tutti abbiamo sentito dire che gli zingari rapiscono i bambini, deve essere vero.
Il diritto all’ignoranza è elevato così a foglia di fico nazionale: pochi giorni fa a Firenze, il giudice Giacomo Rocchi ha assolto il senatore di Alleanza Nazionale, Achille Totaro. Questi era sotto processo per aver diffamato la memoria della Medaglia d’Oro al Valor Militare, il partigiano Bruno Fanciullacci, al quale aveva dato dell’ “assassino vigliacco” in relazione alla morte del filosofo Giovanni Gentile, attivo repubblichino. Nella sentenza il giudice sostiene che Totaro ha diritto di non conoscere i fatti e di conseguenza che, in base all’articolo 21 della Costituzione –per conquistare la quale Fanciullacci è morto sotto tortura, a Villa Trieste, la Via Tasso fiorentina- può esercitare la propria libertà di espressione, offendendo la memoria di Fanciullacci con un “ragionamento politico”, che prescinde totalmente dagli accadimenti. Diffamo Fanciullacci, o Berlusconi, o gli zingari o i musulmani, perché mi stanno antipatici ed è un mio diritto poterlo fare. E' l'elevazione -e fa giurisprudenza- del pregiudizio a categorie metafisiche.

Quindi il Senatore Totaro, ha diritto di diffamare la memoria di Fanciullacci per partito preso, per ideologia (antipartigiana), ma soprattutto facendosi scudo dietro la sua ignoranza. In base allo stesso diritto all’ignoranza, milioni di italiani si sentono in diritto di accusare i rom di rapire i bambini e i musulmani di essere tutti terroristi. Succedeva anche negli anni ’30, quando molti dei 40 milioni di italiani si autoconvinsero che poche decine di migliaia di ebrei ipotecassero il futuro della nazione e fossero usi a pratiche disdicevoli; per esempio che un banchiere ebreo fosse di natura più avido di un banchiere cattolico o buddista.

IL NEMICO TRA NOI 
La settimana scorsa, nella città australiana di Brisbane, il medico indiano di religione musulmana Mohamed Haneef, è stato scagionato dall’accusa di essere il capo di una cellula terroristica islamica formata da medici. La presunta cellula sanitaria di Al Qaeda era accusata di aver realizzato un attentato ai primi di luglio all’interno dell’aeroporto di Glasgow, dove un’auto (nella foto) prese fuoco in circostanze anomale per un attentato terroristico. Immediatamente dopo, tutti i medici presunti componenti della presunta cellula, erano stati arrestati, Haneef addirittura in Australia, dove secondo i media mainstream era scappato.

Erano stati arrestati senza tentare la fuga perché completamente innocenti e Haneef era andato in Australia per motivi privati. Nei giorni successivi i suoi cinque presunti complici, tutti medici, erano stati scagionati. Infine è toccato al capo: non è mai esistita una cellula di Al Qaeda formata da medici, né da paramedici, né da portantini, né da veterinari. Ai sei è andata bene, potevano essere linciati o ammazzati come capitò al cittadino brasiliano Jean Charles de Menezes, scambiato per terrorista e freddato sul posto. Oppure essere deportati per anni a Guantanamo senza processo né incriminazione alcuna, visto che appena una dozzina dei quasi mille che sono passati dal campo di concentramento cubano, è mai stato incriminato di qualcosa.

A chi non è andata bene, anzi è andata malissimo, è invece all’opinione pubblica mondiale. Questa per giorni è stata ammaestrata a pensare che giovani musulmani, perfettamente integrati nella società britannica, tanto da essere divenuti medici, lavorare nei nostri ospedali e curare i nostri malati, potessero essere invece il germe distruttivo della nostra società. Fior di esperti sono stati intervistati, dando per scontata la colpevolezza dei sei ed arrampicandosi sugli specchi per giustificare il perché sei brillanti medici si erano trasformati in terroristi. Alcuni di questi hanno sproloquiato sul fatto che "l'integrazione non è garanzia di integrazione", sull'irriducibile conflitto di civiltà, sull'atavico odio dei musulmani per le società aperte.

Non può sfuggire che, anche in questo caso, la falsa notizia non nasce dal nulla. Nasce dall’esigenza sia delle classi dirigenti che collettiva di individuare il nemico, di aggrapparsi all’esistenza di un nemico che spieghi il male, la paura alla quale la società occidentale sembra condannarsi. E il musulmano nemico non può essere solo il disadattato, l’escluso. Perfino i terroristi kamikaze del 7 luglio 2005 erano sì inglesi, ma con vite comuni, precarie, foriere di insoddisfazione, di rancore. I sei medici no. Sono il cerchio che si chiude sull’integrazione impossibile: se perfino sei medici si trasformano in terroristi, allora non c’è integrazione possibile e tutti i musulmani sono un corpo estraneo. E non importa che fosse una bufala macroscopica; se ben pochi media si sono preoccupati di divulgare la notizia della loro completa estraneità con Al Qaeda, allora per milioni di persone i medici musulmani continuano ad essere potenziali terroristi. E’ un paradosso, fa notizia l’uomo che morde il cane, ma se tutti i musulmani sono terroristi, come mai un musulmano scagionato dall’accusa di terrorismo non fa notizia?

La “società aperta”, è divenuta sinonimo di “società esposta”. E in questo l’invenzione del nemico ha la stessa funzione catartica che aveva l’uso del tradizionale antisemitismo nella Germania di Weimar come elemento di accumulazione del consenso da parte del partito nazionalsocialista, l’unico –parafrasando Umberto Bossi- ad avercelo duro contro il pericolo ebraico. Troppi soggetti concorrono alla creazione del mostro, del nemico. Partiti politici fautori –per cultura o per rincorsa- della mano dura. Operatori dei media inadeguati culturalmente. O apprendisti stregoni. Il teologo cattolico Brunetto Salvarani, un paio d’anni fa in un convegno a Rimini al quale partecipammo insieme, raccontò dell’invenzione di un mostro dei nostri tempi: Adel Smith. Quest’energumeno, un attaccabrighe fanatico, si presenta con l’aspetto del lottatore di wrestling, sempre pronto a spararla grossa e a menare le mani. Ma non è nessuno e non rappresenta nessuno, anche se da sue prese di posizione solitarie -come quella sui crocifissi esposti in luoghi pubblici- l'Italia ha discusso per mesi. Salvarani, un esperto di convivenza pacifica tra religioni, raccontò di essere stato interrogato anni fa dalla redazione del programma di Rai1, Porta a Porta, su chi rappresentasse chi nella comunità islamica italiana.

Avevano chiesto alla persona adatta: Salvarani era in grado di fare una mappa dettagliata su tutte le associazioni islamiche rappresentative della realtà di quella confessione in Italia. “L’unica cosa –si raccomandò Salvarani- non chiamate Adel Smith che è un pazzo scatenato e non rappresenta nessuno”. Il giorno dopo Adel Smith –allora perfettamente sconosciuto- era ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, presentato come uno dei più autorevoli rappresentanti della comunità musulmana in Italia. C’era solo irresponsabilità nella creazione di Adel Smith da parte di Bruno Vespa? O era parte di un disegno cosciente di costruzione del musulmano nemico? O semplicemente Adel Smith era il musulmano che più rispondeva alla rappresentazione collettiva che la redazione di Porta a Porta e forse la società italiana stessa consideravano lo stereotipo del musulmano? La politica della paura –la gestione della paura pubblica- ha reso il musulmano nemico, e non importa ricordare che siamo noi ad occupare Baghdad e Kabul e non loro Vienna o Poitier. Sicuramente per una donna Rom in Italia è oggi inopportuno fare un complimento ad un bambino. Ma è una tragedia.


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QUIZ:
DI CHE NAZIONALITA' E' IL NUOVO INCARICATO UE PER IL KOSOVO?


[ ] tedesco
[ ] finlandese di padre nazista
[ ] francese di origine croata
[ ] statunitense di origine albanese e passaporto austriaco
[ ] albanese



Ue nomina diplomatico tedesco per negoziati sul Kosovo
domenica, 29 luglio 2007 1.52 147

BRUXELLES (Reuters) - Il capo delle politica estera dell'Unione europea
Javier Solana ha nominato il diplomatico tedesco Wolfgang Ischinger per
rappresentare il blocco nei negoziati sul futuro stato del Kosovo. Lo ha
riferito oggi il suo ufficio.
La portavoce di Solana Cristina Gallach ha detto che Ishinger,
ambasciatore tedesco nel Regno Unito ed esperto dei Balcani,
rappresenterà l'Ue negli sforzi per sbloccare le trattative tra la
Serbia e l'etnia albanese del Kosovo durante i negoziati, che ci si
aspetta dureranno almeno quattro mesi.
Tentativi di arrivare ad una risoluzione Onu sullo status Kosovo hanno
subito uno stallo questo mese, dopo la resistenza della Russia al
consiglio di sicurezza, accrescendo la prospettiva che la regione
dichiari la propria indipendenza senza il mandato Onu.
Gli stati Ue hanno invitato Belgrado e Pristina a raggiungere un
compromesso.


http://www.upi.com/International_Intelligence/Briefing/2007/07/30/
german_gets_key_role_in_kosovo_talks/9815/

United Press International - July 30, 2007

German gets key role in Kosovo talks

BERLIN - The longtime German ambassador to the United
States will be the European Union's envoy in talks to
resolve the Kosovo conflict.
Wolfgang Ischinger, who from 2001 until 2006 was
Germany's man in Washington, will represent the EU as
part of the so-called Troika in its difficult talks
with Serbia and Kosovo over the province's possible
independence.
Besides the EU, the Troika also includes the United
States and Russia.
Ischinger, who currently serves as German ambassador
to Britain, is "a great connoisseur of the region,"
German Foreign Minister Frank-Walter Steinmeier said
after Brussels officially announced the nomination...


La Nuova Alabarda a caccia di... bufale

1) LA STRAGE DI VERGAROLLA

2) IL CASO DEI CARABINIERI DI MALGA BALA

3) PRESUNTO RINVENIMENTO DI INFOIBATI PRESSO REDIPUGLIA NEL 1998!


=== 1 ===


LA STRAGE DI VERGAROLLA

Sul quotidiano triestino “Il Piccolo” del 17/8/06 è apparso un articolo dello storico Raoul Pupo sulla strage della spiaggia di Vergarolla presso Pola, strage che avrebbe, secondo il titolo dell’articolo, scatenato l’Esodo dall’Istria. Sempre nel titolo, leggiamo che “le responsabilità” della strage non furono mai chiarite, ma “l’effetto è assolutamente chiaro”, cioè, secondo quanto si legge, questa strage avrebbe terrorizzato la popolazione italiana e sarebbe stata una delle cause scatenanti dell’esodo degli italiani. A parte che non si capisce come un evento del genere possa avere terrorizzato esclusivamente la popolazione italiana (forse i croati non andavano al mare e non avevano paura delle bombe?), vorremmo fare ora un po’ di chiarezza sui fatti che vengono così leggermente passati sulla stampa come “operazioni di pressione anti-italiana”. 
La vicenda di Vergarolla è in realtà abbastanza semplice.
Il 18 agosto 1946, a Pola, che all’epoca si trovava sotto amministrazione anglo-americana, il circolo canottieri Pietas Julia aveva organizzato una festa sportiva che prevedeva anche gare di canottaggio nei pressi della spiaggia di Vergarolla, zona molto frequentata per i bagni Oltre alle gare erano previsti anche chioschi gastronomici perché si trattava a tutti gli effetti di una festa popolare. 
Sulla spiaggia però gli alleati avevano ammassato anche moltissime bombe e mine raccolte dal mare nel corso della bonifica del porto, lasciate lì senza controllo in attesa di essere rese del tutto inoffensive.
Ad un certo punto un’esplosione interruppe in tragedia la festa: le mine erano esplose, lasciando a terra molte vittime, almeno 87 morti e decine di feriti. Naturalmente la città fu fortemente scossa da un fatto così tremendo.
All’epoca furono successivamente aperte delle inchieste che però non riuscirono a venir a capo dei motivi reali del fatto. Ogni ipotesi rimase senza prove che potessero portare a scoprire chi o cosa avesse fatto esplodere quelle mine. Ed oggi, a 60 anni di distanza, non avrebbe neppure senso riaprire un’inchiesta, a meno che qualcuno confessi di avere compiuto quell’attentato, se attentato fu, cosa che, bisogna dirlo proprio a causa della propaganda che viene fatta oggidì sull’episodio, non è stata assolutamente accertata, perché l’esplosione potrebbe benissimo essere stata causata da fattori accidentali. Ricordiamo che una grossa quantità di esplosivo era stata abbandonata senza controllo su una spiaggia dove poi era stata autorizzata una sagra, con accensione di fuochi per cucinare, in una torrida giornata di agosto. 
I primi responsabili della tragedia andrebbero quindi ricercati in coloro che abbandonarono l’esplosivo a quel modo, ed in coloro che autorizzarono una festa popolare proprio in prossimità di ordigni che potevano esplodere da un momento all’altro. Non c’era bisogno di un attentato per arrivare alla tragedia. 
Nonostante non si sia mai trovato un colpevole, l’“eccidio” venne utilizzato da subito dalla propaganda nazionalista italiana. Per molti la strage era frutto della volontà di colpire gli italiani che stavano, a loro dire, con quella manifestazione sportiva dimostrando l’attaccamento alla “patria” e la contrarietà alla cessione alla Jugoslavia della città. Naturalmente i propagandisti danno per scontato che a quella festa estiva, organizzata nel caldo agosto della prima estate di pace dopo tanti anni, avrebbero preso parte solo coloro che volevano fare dimostrazione di “italianità”, come se, appunto, la popolazione croata di Pola non usasse fare i bagni.
E del resto, quale interesse poteva avere lo stato jugoslavo a creare terrore mediante una strage del genere?
Gli jugoslavi erano all’epoca impegnati a Parigi a dimostrare, con elementi di prova, i crimini commessi durante l’occupazione nazifascista delle loro terre, le stragi, le distruzioni sofferte: avrebbero sicuramente avuto moltissimo da perdere se, per ipotesi, fosse stata scoperta una loro responsabilità in un’azione abietta come una strage di civili. Avrebbe potuto allora essere opera di una “scheggia impazzita”? Non lo si può a priori escludere, però comunque non ne vediamo il senso, dato che, nonostante la vulgata corrente parli di “pulizia etnica” commessa dagli jugoslavi contro la comunità italiana, vi sono prove certe che invece lo stato jugoslavo aveva interesse a tutelare quella comunità, come è dimostrato dalle leggi di tutela che furono successivamente emanate. 
Chi invece avrebbe potuto compiere un simile attentato, magari con la creazione di prove false (che comunque non vennero trovate) erano i gruppi nazionalisti italiani, cui lo stato dava un notevole appoggio e che, da loro stessa dichiarazione, organizzavano “atti di sabotaggio” nei territori ex italiani. Ma diciamo subito che neppure di questa possibilità esiste alcuna prova.
A parer nostro la responsabilità della strage di Vergarolla va attribuita semplicemente a coloro che permisero di organizzare una festa vicino ad un deposito di esplosivi. Ma ci pare fuori luogo insistere, in assenza di qualsivoglia prova che dimostri la responsabilità jugoslava in quella tragedia, sul fatto che tale strage causò la fuga degli italiani da Pola. Storicamente furono ben altri i motivi che portarono gli italiani ad andare via da Pola, e non ci dilunghiamo qui ora, dato che esistono studi seri ed approfonditi su questo. Solo, ci piacerebbe che gli storici lasciassero perdere la propaganda e la smettessero di considerare il “si sa”, il “si dice” come fonti storiche.

settembre 2006


=== 2 ===


IL CASO DEI CARABINIERI DI MALGA BALA

Nell’ambito dei vari “crimini” attribuiti ai partigiani c’è anche la vicenda dell’eccidio di 12 carabinieri a Malga Bala, avvenuto nel marzo del 1944. I carabinieri, comandati dal vice brigadiere Dino Perpignano, erano di stanza al presidio di difesa della centrale idroelettrica di Bretto. Lo pseudostorico Marco Pirina, riprendendo quanto scritto da Antonio Russo in una sua pubblicazione del 1993 (“Alle porte dell’inferno”), così descrive la vicenda.
“Il 23 marzo era l’anniversario della fondazione dei fasci di combattimento, una festa odiata dai partigiani operanti nella zona di Plezzo (festa amata invece dai partigiani di altre zone? n.d.r.). Si decise di colpire gli italiani. Per l’occasione si radunarono Fran Ursig “Josko”, il capo supremo della Brg. Partigiana dell’alto Isonzo, Ivan Likar “Socian”, Silvio Giafrate, Fran Della Bianca, Anton Mlecuz (riportiamo i nomi con la grafia errata così come appaiono, n.d.r.) ed altri, in totale 21 uomini. Questi studiarono un piano approfittando delle abitudini del Comandante Perpignano e quando questi ed il Franzan (un altro carabiniere del presidio, n.d.r.) tornavano assieme ad una ragazza li circondarono e li fecero prigionieri. In gruppo si avvicinarono con il Perpignano alla caserma, si fecero aprire (...) catturarono tutti i carabinieri (...) saccheggiata la caserma e costretti i carabinieri a caricarsi vettovaglie e vari sacchi di ogni ben di Dio, dopo aver sistemato due cariche sotto le turbine, si avviarono verso il monte (...)”. Il giorno dopo “si decise la loro eliminazione, ma questa secondo tutti doveva essere particolarmente crudele” e qui Pirina (sempre citando Russo) si lancia nella descrizione della preparazione di un “pastone miscelato con soda caustica e sale nero”, sul quale “i carabinieri si avventarono” e “dopo aver mangiato” le “urla e le implorazioni furono tremende”. Come se ciò non bastasse, all’alba del giorno dopo, “furono fatti marciare per ore sino alla Malga Bala, dove furono di nuovo rinchiusi” ed a questo punto partono le descrizioni delle sevizie con cui i “partigiani” avrebbero ucciso i carabinieri: a Perpignano “venne conficcato un legno ad uncino nel nervo posteriore dietro il calcagno ed issato a testa in giù legato ad una trave, poi furono accapprettati tutti gli altri e a quel punto i partigiani cominciarono a colpire tutti con i picconi. A qualcuno vennero asportati i genitali e conficcati in bocca, a qualcuno aperto a picconate il cuore o frantumati gli occhi (...) alla fine legati i corpi dei malcapitati con del fil di ferro li trascinavano sotto un grosso masso tra la neve (...)”.
Come al solito, quando ci troviamo di fronte a certe descrizioni così particolareggiate di efferate torture, il primo interrogativo che ci poniamo è questo: chi sarebbe il testimone che assistette a tutto questo in modo da poterlo raccontare? Se leggiamo il testo di Russo che Pirina ha riassunto, troviamo anche riportati un paio di articoli dell’epoca: ad esempio Il “Gazzettino” di Padova così scriveva il 7 aprile 1944.
“Macabra scoperta in una grotta di dodici vittime del dovere (...) in questi giorni dei camerati in armi, in una grotta fra Cave del Predil e Bretto di Mezzo hanno fatto una triste e macabra scoperta. In detta caverna infatti essi hanno rinvenuto, accatastati l’uno sull’altro, i cadaveri di dodici militi della polizia repubblicana, morti nell’adempimento del loro dovere. Le vittime sono state identificate per quelle del vicebrigadiere Nino (sic) Perpignano e dei militi (segue l’elenco dei nomi, n.d.r.). Ai poveri scomparsi sono state tributate imponenti esequie”.
Dunque al momento della scoperta dei corpi di Perpignano e dei suoi uomini, la stampa non parlò di sevizie cui essi sarebbero stati sottoposti. È vero che Russo cita anche un altro articolo (senza specificare da dove l’abbia tratto) che parla di “vittime denudate poi uccise bestialmente a colpi di piccone”, ma il resto dei particolari descritti da Russo e ripresi da Pirina non compaiono. Russo accenna al fatto che “tanti” gli avrebbero “confessato tra le lacrime” che era giunto il momento “di far 
sapere a tutti la verità su Bala”, ma il nome di questi “testimoni” non viene fatto. Chi dunque sapeva tutti questi particolari sulla fine dei carabinieri, e quando li avrebbe resi noti?
Un altro particolare interessante è che il Gazzettino parla di “militi della polizia repubblicana”, non di Carabinieri. In effetti, leggendo attentamente il testo di Russo (brani che Pirina non riporta, detto per inciso), si apprende che “il responsabile della produzione mineraria, Otto Hempel, ingegnere militarizzato tedesco (...) verso la metà di gennaio di quel ’44 chiede e ottiene dal comando generale SS di Camporosso l’autorizzazione a istituire un raggruppamento di carabinieri a difesa stabile della centrale idroelettrica di Bretto di Sotto”. Bisogna spiegare che la centrale idroelettrica di Bretto serviva soprattutto per far funzionare la miniera di Cave del Predil, dalla quale si estraeva piombo, elemento fondamentale per l’approvvigionamento dell’esercito germanico.
Prosegue Russo “viene così deciso di chiudere per sempre la caserma dei carabinieri di Bretto di Mezzo (...) e viene istituito il distaccamento di 16 militari più un sottufficiale (...)” che “il 28 gennaio 1944 prendono servizio presso la nuova casermetta, secondo le direttive del comando tedesco”. Quindi il gruppo di carabinieri agli ordini di Perpignano stava, sostanzialmente, agli ordini dei nazisti a fare la guardia ad un obiettivo militare strategico.
Detto questo si può comprendere come l’attacco dei partigiani alla centrale di Bretto non sia stato determinato dall’“odio” per la ricorrenza dei fasci di combattimento, come pretendono Russo e Pirina, quanto per compiere un’importante azione di sabotaggio contro l’occupatore nazista. 
A questo punto prendiamo in mano un altro testo, quello di Franc Črnugelj (“Na zahodnih mejah 1944”, curiosamente pubblicato anch’esso nel 1993, come il libro di Russo, non tradotto in italiano), che spiega cosa accadde a Cave del Predil il 23 marzo del 1944. 
Il gruppo coordinato da Jožko (Franc Ursič, che non era “capo supremo”, qualifica che non esisteva nell’esercito di liberazione popolare, ma comandante di distaccamento), dopo avere sorvegliato per alcuni giorni i movimenti di Perpignano, lo catturarono in una casa dove si era recato a mangiare, lo portarono fino alla centrale, dove, effettivamente, si servirono di lui per farsi aprire con la parola d’ordine, sabotarono la centrale elettrica, prelevarono armi e munizioni e si diedero alla ritirata verso i monti, portando con sé i prigionieri.
Ma nel frattempo i nazisti non erano stati certo a non fare nulla, come pretenderebbe invece Russo (che ha il coraggio di scrivere che “i partigiani, conoscendo bene le abitudini dei tedeschi i quali non amavano muoversi di notte, non si preoccupavano minimamente”): avvisati telefonicamente, si diedero all’inseguimento degli attentatori: quando i tedeschi furono in vista, i carabinieri prigionieri cercarono di darsi alla fuga ed a quel punto iniziarono le sparatorie: i nazisti contro i partigiani, i partigiani contro i prigionieri in fuga e contro i nazisti. Così scrive Črnugelj “i tedeschi spararono contro la colonna partigiana, nella quale si trovavano anche i prigionieri”. 
A parere nostro, questa versione dei fatti è molto più credibile di quella diffusa da Russo e Pirina, innanzitutto perché bisogna considerare che l’esercito partigiano non faceva la guerra perché i suoi uomini si divertivano a martirizzare i nemici, ma perché volevano sconfiggere il nazifascismo. Era quindi loro interesse compiere atti di sabotaggio contro il nemico (come l’attentato alla centrale idroelettrica per bloccare la produzione della miniera di Cave del Predil), ed una volta compiuta l’azione, non è minimamente credibile che essi si siano trattenuti per due giorni nei paraggi a rischio di farsi catturare dai nazisti, solo per dare sfogo a degli istinti sadici e torturare fino alla morte i dodici prigionieri. In zona di combattimento, nessuna formazione guerrigliera con un minimo di buon senso e di istinto di sopravvivenza si trattiene con dei prigionieri a portata di mano del nemico: credere una cosa del genere vuol dire non avere la più pallida idea di cosa significhi combattere la guerra di guerriglia, cioè colpire il nemico con azioni rapide e repentine e ritirarsi prima possibile in zona sicura.
Abbiamo quindi due versioni dei fatti, una (a parer nostro, logicamente) credibile ed una no. Di fronte a queste contraddizioni, chiediamo pubblicamente ai ricercatori storici, ma anche alla stessa Arma dei Carabinieri, che nel proprio sito avalla la versione dei fatti di Russo, di voler analizzare la vicenda a fondo prima di decidere che la versione di Russo è quella veritiera, e di voler quindi sospendere, nel ricordo dei dodici caduti, ogni riferimento a circostanze non dimostrate storicamente che rischiano di conseguenza a dare luogo a strumentalizzazioni di parte.

Febbraio 2007


=== 3 ===


PRESUNTO RINVENIMENTO DI INFOIBATI PRESSO REDIPUGLIA NEL 1998!

In uno dei vari forum di Indymedia dedicato alle foibe è apparso, datato 3 maggio 2004, il seguente messaggio che riproduciamo integralmente (e con tutti gli errori di battitura, sorry), a firma “Luca de Biasio”.

per quello sopra: sono speleologo e lavoro per il comune di gorizia:quando capita che alcuni cavi o alcune tubature scoppiano nelle cavita\'carsiche ci inviano a riparare il tutto.
Vista la nosta conoscenza degli anfratti carsici e dei suoi pericoli siamo stati piu\'volte mandati ad assistere truppe di soccorso alpino dei carabinieri quando veniva richiesto il loro intervento nei casi di \"rinvenimenti di cadaveri\". 
il 17 maggio 1998 ci siamo calati con i carabinieri in un anfratto a 8 km dalla strada che conduce a Redipuglia:un cane di un cacciatore era spuntato da un anfratto riportando una tibia umana invece che il fagiano appena ucciso dal suo padrone. 
in seguito ad una piu\'approfonita esplorazione degli anfratti attigui scoprimmo nelle seguenti 16 ore una cava foibica contenente 11 militari italiani,alcuni con insegne della RSI ma anche sanitari e un cappellano militare(questo fu\'il rapporto del comando dei carabinieri):la quasi totalita dei militari morti riportava le mani torte dietro la schiena e legate tramite filo spinato alle mani di un altro militare messo nella stessa posizione.Stessa metodolgoia era stata usata per legare le teste dei militari le une alle altre.
Ora essendo io un antifascista, da sempre di sinistra con genitori di sinistra posso solo dire che tale rinvenimento ha scioccato me ed i miei collaboratori. 
Senza voler fare revisionismo alcuno mi preme far sapere al signore sopra che affermare che tutto cio\'sia solo\"una fregnaccia antibolscevica di pavolini\"sia come privarsi di una qualsiasi connotazione umana,cosa che infatti in un elemento che afferma cose del genere non puo\'che essere latente. 
per concludere:se solo potessi a questo signore vorrei far vedere lo strazio impresso dalla calce carsica sulle facce mummificate dei torturati e far odorare il disgustoso odore di \"arancia in putrefazione\"che emanavano quei corpi. 
chi vuole puo\'verificare il tutto negli atti depositati presso la caserma dei carabinieri di gorizia. 
Luca de Biasio - Ente Monitoriaggio Cave e Anfratti Carsici

Ora, se nel maggio del 1998, quando era ben viva la campagna mediatica sui “processi agli infoibatori” e sui “crimini dei titini”, ci fosse stato effettivamente un recupero di tale genere da una “foiba” presso Redipuglia, si presume che la stampa ne avrebbe dato largo spazio (cosa che non è avvenuta). Inoltre, da quel poco di patologia che conosciamo, non ci risulta che un corpo “mummificato” possa odorare di “arancia in putrefazione”, dato oltretutto che a più di quarant’anni di distanza la putrefazione di un corpo è ben conclusa.
Dopo avere fatto alcune ricerche minimali (Internet e guide telefoniche...) e non avendo trovato traccia di alcun “Ente monitoraggio Cave e Anfratti Carsici”, abbiamo cercato Luca De Biasio per chiedergli chiarimenti, ma neppure qui abbiamo avuto fortuna: non conoscendo la residenza di questo signore non abbiamo potuto che andare a tentativi nell’Info 412, perché in un vecchio CD Rom con gli elenchi telefonici di tutta Italia del 1997, non abbiamo trovato alcuna utenza telefonica a nome Luca de Biasio.
In Internet abbiamo trovato un Luca de Biasio rappresentante dei Radicali friulani, ma senza altri dati che ci permettessero di contattarlo per chiedergli se è l’autore della missiva o no (qualora ci leggesse, gli saremmo grati se ci rispondesse, anche se solo per dirci che non ha nulla a che fare con la lettera sopra riportata). Quindi, vista l’impossibilità di raggiungere la fonte della notizia, abbiamo seguito un’altra strada e chiesto conferma, come indicato da de Biasio, ai Carabinieri di Gorizia.
Ecco il testo della lettera inviata nel novembre 2006.

Ho trovato nel sito di Indymedia una lettera firmata da un sedicente Luca De Biasio (nominativo che non ho trovato negli elenchi telefonici della regione), che sostiene di rappresentare un “Ente monitoraggio cave e anfratti carsici” (del quale neppure ho trovato recapiti o tracce), il quale De Biasio racconta un fatto riguardante il ritrovamento di corpi di militari della RSI che sarebbe avvenuto il 17 maggio 1998. Dato che non ricordo di avere letto a suo tempo una notizia del genere sulla stampa ed inoltre la ricostruzione del De Biasio non mi convince (egli parla di < disgustoso odore di “arancia in putrefazione” che emanavano quei corpi > che precedentemente ha definito “mummificati”, ma, da quanto mi consta, quando un corpo è in stato di mummificazione non emana più odore di putrefazione), e considerando che ha concluso la propria lettera (che allego alla presente) con le seguenti parole:
< chi vuole può verificare il tutto negli atti depositati presso la caserma dei carabinieri di Gorizia >,
chiedo cortesemente di avere conferma o smentita di quanto asserito dal sedicente signor De Biasio.

Questa la risposta che è pervenuta dal Comando dei Carabinieri di Gorizia.

in relazione alla Sua pregressa corrispondenza elettronica ed ordinaria, facente riferimento ad un presunto recupero di salme di militari italiani in un anfratto carsico asseritamente avvenuto nel 1998, Le comunico che la disamina degli archivi documentali, custoditi sia presso questo Comando che presso le unità organizzative dipendenti, non ha fornito alcun riscontro.
Il Comandante Provinciale dei Carabinieri di Gorizia

A questo punto possiamo trarre alcune conclusioni. Che il signor Luca de Biasio (ammesso che questo sia il suo vero nome) ha raccontato una quantità di fandonie, ma non solo: che nel suo sparare frottole a raffica si è permesso, per avvalorare le proprie bugie, di coinvolgere addirittura l’Arma dei Carabinieri quali garanti delle sue invenzioni, fatto questo che ci sembra particolarmente grave. Molto facile diffondere notizie false a questo modo, contando sul fatto che la maggior parte dei lettori dei forum di Indymedia non avrebbero cercato veramente conferma dai Carabinieri di Gorizia; abbiamo così visto come sia possibile, con scarsa fatica, creare ulteriori “leggende metropolitane” su un argomento, come quello delle “foibe”, che ha visto talmente tante invenzioni passate per verità storica che, nonostante gli sforzi di pochi ricercatori volonterosi, continuano a passare per oro colato.
E soprattutto ha tenuto a precisare, come ha fatto il sedicente de Biasio, di essere “di sinistra e con genitori di sinistra”, frase che è diventata una di quelle più in voga nei blog sulla questione delle foibe, evidentemente per mettere le mani avanti sulle castronerie che sta per dire in materia. 

Febbraio 2007



PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA E LODE DEL LINCIAGGIO


Presunzione di colpevolezza per la rumena presunta rapitrice di bimbo

 

In Italia, se ti chiami Berlusconi, o Fassino, o Fazio, sussiste una forma estesa di presunzione di innocenza che (vedi Previti) va perfino oltre la condanna passata in giudicato. Se invece sei rumena, specie se prostituta o zingara, sei colpevole senza processo ed è già tanto se non ti fuciliamo sul posto.

 

di Gennaro Carotenuto

Il caso è quello di Isola delle Femmine, in provincia di Palermo. I media sono del tutto univoci: la donna, rom, nomade, zingara, a seconda del grado di grossolanità, è sicuramente colpevole di aver nascosto un bambino di tre anni sotto la sua gonna per sequestrarlo. Dalla Rai a Mediaset, dall'ANSA al Corriere della Sera a Repubblica non si trova un condizionale a pagarlo un milione. Del resto è noto (leggasi: è diffusa vulgata) che gli zingari rapiscono i bambini e non importa che MAI nella storia uno "zingaro" sia stato condannato per un rapimento.

Sul forum di kataweb (gruppo l'Espresso), il più grande editore "di sinistra" d'Italia dà libero sfogo alle foie razziste dei propri lettori. A kataweb devono considerare libertà d'espressione anche l'incitamento al linciaggio: "basta di questa gentaglia.. ops..di queste bestie non se ne può più! così come non se ne può più di tutta quella massa di politici (comunisti) buonisti verso questa gentaglia! Sicuramente purtroppo quella schifo di donna sarà già in giro e chissà magari ha già ripetuto il gesto per cui era stata arrestata! Un sano linciaggio non sarebbe stato male!". Quella che si firma addirittura come Avvocatessa Barbara Pelle (una principessa del diritto) dice: "Io l'avrei lasciata nelle mani della gente. Non c'è niente di più efficace di una folla inferocita. Questa gente deve tornare da dove è venuta, siamo stanchi dei loro modi di fare da 'bestie'" e via seguendo, senza che il gruppo l'Espresso senta la decenza di intervenire visto che nel proprio forum si stanno commettendo dei reati.

Sarà andata davvero così come la raccontano i media? Forse, chissà. In più di un caso i magistrati hanno poi dimostrato che la sola presenza della "zingara" aveva fatto spaventare i genitori ed immaginare un sequestro. Ovviamente, nel caso tra qualche mese la zingara sequestratrice fosse dichiarata innocente perché il fatto non sussiste, non avrà alcun diritto di rettifica.

E allora l'importante è la disparità ademocratica di fronte all'informazione, prima ancora che di fronte alla legge, delle persone. E' ovvio, è pleonastico e noioso dirlo, eppure va detto ogni volta che è necessario: per i potenti mille prudenze, per una rumena senza fissa dimora, la presunzione di colpevolezza e l'incitamento al linciaggio.

A tutto questo si aggiunge il pregiudizio razzista radicato: gli zingari rapiscono i bambini. Non importa che MAI -NEANCHE UNA VOLTA- nella storia uno "zingaro" sia stato condannato per un sequestro: per i bravi italiani gli orchi -da Mazara a Cogne, da Casalbaroncolo a Rignano- vengono sempre da fuori.

 




La Serbia, neo colonia della Nato, brucia da più di dieci giorni. E visto che l'esercito non esiste che per fare gli affari della Nato, non è stato nemmeno capace di spegnere il fuoco causato dal vento e dal caldo infernale.

Dalla vicinissima Bondsteel, la base degli USA, non è arrivato aiuto alcuno! Alla Serbia di Kostunica, quello che gli USA misero al potere, è venuta in aiuto la Russia, ed il fuoco è stato spento dopo tre giorni.
Senza l'intervento della Russia, la Serbia non ce l'avrebbe fatta.
Di seguito la notizia dell' agenzia Interfax dalla quale apprendiamo che il fuoco è stato infine spento grazie agli aerei Ilyushin.

(a cura di Olga)

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http://www.interfax.ru/e/B/politics/28.html?id_issue=11799544

Interfax
July 28, 2007

Russian airplane fights wildfires in Serbia for three days

MOSCOW - A Russian firefighting airplane finished a
three-day deployment to Serbia to fight forest fires
and left for Moscow on Saturday while another Russian
firefighting plane is preparing to leave for
Montenegro on Sunday, Russia's Emergency Situations
Ministry said.

The ministry's Ilyushin Il-76TD has carried out 19
flights in the vicinity of the Serbian city of Nis,
spending a total of 12 hours and 20 minutes in the air
and dropping 798 tonnes of water, ministry spokesman
Viktor Beltsov told Interfax. 

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http://www.srbija.sr.gov.yu/vesti/vest.php?id=37099

Government of Serbia
July 27, 2007

Kostunica talks with Russian fire fighting plane crew

Belgrade – Serbian Prime Minister Vojislav Kostunica
met today with members of the Russian fire fighting
plane crew, which the Russian Ministry for Emergency
Situations sent to help Serbia in extinguishing fires.

Kostunica expressed gratitude to the eleven member
crew of the Russian plane for the enormous help they
provided to Serbia in extinguishing fires, and
stressed that their help was of great importance.

The Serbian Prime Minister said that Serbia and her
people value this generous gesture of brotherly
solidarity by Russia, and due to their help we
succeeded in extinguishing the fires.

Kostunica said that relations between Serbia and
Russia and the two peoples are historical and firm and
that is confirmed in moments of need, such as now when
Russian President Vladimir Putin and Russian Minister
of Emergency Situations Sergei Shoigu sent the fire
fighting plane.

The Serbian Prime Minister invited members of the crew
to come to Serbia with their families on holidays.

Crew members of the Russian plane thanked the Prime
Minister for the reception and stressed that they are
always ready to help Serbia which is a brotherly
country.

Russian Ambassador to Serbia Alexander Alexeyev
stressed that Russia shares solidarity with the
brotherly Serbian nation and Russian leadership
attaches special importance to relations with Serbia.

The meeting between the crew of the Russian plane was
also attended by Serbian Minister of Interior Dragan
Jocic.

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Source: R. Rozoff via Stop NATO:
http://groups.yahoo.com/group/stopnato



(segnaliamo alcuni collegamenti al e sul recente film-documentario di Michael Moore SICKO, che denuncia la vergogna del sistema sanitario degli Stati Uniti d'America - dove se non hai soldi puoi crepare anche per una banale infezione. Per aver girato parti di questo lavoro anche a Cuba, dove viceversa l'assistenza sanitaria è pubbblica, gratuita, garantita e di ottimo livello, Moore  è stato incriminato ed è adesso sotto processo...)


### M. Moore's SICKO on US Health Insurance criminals (LINKS) ###


Regardez le documentaire de Michael Moore intitulé SiCKO sur le système de santé des États-Unis.  
Regardez-le pendant qu'il est encore sur Internet:


Michael Moore's documentary SiCKO online now!

Watch Michael Moore's documentary SiCKO on the US Healthcare system.  Watch it quick... while its available. 

http://hubpages.com/hub/Watch_Sicko_Movie_Free_Online

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Synopsis of the movie:

Writer/producer Michael Moore interviews Americans who have been denied treatment by our health care insurance companies -- companies who sacrifice essential health services in order to maximize profits. The consequences for the individual subscribers range from bankruptcy to the unnecessary deaths of loved ones.
Moore then looks at universal free health care systems in Canada, France, Britain, and Cuba, debunking all the fears (lower quality of care, poorer compensation for doctors, big-government bureaucracy) that have been used to dissuade Americans from establishing such a system here. The roots of those health care systems are explored, and our failure to establish free health here care is traced to a) President Richard Nixon's deceptive support of the then-emerging HMOs pursuing huge profits and b) subsequent pressures for Congress to sacrifice sound health care in favor of corporate profit.
A group of Americans who became ill from volunteering at 911 Ground Zero, but were refused health coverage for their illnesses, are ferried by Moore to Cuba, where they receive the top-rate, free care one would hope they'd get here at home.
In his interviews, historical reportage, and typical sarcastic wit, Moore soundly condemns American health insurance companies and pharmaceutical companies, as well as the politicians who have been paid millions to do their bidding. He makes the case that there is something wrong with Americans that we cannot learn from the successes of other countries in providing better quality-of-health than we enjoy in the USA.

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Michael Moore Subpoenaed by Bush Administration

Michael Moore said on Thursday that the Bush administration has served him with a subpoena regarding his trip to Cuba during the making of his new film, "Sicko," reports United Press International.



SiCKO entertains, educates and mobilizes 

Filmmaker Michael Moore has grabbed hold of the nightmarish reality of the U.S. for-profit health care system and presents a powerful critique in what is his most effective documentary to date, "SiCKO."



'Sicko' are lack of health care & the war 

The Campaign for Healthcare, Not Warfare, a project of the Troops Out Now Coalition, launched an effort inspired in part by the recent movie "Sicko" to demand the war be shut down and health care be made free for everyone.



VIDEO | Health Care for All
By Geoffrey Millard, Lance Page and Scott Galindez

The Campaign for America's Future, sponsors of the annual "Take Back America Conference," announced that they are launching a campaign called "Health Care for All." Truthout was there and we interviewed Ned Lamont and Congressional candidate Donna Edwards who were part of the launching of the campaign.



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From:   actioncenter @ action-mail . org
Subject: The war is "SICKO" too...another reason to march on Sept 29th
Date: July 9, 2007 1:58:31 AM GMT+02:00

Another reason to March on September 29th...

HEALTHCARE & THE WAR ARE  “SICKO”

Did you know?

One fourth of the Iraq war budget alone could fund healthcare for every uninsured person in this country.

Think what the trillions of dollars wasted on war, 
occupation and destruction could do for the people:

•    Provide free medicine for all of our seniors and chronically ill.

•    Change the dismal statistics of infant mortality in major cities like Detroit, Baltimore and Washington D.C. where the mortality rates for African American and poor children rival impoverished countries abroad;

•    Stop the epidemic of hospital closings;

•    It could provide healthcare and treatment for the physical and psychological trauma that the survivors of Katrina and Rita are still suffering from;

•    Make healthcare for low wage workers and immigrant families a priority.

While the war is bleeding us at home it is miniscule in comparison to the bloodshed, misery and pain that is being inflicted on the Iraqi people.  The Lancet medical journal documented that 655,000 Iraqi civilians have been killed during the war (Oct, 2006).  The health of the Iraqi people and the entire region has been destroyed.  Solidarity demands that we act now to stop the war, end the occupation and bring the troops home now!

GET INVOLVED:


2) Become a volunteer organizer:

3) Donate:

4) Download "Healthcare and the War are Sicko" leaflets at: http://troopsoutnow.org/HWN.pdf


Or call or write us at:  
Campaign for Healthcare, Not Warfare, 
c/o TONC, 
55 W. 17th St. 5C, 
New York, NY 10011  
212-633-6646


Distribute flyers at Michael Moore’s new movie “SICKO” 

Download pdf’s of the flyer here:

This movie is a step forward in pushing the issue of universal healthcare on the national arena.  It is a hard-hitting, uncompromising exposure of the corporate greed of the so-called “healthcare” industry that has caused so many people endless, unnecessary and cruel suffering.  SICKO shows that healthcare should be a right and that it is possible for all if profit is taken out the equation. 






Le Medaglie Per Gli Infoibati

BREVE ANALISI DELLA LEGGE ISTITUTIVA DEL RICONOSCIMENTO AGLI INFOIBATI.

La legge 30 marzo 2004, n. 92, approvata alla quasi totale unanimità dal parlamento italiano ha istituito il “Giorno del Ricordo” in memoria “delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale”; all’interno di questa legge l’art. 3 sancisce quanto segue:
“1. Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale, sono stati soppressi e infoibati, nonché ai soggetti di cui al comma 2, è concessa, a domanda e a titolo onorifico senza assegni, una apposita insegna metallica con relativo diploma nei limiti dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 7, comma 1.
2. Agli infoibati sono assimilati, a tutti gli effetti, gli scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati. Il riconoscimento può essere concesso anche ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita dopo il 10 febbraio 1947, ed entro l’anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, escludendo quelli che sono morti in combattimento.
3. Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia”.
L’insegna metallica, viene poi specificato, è “in acciaio brunito e smalto”, e porta la scritta “La Repubblica italiana ricorda”.

In seguito alle domande presentate nel corso del 2004 e del 2005, il 10/2/06 furono attribuite 26 onorificenze. Sul quotidiano triestino “Il Piccolo” del 9/2/06 è stato pubblicato l’elenco di 26 nominativi i cui familiari hanno ricevuto la targa con la scritta “La Repubblica italiana ricorda”. Prima di entrare nel merito dell’elenco, però, è necessario fare un breve inquadramento storico. 
Dopo l’8 settembre 1943 l’Istria, la Dalmazia e le province dell’attuale confine orientale (cioè le province di Trieste e Gorizia) facevano parte del territorio dell’Adriatisches Küstenland (territorio staccato dall’Italia ed annesso al Reich germanico dal 10/9/43, che comprendeva le allora province di Trieste, Gorizia, Pola e Carnaro, più una parte del Friuli), dove, tutte le forze armate erano sottoposte al diretto comando germanico. 
A questo proposito citiamo una ordinanza emessa dal “quartier generale del Führer” in data 10/9/43: “Gli Alti commissari nella zona d’operazione Litorale Adriatico, consistente nelle province del Friuli, di Gorizia, di Trieste, dell’Istria, di Fiume, del Quarnero, di Lubiana (…) ricevono le istruzioni fondamentali per lo svolgimento della loro attività da me”. Firmato Adolf Hitler (questo documento si trova nel Quaderno della Resistenza n.6, pubblicato dall’ANPI del Friuli-Venezia Giulia nel 1995, dal titolo “Giovane amico lo sapevi che...- Documenti di un drammatico periodo storico dedicati a quanti non li conoscono ed a quanti fingono di non conoscerli”). 
Quindi (ciò va specificato a proposito del terzo comma dell’articolo 3 della legge di cui sopra) nel territorio del Küstenland nessun militare era “a servizio dell’Italia”, neppure dell’Italia della golpista Repubblica di Salò, in quanto dipendeva più o meno direttamente da Hitler.
I corpi armati che funzionarono all’epoca del Küstenland erano la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN, un corpo composto da squadristi inquadrati nell’esercito, trasformata nelle cosiddette “Camicie Nere”); la Milizia Difesa Territoriale (MDT), che era il corrispettivo della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) nelle nostre zone. Oltre ai vari corpi dell’esercito, anche la Pubblica Sicurezza (PS, che all’epoca non era corpo civile ma militare), la Guardia di Finanza (GDF, della quale solo negli ultimi giorni di guerra alcuni reparti furono posti a disposizione del CLN triestino), e la successivamente istituita Guardia Civica erano sottoposte direttamente al Reich. L’arma dei Carabinieri ha una storia a parte: fu sciolta per ordine del Reich con decorrenza 25/7/44, ed i militi furono messi di fronte alla scelta di aderire ad uno dei corpi collaborazionisti o essere deportati in qualche lager germanico (molti furono coloro che, pur di non essere incorporati nelle forze armate germaniche, preferirono la deportazione e pagarono con la vita questa loro fedeltà all’Italia). Di fatto, quindi, chi era rimasto in zona dopo lo scioglimento dell’Arma poteva essere solo un ex carabiniere inquadrato in qualche altra formazione militare. 
Due parole infine a proposito del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) triestino, che era fuoriuscito dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), poiché non voleva sottostare alle direttive di questo che imponevano una collaborazione con l’Osvobodilna Fronta-Fronte di Liberazione collegato con l’Esercito di Liberazione Jugoslavo.

Di seguito l’elenco dei nominativi premiati nel 2006: noi vi abbiamo aggiungo luogo e periodo di scomparsa (non risultante dall’elenco del “Piccolo”) e di seguito quanto siamo riusciti a ricostruire del ruolo da loro ricoperto in vita. Abbiamo tratto i dati dai seguenti testi: “Caduti, dispersi e vittime civili dei comuni della Regione Friuli-Venezia Giulia nella Seconda guerra mondiale”, a cura dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, volumi relativi alle province di Trieste e di Gorizia; “Albo d’Oro”, di Luigi Papo, “Pola, Istria, Fiume 1943-1945” di Gaetano La Perna; inoltre da documenti conservati nell’Archivio di Stato di Lubiana (riferimento archivistico As 1584 zks ae 141) e dalla stampa, sia dell’epoca, sia contemporanea. Se nel redigere questi dati abbiamo commesso degli errori ce ne scusiamo, ma purtroppo ricostruire fatti storici con il solo ausilio di nome e cognome non è per nulla facile.

BRUNO Luigi, Fiume 1945.
Guardia scelta di PS, fucilato a Grobnico (presso Fiume) il 16/6/45 (Papo).
CASADIO Alfredo, Trieste 1945.
MDT, scomparso, deportato a Lubiana. Papo scrive che fu arrestato il 3/5/45 nella caserma di via Cologna: ricordiamo che in via Cologna aveva sede l’Ispettorato Speciale di PS, corpo di polizia politica noto per l’efferatezza dei metodi di repressione; tale circostanza risulta anche dalla documentazione comprendente atti dell’OZNA conservata a Lubiana presso l’Archivio di stato (As 1584 zks ae 141).
CERNECCA Giuseppe, Istria 1943.
Vicesegretario comunale di Gimino, scomparso.
COSSETTO Giuseppe, Istria 1943, infoibato a Treghelizza.
Possidente, segretario del fascio a S. Domenica di Visinada (La Perna). Capomanipolo MVSN, squadrista sciarpa Littorio (necrologio sul Piccolo 23/11/43).
COSSETTO Norma, Istria 1943, infoibata a Villa Surani.
“Giovane vita tutta dedicata allo studio e alla Patria”, leggiamo nel necrologio apparso sul “Piccolo” del 16/12/43. La vicenda di Norma Cossetto è però controversa. La giovane, figlia di Giuseppe Cossetto, possidente istriano, nonché gerarca fascista, faceva parte ella stessa di diverse organizzazioni giovanili fasciste, amava le armi, insegnava, nonostante non fosse ancora laureata, nelle scuole italianizzate dell’Istria croata, girava l’Istria, in piena guerra e repressioni nazifasciste, per raccogliere dati per la sua tesi di laurea intitolata “L’Istria rossa”, specificando chiaramente che il colore rosso derivava dalla bauxite, e non certo dalle idee politiche dei suoi abitanti. Delle sevizie cui sarebbe stata sottoposta l’unica “testimonianza” che viene citata è quella di una donna, della quale non viene mai fatto il nome, che avrebbe visto, dall’interno della propria casa in cui stava nascosta con le finestre sbarrate, quello che accadeva nella scuola di fronte a casa sua, anch’essa con le finestre chiuse. Dal verbale redatto dal maresciallo Harzarich dei Vigili del Fuoco di Pola, che aveva diretto i recuperi dalle foibe istriane, il corpo della giovane non appare essere stato oggetto delle mutilazioni di cui parlano le “cronache”, né sarebbe stato possibile stabilire, con le conoscenze mediche dell’epoca, se fosse stata violentata prima di essere uccisa.
GIULIANO Isidoro, Trieste 1945.
GDF arrestato nella caserma di Campo Marzio, internato a Borovnica e scomparso.
Da varie testimonianze appare che le guardie di finanza di Campo Marzio non erano state notiziate dai loro superiori che la formazione era stata messa a disposizione del CLN triestino, quindi al momento in cui la IV Armata jugoslava arrivò a Trieste, essi spararono contro di essa assieme ai militari germanici che erano accasermati nella stesso edificio. In conseguenza di questo gli jugoslavi arrestarono una settantina di finanzieri, che furono poi internati a Borovnica, dove diversi morirono per un’epidemia di tifo.
GUARINI Pasquale, Gorizia 1945.
CC, arrestato 2/5/45; Papo scrive che nel novembre ‘45 lavorava in fabbrica a Sebenico.
MAINES Guido.
Non abbiamo trovato questo nome in nessuno dei testi da noi consultati.
MOLEA Domenico, Trieste 1945.
GDF, arrestato nella caserma di via Udine 1/5/45. “Il 16/5/45 trovavasi a Postumia e poi a San Vito di Vipacco, da dove si sono perdute le sue traccie” (As 1584 zks ae 141).
MUIESAN Domenico, Trieste 1945.
“Mio padre era irredentista, legionario fiumano, volontario della guerra d’Africa, di sentimenti fascisti insomma” (la figlia Annamaria Muiesan intervistata da Luca Tron, su “La Nazione”, 11/2/96).
“Squadrista delle squadre d’azione a Pirano – violenze” leggiamo nei documenti conservati presso l’Archivio di stato di Lubiana, tra le risposte dell’Ufficio del pubblico accusatore a richieste di informazioni sugli arrestati nei “40 giorni” (elenco nominativo inviato dall’ACDJ nel dicembre 1945, situazione alla data 17/12/45, conservato in As 1584 zks ae 141), dove leggiamo anche che fu “arrestato a Trieste 12/5/45 da due Guardie del Popolo e portato a Pirano, poi alle carceri di Capodistria”.
NARDINI Guido, Gorizia 1945.
Perito industriale, arrestato assieme al fratello Vittorio, scomparso.
NARDINI Vittorio, Gorizia 1945.
Fotografo, arrestato assieme al fratello Guido, scomparso.
NARDINI Mario, Trieste 1945. 
“Capitano della milizia” (As 1584 zks ae 141), cioè della MDT; già XI Legione MACA, secondo lo Stato civile; “tribuno” in Papo; sarebbe stato internato a Prestranek e scomparso.
PATTI Egidio, Trieste 1945. Sembra essere stato infoibato presso Opicina.
Vice brigadiere del 2. Reggimento MDT “Istria” (Papo); “squadrista, MVSN, PFR, GNR, rastrellamenti” (As 1584 zks ae 141).
POCECCO Giovanni, Istria 1945.
Milite del 2. Reggimento MDT “Istria”, ucciso a Portole il 25/4/45 (La Perna); secondo Papo le circostanze della morte sono identiche, però lo mette come “civile”.
POLONIO BALBI Michele, Fiume 1945.
“Sottocapo manipolo del 3. Reggimento MDT “Carnaro”, scomparso 3/5/45 (a Fiume l’esercito jugoslavo arrivò il 3 maggio, quindi potrebbe essere “morto in combattimento”).
“Sottotenente carrista con la Divisione Ariete in Africa. Rientrato ferito dall’Africa. Dopo l’8 settembre fu destinato quale comandante al Comando Tappa presso la Caserma di finanza “Macchi” di Fiume (ciò risulta dall’elenco di fiumani caduti allegato alla proposta di legge presentata dal deputato di AN Roberto Menia per la concessione all’Associazione “Comune di Fiume in esilio” della medaglia d’oro al “valor militare” alla memoria dei suoi cittadini che in guerra e in pace hanno servito la Patria, Atti parlamentari XIII legislatura, Camera dei deputati n. 1565). 
PONZO Mario, Trieste 1945.
Colonnello del Genio Navale, poi inquadrato nel Corpo Volontari della Libertà, l’organizzazione armata del CLN triestino. Fu arrestato assieme agli altri ufficiali di marina Luigi Podestà ed Arturo Bergera che avevano organizzato, all’interno del CLN triestino, un’attività di spionaggio in collaborazione con il commissario Gaetano Collotti, dirigente nonché noto torturatore dell’Ispettorato Speciale di PS, così riassunta dallo storico Roberto Spazzali: “Podestà avrebbe passato a Collotti tutte le informazioni sul movimento partigiano slavo e il poliziotto lo avrebbe agevolato nei suoi compiti” (“…l’Italia chiamò”, Libreria Editrice Goriziana 2003). Podestà e Bergera rimasero in carcere a Lubiana un paio d’anni, poi furono rilasciati; il colonnello Ponzo morì in prigionia.
RADIZZA Salvatore, Dalmazia 1943.
Papo scrive che si tratta di un operaio ucciso a Meleda nel cimitero dopo l’8/9/43.
SCIALPI Gregorio, Trieste 1945.
GDF, arrestato nella caserma di Campo Marzio, internato a Borovnica e scomparso in prigionia.
STEFANUTTI Romeo, Istria 1945.
Milite del 2. Reggimento MDT “Istria”, “ucciso dagli slavi nel maggio ‘45 nei pressi di Pisino” (Papo).
VERDELAGO Ervino.
Anche questo nominativo non l’abbiamo trovato nei testi analizzati.
VOLPI Ario Dante, Gorizia 1945.
“Aviere RSI prelevato dagli slavi a Gorizia il 13/5/45 e scomparso” (Papo).
VOLPI Renato, Istria 1943.
Leggiamo sul “Piccolo” del 15/11/43: “volontario in Grecia, in Russia e sul fronte dell’Italia meridionale”; ventunenne, era rientrato in Istria dopo avere saputo della morte del padre Edmondo, oste, “ucciso dai ribelli”, ed era stato “catturato ed ucciso”. Papo invece scrive: “Milite 9^ legione Camicie nere, ucciso in prigionia dagli slavi 4/10/43”.
ZAPPALÀ Alfio, Fiume 1945.
CC arrestato 13/5/45, scomparso.
ZAPPETTI Riccardo, Istria 1943.
Falegname da Montona infoibato a Gallignana.
ZAPPETTI Rodolfo, Istria 1943.
Capo cantoniere da Montona infoibato a Gallignana.

Più difficile reperire invece i nomi dei premiati del 2007: sulla stampa apparve la notizia che erano state attribuite 350 onorificenze, ma un elenco completo dei nomi non siamo riusciti a trovarlo da nessuna parte (non ci sembra sia stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, né si trova nei siti istituzionali del Governo e della Presidenza della Repubblica). Tramite ricerche in Internet e sulla stampa locale siamo riusciti a ricostruire un elenco, logicamente parziale, di 125 nominativi di “premiati”. Per far comprendere la difficoltà di questa ricerca dobbiamo spiegare che le premiazioni avvenivano tramite le Prefetture, ed è dai siti delle Prefetture che abbiamo tratto i dati (per motivi di tempo non abbiamo cercato nei siti di tutte le Prefetture), però i nomi che vengono indicati sono spesso solo quelli dei parenti che hanno ritirato la medaglia e non sempre c’è il nome del deceduto, del quale mancano del tutto, inoltre, i dati relativi alla data ed alla causa di morte, nonché della qualifica.
Solo per i “premiati” al Quirinale abbiamo una nota Ansa del 10/2/07 che riporta i nomi delle “vittime delle foibe” con alcuni dati personali ed i nomi dei parenti che hanno ritirato l’onorificenza. Di seguito l’elenco con le nostre annotazioni.

ADAMO Emilio, Gorizia 1945.
PS arrestato maggio 1945, scomparso.
BURICCHI Gino, Fiume 1945
PS, arrestato maggio 45 scomparso
COSTA Ermenegildo, Zara 1944.
“Custode della Banca dalmata, militarizzato”, arrestato novembre 1944, scomparso. Secondo Papo faceva parte di un gruppo di abitanti di Borgo Erizzo che furono condannati a morte dal Tribunale militare jugoslavo e fucilati.
FARINATTI Antonio, Parenzo 1943
GDF, presumibilmente infoibato a Vines.
FOGAGNOLO Luigi, Gorizia 1945.
Capostazione, arrestato maggio 1945, scomparso.
GALANTE Giuseppe, Trieste 1944.
“Bigliettaio tranviario, scomparso settembre 1944 a Trieste, resti trovati nel 1959 in una foiba presso Padriciano”. In realtà era milite dell’MDT e fu catturato dai partigiani in un’azione di guerra nel 1944 presso Padriciano.
GALANTE Pietro, Visinada 1943.
Agricoltore, scomparso settembre 1943.
GIANA Andrea, Gorizia 1945.
“presidente associazione commercianti Gorizia, arrestato 3/5/45, scomparso”
HODL Enrichetta, Fiume 1945.
“studentessa”, arrestata giugno 1945, scomparsa.
LUCIANI Bruno, Trieste 1945.
PS, arrestato maggio 1945, scomparso.
LUXARDO Nicolò, Zara 1944.
Industriale, arrestato novembre 1944, “annegato” assieme alla moglie.
LUXARDO Pietro, Zara 1944.
Fratello del precedente, già prefetto di Zara, arrestato novembre 1944, “annegato”.
MORASSI Giovanni, Gorizia 1945.
Vice podestà e presidente della provincia di Gorizia, arrestato maggio 1945, scomparso.
QUERINCIS Ottavio, Gorizia 1944.
Autista per la società telefonica, scomparso durante un’azione partigiana presso Duttogliano nell’aprile 1944.
RAUNI Antonio, Fiume 1945.
PS, arrestato maggio 1945, scomparso.
ROSSARO Giorgio, Gorizia 1945.
Ufficiale sanitario a Gorizia, arrestato maggio 1945, scomparso.
SABADIN Stefano, Pola 1943.
Arrestato settembre 1943, scomparso.
SALATA Domenico, Orsera 1945.
Arrestato maggio 1945, scomparso.
SERRENTINO Vincenzo, Trieste 1945.
“Ultimo prefetto di Zara italiana”, arrestato a Trieste maggio 45, condannato a morte e fucilato a Sebenico 15/5/47. Faceva parte del Tribunale speciale per la Dalmazia, di cui parleremo più avanti.
SINCICH Giuseppe, Fiume 1945.
Agente immobiliare, arrestato maggio 1945, fucilato.
SORGE Marco, Gorizia 1945.
CC arrestato maggio 1945, scomparso. Secondo Papo “figura anche come maresciallo PS”, quindi potrebbe essere stato uno dei carabinieri poi inquadrati in altri corpi militari.
TOFFETTI Domenico, Trieste 1945.
Già interprete per i tedeschi, arrestato maggio 1945, resti recuperati dall’abisso Plutone.

Tornando alle modalità di attribuzione dei riconoscimenti aggiungiamo alla mancanza di trasparenza il fatto eclatante che i parenti dei “premiati” di Udine hanno richiesto ed ottenuto che, per “motivi di privacy”, i nominativi dei loro congiunti non fossero resi noti. Il fatto che non sia possibile avere un elenco ufficiale dei premiati, con la specificazione delle qualifiche, della data e causa di morte ci sembra una procedura non del tutto corretta: se la legge prevede che non possano ricevere l’onorificenza persone che hanno rivestito ruoli specifici bisogna pur essere in grado di verificare se le persone premiate non rientravano in qualche criterio di esclusione.
Del resto, se si chiede un’onorificenza per un proprio congiunto e questa viene concessa, non si comprende perché mai la cittadinanza deve restarne all’oscuro, è come se ci si vergognasse di quanto si è chiesto ed ottenuto, invece di averne motivo di orgoglio.
Entrando poi nel merito delle premiazioni abbiamo trovato incomprensibile che ben 4 nominativi di premiati nel 2006 siano stati nuovamente premiati nel 2007; e che, dato che il premio viene conferito al congiunto che ne ha fatto richiesta, è accaduto che altri 6 nominativi siano stati premiati due volte in quanto la medaglia è andata a due parenti. Particolarmente degno di nota a questo punto il caso di Scialpi Gregorio che risulta tre volte nell’elenco dei premiati, una volta nel 2006 e due volte nel 2007, in due distinte Prefetture (Lecco e Cagliari), anche se nel caso specifico la parente che ha ricevuto il premio è sempre la stessa.
Si diceva prima che questo “anonimato” con il quale sono state gestite le modalità della premiazione impedisce di valutare se le modalità siano state congrue o no alla disciplina di legge. Come abbiamo visto nel breve elenco di premiati del 2006, almeno per qualcuno di essi dei dubbi di legittimità dovrebbero porsi.
Invece un caso decisamente chiaro di premio che, sempre da nostre valutazioni, non avrebbe dovuto essere attribuito, è quello conferito all’ex membro del Tribunale speciale della Dalmazia Vincenzo Serrentino, che fu condannato a morte e fucilato da un tribunale jugoslavo nel 1946. Uno dei suoi a latere era quel Pietro Caruso che fu fucilato a Roma nel 1944 come criminale di guerra.
Serrentino era stato denunciato dalla Jugoslavia come criminale di guerra per il modo in cui era gestito il Tribunale del quale faceva parte, che comminava condanne a morte con una facilità ritenuta eccessiva anche dagli stessi militari italiani. Leggiamo nel sito www.criminidiguerra.it quanto scritto dal “Procuratore militare in Dalmazia, ten. generale della Giustizia Militare Umberto Maranghini, in una sua relazione (acquisita dalla Commissione d’inchiesta per i presunti criminali di guerra)” che “definisce questo tribunale come arbitrario sia nella legittimità formale sia nel funzionamento e sostiene che la difesa dell’imputato vi era facoltativa: “Esso girava per la Dalmazia, e dove si fermava le poche ore strettamente indispensabili per un frettoloso giudizio, pronunciava sentenze di morte; e queste erano senz’altro eseguite. Il suo presidente pare fremesse d’impazienza per aver gente da giudicare (“Prefetto, non avete da mandarmene altri?” aveva telefonato un giorno, sedendo a Spalato, a quel Prefetto, che mi riferì il truce aneddoto) né sembra ne avesse mai abbastanza (a Cattaro, a un Colonnello, che credo comandasse quel presidio, fece una partaccia, perché gl’imputati erano soltanto sei e, mi diceva questo colonnello, ancora stupefatto, il presidente gli aveva gridato che lui, per meno di dieci uomini non si muoveva; e non vorrei essere inesatto specificando che, come pur mi sembra, non alludesse a dieci imputati, ma a dieci fucilazioni)”. 

Abbiamo redatto queste brevi note come spunto per una ricerca più approfondita e per rendere l’idea di come venga gestita la memoria storica nel nostro Paese. Fermo restando il dolore personale per la perdita di una persona cara, non riusciamo però a comprendere perché questo legittimo dolore debba essere trasformato a livello istituzionale in un riconoscimento anche a persone che non avrebbero, a norma di legge, diritto di averlo. D’altra parte concedere riconoscimenti di questo tipo ha chiaramente solo un valore demagogico, perché non si comprende quale differenza vi sia tra l’autista delle Telve morto durante un’azione partigiana solo perché ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e non dare altrettanti riconoscimenti anche a tutte le vittime dei bombardamenti, delle deportazioni e delle rappresaglie nazifasciste. 
Ma la cosa più sconcertante è, a parer nostro, un particolare che non sembra essere stato colto da nessuno. Il secondo comma dell’art. 3 della legge che analizziamo sancisce che sono “assimilati agli infoibati” tutti gli scomparsi e quanti, dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati. Dato che non si specifica che deve trattarsi di massacri od altro operati da partigiani o dall’esercito jugoslavo, per assurdo che possa sembrare, tutti i parenti delle vittime del nazifascismo, dei caduti nelle nostre terre, uccisi alla Risiera di San Sabba o deportati nei lager, fucilati o impiccati per rappresaglia, potrebbero chiedere (e, a rigor di legge, se non facevano “volontariamente” parte di “formazioni non a servizio dell’Italia”, anche ottenere) la targhetta di bronzo con la scritta “La Repubblica italiana ricorda”.
Visto che non c’è nessun altro articolo di legge che preveda un ricordo ufficiale per le vittime della guerra in via generale, sembra che l’unico modo che qualcuno ha di far ricordare il proprio parente sia quello di spacciarlo per “infoibato”.
Davvero una situazione grottesca che non fa onore né ai caduti, di ogni tipo, né a chi ha promulgato ed ora applica questa legge.

Giugno 2007


http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-
riflessioni_su_balcani_ed_europa.php

RIFLESSIONI SU BALCANI ED EUROPA

Sarà che io non sono un’esperta di geopolitica, né un’esperta in
economia, né una sottosegretaria, e forse è anche per questo che non
lo sono, però ogni volta che vado a sentire dei convegni che parlano
delle crisi balcaniche e del ruolo dell’Europa nella politica di
sviluppo dei paesi che non sono ancora in Europa, come ad esempio
quelli balcanici, mi chiedo sempre: i Balcani sono in Europa?
L’Europa arriva fino agli Urali o no, dato che non si può pensare di
allargare l’Europa anche alla Russia o all’Ucraina mentre la Turchia
alla fine prima o poi ci entrerà?
O forse bisognerebbe smettere di parlare di Europa e dire invece
Unione Europea, così come si dovrebbe imparare a dire Stati Uniti e
non America, come a suo tempo il mio insegnante di Diritto dei paesi
socialisti usava bacchettare chi parlava di Russia e non di Unione
Sovietica.
Le crisi balcaniche. Già, le crisi. In realtà la crisi è stata una,
lo sfascio della Jugoslavia con tutto quello che s’è portata dietro.
Ma dire che in questo sfacelo l’Unione Europea ha sbagliato a non
intervenire, mi sembra (a me che non sono una esperta, ma cerco
piuttosto di parlare con il buon senso della massaia) poco esatto. Da
quanto ho capito io, l’Unione Europea è invece intervenuta fin troppo
(anche se non solo lei, tanti sono intervenuti, e troppo). Chi ha
convinto l’intellighenzia slovena che se volevano diventare il sud
della Germania invece che rimanere il nord della Jugoslavia; chi ha
dato spago alle provocazioni pseudopacifiste di Janez Jansa; chi ha
foraggiato i gruppi di ultras di destra che poi sono diventati corpi
paramilitari; chi ha garantito alla Bosnia che se dichiaravano
l’indipendenza avevano la copertura europea; chi ha trafficato in
droga, in armi e in prostituzione; chi ha armato l’UCK presentandolo
come un movimento di liberazione e non come un’organizzazione
terroristica che si finanziava con la droga; chi ha criminalizzato un
popolo (quello serbo) per poter giustificare i bombardamenti che
avrebbero definitivamente messo in ginocchio l’ultimo paese europeo
che si opponeva alla globalizzazione.
Come io non capisco, sempre perché non sono una esperta in
geopolitica, perché mai, se “entrare in Europa” era il fine ultimo di
tutti questi staterelli che hanno preteso di sfasciare la Jugoslavia,
facendo pagare un altissimo prezzo di sangue e di distruzione ai
propri abitanti, perché era necessario distruggere tutto quello che
era stato costruito dopo la fine della seconda guerra mondiale, una
confederazione di popoli che vivevano in pace, avevano creato
un’esperienza unica, un socialismo diverso da quello sovietico,
garanzie sociali per tutti, un ruolo internazionale di tutto
rispetto. Perché questo non andava bene per “entrare in Europa”?
Forse perché, e qui comincio a parlare anch’io da politica, anche se
non in sintonia con i geopolitica di oggi, forse perché l’Europa
richiedeva, come richiede ai suoi Paesi membri, che i canoni di
garanzie sociali non fossero così alti come quelli che garantiva la
Jugoslavia (e del resto la non comunista Danimarca s’è rifiutata con
un referendum di “entrare in Europa” perché non accettavano di pagare
meno tasse per avere meno diritti sociali). Forse perché, una volta
distrutto uno Stato che aveva un proprio ruolo internazionale per
sostituirlo con una miriade di staterelli senza spina dorsale, ma
costretti dalle leggi dell’economia a fare quello che vogliono i
detentori dei cordoni della borsa, l’Europa può andare dove vuole a
investire, costruire, depredare tutto quello che vuole in nome del
profitto e non dei diritti dei cittadini.

Claudia Cernigoi, luglio 2007