Informazione

http://www.genitoriche.org/forum/viewtopic.php?
t=15116&sid=5c04fdf26d072c47ccef19edec819e6f

Amici, intellettuali, fermate Veltroni!

Il sindaco di Roma Walter Veltroni ha chiesto al ministro
dell'interno Amato, e al prefetto di Roma, di modificare le norme
sulle espulsioni dei cittadini comunitari, in modo da poter procedere
senza ostacoli all'espulsione dal nostro paese dei cittadini rumeni
che siano accusati di "danneggiamento di persone o cose". Veltroni ha
chiesto che il provvedimento di espulsione sia emanato dal prefetto.
In sostanza il sindaco di Roma ha chiesto ad Amato di compiere una
azione illegale, varando un provvedimento in contrasto con la nostra
Costituzione, che viola il principio dell'uguaglianza delle persone
davanti alle leggi, che stravolge gli accordi e le norme della
comunità europea (della quale la Romania è membro a pieno titolo),
che sottrae alla magistratura le sue competenze, cioè quelle di
indagare e giudicare. Veltroni vorrebbe una città dove la legge si
applica per via amministrativa e tutti i poteri sono unificati, sono
un solo potere "totale".
Il gesto di Veltroni (spero) non avrà conseguenze pratiche perché la
richiesta è giuridicamente inconsistente. Ha però un grande valore
simbolico. Rafforza il messaggio già inviato da Cofferati (da
Bologna) e dagli amministratori diessini di Firenze, che è molto
semplice: la xenofobia non è una prerogativa della Lega e il futuro
Partito democratico saprà dare rappresentanza politica anche a quei
settori un po' rozzi e razzisti della nostra società che finora hanno
trovato ascolto e ospitalità solo a destra.
La mossa xenofoba di Veltroni avviene alla vigilia della sua
proclamazione a leader del Partito democratico, e chiaramente è stata
studiata proprio in funzione di questo avvenimento. Veltroni vuole
che il Partito democratico nasca con l'ambizione di poter dare voce e
potere, e di riscuotere il consenso, di un settore abbastanza vasto e
anche reazionario della destra italiana. Veltroni guarda lontano, al
dopo- Berlusconi.
Le conseguenze di questa politica spregiudicata sono tre. La prima,
devastante, è l'aumento del razzismo in Italia. La irresponsabilità
di buona parte del nostro ceto dirigente sta spingendo in quella
direzione. La seconda conseguenza è più di tipo politico, forse
indigna di meno, ma è grave: la fine della sinistra riformista,
l'apertura di un enorme vuoto nei tradizionali schieramenti politici
italiani. E la scomparsa - cioè la fuga a destra - della sinistra
riformista pone un problema serio e complesso anche alla sinistra
radicale, che perde un interlocutore, una sponda.
La terza conseguenza è il manifestarsi di un vero e proprio rischio
di regime. Intorno al nuovo Partito democratico Veltroni sta
raggruppando forze notevoli, anche intellettuali, quasi tutto il
mondo dello spettacolo, della comunicazione. Possibile che tanti
intellettuali che hanno costruito la loro personalità, il loro lavoro
di molti anni, sui valori della sinistra, o del cristianesimo
sociale, non si accorgano di questa operazione? Solo loro possono
fermare la corsa a destra di Veltroni e del nuovo partito. Possono
battergli sulla spalla e dirgli: "Walter, adesso basta, Cambia strada
o noi ce ne andiamo". Lo facciano, è urgentissimo.

Piero Sansonetti

su Liberazione del 28/09/2007


From: francesco.pinerolo @...
Subject: PRIMARIE: IL CANDIDATO VELTRONI
Date: October 12, 2007 4:53:57 PM GMT+02:00
PRIMARIE: IL CANDIDATO VELTRONI

Il programma di Veltroni, illustrato al Lingotto a Torino, è quello
di un partito moderato e interclassista di centro. Il suo tentativo è
quello di costruire un quadro politico all'americana, con un partito
democratico e uno repubblicano tra loro intercambiabili, e di ciò ne
è testimonianza anche il piu' netto inseguimento a destra dei luoghi
comuni berlusconiani su tasse e immigrazione.

Veltroni immagina una legge elettorale di ispirazione fortemente
maggioritaria e non proporzionale e, anziché restituire piena
centralità al Parlamento delinea un sistema di fatto presidenzialista
con un ruolo del Parlamento ridotto a funzioni di controllo.
Mascherata di demagogia "buonista", la visione indicata da Walter
Veltroni prefigura una 'societa' di individui' che e' un vero
abbandono di campo per la sinistra. Nella sua analisi la socialita',
la comunita', ma anche il conflitto sono dati definitivamente per
persi. E poi come si fa a mettere gli operai e i pensionati contro i
precari? Non ci puo' essere contraddizione: i loro problemi di vita,
di salario, per la casa sono gli stessi.

Tra le priorità da perseguire egli ha indicato con piglio
decisionista, manco a dirlo, la Tav e gli inceneritori, secondo
quello che lui chiama l'"ambientalismo dei sì” (sic!)

L’amerikano Veltroni quando parla di politica estera, poi, la pensa
esclusivamente come rapporto con gli Stati Uniti. Mentre in politica
interna taccia gli altri di conservatorismo, ma l'innovazione lui la
fa solo a destra: ritirando fuori perfino il principio di autorita',
della societa' securitaria: i leader del Pd dichiarano infatti ogni
giorno che faranno piu' o meno le stesse politiche di Berlusconi,
magari depurate dalle esagerazioni leghiste.

Se poi qualcuno sperava di vedere almeno abrogate le leggi più odiose
del nero governo precedente, lui ci ha messo sopra una pietra tombale
dichiarando:”Non è possibile che tutto ciò che è stato fatto da chi
c'era prima di te, se era dello schieramento avverso, sia sempre
sbagliato", sperticandosi in elogi per il nuovo gabinetto Sarkozy
(che non si vergogna di considerare un suo modello).

E in quanto al Partito Democratico, Veltroni ha detto che
nell'ipotesi di un nuovo governo amerebbe avere nientemeno che
Montezemolo, Letizia Moratti e Casini; mentre Letta ha dichiarato che
per un nuovo governo vorrebbe addirittura Tremonti e suo zio Gianni!

Veltroni lo si ricorda anche per il recente attacco all'art.18 dello
"Statuto dei lavoratori" che vieta il licenziamento senza "giusta
causa". Berlusconi provò a cancellarlo nel 2003 nell'ambito della
legge delega n.30 sul "mercato del lavoro" ma la forte protesta
lavoratrice e popolare lo costrinse a tornare sui suoi passi. Ora ci
riprova lui, appoggiando la proposta del senatore della Margherita
nonché ex ministro del Lavoro del primo governo Prodi, Tiziano Treu.
Una proposta per introdurre il "contratto unico" di assunzione per i
giovani, avanzata il 18 settembre 2007 in un convegno dedicato,
paradossalmente, alla lotta alla precarietà. Tale proposta prevede un
contratto d'ingresso lungo tre anni nel corso dei quali sono sospese
le tutele previste nell'art.18.

Ma anche "svendopoli" ha avuto tra i super privilegiati il segretario
in pectore e sindaco di Roma Walter Veltroni che tramite sua moglie,
Flavia Prisco, si è accaparrato nel 2005 un prestigioso 190 metri
quadri di proprietà dell'Inpdai situato al primo piano di via
Velletri a due passi da via Veneto al prezzo di appena 373 mila euro.
Una sorta di "sconto fedeltà" in quanto Veltroni è nato e cresciuto
nelle case dell'ente previdenziale dei dirigenti pubblici. L'Inpdai
aveva affittato sin dal 1956 un appartamento al padre, dirigente Rai.
Poi nel 1994 i Veltroni restituirono all'ente i due alloggi nei quali
vivevano Walter e la mamma per averne in cambio uno più grande ora
accatastato nel patrimonio di famiglia ad un prezzo veramente irrisorio.

Nella Roma governata da lui, inoltre, molte criticita' sono ancora
presenti fra gli strati marginali della sua popolazione. Periferie,
emergenza abitativa, precarieta' diffusa e accoglienza agli
immigrati, politica di privatizzazioni e liberalizzazioni dei servizi
pubblici, emergenza sfratti, apertura ai fascisti con l'abbandono di
Roma alle loro sempre più proterve e impunite scorribande. Non per
nulla don Sardelli, il prete romano dei poveri, lo accusa di aver
abbandonato le periferie della capitale.

Veltroni ha pure recentemente proposto di eliminare il CdA della Rai
e sostituirlo con un amministratore unico, il che, oltre a prestare
il fianco a scorciatoie che sanno solo di antipolitica, porterebbe a
snaturare la funzione essenziale del servizio pubblico, favorendo
l'ulteriore processo di privatizzazione.

Se questo è il candidato Veltroni, in un Partito Democratico di
centro ormai lontano mille miglia dalla sinistra, forse più degna è
la candidatura di Rosy Bindi che, se non altro, almeno ha una storia
che più di ogni altra ricorda quella cattocomunista.
 

(more links at bottom in: italiano, francais, english)


Sunday Mail (Harare)
September 2, 2007

LESSONS FROM YUGOSLAVIA'S EXPERIENCE

AFRICAN FOCUS

By Dr Tafataona Mahoso

If we look at former Yugoslavia, Russia and Zimbabwe, we find more lessons for Zimbabwe in its current economic struggle against remnants of Rhodesian capital now allied to Western and South African corporate interests.

But first, let us look at former Yugoslavia.

According to John Perkins's book, Confessions of an Economic Hitman, at least five stages can be identified in the process of Western imperialist intervention -- from the softest forms to the hardest and harshest.

In the first stages, imperialism uses apparent people-to-people forms of intervention which date back to the days of missionary evangelism and charity. In this phase one should expect missionaries, NGOs, journalists, tourists, anthropologists and aid officers. These forces present a deceptive and "friendly" phase of imperialism and its societies, often popularising certain products hitherto unknown or unavailable in the targeted society: new gadgets, clothes, food, and toys.

The second phase of intervention employs a more strategic, more coherent and better organised approach using consultants, academics, researchers and technocrats who pose as independent purveyors of expert advice and analysis. This phase is more deliberate and focused because the experts and consultants usually belong to prestigious and powerful agencies such as the World Bank, the IMF, the World Trade Organisation, the US National Security Agency, the US Agency for International Development or other institutions subcontracted by these powerful and prestigious organisations. The main objective at this level of intervention is to sabotage and change a country's economic policies by presenting quick fixes or ready-made blueprints and by persuading the technocratic elites to adopt the so-called expert advice.

The third level of intervention involves even more aggressive agents: spies; promoters and peddlers of various ideologies and fads; provocateurs; saboteurs; and mercenaries whose main objective is to impose interpretations of prevailing conditions which favour the intervening forces.

In the case of Yugoslavia, these forces caused secession by interpreting in ethnic and regional terms the inability of the state to meet its financial obligations. The economic decline of Yugoslavia caused by the adoption of SAP programmes was interpreted in such a way that it appeared as if the dominant group, the Serbs, were now discriminating against other nationalities and regions on the basis of ethnicity. Once the federal state was no longer able to meet its financial obligations to member republics, it was now viewed as a mere burden upon the people. Perkins calls these spies, mercenaries and provocateurs "CIA jackals".

The job of the "CIA jackals" is to get the population of the targeted country to see themselves as victims of the very government they elected. This is done by ethnicising and even personalising structural economic problems resulting from the external subversion of policy.

If the first three steps fail to produce "regime change", there is a fourth step. The fourth level involves the use of paid assassins and special forces to eliminate key leaders and key personnel within the government.

If the four levels of intervention still fail to produce the desired outcome, then the fifth and final level may be reached. That is the level of outright military intervention as happened in Yugoslavia (1999) and Iraq (2003-2007). In practice, however, two or more of the five levels operate at the same time. The respective agents at each level may co-operate with one another to fulfil their particular objectives.

Both the economic reasons for the intervention and the economic aspects of intervention will be obscured by a huge cloud of human rights and governance issues which are deliberately dramatised in the media in order to hide the economic rationale.

Yugoslavia began in 1929 as a united kingdom. In November 1945, it became a republic and on January 31 1946, it became a federal republic.

The United States and Europe targeted Yugoslavia long before the collapse of the former Soviet Union in 1989. US National Security Decision Directive 64 of 1982 targeted Yugoslavia as a key component of an Eastern Europe which was due for regime change. Another US National Security Decision Directive 133 of 1984 targeted Yugoslavia in particular. But neither the people nor the government of Yugoslavia seem to have known about such plans.

Why was Yugoslavia targeted for regime change? The following are some of the reasons:

* Yugoslavia was a founder member of the Non-Aligned Movement and a leader in charting alternative paths to economic development in the South and East.

* Yugoslavia, like Cuba, was an enthusiastic supporter of liberation movements in the South and, therefore, a big contributor to the defeat of colonialism, apartheid and imperialism. Yugoslavia's support of the Zimbabwean liberation movement was well known.

* Yugoslavia was an emerging industrial power with significant manufacturing capacity and some strategic minerals such as oil, gas, coal, lead, nickel, gold, copper and chrome. Above all, Yugoslavia was the buffer zone between Western Europe and the eastern republics of the Soviet Union which the West sought to remove from the former in order to have access to even greater reserves of oil and gas in that region.

From 1980 the new leaders of Yugoslavia made the mistake of accepting loans from international financial institutions. These loans provided the opportunity for level two manipulations which led to the country's adoption of IMF-World Bank structural adjustment programmes which, in turn, diminished the powers of the federal state over the economy.

The IMF used the shock therapy to take control of Yugoslavia's central bank and to cripple the fiscal structure of the country.

By September 25 1991, the EC and the US had succeeded in getting the UN Security Council to agree to sanctions against Yugoslavia. On November 8 1991, the EC suspended the Trade and Co-operation Agreement with Yugoslavia. On January 10 1992, the same EC exempted Montenegro from the same sanctions imposed in November 1991. The purpose was to give incentives to Montenegro to abandon Serbia.

On January 15 1992, the European Community began to recognise some of the former republics in the Yugoslav Federation as separate and sovereign states, thereby hastening secession.

After the successful secession of Croatia, Bosnia-Herzegovina, Macedonia and Slovenia, the remaining republics of former Yugoslavia were just Serbia and Montenegro. They proclaimed a new Federal Republic of Yugoslavia on April 17 1992.

From then on, the US and EC regime change campaign focused on those two, using allegations of human rights abuses, war crimes and ethnic cleansing to characterise any efforts by federal forces or their successor forces to prevent treason and secession or to maintain law and order.

By the late 1990s, the US and the EC had successfully cornered Yugoslavia. They supported the terrorist Kosovo Liberation Army (KLA) and condemned Serbia's response as ethnic cleansing and genocide. Kosovo was and still in an integral part of Serbia.

The standoff over Kosovo was then used by the North Atlantic Treaty Organisation (Nato) to wage an air war against Yugoslavia for the whole month of April 1999. This still failed to overthrow the government of President Slobodan Milosevic. The government survived until the externally rigged elections of September 2000.

Lessons

* In Russia, Yugoslavia and Zimbabwe, imperialism chose a high pedestal for its neoliberal propaganda, manipulation and sabotage. Regime change was dressed up in the high moral garb of human rights, good governance, transparency, accountability and democracy.

* On close inspection, however, the same donors and their experts are the ones who embedded corrupt practices within the reform structure, corrupting policy; overlooking double standards and conflicts of interest among the same donors and their small class of collaborators; and denying the fact that neoliberal reform had created a small dollarised elite while pushing the majority of the people into poverty.

*  In all the three countries, the Western powers, their media and aid agencies began to define and promote the interests of the corrupt and dollarised minority as if they were the interests of the entire nation and country. In the case of Zimbabwe, for instance, the BBC, CNN, SWRadio, Voice of America and the local minority Press used the term "the people" and "civil society" to mean only that sponsored, dollarised and often globe-trotting minority around the Movement for Democratic Change (MDC) and the National Constitutional Assembly (NCA) which is, in fact, the assembly of Lovemore Madhuku and his one-man constitution.

* In the case of Yugoslavia, the Western powers went as far as waging a bombing campaign against Serbia in order to effect regime change because Yugoslavia's neighbours had agreed to sell out and to collaborate with the external forces. Russia was too strong militarily to be so intimidated. Zimbabwe has been spared because its neighbours have refused to sell out and because its military is much too complex and united.

* In all three countries, the Western power sought to co-opt and prop up "national leaders" if they proved to be co-opted; or to demonise, and destroy them if they proved to be too strong and too principled. Therefore President Mugabe, President Vladmir Putin of Russia and President Slobodan Milosevic of Yugoslavia were at different times vilified and attempts were made to encircle and isolate them for refusing to go along with the Western agenda.

* The ultimate lesson for Zimbabwe is that it can defeat Western imperialism by continuing to do the following:

-- Keeping the neoliberal dollarised minority of technocrats and speculators under check.

-- Articulating and defending the interests of the vast majority above those of the purchased and dollarised minority.

-- Keeping Zimbabwe's neighbours well informed about Zimbabwe's intentions.

-- Maintaining a strong and disciplined defence and security machine capable of securing and defending all the land, gold, platinum, diamonds, coal, uranium, copper, chrome, tin and emeralds with which this country is so richly endowed.

-- Keeping all the citizens of Zimbabwe united.

-- Refusing to give up assets which are worth thousands of years in exchange for perishable groceries, perfumes, and wigs and per diems in dollars and pounds.

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Source: http://groups.google.co.zw/group/zipaya?hl=en
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Sulla situazione nello Zimbabwe si veda anche:


Zimbabwe: lo ZANU-PF lotta ancora
 
Stephen Gowans, 20-03-2007
 
Su una cosa concordano sostenitori e oppositori del governo Mugabe: è in atto un tentativo di cacciare il presidente, illegalmente ed incostituzionalmente se si riconosce che il piano non è limitato alla vittoria elettorale...




Zimbabwe : l'origine du problème des terres

Thotep
 
Kenneth Kaunda, ancien Président de Zambie, rappelle certaines responsabilités, trop souvent oubliées, de la Grande Bretagne dans la  situation actuelle au Zimbabwe. Kenneth Kaunda était présent lors de la  rencontre de Lancaster House sur invitation de la "dame de fer",  Margaret Thatcher...
 


Black activists speak on Zimbabwe crisis

By Monica Moorehead, Apr 12, 2007 12:13 AM

The Brooklyn-based December 12 International Secretariat held an emergency community forum in Harlem on April 5 on the current and ongoing crisis that the Robert Mugabe-led government in Zimbabwe faces from U.S.-British imperialist threats...

http://www.workers.org/2007/world/zimbabwe-0419/


Harlem march says: 'Hands off Zimbabwe!'

Published Apr 22, 2007 11:13 PM

“Mugabe is right!” and “Bush and Blair are wrong!” were two slogans chanted repeatedly during a march in Harlem, N.Y., on April 14 to commemorate the 27th anniversary of the liberation of the southern Africa country of Zimbabwe from British colonialism in 1980...

http://www.workers.org/2007/world/zimbabwe-0426/


Cuba deplora il blocco anglo-americano allo Zimbabwe

Prensa Latina, 12.9.2007 - Cuba ha ribadito oggi il suo rifiuto al blocco imposto dalle potenze occidentali allo Zimbabwe, e ha detto che questa politica viola il diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite. Riaffermiamo il nostro totale e inequivocabile rifiuto verso il blocco e il ricatto contro lo Zimbabwe, ha detto questo mercoledì il Ministro cubano degli Esteri, Felipe Pérez Roque, durante un incontro con il Vice-Presidente del paese africano, Joyce Tourai Ropa Mujuru. 



IL CAFFE' NON C'È!


Došao čovjek u Sarajevo, BiH, i traži u restoranu, vodeći računa
na pravilan izgovor, kako ne bi naišao na jezičke nesporazume:
- molim vas jednu kavu.
Konobar: nema kave.
- molim vas jednu kafu.
Konobar: nema kafe.
- molim vas onda, jednu kahvu.
Konobar: nema kahve, nema kafe, nema kave, čovječe! Već sam vam
triput rekao da je nemamo!

---

Un uomo chiede una tazza di caffè nel bar a Sarajevo. Attento alle
varianti lessicali, dice all'oste:
- una KAVA, per favore...
l'oste: la KAVA non c'è.
L'uomo, preso dal timore che quello lo boicotta per via della sua
pronuncia, chiede:
- una KAFA, per favore...
l'oste: la KAFA non c'è.
L'uomo, sempre prudente, dice:
- una KAHVA, per favore.
l'oste: la KAHVA non c'è, la KAFA non c'è, la KAVA non c'è, per la
miseria! Ti ho già detto tre volte che non ce l'abbiamo !!!


(barzelletta segnalata da DK.
KAVA: "caffè", nella variante croata
KAFA: "caffè", nella variante serba
KAHVA: "caffè", nella variante bosgnacca-musulmana)

http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2007-10-08%
2007:11:32&log=invites

L’Union européenne survivra-t-elle au Kosovo ?

Georges Berghezan


Face à la menace de proclamation unilatérale de l’indépendance par
les autorités albanaises du Kosovo, l’unité de façade de l’Union
européenne est en train de s’effondrer. Entre l’indépendance promise
par Washington et les menaces de veto russe, Bruxelles n’a pas trouvé
de cap et son engagement dans les Balkans est remis en question.

Bulletin trimestriel du Comité de surveillance OTAN,
Numéro 27, juillet-septembre 2007


Alors que certains n’y voyaient qu’une simple formalité – une pilule
amère, une de plus, à faire avaler par la Serbie –, le processus de
détermination du statut futur du Kosovo s’est enlisé au plus haut
niveau. Après des discussions infructueuses entre Belgrade et
Pristina, l’émissaire de l’ONU Martti Ahtisaari a présenté en mars
dernier au Conseil de sécurité un rapport prônant l’« indépendance
supervisée » de la province serbe, une position qu’il avait
d’ailleurs exprimée avant même que les « négociations » ne débutent.
Le Kosovo serait doté des attributs d’un Etat indépendant, mais
continuerait à être occupé par des troupes de l’OTAN, tandis que
l’actuelle mission de l’ONU serait remplacée par une administration
de l’Union européenne qui exercerait des « fonctions d’encadrement,
de surveillance et de conseil » dans les matières civiles et
policières. Après six projets de résolution, tous rejetés par la
Russie qui défend le principe d’une solution agréée par toutes les
parties – et non imposée à Belgrade comme dans le plan Ahtisaari –,
le Conseil de sécurité a délégué la suite du processus à une troïka,
composée des Etats-Unis, de la Russie et de l’UE, chargée de relancer
d’« ultimes » négociations entre Belgrade et Pristina et de rendre un
rapport un Secrétaire général de l’ONU pour le 10 décembre.

Alors que Serbes et Albanais n’ont toujours pas repris leurs
pourparlers1 et qu’aucun signe n’indique le moindre assouplissement
de leurs positions – tout sauf l’indépendance pour les uns, rien
d’autre que l’indépendance pour les autres –, les leaders albanais du
Kosovo ont annoncé qu’ils proclameraient l’indépendance du territoire
avant la fin de l’année, avec ou sans la caution du Conseil de
sécurité. Récusée par l’UE et la Russie, la menace a reçu des
encouragements explicites de Washington où un représentant du
Département d’Etat a déclaré le 8 septembre que les Etats-Unis
reconnaîtraient l’indépendance du Kosovo. Même si, depuis de nombreux
mois, les responsables de Washington se sont faits les hérauts de
l’indépendance kosovare, jamais ils n’avaient encore aussi clairement
annoncé qu’ils étaient prêts à court-circuiter le Conseil de sécurité.

Le cauchemar de Solana

Une proclamation unilatérale d’indépendance suivie de sa
reconnaissance par les Etats-Unis provoquerait de grosses fissures,
non seulement au Conseil de sécurité, où plusieurs de 15 membres (la
Chine, qui dispose aussi du droit de veto, mais également l’Indonésie
ou l’Afrique du Sud) partagent l’opposition russe à une indépendance
du Kosovo imposée à la Serbie, mais aussi au sein de l’UE. Malgré les
craintes d’une « contagion sécessionniste », une certaine unanimité
prévalait pour accepter une indépendance reconnue « dans les règles
», c’est-à-dire avec l’aval du Conseil de sécurité de l’ONU. Comme
cette éventualité devient de plus en plus improbable, la question
d’une reconnaissance d’une indépendance autoproclamée divise
profondément le club européen, ainsi que celle de l’envoi de la
mission civilo-policière devant remplacer celle de l’ONU, en train de
plier bagages.

Lors d’un sommet les 7 et 8 septembre à Viana Do Castelo (Portugal),
les 27 ministres des Affaires étrangères n’ont pu accorder leurs
violons. Si la Grande-Bretagne et, singulièrement, la France se
rangent sur la position états-unienne, plusieurs pays ont exprimé de
nettes réserves ou leur opposition à une reconnaissance
d’indépendance sans accord du Conseil de sécurité. Parmi ces
derniers, on trouve l’Espagne, la Slovaquie, la Grèce, Chypre, la
Hongrie, la Roumanie et la Bulgarie. Davantage que l’attachement aux
principes du droit international ou le désir de ne pas s’aliéner
durablement la Serbie, c’est surtout la crainte d’un précédent qui
motive la plupart de ces Etats, confrontés aux revendications
indépendantistes de leurs propres minorités. Et même au-delà de ces
nations, dans divers milieux européens, grandit la crainte que les «
indépendances autoproclamées » deviennent la règle, alors que, du
Pays Basque au Nagorny Karabakh, le cas du Kosovo est suivi avec
intérêt. Mais, au cabinet de notre ministre belge De Gucht, c’est
l’allégeance au grand George qui semble prévaloir, bien que
l’actuelle « crise institutionnelle » belge devrait plutôt l’inciter
à la réflexion.

Si une position commune devait s’imposer, celle de l’Allemagne serait
déterminante. Berlin a eu, depuis plus de quinze ans, une influence
capitale sur les événements d’ex-Yougoslavie. Rappelons la
reconnaissance unilatérale, avec le Vatican, de l’indépendance de la
Croatie à la fin 1991, forçant le reste de la Communauté européenne,
puis les Etats-Unis, à la suivre sur un chemin qui précipita quelques
mois plus tard la Bosnie-Herzégovine dans une guerre sanglante. Dès
la paix revenue dans ce pays, les services de renseignement allemands
se lançaient dans un programme d’armement et d’entraînement des
indépendantistes kosovars de l’Armée de libération du Kosovo. Depuis,
aux yeux des Albanais, l’aura américaine a bien supplanté l’attrait
exercé par la patrie du Deutsche Mark, mais l’Allemagne n’en garde
pas moins des positions clé au Kosovo : avec 2.500 soldats, son
contingent est le principal au sein de la KFOR, la force sous
commandement OTAN déployée au Kosovo, et, surtout, le représentant
européen au sein de la troïka chargée de la reprise des pourparlers
serbo-albanais n’est autre que le diplomate allemand Wolfgang Ischinger.

Le tabou de la partition

Or, en 2007, l’Allemagne ne semble plus vouloir jouer le rôle de
boutefeu des Balkans, observant une position plutôt réservée dans les
déchirements euro-atlantiques et intra-européens. Certains attribuent
cette prudence à une autre caractéristique de la politique allemande
de ces dernières décennies, la nécessité de ménager un voisin russe
qui n’est plus disposé à être le laissé-pour-compte des arrangements
entre grandes puissances dans les Balkans. Aussi, tout en maintenant
d’étroits liens avec les Etats-Unis, Berlin ne peut ignorer sa
dépendance envers les approvisionnements énergétiques russes et doit
donc manifester un minimum de compréhension envers la position serbe.
Ischinger a provoqué une mini-tempête en déclarant, en août, qu’une
partition du Kosovo – le nord (majoritairement serbe) demeurant en
Serbie, le reste devenant indépendant – n’était pas exclue par la
troïka. Ecartée d’emblée avant le début des négociations2, cette
option a été à nouveau rejetée avec véhémence par Washington et le «
gouvernement intérimaire » de Pristina. Par contre, la diplomatie
russe emboîtait le pas à la proposition d’Ischinger, alors que
Belgrade répétait son opposition à toute amputation de la Serbie, que
ce soit de l’ensemble ou d’une partie de sa province du Kosovo.

Il n’empêche que la partition du territoire, bien qu’elle
entraînerait le sacrifice des enclaves serbes (et de nombre de chefs
d’œuvre de l’architecture religieuse byzantine qu’elles recèlent)
dans la partie majoritairement albanaise, pourrait être, dans la
situation actuelle, la seule possibilité de compromis entre Belgrade
et Pristina. Une telle voie entraînerait bien des marchandages et des
revendications. Ainsi, les Albanais kosovars exigeraient, en
compensation, le rattachement de la vallée de Presevo, une région de
Serbie centrale adjacente au Kosovo et majoritairement albanaise. En
Macédoine, alors que les réformes des dernières années ont
considérablement accru la décentralisation et les droits des Albanais
(un tiers de la population, concentrée dans le nord-ouest), certains
n’hésiteraient pas à demander un scénario similaire à celui du
Kosovo, soit la création d’un troisième Etat albanais dans les
Balkans. Ce qui rendrait beaucoup plus crédible le projet de « Grande
Albanie », voire d’autres recompositions sur base ethnique dans la
région ou au-delà.

Cependant, le scénario d’une partition du Kosovo, pour improbable
qu’il soit, serait moins risqué pour la stabilité de l’Europe et du
monde que celui de l’indépendance. Pour une simple raison : une
solution acceptée par les Etats et les peuples directement concernés
est plus durable qu’une solution imposée par les grandes puissances,
même avec l’assentiment de l’ONU. Et ensuite parce que, si le
principe d’une solution convenant aux deux parties était retenu, cela
devrait freiner les ardeurs sécessionnistes de bon nombre de
candidats à l’indépendance et favoriser la recherche de compromis.

Empêtrés, divisés et saisis de doutes, les leaders occidentaux sont
en train de payer leurs erreurs au Kosovo. D’une part, ils ont laissé
le territoire devenir un haut lieu du crime organisé et du nettoyage
ethnique, un contre-exemple parfait de la « bonne gouvernance » et
des « droits de l’homme » qu’ils prêchent aux quatre coins du globe.
D’autre part, ils ont largement sous-estimé à la fois l’opiniâtreté
russe, aiguillonnée par le bouclier antimissile des Etats-Unis et
l’élargissement continu de l’OTAN, et l’attachement des Serbes au
Kosovo, berceau de leur histoire. Les promesses d’adhésion, «
carottes » offertes par l’UE et l’OTAN, contre le Kosovo, n’ont pas
eu les effets escomptés. Huit ans après les bombardements,
l’organisation atlantique est plus impopulaire que jamais à Belgrade.
Quant à l’adhésion à l’UE, même le très pro-occidental président
Tadic a assuré qu’elle ne servirait pas de lot de consolation pour la
perte du Kosovo. Décidément, les mirages de la mondialisation ont
perdu beaucoup de leurs vertus anesthésiantes…


Georges Berghezan

1 La nouvelle série de négociations devait commencer le 28 septembre
à New York, dans le cadre de l’Assemblée générale de l’ONU
2 Les 3 « ni » d’Ahtisaari : ni retour à la situation d’avant 1999,
ni rattachement (à un autre pays), ni partition

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L’opposition à l’OTAN grandit à Belgrade

Comme dans la plupart des pays d’Europe centrale et orientale, le
sentiment prévalait en Serbie que l’adhésion à l’OTAN représentait
une étape de l’« intégration euro-atlantique », un préalable d’une
adhésion à l’UE, donc un pas vers la relative prospérité dont jouit
l’ouest du continent. Evidemment, la Serbie a la particularité
d’avoir subi, pendant près de dix ans, de sévères sanctions
économiques de la part de l’Occident et d’avoir été bombardée pendant
78 jours par l’aviation de l’OTAN. Ces souvenirs sont encore vivaces
dans la population.

Néanmoins, depuis le renversement de Milosevic en 2000, les divers
gouvernements successifs ont tous ardemment défendu l’adhésion à
l’OTAN et à l’UE auprès de leur population. Dans ce but, ils ont cédé
à la plupart des exigences de l’Occident, privatisant de larges pans
de leur économie et livrant au Tribunal de La Haye la plupart des
inculpés pour crimes de guerre réfugiés en Serbie. En récompense, le
pays a accédé fin 2006 au Partenariat pour la Paix, programme de
coopération militaire considéré comme une antichambre de l’OTAN. Avec
une profonde restructuration de son armée en cours et le
développement d’une coopération étroite avec les Etats-Unis (en
particulier avec la Garde nationale d’Ohio), la Serbie semblait bien
placée pour une adhésion accélérée à l’OTAN. Seul caillou dans la
chaussure, le cas du général Mladic, toujours en liberté, peut-être
en Serbie.

Notons qu’un processus similaire est en cours dans les relations avec
l’UE. Après une année d’interruption pour cause de mauvaise
coopération avec le Tribunal de La Haye, Bruxelles et Belgrade ont
repris leurs pourparlers et sont sur le point de conclure un Accord
de stabilisation et d’association, préalable à une candidature
officielle à l’Union. Entre-temps, Carla Del Ponte, procureure du
Tribunal de La Haye, avait remis des rapports – enfin positifs – sur
la coopération serbe avec son institution. Il est clair que tout cela
visait d’abord à amadouer Belgrade et à l’amener à adoucir son refus
de concéder l’indépendance au Kosovo. En vain, car la position serbe
ne s’est pas infléchie et semble même plus ferme que jamais.

En outre, l’objectif de l’adhésion à l’OTAN ne fait plus l’unanimité
dans la coalition gouvernementale. A partir du mois d’août, les
ministres du Parti démocratique serbe (DSS), puis le Premier ministre
Kostunica, ont fortement critiqué le soutien de l’OTAN au plan
Ahtisaari et, en particulier, l’annexe 11 du plan prévoyant
privilèges et immunité aux troupes de l’OTAN. Certains ministres y
ont vu la volonté de créer, autour de la méga-base de Camp Bondsteel,
un « Etat-OTAN », un « Etat fantoche militarisé ». Les bombardements
« illégaux » et « impitoyables » de 1999 ont été rappelés et,
finalement, le DSS décidait le 15 septembre de s’opposer à l’adhésion
du pays à l’OTAN et se contenter du Partenariat pour la Paix. Dix
jours plus tôt, le gouvernement avait retiré l’adhésion à
l’organisation euro-atlantique de la liste de ses objectifs dans le
cadre de ce programme. Un geste qui n’a pas la portée de celui de De
Gaulle en 1966, mais qui n’en demeure pas moins une première parmi
les Etats candidats.

Les deux autres partis gouvernementaux, nettement plus pro-
occidentaux, ont dénoncé la « rhétorique anti-OTAN » du DSS et
certaines rumeurs évoquent une coalition de rechange entre ce dernier
et la principale force de l’opposition, le Parti radical (SRS), dont
le chef croupit à La Haye, accusé d’avoir organisé des milices
pendant les guerres de Croatie et de Bosnie.

Si les motivations politiciennes sont loin d’être absentes et si
l’annexe 11 apparaît comme un prétexte (le DSS a commencé à protester
près de cinq mois après la publication du rapport d’Ahtisaari qui,
concernant la force de l’OTAN, ne faisait que confirmer les
conditions en vigueur depuis le début de l’occupation),
l’impopularité de l’OTAN est plus perceptible que jamais en Serbie.
Pour expliquer le choix de son parti, Kostunica a souligné
l’importance de la neutralité militaire et assuré que son pays ne
participerait jamais aux aventures de l’OTAN en Irak et Afghanistan.
Mais, avant tout, c’est le rôle néfaste joué par cette organisation
au Kosovo qui a été rappelé. Après tant d’humiliations, une telle
réaction peut apparaître bien naturelle. Mais elle laisse aussi
présager que la « bataille du Kosovo » est loin d’être terminée et
qu’elle marquera, quoi qu’il advienne, de profondes empreintes sur
l’avenir de l’Europe.


Georges Berghezan


Per quale motivo il Che ha questa pericolosa abitudine di continuare a nascere? Più lo insultano, lo manipolano, lo tradiscono, più egli nasce. E' il maggior nascente del mondo. Non sarà perché il Che diceva quello che pensava e faceva quello che diceva? Non sarà per questo che continua a essere così straordinario in un mondo dove le parole e i fatti si incontrano raramente, e quando si incontrano non si salutano perché non si conoscono?

Eduardo Galeano 
(citato da Gianni Minà su Il Manifesto:

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«Seminò coscienza nel mondo»: Fidel ricorda il Che

di Fidel Castro Ruz *

su Il Manifesto del 09/10/2007

Il leader cubano celebra sul Granma «l'eccezionale combattente caduto un 8 ottobre di 40 anni fa», il «messaggero dell' internazionalismo militante» che «combatté con noi e per noi»

Mi fermo un istante nella mia lotta quotidiana per chinare la testa, con rispetto e gratitudine, davanti all'eccezionale combattente che cadde un 8 ottobre di 40 anni fa. Per l'esempio che ci ha lasciato con la sua Columna invasora che attraversò i terreni pantanosi a sud delle antiche province di Oriente e Camagüey inseguito dalle forze nemiche, liberatore della città di Santa Clara, creatore del lavoro volontario, protagonista di onorevoli missioni politiche all'estero, messaggero dell' internazionalismo militante nell'est del Congo e in Bolivia, seminatore di coscienze nella nostra America e nel mondo. Lo ringrazio per quello che cercò di fare e non poté fare nel suo paese natale, perché fu come un fiore strappato prematuramente dal suo stelo.
Ci ha lasciato il suo stile inconfondibile di scrivere, con eleganza, brevità e sincerità, ogni dettaglio di quello che gli passava per la mente. Era un predestinato, ma non lo sapeva.
Combatté con noi e per noi.
Ieri si è compiuto il trentunesimo anniversario della strage dei passeggeri e del personale dell'equipaggio dell'aereo cubano fatto saltare in pieno volo ed entriamo nel decimo anniversario della crudele e ingiusta incarcerazione dei cinque eroi anti-terroristi cubani. Anche davanti a tutti loro chiniamo la testa. Con grande emozione ho visto e ascoltato in televisione l'atto commemorativo.

*Dal Granma del 7 ottobre


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Qualsiasi cosa cerchi di scrivere *

di Italo Calvino

su Granma del 25/09/2007

Pensando a Che Guevara

Qualsiasi cosa io cerchi di scrivere per esprimere la mia ammirazione per Ernesto Che Guevara, per come visse e per come morì, mi pare fuori tono. Sento la sua risata che mi risponde, piena d'ironia e di commiserazione. Io sono qui, seduto nel mio studio, tra i miei libri, nella finta pace e finta prosperità dell'Europa, dedico un breve intervallo del mio lavoro a scrivere, senza alcun rischio, d'un uomo che ha voluto assumersi tutti i rischi, che non ha accettato la finzione d'una pace provvisoria, un uomo che chiedeva a sè e agli altri il massimo spirito di sacrificio, convinto che ogni risparmio di sacrifici oggi si pagherà domani con una somma di sacrifici ancor maggiori.

Guevara è per noi questo richiamo alla gravità assoluta di tutto ciò che riguarda la rivoluzione e l'avvenire del mondo, questa critica radicale a ogni gesto che serva soltanto a mettere a posto le nostre coscienze.

In questo senso egli resterà al centro delle nostre discussioni e dei nostri pensieri, così ieri da vivo come oggi da morto. E' una presenza che non chiede a noi né consensi superficiali né atti di omaggio formali; essi equivarrebbero a misconoscere, a minimizzare l'estremo rigore della sua lezione. La "linea del Che" esige molto dagli uomini; esige molto sia come metodo di lotta sia come prospettiva della società che deve nascere dalla lotta. Di fronte a tanta coerenza e coraggio nel portare alle ultime conseguenze un pensiero e una vita, mostriamoci innanzitutto modesti e sinceri, coscienti di quello che la "linea del Che" vuol dire -una trasformazione radicale non solo della società ma della "natura umana", a cominciare da noi stessi- e coscienti di che cosa ci separa dal metterla in pratica.

La discussione di Guevara con tutti quelli che lo avvicinarono, la lunga discussione che per la sua non lunga vita (discussione-azione, discussione senz'abbandonare mai il fucile), non sarà interrotta dalla morte, continuerà ad allargarsi. Anche per un interlocutore occasionale e sconosciuto (come potevo esser io, in un gruppo d'invitati, un pomeriggio del 1964, nel suo ufficio del Ministero dell'Industria) il suo incontro non poteva restare un episodio marginale. Le discussioni che contano sono quelle che continuano poi silenziosamente, nel pensiero. Nella mia mente la discussione col Che è continuata per tutti questi anni, e più il tempo passava più lui aveva ragione.

Anche adesso, morendo nel mettere in moto una lotta che non si fermerà, egli continua ad avere sempre ragione.

* ottobre 1967

http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=18798

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Hasta siempre, Comandante!

Aprendimos a quererte,
Desde la histórica altura,
Donde el sol de tu bravura
Le puso cerco a la muerte.
Aquí se queda la clara,
La entrañable transparencia
De tu querida presencia,
Comandante Che Guevara.
Tu mano gloriosa y fuerte
Sobre la historia dispara,
Cuando todo Santa Clara
Se despierta para verte.
Aquí se queda la clara,
La entrañable transparencia
De tu querida presencia,
Comandante Che Guevara.
Vienes quemando la brisa
Con soles de primavera
Para plantar la bandera
Con la luz de tu sonrisa
Aquí se queda la clara,
La entrañable transparencia
De tu querida presencia,
Comandante Che Guevara.
Tu amor revolucionario
Te conduce a nueva empresa,
Donde esperan la firmeza
De tu brazo libertario.
Aquí se queda la clara,
La entrañable transparencia
De tu querida presencia,
Comandante Che Guevara.
Seguiremos adelante
Como junto a tí seguimos
Y con Fidel te decimos :
"¡hasta siempre comandante!"
Aquí se queda la clara,
La entrañable transparencia
De tu querida presencia,
Comandante Che Guevara.

(Carlos Puebla)

traduzione in italiano:


Arrivederci, Comandante!

Abbiamo imparato ad amarti
dalla storica altura
dove il sole del tuo coraggio
ha messo limite alla morte
Rimane qui la chiara,
l'affettuosa trasparenza
della tua amata presenza
Comandante Che Guevara.
La tua mano gloriosa e forte
spara sulla storia
quando tutta Santa Clara
si sveglia per vederti
Qui rimane la chiara,
l'affettuosa trasparenza
della tua amata presenza
Comandante Che Guevara.
Vieni bruciando la brina
con soli di primavera
per piantare la bandiera
con la luce del tuo sorriso
Qui rimane la chiara,
l'affettuosa trasparenza
della tua amata presenza
Comandante Che Guevara.
Il tuo amore rivoluzonario
riconduce a nuove imprese
dove aspettano la fermezza
del tuo braccio libertario
Qui rimane la chiara,
l'affettuosa trasparenza
della tua amata presenza
Comandante Che Guevara.
Andremo avanti
continueremo come insieme a te
e con Fidel ti diciamo
"Arrivederci, Comandante!"
Rimane qui la chiara,
l'affettuosa trasparenza
della tua amata presenza
Comandante Che Guevara.



SREBRENICA NON È NEI BALCANI


La sconfinata e colpevole ignoranza di Walter Veltroni sulle
questioni internazionali si è palesata una volta di più nel corso di
un intervento pubblico tenuto pochi giorni orsono.
"Tra il 1991 e il 1992 - ha spiegato Veltroni - le speranze nate con
la caduta del muro di Berlino si sgretolarono: nel 1994 con il
genocidio in Ruanda, poi con i settemila musulmani massacrati a
Srebrenica e piu' tardi i Balcani."

Parlando di fronte alla lobby di Diplomatia, club esclusivo che
riunisce esponenti del mondo dell'imprenditoria e del ceto politico
attorno alle tematiche dei rapporti internazionali, Veltroni ha
nuovamente rivendicato la aggressione armata contro i popoli jugoslavi:
"In Kosovo abbiamo fatto nostro il principio che se uno stato viola i
diritti umani cio' non puo avvenire nell'indifferenza della comunita'
internazionale".

Se potesse, Veltroni tornerebbe a lanciare un "adeguato"
bombardamento "umanitario" anche in Myanmar: "un paese nel quale anni
ininterrotti di dittatura militare e la repressione delle
mobilitazioni di questi giorni hanno trovato una posizione della
comunita' internazionale assolutamente e totalmente inadeguata".
Se solo ci fossero grandi petrolchimici anche nei pressi di Rangoon,
ah! Che goduria che sarebbe, per Walter Veltroni!

(a cura di Italo Slavo. Fonte: AGI, 8 ottobre 2007)

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Operazione-sciame-di-fuoco/1796788

Operazione sciame di fuoco


di Fabio Mini

Tutto è pronto per la guerra. E l'offensiva non colpirà soltanto gli impianti nucleari ma cancellerà tutta la potenza iraniana. Concentrando le forze d'attacco più moderne in orde come quelle di Gengis Khan


Chi pensava che il via libera all'attacco israelo-statunitense all'Iran sarebbe venuto dal Congresso americano si sbagliava. E si sbagliava anche chi pensava che un presidente Bush frustrato dal caos iracheno, dallo stallo afghano e dalle pressioni delle lobby industriali avrebbe finito per decidere da solo. L'attacco all'Iran si farà grazie alle dichiarazioni del neo ministro degli Esteri francese Kouchner. In questi anni di minacce e controminacce, di scuse e pretesti per fare la guerra le uniche parole 'rivelatrici' sono state quelle della laconica frase "ci dobbiamo preparare al peggio". Molti le hanno prese come uno scivolone, altri le hanno considerate una provocazione scaramantica, altri come un incitamento e altri ancora come una rassegnazione ad un evento ineluttabile. Può essere che la frase contenga tutto ciò ma l'essenza profonda delle parole di Kouchner è diversa. 

In questi ultimi 15 anni di interventi militari di vario tipo e in tutte le parti del mondo si sono stabilite strane connessioni e affinità. Gli eserciti sono integrati dai privati, gli idealisti dai mercenari, gli affari dall'ideologia, la verità si è intrisa di menzogne che neppure la logica della propaganda riesce più a scusare. Ed una delle connessioni più insolite è quella che si è realizzata tra militari, operatori umanitari e politica estera arrivando a permettere che ognuna delle tre componenti si possa spacciare per le altre due. Il collante principale di questo connubio è la concezione dell'emergenza. La politica estera ha perduto il carattere di continuità dei rapporti fra gli Stati e nell'ambito delle organizzazioni internazionali. Si dedica ormai da tempo a gestire rapporti di emergenza, rapporti temporanei legati ad interessi o posizioni transitorie e mutevoli e a geometrie variabili.

D'altra parte, la politica dell'emergenza è l'unica che permette l'impegno limitato e selettivo. Inoltre, siccome la dimensione dell'emergenza può essere manipolata o interpretata, può essere costruita o smontata a piacimento. Seguendo la stessa logica, gli eserciti di questi ultimi quindici anni si sono dedicati esclusivamente all'emergenza, preferibilmente esterna e per motivi cosiddetti umanitari in modo da garantirsi consenso e sostegno. Non ci sono più eserciti capaci di difendere i propri territori o di assicurare la difesa in caso di guerra. È sempre più difficile trovare uno Stato che sia minacciato di guerra da un altro Stato e tutti gli eserciti del mondo oggi contano su un preavviso di almento 12 mesi per mobilitare le risorse idonee alla difesa nazionale. Si sono perciò specializzati nell'emergenza sia come tipo sia come tempo e ritmo degli interventi.

Quando Kouchner dice candidamente che ci dobbiamo 'preparare al peggio' non fa altro che interpretare una filosofia che non si pone come obiettivo la ricerca del meglio, della soluzione meno traumatica, ma che invoca la gestione dell'emergenza da parte della politica, dello strumento militare e delle organizzazioni umanitarie ormai legate a doppio filo. È anche l'ammissione dell'incapacità della stessa politica nel pensare e trovare soluzioni durature, dell'incapacità degli strumenti militari di gestire situazioni conflittuali fino alla completa stabilizzazione e dell'incapacità delle organizzazioni umanitarie di risolvere i problemi della gente in una prospettiva un po' più lunga di quella offerta dall'emergenza. Infine Kouchner ammette anche che la somma di queste incapacità conduce ineluttabilmente alla guerra. E allora guerra sia. 

È evidente che in queste condizioni sono necessarie alcune forzature che garantiscano la realizzazione dell'emergenza e degli interventi delle varie componenti: deve succedere qualcosa - quello che gli analisti chiamano 'trigger' - che determini l'emergenza politica, deve essere in immediato pericolo la sicurezza collettiva e si deve prevedere una catastrofe umanitaria (più grande è meglio è). Si deve in sostanza possedere un apparato gestibile capace di 'inventare' l'emergenza e di inventarne la fine che consente il distacco e il disimpegno a prescindere dalla soluzione dei problemi. L'attacco all'Iran rientra perfettamente in questo quadro e, a ben vedere, è un quadro ormai quasi completo.La disponibilità di pretesti per l'attacco è molteplice

L'idea che l'Iran voglia sviluppare un ordigno nucleare e che voglia distruggere Israele è ormai largamente ammessa da tutti. Mancano i riscontri e le prove oltre alle fanfaronate, ma siamo stati testimoni di fanfaronate terroristiche che si sono comunque materializzate e nessuno vuole più rischiare, neppure per amore della verità. Un attacco iraniano o sostenuto dagli iraniani alle forze americane in Iraq, anche questo senza prove, sta convincendo persino i più scettici. Prima o poi, a forza di parlarne ed evocarlo, sarà preso come un invito o una sfida e sarà fatto sul serio. La politica iraniana di sostegno ad Hamas e agli Hezbollah rende Teheran estremamente vulnerabile. Basta un'intemperanza o un errore di queste formazioni per scatenare un intervento militare immediato. 

La politica estera dei maggiori paesi, Europa inclusa, si è ormai abituata all'idea che un intervento armato sia in grado di ricacciare l'Iran sulle posizioni di vent'anni fa. Sta anche passando l'idea che lo scopo non è tanto e soltanto quello di impedire la formazione di una potenza nucleare, ma quello di eliminare il paese come attore regionale portatore d'interessi petroliferi e strategici in tutta l'Asia centro-meridionale. Sul piano militare tutto è ormai pronto da tempo. I piani d'attacco sono in vigore dal 1979, all'epoca della crisi dell'ambasciata Usa, e sono stati aggiornati con nuove tecnologie e strategie. La tesi che si tratti di un attacco mirato essenzialmente alle strutture atomiche senza danni collaterali per la popolazione civile è soltanto una pietosa fantasia di chi si è ormai abituato a mentire. Anche l'idea che possa essere limitato al territorio iraniano è quanto meno sospetta, perché lo scopo dell'ostinazione e dell'ostentazione degli ayatollah da una parte e di quella israelo-americana dall'altra riguarda interessi e ambizioni che vanno ben al di là del Golfo persico.

Qualsiasi genere di attacco produrrà ingenti perdite di militari e civili a prescindere che s'inneschi una emergenza nucleare di fall out o una fuga di radiazioni. Qualsiasi attacco non potrà che avere come premessa la distruzione delle strutture difensive: basi aeree e missilistiche, depositi, rampe mobili, porti militari, unità in navigazione, difese contraeree e radar, reparti terrestri mobili e corazzati, centri di comunicazione e di comando e controllo dovranno essere eliminati prima o contemporaneamente all'attacco alle installazioni nucleari. Molte di queste strutture coincidono con i maggiori centri abitati. Facendo la tara ai più sofisticati missili da crociera, alle bombe intelligenti guidate sugli obiettivi da parte dei commandos israeliani e statunitensi, già da tempo all'opera in Iran, rimane un margine abbastanza elevato di danni collaterali. Se dovessero essere usati al posto delle bombe ad esplosivo convenzionale 'bunker busting' i mini ordigni nucleari a fissione o le bombe a neutroni, la percentuale di danni potrebbe aumentare ma non così enormemente come molti asseriscono. 

Anche la tesi che si possano fare attacchi chirurgici con una sola componente, quella aerea e missilistica, è uno specchio per le allodole. Un'azione complessa che miri, come si dice di voler fare, a rispedire il potenziale bellico iraniano all'età della pietra, presuppone azioni di attacco multiple, con forze multiple, da direzioni multiple in tempi ristretti in modo da impedire all'avversario, come diceva il colonnello Boyd, ogni capacità di decisione, risposta e controstrategia. L'azione multipla deve anche prevenire la ritorsione diretta da parte delle forze aeree e navali iraniane contro le installazioni e i trasporti petroliferi nel Golfo Persico e in quello di Oman. Deve neutralizzare le minacce missilistiche alle basi militari americane in Asia Centrale e nel medio Oriente. Deve impedire azioni iraniane di strategia indiretta in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq, in Libano, a Gaza, nel Caucaso e in ogni altro posto dove uno sciita può creare un fastidio. Teheran inoltre controlla la costa settentrionale dello stretto di Hormuz e la chiusura di questa via d'acqua al traffico delle petroliere potrebbe far schizzare il prezzo del petrolio a livelli oscillanti tra i 200 e i 400 dollari al barile. Lo stesso risultato si otterrebbe se l'Iran ritorcesse le azioni di sabotaggio e bombardamento sugli impianti petroliferi di altri paesi dell'area.

La strategia militare dell'attacco all'Iran non può perciò essere affidata ad un attacco chirurgico o ad una sola componente. Non può che essere quella della 'Swarm Warfare', la guerra dello sciame o dell'orda, riesumata da Arquilla e Ronfeld dopo l'insuperabile applicazione di Gengis Khan. In termini moderni questa strategia attiva tutte le dimensioni della guerra - terrestre, navale, aerea, missilistica, spaziale, virtuale e dell'informazione - su teatri e livelli multipli. Per far questo occorre che lo 'sciame' delle varie componenti e delle azioni che si sviluppano concentrandosi in un luogo e in una dimensione per poi trasferirsi su altri luoghi e altre dimensioni sia comunque sufficiente ad impedire qualsiasi reazione. Le orde incaricate della distruzione fisica degli obiettivi devono integrarsi e concentrarsi sui bersagli con le orde virtuali delle azioni diplomatiche, della guerra psicologica e con quelle della manipolazione dell'informazione. 

Le azioni militari devono poi essere finalizzate a creare una emergenza umanitaria che consenta l'intervento di organizzazioni internazionali in territorio iraniano. Ovviamente la catastrofe deve essere attribuita alla responsabilità degli stessi iraniani. Anche in questo campo tutto è ormai pronto o quasi, soprattutto dopo l'esortazione di Kouchner. Agenzie internazionali e organizzazioni non governative stanno già scalpitando per andare in Iran a togliere il velo alle donne. Se si dà loro la possibilità d'intervenire per raccogliere i rifugiati, curare i feriti, fare la conta dei morti ed indire una tornata di elezioni al mese, ci sarà la gara per portare la democrazia in Iran. 

La complessità di questo scenario non deve indurre a credere che si debbano mobilitare quantità enormi di forze. Le capacità di bombardamento degli stormi israeliani e statunitensi sono talmente elevate da essere in grado di battere obiettivi multipli con un numero limitato di velivoli. I missili da crociera che possono essere lanciati dal mare sono ormai armi tecnologiche che non hanno bisogno di interventi di massa per realizzare distruzioni mirate o su larga scala. Semmai la molteplicità dei piani e dei livelli d'intervento porrà problemi di coordinamento, comando e controllo, ma nulla di eccezionale. Stati Uniti e Israele collaborano da mezzo secolo e i problemi di pseudo autorizzazioni da parte di paesi terzi ai sorvoli o al transito di truppe sono ormai superati sia dagli accordi politici con i paesi interessati sia dalla predisposizione delle due potenze a ignorare le obiezioni.

Rimane, grave e importante, l'incognita del post-emergenza. L'incognita sul futuro di uno Stato di origine e mentalità imperiale che si vede transitato dal ruolo di Stato canaglia a quello di Stato fallito e da aspirante al ruolo di potenza regionale a quello di buco nero politico e strategico. Rimane forte l'incognita della reazione non tanto alla sconfitta o al ridimensionamento delle aspirazioni ma all'umiliazione. Non è escluso che quello che si vuole evitare, la nuclearizzazione dell'Iran, tutta da dimostrare e tutta da realizzare, non sia invece favorita con l'aiuto di potenze esterne proprio dall'umiliazione. 

Fabio Mini è generale, ex comandante delle forze della Nato in Kosovo
(01 ottobre 2007)


L'Italia combatte già

L'Italia sta già combattendo su uno dei fronti del conflitto iraniano. Perché è difficile non collegare l'intensificazione degli scontri nella regione di Herat, la zona afghana affidata al controllo del nostro contingente, con l'escalation del confronto tra Occidente e Iran. Quella che era la regione più tranquilla dell'Afghanistan liberato dai talebani, in poco più di un anno si è trasformata in una terra insidiosa. L'ultimo episodio è la cattura dei due agenti del Sismi e la successiva operazione per liberarli. Gli uomini del servizio segreto militare erano in missione nell'area non lontano dalla frontiera iraniana diventata un cardine nei rifornimenti della guerriglia. Lì nuclei tribali finora neutrali verso la presenza delle truppe della Nato hanno potenziato i propri arsenali e raddoppiato i legami con i guerriglieri islamici. Dietro, secondo i sospetti del governo statunitense, ci sarebbe una pressione politica e militare crescente da parte di Teheran, testimoniata anche dai carichi di armi che vengono sempre più frequentemente intercettati dal contingente atlantico assieme al via vai di profughi e rifugiati afghani dall'Iran: ordigni sofisticati per gli agguati. 

Con la sfida nucleare lanciata da Ahmadinejad il distretto di Shindad, quello dove sono stati catturati i due agenti, è diventato il punto di osservazione privilegiato. Nel 2001 gli americani si sono impossessati delle grandi basi costruite dai sovietici proprio per sorvegliare il confine iraniano: le hanno trasformate in centrali di ascolto e osservazione, tornate adesso di rilevanza strategica. Ma la protezione della regione ricade sotto la responsabilità del comando italiano di Herat. E se i pattugliamenti dei 'normali' soldati sono diminuiti negli ultimi mesi, parà del Col Moschin e incursori del Comsubin hanno invece messo sempre più spesso il naso nella zona a ridosso della frontiera. Molto attivi anche gli agenti del Ris, il servizio di informazioni dell'Esercito che agisce spesso in Afghanistan come braccio operativo del Sismi. Come i due sottufficiali catturati assieme a due loro collaboratori afghani sabato 22 settembre. Il blitz lanciato prima dell'alba del lunedì successivo dai commandos britannici dello Special Boat Squadron si è concluso in un bagno di sangue. L'azione a sorpresa contro la prigione degli ostaggi è fallita, forse a causa del rumore dei velivoli da ricognizione teleguidati: l'attacco dagli elicotteri contro i mezzi in movimento degli afghani ha determinato una sparatoria pesante. Anche i due militari italiani sono stati feriti, forse dal fuoco amico dei liberatori: uno, colpito da due pallottole, è in condizioni disperate. Un incubo peggiore dello scenario afghano può venire dal Libano meridionale, presidiato da un massiccio contingente di caschi blu italiani. In caso di azioni contro l'Iran, i nostri soldati si troverebbero a fare da cuscinetto tra Israele e le milizie sciite di Hezbollah. Una trappola che potrebbe coinvolgere tutti i 2.400 militari italiani lì impegnati.


(articoli segnalati da Roberto Vignoli su scienzaepace @ liste.comodino.org.
Sullo stesso numero de L'Espresso appare un estratto dal libro "Euroil. La borsa iraniana del petrolio e il declino dell’impero americano", recentemente uscito, che spiega le ragioni di fondo dell'accanimento statunitense contro l'Iran. In proposito, pubblichiamo di seguito la recensione apparsa su InformationGuerriglia)


http://www.informationguerrilla.org/euroil-la-borsa-iraniana-del-petrolio-e-il-declino-dell’impero-americano-di-paolo-g-conti-e-elido-fazi-fazi-editore/


“Euroil. La borsa iraniana del petrolio e il declino dell’impero americano” di Paolo G. Conti e Elido Fazi (Fazi Editore)


8 Ott 2007 3:04


Capire i meccanismi economici è capire scelte politiche, azioni di governo, manovre all’apparenza non chiare, notizie riportate dai media che, se analizzati sotto la lente delle relazioni economiche e valutarie, si contestualizzano e spiegano parecchie cose, creando collegamenti tra fatti che all’apparenza potrebbero non essere così vicini.

Che l’ostilità – per adesso solo diplomatica – degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran non avesse niente a che vedere con il nucleare lo sapevamo già, senza bisogno che Kissinger lo confermasse. Ma il fatto è che non ha a che fare solo con il petrolio. C’è un altro elemento – che al greggio è certamente legato – che gli U.S.A. hanno intenzione di difendere con ogni mezzo: il dollaro. Questo è ciò che ci spiega Euroil, libro appena uscito a firma di Paolo G. Conti ed Elido Fazi, e lo fa con molta chiarezza, anche per chi è digiuno di economia, riuscendo a sintetizzare i fatti della storia economica mondiale, gli accadimenti degli ultimi anni che ne stanno cambiando gli equilibri, e le prospettive future per uscirne senza arrivare al tracollo economico (e non solo) del pianeta.

Due le condizioni che minano la supremazia del dollaro nell’economia mondiale: la crescita dell’euro che si presenta sempre più stabile e forte e la diminuzione delle fonti energetiche non rinnovabili. Molti Paesi stanno passando parte delle loro riserve valutarie dal biglietto verde alla moneta europea, causando preoccupazione a Washington. Non solo. L’euro si sta affermando nel dibattito tra i membri dell’OPEC come possibile valuta alternativa per il petrolio. Questi due elementi insieme contribuiscono a rendere meno stabile l’economia americana, in posizione privilegiata dagli accordi di Bretton Woods in avanti, ma che presenta il disavanzo della bilancia dei pagamenti e il debito estero più alti del mondo.

In più c’è un altro fattore, di cui poco si è sentito sui media: l’Iran sta portando avanti un progetto per realizzare una borsa del petrolio sull’Isola di Kish nel Golfo Persico, in cui utilizzare l’euro come valuta, che si andrebbe ad aggiungere alle due già esistenti (New York e Londra): un colpo politico ed economico al cuore dell’impero americano, che non potrà rimanere indifferente.

Tanti gli altri elementi che entrano in questo quadro, a partire da Cina e Russia, e gli autori del libro prospettano un unico scenario per un futuro in cui dollaro e petrolio non saranno difesi solo dagli eserciti: un nuovo ordine monetario internazionale, gestito da organizzazioni realmente indipendenti (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale sono ormai parte della politica statunitense, e scambiano in dollari) che si basi su una valuta capace di maggiore sicurezza, democrazia e collegialità rispetto ai bigliettoni verdi; spinta al rinnovamento che potrebbe giungere probabilmente solo dall’Europa. Ma gli Stati Uniti saranno disposti ad abdicare alla supremazia economica senza rinunciare a combattere?


Euroil. La borsa iraniana del petrolio e il declino dell’impero americano
Paolo G. Conti, Elido Fazi
Fazi Editore
Pag. 154, Euro 14



(english / italiano)

Alcuni secessionismi sono più uguali degli altri?

È proprio il caso di parafrasare Orwell ne "La fattoria degli animali" ("Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri") per descrivere l'atteggiamento "a geometria variabile" ed i "doppi standard" usati in Occidente sulla questione  delle rivendicazioni nazionali. 
Mentre la NATO caldeggia e saluta, in continuità perfetta con la politica distruttiva tenuta nel corso di tutto il processo di squartamento e soggiogamento della Jugoslavia, la secessione kosovara addirittura calendarizzandola per il 10 dicembre p.v. (termine dei colloqui di Vienna), in altri paesi si "regolano i conti" con movimenti indipendentisti ben più legittimi dal punto di vista storico e dei diritti negati.
In Georgia il regime atlantista di Saakashvili minaccia un intervento contro le repubbliche caucasiche russofone; in Spagna Zapatero fa arrestare TUTTA la dirigenza di Batasuna e scaglia la polizia soprattutto contro le sedi dell'ala comunista del movimento basco. 
D'altronde, la preoccupazione di Zapatero per quello che potrebbe succedere dopo la secessione del Kosovo era stata espressa a chiare lettere solo pochi giorni fa: "Il principio dell'integrità territoriale difeso dalla Russia nel caso del Kosovo riguarda molti Stati, e riteniamo che sarebbe fortemente irresponsabile non rispettarlo"... ( http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5665 ) Speriamo che, almeno, Zapatero tenga fede a questa dichiarazione, non riconoscendo la "indipendenza" kosovara quando sarà il momento. 
(a cura di I. Slavo)


1) Marco Santopadre sui recenti sviluppi nei Paesi Baschi

2) Saakashvili pledges to restore Georgia’s territorial integrity soon


=== 1 ===

Paese Basco

Batasuna: "L'arresto dei nostri dirigenti è una dichiarazione di guerra"

   

Marco Santopadre

Pernando Barrena, l'unico portavoce del partito indipendentista basco Batasuna rimasto in libertà, ha dichiarato oggi durante una conferenza stampa che l'ondata di arresti avvenuta nei Paesi Baschi contro la direzione collegiale della sua formazione politica non può che essere considerata come "una dichiarazione di guerra per chiudere la porta all'indipendentismo basco". Ed ha riaffermato che la sinistra basca continuerà senza tentennamenti a lottare per la difesa dei diritti del popolo basco, per "l'indipendenza e il socialismo". Durante l'incontro con la stampa, il leader basco ha inoltre fatto sapere che ritiene un "sequestro" la detenzione dei militanti della sinistra indipendentista.
Nella notte fra giovedì e venerdì, la polizia ha arrestato in una mega retata ben 23 dirigenti baschi fra cui buona parte della direzione di Batasuna. Barrena era attorniato da un centinaio di dirigenti e militanti di spicco della sinistra indipendentista, alcuni dei quali probabilmente componenti della nuova Direzione Collegiale che prenderà il posto di quella appena decapitata. Tra i presenti, oltre a vecchi dirigenti della sinistra basca, anche il segretario generale del sindacato LAB, Rafa Diez.

Migliaia di baschi in piazza contro - e malgrado - la repressione

Intanto si sono svolte oggi numerose manifestazioni popolari contro la repressione: 5000 persone hanno sfilato nelle vie del centro di Bilbao, circa 3000 sono scese in piazza a Donostia, 400 a Hendaia (sul versante francese del Paese Basco). Anche a Gasteiz una marcia contro la repressione si è svolta nel tardo pomeriggio. A Irunea (Pamplona) la manifestazione, convocata nei pressi della stazione degli autobus, è stata proibita e dissolta violentemente dalla Polizia Nazionale Spagnola, che nelle cariche ha ferito seriamente un manifestante che è stato ricoverato in ospedale.
Per quanto riguarda la repressione l'organizzazione Askatasuna - la cui portavoce Ohiana Agirre è stata arrestata martedì insieme al responsabile esteri di Batasuna Joseba Alvarez - ha reso noto che una giovane di Bilbao, che aveva realizzato una scritta su un muro per esprimere solidarietà ai dirigenti di Batasuna arrestati giovedì, è stata fermata ed accusata di "incitamento al terrorismo".

I sindaci indipendentisti: "Disponibili a tutto per fermare la TAV"

 

Le manifestazioni di oggi - altre ne sono state già convocate per i prossimi giorni - non rappresentano la unica risposta popolare, e tutta politica, alla strategia di annichilimento della sinistra basca adottata dal governo del socialista Zapatero con la retata di giovedì. Ormai tutti gli arrestati sono stati rinchiusi in alcuni commissariati di Madrid in regime di completo isolamento, impossibilitati ad avere ogni tipo di contatto con avvocati o familiari e in balia quindi della forze di sicurezza e dei loro metodi di "interrogatorio".
Ma già oggi alcuni esponenti della sinistra basca hanno ribadito che le vertenze intraprese finora rimangono tutte aperte.
Nel pomeriggio numerosi sindaci e rappresentanti municipali - per lo più di Accion Nacionalista Vasca (sinistra patriottica), ma anche di altri partiti baschi di sinistra come Aralar, Ezker Batua e Zutik, hanno annunciato durante una assemblea tenutasi a Elorrio che utilizzeranno tutte le opzioni a propria disposizione per "paralizzare" il progetto dell'alta velocità nei loro territori. I rappresentanti istituzionali locali hanno in questo modo risposto all'appello della piattaforma popolare "AHT gelditu!" (Stop all'alta velocità) che da tempo si batte per fermare la distruzione del territorio basco e che definisce la TAV una "iniziativa antisociale ed antiecologica".
La repressione aumenta, ma la lotta - politica - non si ferma.


Domenica 7 ottobre

Madrid: il Tribunale Speciale ordina la carcerazione dei dirigenti indipendentisti

 

Di Marco Santopadre

 

Baltasar Garzón, giudice dell’Audiencia Nacional, ha rilasciato oggi due abitanti di Segura (Gipuzkoa) arrestati nel corso della maxiretata di giovedì sera contro la sinistra patriottica basca, ma ha al tempo stesso chiesto l’ingresso in prigione per gli altri 21. La possibilità di poter evitare l’incarcerazione in cambio del pagamento di una cauzione di 10 mila euro sembra sussistere solo nei casi di Egoitz Apaolaza, dirigente del partito Accion Nacionalista Vasca, e di Haizpea Abrisketa e Jean Claude Agerre, i due componenti della direzione di Batasuna con passaporto francese.

Tutti e 23 gli arrestati di giovedì, tra i quali vi sono 16 membri della Mesa Nacional di Batasuna e due dirigenti di Azione Nazionalista, sono dovuti passare questa mattina per la Quinta sala dell’Audiencia Nacional, dove il giudice Garzon ha tentato di interrogarli – ma stando ad informazioni filtrate gli imputati si sarebbero rifiutati di rispondere – ed ha proceduto alla lettura dei capi d’accusa. In otto casi la Fiscalia parla di reiterazione del delitto nei confronti di altrettanti dirigenti di Batasuna che non hanno rispettato il divieto di svolgere attività politica nonostante fossero già sottoposti a procedimento penale dopo la messa fuori legge della propria organizzazione. Tra questi il coordinatore e il responsabile della comunicazione della formazione di sinistra, Joseba Permach e Juan José Petrikorena, già sotto processo perché considerati responsabili della subordinazione di Batasuna dell’ETA e del finanziamento dell’organizzazione armata attraverso gli introiti derivanti dalle “Herriko Tabernas”, le sedi sociali che il movimento possiede in tutto il territorio basco. Gli altri sono stati invece accusati direttamente di “collaborazione con organizzazione terroristica”, a causa della loro partecipazione alla riunione di Segura di giovedì e di riunioni simili svoltesi precedentemente.


Ibarretxe si smarca: “L’illegalizzazione delle idee non è il cammino giusto”

Questo sul fronte della persecuzione giudiziaria della sinistra basca. Per quanto riguarda invece la solidarietà con gli arrestati sono state indette anche per il pomeriggio di oggi nuove mobilitazioni dopo che ieri circa 15.000 baschi sono scesi in piazza nelle 4 principali città ed in altri comuni minori rispondendo ad un appello alla reazione immediata lanciato proprio da Batasuna. Mentre dalle fila del Partito socialista non si è levata una sola voce di critica nei confronti della strategia di violenta e brutale repressione intrapresa dall’esecutivo Zapatero, oggi il lehendakari (governatore) della Comunità Autonoma Basca Juan José Ibarretxe, del Partito Nazionalista Basco, si è detto contrario all’arresto della direzione di Batasuna. In visita alla diaspora basca in Argentina, Ibarretxe ha affermato: “L’illegalizzazione delle idee non è il cammino giusto. Avete per caso visto mai il governo britannico mettere fuori legge il Sinn Fein irlandese o mettere in carcere la sua direzione?”. Il lehendakari ha ribadito che la soluzione del conflitto può derivare esclusivamente dal dialogo, senza esclusioni, tra tutte le forze politiche, Batasuna compresa.

Solidarietà agli arrestati dai maggiori sindacati baschi.

Intanto il segretario generale del sindacato LAB, Rafa Díez, ha detto di giudicare gli arresti di giovedì “un passo ulteriore nella strategia di criminalizzazione dell’indipendentismo basco” e un tentativo di “condizionare la sinistra patriottica” per costringerla a rinunciare alle sue rivendicazioni. Durante una conferenza stampa Diez ha informato che il sindacato patriottico di cui è leader ha convocato per giovedì una giornata di sensibilizzazione con manifestazioni all’interno delle imprese accomunate dallo slogan “No alla repressione. La parola e la decisione al popolo basco”.

Ma segnali di netta critica nei confronti di Zapatero giungono anche dal principale sindacato basco. ELA, vicino al PNV, ha accusato il capo del governo di Madrid di continuare le politiche repressive del suo predecessore Josè Maria Aznar nel tentativo di eliminare la sinistra abertzale dalla società. ELA ha annunciato la convocazione per lunedì di una manifestazione a Bilbao con il fine di rigettare gli arresti che hanno colpito Batasuna.

 
Ondata di sabotaggi nei Paesi Baschi

Dopo gli attacchi di giovedì notte, si sono moltiplicati nelle ultime ore gli episodi di “kale borroka” (guerriglia urbana) da parte dei giovani indipendentisti. Un gruppo di incappucciati ha lanciato bottiglie molotov contro un autobus di linea nella località di Gorliz (Bizkaia) dopo aver obbligato il conducente a scendere. dall’incendio. Nell’attacco, avvenuto alle 15 di oggi, l’autobus è rimasto completamente distrutto. Due filiali bancarie, una del Banco de Vasconia e l’altra del Banco Gipuzkoano, sono invece state attaccate la scorsa notte con l’uso di bombe incendiarie nella località navarra di Alsasua. Altri artefatti sono stati lanciati, sempre ad Alsasua, contro la locale sede del sindacato socialista UGT. Alle prime ore della notte, nella località gipuzkoana di Orereta, un gruppo di giovani ha tentato di incendiare la porta del garage del sindaco socialista della cittadina. Nel centro antico di Bilbao un altro gruppo di incappucciati hanno costruito barricate di fuoco e poi danneggiato quattro casse automatiche nel quartiere di Santutxu. Barricate di fuoco sono state erette intorno alla mezzanotte nel comune di Abadiño, causando un forte rallentamento del traffico.

Nella località navarra di Beriain agenti della Guardia Civil hanno arrestato ieri due giovani, di cui uno minorenne, trovati in possesso di materiali definiti come “inneggianti al terrorismo”: in realtà si trattava solo di cartelli e adesivi di solidarietà con i dirigenti di Batasuna. I due giovani, poi denunciati per apologia del terrorismo, sono stati fermati durante un controllo effettuato dalla polizia militare spagnola nelle strade del piccolo centro.



=== 2 ===


Itar-Tass
October 6, 2007

Saakashvili pledges to restore Georgia’s territorial integrity soon

TBILISI - Georgian President Mikhail Saakashvili
pledged to restore Georgia’s unity soon. 

“We will prepare for a peaceful reunification of the
country well and then restore the unity of the country
by all means. It will happen soon,” Saakashvili said,
addressing a rally of several thousand people in
Zugdidi, five kilometres from the Gali district of the
breakaway republic of Abkhazia. 

“The time when the fate of Georgia was decided in
Moscow is long gone. The fate of Georgia will be
decided in Georgia by the peoples living in the
country,” he said. 

A week ago, Saakashvili vowed to restore Georgia’s
territorial integrity during his presidency. 

Speaking at the opening of a motor road in the upper
part of the Kodori Gorge, Saakashvili said, “During my
presidency, I’ll complete the process of Georgia’s
unification and the restoration of the country’s
territorial integrity.” 
....
Saakashvili was elected president for five years in
January 2004. Under Georgian laws, the same person may
be elected president twice. The next presidential
elections in Georgia will be held in January 2009, not
in October-November 2008 together with parliamentary
elections. 

Saakashvili said many times he would run for a second
term. 

Central Georgian authorities have not been controlling
half of South Ossetia since 1992. 

Tbilisi lost control over a considerable portion of
Abkhazia, except the upper part of the Kodori Gorge
that makes up 15 percent of the breakaway republic’s
territory, in September 1993. 


(Source: R. Rozoff)





Tetova after Kosova (3)


(Source: R. Rozoff via stopnato @ yahoogroups.com 

The previous parts can be read here:

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5617

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5639

Il dossier in lingua italiana può essere letto qui:

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5627 

Vedi anche / see also: Pan-Albanian intellectuals call for Greater Albania

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5567 )


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http://www.adnkronos.com/AKI/English/Politics/?id=1.0.1209811816

ADN Kronos International (Italy)
August 17, 2007

Macedonia: Ethnic Albanians urge Federal state


Skopje – An ethnic Albanian movement in Macedonia,
known as Ilyrida, has called for the country to be
federalised and has appealed to all ethnic Albanian
deputies to quit the Macedonian parliament and to form
their own.

Ethnic Albanians make about one-quarter of Macedonia’s
two million population and have 29 MPs in the 120-seat
parliament. But in a statement carried by Macedonian
media on Thursday, Ilyrida demanded that the country
be divided into two equal federal entities – one
Macedonian and the other Albanian.

Ilyrida recalled that 99 percent of ethnic Albanians
in Macedonia voted at a referendum in 1992 for the
creation of an autonomous Ilyrida in the western part
of the country.

The movement's statement called on ethnic Albanian MPs
to proclaim the Republic of Ilyrida in the western
city of Tetovo and to quit Macedonian institutions.
But Ilyrida president Nevzat Halili told the media he
saw nothing new in the statement “which has been sent
in our name,” and distanced himself from it.

Commenting on the controversy, government spokesman
Ivica Bocevski said tersely that “the state
institutions keenly follow the situation in
Macedonia."

Meanwhile, police refused to comment on Ilyrida’s
claim that its “armed members” controlled a part of
Macedonian territory.

Ethnic Albanians rebelled in 2001 [and] the dispute
was ended by the Ohrid peace accord, which met most of
ethnic Albanian demands.

Ohrid granted more rights and local self-rule to the
Albanians, providing for the redrawing of electoral
boundaries in some municipalities to give ethnic
Albanians a majority in these areas.

The accord also made Albanian the second official
language in several cities, including the capital,
Skopje. Acknowledgement of ethnic-Albanian rights was
formalised in amendments to the Macedonian
constitution approved by parliament in late 2001.

While historians differ on the origin and historic
role of Ilyrians, it is generally believed they
inhabited the western Balkans around 1,000 B.C.

Present day Albanians claim to be their
descendants....

With the breakup of the former of Yugoslavia during
the 1990s Balkan wars, the Ilyrian movement continued
to symbolise the striving for unification of ethnic
Albanians in several Balkan countries.

It has gained strength since Serbia’s breakaway Kosovo
province - with a 90 percent ethnic Albanian majority
- started to drift towards independence in 1999.

Belgrade, which opposes independence, has repeatedly
warned it would have a domino effect on Macedonia,
Montenegro and northern Greece, which have sizeable
ethnic Albanian populations. 


http://www.makfax.com.mk/look/novina/article.tpl?IdLanguage=1&IdPublication=2&NrArticle=82756&NrIssue=451&NrSection=10

MakFax (Macedonia)
September 12, 2007

Police raise charges against three involved in
Vaksince incident

Skopje - Macedonian Police raised formal accusations
against three persons suspected of having killed the
Matejce police commander and injured two police
officers in Vaksince.

The accused are the brothers Zaim and Sqender Alili
from Kumanovo's nearby village of Vaksince and
Xheljadin Hiseni from the village of Lojane.

Right after the armed attack, Zaim managed to escape
to Kosovo with a gunshot wound and Macedonia has
requested his extradition.

As to Sqender, there are indications suggesting that
he was killed in the shootout; however, the
investigative authorities have not confirmed his death
as yet.

The three are suspected of having killed the commander
Fatmir Alili and injuring the police officers Jance
Kitanov and Slagjan Kostovski at the entrance of the
Vaksince village early on Monday.

The charge sheet counts include murder, two murder
attempts and attack on an official during conducting
duties of security nature.


http://www.makfax.com.mk/look/novina/article.tpl?IdLanguage=1&IdPublication=2&NrArticle=82857&NrIssue=452&NrSection=10

MakFax (Macedonia)
September 13, 2007

Macedonia requests extradition of Alili

Skopje - Macedonian authorities formally requested
that the UN Mission in Kosovo (UNMIK) extradite Zaim
Alili in connection with the Vaksince shooting that
left one police officer dead and two others injured.

The Ministry of Justice said it has submitted a formal
extradition request to UNMIK on Wednesday. The request
contains the necessary documents in accordance with
provisions of Macedonia's criminal law.

Legal proceedings against Zaim Alili are underway in
the Kumanovo District Court in connection with
felonies committed beforehand. Alili has been charged
with murder, assault on a police officer, and
violence.

Fatmir Alili, the commander of the police station in
Matejce, was killed and two police officers Jance
Kitanov and Slagjan Kostovski were severely injured
when a group of gunmen led by Alili opened fire on a
police vehicle last Monday just outside Kumanovo's
village of Vaksince.

On Wednesday, the Interior Ministry filed charges
against Xheladin Hiseni of the village of Lojane and
Zaim's brother Skender Alili, who probably died in the
shooting. Nonetheless, the authorities have no
official information on his death.


http://www.focus-fen.net/index.php?id=n121858

Focus News Agency (Bulgaria)
September 12, 2007

Macedonia: Tanusevci Village still under Commander
Hoxha people’s control


Skopje - The Tanusevci Village, situated close to the
Kosovo border and north from the Macedonian capital of
Skopje is still under the control of the brigades of
Commander Hoxha, a correspondent of FOCUS News Agency
to the Macedonian capital reported.

Border checkpoints are checking all entrants.

Tanisevci was visited by some the members of the
Democratic Union for Integration of Ali Ahmeti. The
brigades of Commander Hoxha demand administrative
attachment of four villages around Tanusevci to Kosovo
and are ready to conduct a referendum with the local
Albanians.

FOCUS News Agency reminds:

The villages close to Tanusevci on the Kosovo border
have been the bone of contention between the federal
authorities in Skopje and the ethnic Albanians since
1991. 


http://www.focus-fen.net/?id=n122550

Focus News Agency (Bulgaria)
September 20, 2007

Commander Hoxha’s fighters: offensive against
Tanusevci is invention of Serbian services


Tanusevci - The Macedonian offensive against Tanusevci
Village is a myth of the Serbian services [sic], one
of the fighters of Commander Hoxha announced to FOCUS
News Agency as a comment on the statements in
Macedonian newspapers that Macedonians attacked the
village Monday.

Tanusevci Village, which is close to the Kosovo
border, is still under the control of Commander
Hoxha’s brigades.

Statements of Skopje media about an attack and
two-hour defense are untrue, Albanians from Commander
Hoxha’s group say.

The target is independent Kosovo, one of the Albanians
in Tanusevci says to FOCUS News Agency. 


http://www.adnkronos.com/AKI/English/Politics/?id=1.0.1331532297

ADN Kronos International


http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=18709

Politiche securitarie: Chi è legale e chi illegale?

di A. A.

su redazione del 04/10/2007


Ieri a Porta a Porta, con l'intramontabile Vespa, ormai infinito quanto Pippo Baudo, a trattare il tema del giorno c'era il Ministro della Giustizia.

Dunque, tra le cento rapine del mese ce ne è una che casca a fagiolo per dare sostanza alla indecente politica securitaria che, stando alle anticipazioni, farà tabula rasa di buona parte degli articoli costituzionali in tema di giustizia penale. Il tema della puntata è la sciagurata rapina fallita di un ex della lotta armata degli anni "70 da anni in semilibertà. Un bel colpo per i fautori della tolleranza zero all'italiana: quella che a partire dai lavavetri per arrivare, c'è da giurarci, al dissenso sociale e politico, mira a far piazza pulita dei lacci e lacciuoli che erano sopravvissuti all'avvento delle leggi cosiddette "eccezionali" (in realtà mai sospese) varate sul finire degli anni "70. Si tratta di una politica mirata, costruita negli anni, volta a strumentalizzare un disagio in larga parte prodotto da scelte di politica estera e militare ben al di fuori dei dettami costituzionali, come le guerre a cui l'Italia si è prestata violando leggi, Costituzione e diritto internazionale: a proposito di legalità e di impunità (è il caso dei vicini Balcani).

Ma dietro questa campagna d'odio reazionaria, dove si affaccia lo spettro minaccioso di una nuova xenofobia, si nasconde dell'altro, qualcosa di ancora più torbido. Come mai infatti dietro la facciata ipocrita di una classe politica tutta orientata a esigere (dagli altri) un rigore legalitario inflessibile, calpestando in realtà la base dei nostri principii costituzionali esattamente come avviene in alcune dittature, si nascondono ben più loschi traffici capaci di condizionare, se non guidare, scelte di politica decisive per il futuro del nostro Paese e dei popoli mediterranei? Non è ormai un mistero per nessuno, anche se pochi si azzardano a pronunciarne il nome, il rapporto strettissimo che lega settori importanti della politica italiana, assolutamente trasversali, con la malavita kosovaro-albanese, con quella che autorevoli esponenti degli apparati di polizia (assolutamente inascoltati) definiscono la più potente e ramificata organizzazione criminale a livello europeo. Eppure è a questa mafia che si è consegnato il potere nel vicino Kosovo, ed è sempre a questa realtà criminale che il nostro governo, in continuità con i precedenti, vuole consegnare anche formalmente uno status di indipendenza territoriale violando le disposizioni ONU in materia e numerosi accordi internazionali. E' anche così che si darà nuova forza ai traffici, già ora egemoni, che da quella Regione si diramano nel resto d'Europa alimentando quel senso di insicurezza che ora si vorrebbe addebitare ai più deboli, e spesso alle vittime, di questo complesso criminale: i lavavetri, gli ultimi, i rom, i pària del nostro tempo insomma. E non solo: i dissidenti, i "sovversivi" per classificazione, quelli che non ci stanno e non rinunciano al loro NO!

E' una triste realtà quella di un Paese capace di andare avanti per emergenze successive, per strumentalizzazioni di episodi circoscritti finalizzate all'affermazione di concezioni liberticide, dove la legge diventa uno strumento differenziato e anche formalmente non uguale per tutti. Chi si può permettere mediatiche chiamate alle armi, chi si può permettere il terrore razzista e squadrista e chi non può opporsi a tutto questo. Come a Milano nel corso della protesta antifascista dello scorso anno, come in altre mille occasioni.

Tutto quello che è già una realtà strisciante sta per essere formalizzato e definito in misure di legge, il pacchetto sicurezza e quanto potrà seguire dopo. Sempre che questo governo non inciampi sulle sue stesse forzature, e cada in un nulla di fatto. Ciò che ha resistito fino ad ora rischia di soccombere, come dire che la "democrazia" formale nel nostro Paese è mai come adesso in pericolo. Poco importa se non c'è più il governo Berlusconi, il pacchetto Amato è sul piano delle garanzie assai peggio del precedente pacchetto Pisanu. Non c'è che dire. Un bel capolavoro specialmente considerando che la risicata vittoria elettorale avvenne anche puntando su una concezione della giustizia assai garantista, riformatrice in senso avanzato, dove la massima espansione del ricorso alle misure alternative, e ai criteri dell'Art.27 della Costituzione italiana, sarebbe stato il perno di un sistema penale rinnovato rispetto alla concezione del Codice Penale fascista tuttora in vigore. E' quell'art.27 della Costituzione che il Ministro della Giustizia Mastella ha tentato di spiegare ai telespettatori, chiarendo che il vero tema è proprio quello della sua sostanziale abrogazione, a partire dalla legge Gozzini che si inseriva nel meccanismo di questo articolo costituzionale mai applicato fino in fondo. Lo stesso articolo, questo molti non lo sanno, che vede nei fatti esclusi già da tempo migliaia di detenuti italiani, in particolare quelli condannati negli ultimi anni per reati di tipo associativo e di pericolo presunto, quei reati "originali" che non presuppongono il compimento di alcun atto illecito ma sono reati in sé, risiedono nel pensiero, nell'essere, nell'esistere di una persona che in quanto tale deve vedersi rinchiusa fino all'ultimo giorno della sua condanna; una condanna intesa come misura afflittiva fine a se stessa.

Certo, in Italia c'è sempre la possibilità discrezionale che in attesa di una sentenza definitiva un giudice intervenga per concedere misure di attenuazione. E' il caso degli arresti domiciliari, e delle misure di reinserimento in ambito lavorativo e familiare, ma non appena la sentenza si fa definitiva per questi imputati pesa sempre, in caso di condanna, contraddittoriamente e in maniera perversa ed illogica, l'esclusione dalle misure alternative, da quanto prevede la legge Simeone, la legge Gozzini ecc. e il ritorno a condizioni detentive a regime speciale (peraltro illegittime) per ogni minimo residuo pena, fosse anche di pochi giorni. Siamo sicuri ciò non toccherà quegli indagati eccellenti che proprio in questi giorni sono stati associati all'inchiesta per concorso nello stragismo fascista (o di Stato) degli anni "70.

Un sistema penale in mezzo al guado: ma, "tranquilli", a passare per intero dall'altra parte, abolendo pure le discrezionalità dovute all'autorità giudiziaria e abolendo ogni misura alternativa anche per i reati minori, ci sta pensando il Ministro dell'Interno. E il pragmatico e acuto politologo ospite del teatrino di Porta a Porta non poteva non chiudere segnalando una banale ovvietà: se le cose stanno così non rimane che costruire nuove carceri. Ma di questo passo forse occorreranno gli stadi.


http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=6935


The Return of War with Serbia?

by Yelena Shesternina

 

Global Research, September 30, 2007

RIA Novosti - 2007-09-10


In a recent onslaught against the Kosovo Albanians, the Serbian authorities have gone over from strong albeit diplomatic statements to threats.

If Kosovo declares independence unilaterally, Belgrade will take extreme measures - seal the borders, impose a trade embargo and return its troops to the province to restore Serbia's territorial integrity.

Dusan Prorokovic, Serbia's state secretary for Kosovo, said this in an interview with the Serbian media, which was promptly re-printed by The New York Times. If he had made this statement at a regular session of the Serbian cabinet, it could have been passed for routine domestic debates, but now it may cause a major row not only between Belgrade and Pristina, but also between Russia and the West.

True, the Serbian officials were quick to refute this statement. First, Serbian Charge d'Affairs to Russia Jelica Kurjak said in Moscow that Serbia was not going to make war with anyone, and that both the president and the prime minister had expressed this position many times. Later, Serbian Foreign Minister Vuk Yeremic spoke much in the same vein.

It is obvious that Serbia is not going to fight with Kosovo. How can it return its troops to the territory, which is protected by the NATO-led 16,000-strong KFOR (Kosovo Force) contingent of peace monitors from 35 countries? It is also clear why this statement was made. Having no more pressure leverage on Pristina, whose independence is a resolved issue, the cornered Belgrade is resorting to threats in the hope they may produce the desired effect.

But Prorokovic has gone too far, and Serbian President Boris Tadic is not likely to be happy with his revelations. The head of state and other parties to the conflict are trying to save face but without much success. The Albanians have rejected compromise options like the Belgrade-proposed even greater degree of autonomy for Kosovo with the IMF membership and access to the World Bank. Making up more than 90% of Kosovo's population, they want independence for the province, and the sooner, the better.

In summer, it seemed that Kosovo would unilaterally secede from Serbia before the parliamentary elections in November. After all, the policymakers have to report on their performance to the voters - more than 90% of them favor independence. Moreover, they enjoy impressive support from Washington - both George W. Bush and Condoleezza Rice have said that there is no alternative to the Pristina-sought option.

Now the proclamation of independence has been suspended - everyone is waiting for December 10, when the contact group reports to the UN Secretary-General. There is no hope for progress at the talks until then. Pristina has already announced that after December 10, Kosovo will act as an independent state. An official from the Kosovo UN mission predicts that a week after the deadline about 60 states will recognize Kosovo's independence, among them the United States, Britain, France, Albania, Baltic nations, Switzerland and Muslim countries. Greece, Cyprus, Spain, Bulgaria, Hungary and Russia will definitely vote "no."

For its part, Serbia has pledged itself to sever diplomatic relations with all allies of the Albanian Kosovars, but this is hard to believe. This sounds similar to the recent threat about another armed invasion. Hoping to enter the European Union, Belgrade is not likely to have a big squabble with the West.

Surprisingly, Belgrade's threats tend to be much more effective than its diplomatic efforts in dealings with the West. The U.S. media are seriously painting apocalyptic scenarios for the province - the UN plan may lead to another nightmare; after the declaration of Kosovo's independence, the Serbian north will secede from the province; the Serbian police will don Serb uniforms; the Albanian militants will attack not only the northern hotbed of Serbian resistance but other vulnerable enclaves, which are still heavily populated by Kosovo Serbs.

The Wall Street Journal predicts that the UN peace monitors will not be able to stop this new wave of violence, just as they failed to do this in 2004. Judging by all, until mid-December we will hear quite a few threatening statements from Serbian officials, all the more so since they are falling on fertile soil.



(english / italiano)

Il carteggio tra Fidel Castro e Slobodan Milosevic

1) Castro says Spain's Aznar sought to bomb Serb media /
Fidel Castro reveals: SECOND AND THIRD MESSAGES TO MILOSEVIC AND HIS REPLY (1999)

2) RIFLESSIONI DEL COMANDANTE IN CAPO FIDEL CASTRO RUZ (CUBA, 4/10/2007):
IL 2° ED IL 3° MESSAGGIO A MILOSEVIC E LA SUA RISPOSTA (1999)

Sullo stesso argomento si veda anche:
la lettera di Milosevic a Castro del 30 marzo 1999


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Castro says Spain's Aznar sought to bomb Serb media

Sun Sep 30, 2007 12:00pm EDT

By Marc Frank

HAVANA (Reuters) - Cuban leader Fidel Castro accused Spain's former prime minister on Sunday of recommending that Serbian media be bombed during the war in Kosovo, publishing what he said was a transcript of a talk Jose Maria Aznar had with a U.S. official at the time.

Aznar's conservative Popular Party was stung last week by publication of a compromising conversation Aznar had with U.S. President George W. Bush just before the Iraq war. Castro did not say how he obtained his transcript.

Castro remains in seclusion after abdominal surgeries over the last 14 months for an unknown ailment.

The now frail revolutionary, who is 81, occasionally appears in videos and photographs and has taken to writing essays for the state-run media as his younger brother Raul Castro runs the country.

In the official Juventud Rebelde newspaper on Sunday, Castro published what he said was a transcript of an Aznar conversation about strategy during NATO's bombing of Serbian forces in 1999 to force them to stop attacking ethnic Albanians in Kosovo.

Aznar also speaks disparagingly in the transcript about then French President Jacques Chirac. "When I want to have a good time with Chirac, I start by telling him those Americans are really horrible," he says in the transcript. Castro did not explain how or when he obtained the transcript and does not identify the U.S. official or publish the U.S. official's part of the conversation.

Castro had claimed previously to have a transcript of a conversation between former U.S. President Bill Clinton and Aznar.

He says Aznar in the new transcript discusses the possibility of a ground war if NATO's bombing campaign fails, urging a stepped-up air campaign. "My idea is that to win this war communications must be cut between the Belgrade government and the people. It's vital to cut all Serbian communications, radio, television and telephone," he is quoted as saying.

Spain's relations with Cuba reached a breaking point under Aznar. His Popular Party opposes the new Socialist government's efforts to improve relations with the Communist island.

Castro had accused Aznar before of wanting to bomb the media. He first made the charge after Aznar's conservative government led European Union protests over the jailing of 75 Cuban dissidents in 2003.

Castro introduced the transcript on Sunday by repeating his earlier accusation that Aznar told Clinton on April 13, 1999: "I do not understand why we still have not bombed Serbian radio and television." That was also based on an alleged transcript that Castro said he had.

Castro wrote in Sunday's article that he would publish more "public and confidential" materials in forthcoming essays.

http://www.reuters.com/article/worldNews/idUSN3024506620070930?feedType=RSS&feedName=worldNews&sp=true

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Reflections by the Commander in Chief

SECOND AND THIRD MESSAGES TO MILOSEVIC AND HIS REPLY


On April 2, 1999, I sent Milosevic my second message through our UN mission:
“It would be advisable not to indict the three US prisoners. International public opinion is now especially susceptible and a strong anti-Serb movement might result”. 
On April 5, 1999, I sent him a third message through our mission in the UN and Yugoslavia:
“We congratulate you on the decision with regards to the three prisoners as reported by press agencies. Your promise to treat them well and to release them when the bombings cease is very intelligent and apt. It has foiled the United States’ maneuver to turn its domestic public opinion against Serbia; a public opinion which is deeply divided on the issue of the aggression. The ruthless bombing of civilian targets and the Serbian people’s heroic resistance are having an impact within and outside of Europe and within NATO itself". 
That same day, on the 5th, we received Milosevic’s official reply through his Ambassador to the UN:
“I want to express my appreciation to the President and people of the Republic of Cuba for their sympathy and solidarity with our people and country, victims of a US – NATO aggression. 
“I hope you will continue these highly useful efforts to make heads of state —particularly the heads of non-aligned states— understand the extreme danger to international relations as a whole stemming from the precedent being set by the US – NATO aggression against the sovereignty and independence of a small country. I invite and ask you to send a personal message to presidents Mandela, Nujoma, Mugabe, Obasanjo, Rawlings and Vajpayee, requesting that they condemn the invasion and, if they have already done so, to do so again, for the aggression continues to be repudiated, so as to rally the broadest possible support for Yugoslavia from non-aligned nations at this highly important moment. My best wishes and warmest regards go out to you. With respect to the three US soldiers who have been imprisoned, I am very grateful for your amicable suggestion and wish to inform you that these soldiers were heavily armed and penetrated deeply into Yugoslav territory in a number of armored vehicles. The investigations into this matter are underway. They are being treated in a humane and respectful manner. We understand your suggestion and have practically accepted it. We are in no rush to take these soldiers to justice. We won’t do it now. Perhaps we will do it later, or not at all. We won't do it hastily". 

Fidel Castro Ruz
October 4, 2007 
6:23 p.m.



=== 2 ===


(Sullo stesso argomento si veda anche:
la lettera di Milosevic a Castro del 30 marzo 1999


Fonte: G.A.MA.DI. - www.gamadilavoce.it

Roma, 5 ottobre 2007
 
L’Ambasciata di Cuba in Italia, invia il seguente documento d’interesse:
 
-         Testo della riflessione del Comandante in Capo Fidel Castro Ruz, dal titolo “IL 2° ED IL 3° MESSAGGIO A MILOSEVIC E LA SUA RISPOSTA”, del 4 ottobre 2007.
 
Cordiali saluti.
 
Ambasciata di Cuba in Italia


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RIFLESSIONI DEL COMANDANTE IN CAPO

IL 2° ED IL 3° MESSAGGIO A MILOSEVIC E LA SUA RISPOSTA.


Il 2 aprile 1999 inviai a Milosevic, tramite la nostra Missione all’ONU, il secondo messaggio:

“Sarebbe consigliabile non processare i tre prigionieri nordamericani. L’opinione pubblica internazionale è molto sensibilizzata al riguardo e si creerebbe un forte movimento contro i serbi.”

Il 5 aprile 1999 gli trasmisi un terzo messaggio attraverso le nostre Missioni all’ONU ed in Iugoslavia: 

 “Ci congratuliamo per la decisione presa, secondo quanto informano le agenzie di stampa, nei riguardi dei tre prigionieri. È molto intelligente e corretto aver promesso di trattarli bene e di liberarli quando cesseranno i bombardamenti. Ha annullato la manovra che gli Stati Unit stavano realizzando per sensibilizzare contro la Serbia l’opinione pubblica interna, molto divisa nei riguardi dell’aggressione. Gli spietati bombardamenti contro obbiettivi civili e l’eroica resistenza del popolo serbo stanno provocando un impatto all’interno e fuori dell’Europa, anche in seno alla stessa NATO.”

Lo stesso 5 aprile 1999 riceviamo la risposta di Milosevic, per mezzo del suo ambasciatore all’ONU:

"Desidero estendere la mia gratitudine al Presidente ed al popolo della Repubblica di Cuba per la loro simpatia e per la solidarietà veso il nostro popolo ed il nostro paese, vittime dell’aggressione degli Stati Uniti e della NATO. 

“Spero che continueranno i suoi utilissimi sforzi con i capi di stato, in particolare con i leader dei paesi Non Allineati affinché comprendano l’estremo pericolo per le relazioni  internazionali nel loro insieme derivante dal precedente creato dall’aggressione degli Stati Uniti e della NATO contro la sovranità e l’indipendenza di un piccolo paese.  Desidero invitarla e chiederle di inviare un messaggio personale ai presidenti Mandela, Nujoma, Mugabe, Obasanjo, Rawlings e Vajpayee, per chiedere loro di condannare l’aggressione e, nel caso lo avessere già fatto, chiedere di riaffermare tale condanna affinché si continui a respingere l’aggressione allo scopo di mobilitare l’appoggio più ampio possibile dei Non Allineati alla Iugoslavia in questo momento tanto importante. Riceva i miei più sentiti e calorosi saluti. Per quanto riguarda i 3 militari nordamericani imprigionati, apprezzo molto  il suo amichevole suggerimento e desidero informarla che questi soldati penetrarono, abbondantemente armati, in profondità in territorio iugoslavo servendosi di alcuni  blindati. Sono in corso indagini sull’accaduto. Essi sono trattati in modo umano e serio.  Il suo suggerimento è stato capito e praticamente accettato.  Non abbiamo fretta di portare i soldati davanti alla giustizia. Non lo faremo ora.  Forse successivamente, o forse non lo faremo. Non lo faremo in fretta."

Fidel Castro Ruz
4 ottobre 2007
6:23 p.m.