Informazione

VENTI ANNI DOPO, IL RISULTATO


Polonia : A gennaio verranno privatizzati i cantieri navali di
"Solidarnosc"

Varsavia - Il Tesoro polacco ha intenzione di preparare un piano di
privatizzazione "strutturale" per i tre cantieri navali ancora di
proprietà statale (Danzica, Gdynia e Stettino), non oltre la fine di
gennaio 2007. Lo ha dichiarato alla stampa il viceministro Slowomir
Urbaniak, ricordando anche che la privatizzazione dei tre impianti è
stata richiesta più volte dalla Commissione europea con insistenza.
Al momento lo Stato, attraverso l'Agenzia per lo sviluppo
dell'Industria (ARP), detiene un pacchetto azionario del 50%, nei tre
cantieri.
"Verranno cercati investitori strategici per ognuno dei singoli
cantieri. Non è da escludere per? che un soggetto esterno decida di
investire in due di essi", ha precisato Urbaniak. Il viceministro
polacco ha confermato che al momento diverse società straniere, tra
cui l'italiana FVH, l'ucraina Donbas e l'israeliana Rami Ungar,
avrebbero manifestato il loro interesse per i tre cantieri.
La società italiana FVH, attiva soprattutto nel trasporto e nel
commercio all'ingrosso di gas liquefatto (GPL), ma anche sul mercato
navale, sarebbe effettivamente molto vicina all'acquisto del 20% dei
cantieri di Danzica. Si parla di un investimento di oltre 20 milioni
di zloty (5 milioni di euro).

Fonte: www.contropiano.org


www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 13-12-06 

da Rinascita, gennaio 1957

Come sono potuti accadere i fatti di Ungheria?

Luigi Longo

 

Nelle conversazioni avute, nel recente incontro con il compagno Janos Kadar, presidente del governo rivoluzionario operaio e contadino di Ungheria e segretario del Partito socialista operaio ungherese e con i compagni Karoly Kiss e Ferenc Munnich, membri essi pure del governo e del comitato esecutivo provvisorio del nuovo partito, il compagno Spano ed io, tra le altre cose, ci siamo preoccupati soprattutto di trovare una risposta alla domanda che, dopo i recenti e luttuosi fatti di Ungheria, è sulle labbra di tutti: Come mai è stato possibile che questo accadesse, dopo dodici anni di potere operaio e di costruzione socialista?

 

Non abbiamo certo la pretesa, dopo le spiegazioni e le informazioni ricevute, di dare una risposta sicura ed esauriente a questa domanda. Ma non crediamo inutile esporre qui i dati, le impressioni, i vari elementi raccolti, che possono servire ad avviare la formulazione di una prima risposta al quesito posto. I compagni ungheresi stessi, del resto, presi nel vortice degli avvenimenti e premuti dalle esigenze urgenti e gravi del momento, non hanno ancora avuto agio di approfondire l'esame delle varie questioni e della parte avuta dai vari elementi che hanno concorso a determinare e a caratterizzare lo sviluppo delle loro recenti vicende.

 

A queste vicende hanno contribuito indiscutibilmente, prima, gli errori di orientamento economico e di azione politica compiuti nella costruzione del socialismo, e, poi, il ritardo e la resistenza frapposti alla correzione coraggiosa di questi errori. Questi errori e questo ritardo sono stati resi possibili dal non giusto funzionamento del partito e dei suoi organismi dirigenti nei quali la democrazia, la critica, l'autocritica e il libero dibattito erano stati praticamente ridotti a zero, e dal fatto che i sindacati erano venuti meno alla loro funzione di difensori degli interessi concreti dei lavoratori. Per questo, il partito, i sindacati e per conseguenza gli stessi organi del potere popolare, che dovevano essere gli strumenti di contatto e di direzione delle grandi masse del popolo, si sono isolati da queste e rinchiusi nei loro apparati burocratici, sono scaduti nella considerazione della realtà.

 

Allo scoppio disordinato e violento delle difficoltà e dei contrasti così accumulatisi hanno contribuito, da un lato, il marasma politico creato dalla lotta aspra e disgregatrice esplosa nel partito e nel regime e fatta di sterili proteste, di risentimenti e di scontri di fazione che hanno disorganizzato il partito e screditato gli organi del potere. Dall'altro lato, l'intervento attivo, nella stessa lotta in seno al partito e al regime, di elementi di diserzione, di capitolazione e di tradimento, ha aperto la strada all'azione delle forze reazionarie indigene, che il potere operaio non aveva totalmente liquidate, e della propaganda e degli agenti controrivoluzionari, che la reazione imperialistica straniera si era affrettata a far penetrare in Ungheria.

 

Nel campo della politica economica, è stato il ritmo della costruzione socialista, basata soprattutto sullo sviluppo dell'industria pesante, che ne ha compromesso i risultati. In pochi anni l'indice dello sviluppo industriale è salito a 350 rispetto a quello prebellico fatto uguale a 100. Risultato grandioso, ma sproporzionato alla capacità economica del paese, che aveva dovuto curare le ferite della guerra ed affrontare le gravi miserie sociali lasciate, in tutti i settori della vita nazionale, dal regime fascista di Horty e dei grandi proprietari terrieri. A questo sforzo eccessivo, vanno aggiunti i grossolani errori compiuti nell'orientamento di alcuni investimenti. Ad esempio, si sono spesi miliardi per il centro siderurgico di Stalinovaros senza fare attenzione che, per la costruzione di una grande industria pesante non vi sono, in Ungheria, sufficienti materie prime.

 

Naturalmente, se grosse aliquote del reddito nazionale sono investite per creare basi più larghe alla produzione, deve essere contenuta, almeno momentaneamente, sia pure allo scopo di rendere possibile un futuro maggiore benessere, la parte del reddito destinato al consumo. Tutto il problema sta nel trovare il giusto rapporto tra investimenti e consumi e, soprattutto, nell'azione di spiegazione per far accettare come giusto e necessario questo rapporto dalle masse lavoratrici. In Ungheria, il rapporto non rispondeva alle reali possibilità ed esigenze della situazione e, per di più, è mancata ogni azione per spiegare, far comprendere ed accettare dalle masse i necessari sacrifici. A questa azione è stata sostituita dal partito, dai sindacati e dagli organi del governo una propaganda sciocca e mendace, che falsava la realtà e che, naturalmente, lungi dal persuadere, irritava i lavoratori.

 

Nella propaganda antisovietica ed anticomunista sui fatti di Ungheria, questi aspetti della politica seguita per la costruzione socialista, sono presentati come conseguenza delle interferenze e delle pressioni dell'Unione sovietica. E' l'URSS che avrebbe forzato lo sviluppo industriale, lo sviluppo dell'industria pesante; è l'URSS che avrebbe spinto alla creazione del grande complesso siderurgico di Stalinovaros, per ragioni militari. Niente di men vero. Per dichiarazioni autorevoli e precise, raccolte in URSS e in Ungheria, i consigli dei compagni sovietici, anche al tempo di Stalin, sono sempre stati intonati alla prudenza e alla realtà. «Di questo passo voi comprometterete le sorti del paese» è stato detto più volte a Rakosi. Ma le raccomandazioni alla prudenza e alla modestia hanno dovuto cadere di fronte al sospetto che poteva nascere, per un malinteso nazionalismo, che quei consigli fossero dettati da inconfessabili propositi di rallentare lo sviluppo industriale dell'Ungheria, al fine di poterla tenere soggetta industrialmente ed economicamente.

 

Ma, nonostante gli errori di cui abbiamo detto, è assolutamente falso dire, come dicono i propagandisti della conservazione sociale e della controrivoluzione, che in Ungheria il socialismo abbia significato solo miseria e sacrifici. Anzitutto, già il solo fatto dello sviluppo grandioso dell'industria, quale sia stato il suo costo, è un valido e indiscutibile indice di progresso materiale e culturale per tanta parte della popolazione e per il paese nel suo insieme. Il passaggio da 100 a 350 dell'indice di sviluppo industriale, indica che in men di dodici anni in Ungheria la classe operaia è aumentata all'incirca di altrettanto. Questo significa che centinaia di migliaia di senza pane, di pezzenti, di costretti a vivere di ripieghi, perché questa era la condizione umana degli strati più poveri in Ungheria, grazie alla costruzione socialista, ha acquistato un posto sicuro nella produzione, la sicurezza del lavoro, la dignità e la qualifica di operaio. Infatti in Ungheria, come in ogni paese socialista, la disoccupazione era stata liquidata. E' questo un dato che non può non colpire l'animo dei lavoratori italiani che sanno che cosa voglia dire la mancanza di un posto di lavoro e di un pezzo di pane sicuri. Senza contare, poi, che un rapido e grandioso sviluppo della produzione industriale e della classe operaia implica, necessariamente, un progresso civile e della cultura in generale. E' dalle masse popolari che sono tratti i nuovi e più numerosi quadri professionali, tecnici e culturali.

 

Subito dopo la liberazione la condizione umana ed economica dei contadini è migliorata notevolmente col possesso e la lavorazione in proprio della terra strappata ai latifondisti. Per gli operai gli anni della ricostruzione furono più difficili. L'inflazione, e la necessita di assicurare lo sviluppo industriale imposero sacrifici. Ma, dal 1947, le condizioni degli operai migliorarono continuamente fino alla fine del '49, arrivando a superare le condizioni di vita di prima della guerra. Si noti che sotto Horty il 90% dei lavoratori anziani era privo di pensione. Il potere operaio istituì un ottimo sistema previdenziale e di assicurazioni sociali. I1 riposo e le vacanze furono assicurati in misura molto larga.

 

I compagni ungheresi, anche coloro che più criticano la politica di Rakosi e di Geröe, sono concordi nel sostenere che fino alla fine del 1949 non vi furono errori fondamentali nella politica verso la classe operaia e i lavoratori. E' dal 1950 che si accumulano gli errori, tanto in campo politico che in quello economico. Dal 1950 al 1953 la produzione industriale raggiunge il 350% di quella di anteguerra; ma, proprio in questo periodo, i salari reali operai, invece di aumentare, diminuiscono per alcune delle categorie più qualificate: tornitori, aggiustatori, tipografi. Rakosi non vuoi prendere atto del fatto che i salari diminuiscono. Nel 1951 il presidente dell'ufficio centrale di statistica presenta un rapporto circostanziato sul fenomeno all'attenzione di Rakosi. Questi non solo ne interdice la pubblicazione, ma impedisce che sia portato alla conoscenza dell'Ufficio politico del partito. Così i massimi organi dirigenti del partito: Ufficio politico e CC sono tenuti all'oscuro della situazione reale. I sindacati, che per la loro funzione sono più a diretto contatto con i bisogni delle masse, tentano di sollevare la questione, ma anche sulla loro direzione si fa sentire la pressione di Rakosi, per cui ai sindacali viene tolta ogni reale autonomia, ogni funzione di controllo e di critica delle direzioni tecniche e della validità delle direttive statali, ogni possibilità di espressione delle esigenze immediate dei lavoratori.

 

I sindacati, così, sono ridotti a strumento delle istanze centrali di direzione dell'economia, a popolarizzare norme di produzione esagerate, a imporre l'emulazione, a giustificare ogni disposizione centrale e a confondere le cose con statistiche falsificate. La propaganda mendace fatta sulle condizioni e di vita e di lavoro degli operai, esautora non solo i sindacati, ma anche il partito e gli organi del potere. L'operaio, costatando che si mente sulle questioni che egli può controllare direttamente, arriva facilmente alla conclusione che si mente su tutto. Il prestigio dei comunisti e dei dirigenti crolla. Rakosi che, fino al 1949, per dichiarazione concorde dei compagni ungheresi, godeva di una vera, grande, indiscussa autorità nel partito e tra tutti gli strati sociali, viene ora criticato, attaccato, vilipeso.

 

In questo periodo e con una simile politica si logorano rapidamente le alleanze politiche e sociali realizzate, dopo la liberazione, con gli altri partiti ungheresi, quello socialdemocratico, quello dei contadini e dei piccoli proprietari. Con il partito socialdemocratico si realizza la fusione, ma poi si mettono da parte molti dei suoi militanti e si arrestano elementi di quel partito con cui si sarebbe potuto utilmente lavorare assieme. I rappresentanti nel fronte nazionale del partito dei contadini e dei piccoli proprietari sono ridotti ad una funzione puramente formale e perdono ogni influenza tra le loro masse, le quali però sono abbandonate a se stesse o, peggio, all'azione subdola dei nemici del regime socialista.

 

La diffidenza, il sospetto, le denunce e le persecuzioni poliziesche colpiscono tutti: alleati, amici, militanti e dirigenti del partito. A un migliaio circa assommano gli arresti di uomini politici processati e condannati poi per accuse infondate e arbitrarie. Il dibattito è paralizzato negli organi legali; la verità occultata e deformata; la autorità dei dirigenti distrutta, soprattutto quando incominciano a circolare le prime ammissioni sui processi manipolati di tutto punto, senza che si abbia il coraggio di procedere a doverose e pronte riparazioni.

 

Dopo la morte di Stalin, si ha un primo tentativo, di risanare la vita del partito, di correggere gli errori compiuti, di richiamare i sindacati alla loro funzione e di ristabilire l'imperio della legge democratica e socialista. Nel 1953 il governo Nagy si assegna il programma di ridurre i ritmi di sviluppo dell'industria pesante a favore dello sviluppo dei rami industriali più rispondenti alle possibilità e alle esigenze dell'Ungheria, che sono quelle che necessitano poche materie prime, di cui l'Ungheria scarseggia, e impiegano invece notevoli quantità di mano d'opera. I sindacati avanzano proposte concrete per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e per un'azione sindacale di recupero delle masse. Ma questo è fuoco di breve durata e di poco vigore. Rakosi, con il piccolo gruppo che lo circonda (Geröe, Farkas) dopo un formale riconoscimento di queste esigenze, ritorna alle sue posizioni, impedisce il rinnovamento negli uomini e nei metodi di direzione. Solo con ritardo e con sforzo provvede a correggere gli errori giudiziari, oramai riconosciuti e denunciati come tali da tutti. Le vittime, però, escono dal carcere o sono riabilitate solo dopo mesi ed anche anni dalla riconosciuta infondatezza della condanna.

 

Come mai il partito non riuscì ad intervenire energicamente e con decisione per far correggere questi errori, nemmeno dopo che essi furono riconosciuti e denunciati negli stessi organi dirigenti? La risposta a questo inquietante quesito la si può trovare solo considerando tutto il processo di formazione e di sviluppo del partito ungherese. Il compagno Kadar, che di questi errori è stata una delle vittime e non delle minori, avendo scontato alcuni anni in carcere dopo essere stato ministro, sostiene che già dalla sua fondazione il partito ungherese violò la concezione leninista del partito. Esso ingrossò all'inizio le sue file senza selezione alcuna e senza fare poi lavoro alcuno di educazione e di formazione dei nuovi iscritti. In un paese di 8-9 milioni di abitanti, con scarso proletariato, il partito ungherese contò presto dai 700 agli 800 mila iscritti. Iscritti, non militanti. Reclutò simpatizzanti, carrieristi, gente che a mezzo del partito cercava il modo di mettersi a posto. Tra alcune categorie non solo il reclutamento fu fatto senza discernimento, ma fu anche forzato: tra i ferrovieri, i dipendenti dello Stato, gli agenti di polizia. Si ebbe così un partito relativamente numeroso, ma senza reale influenza tra la massa. Nelle elezioni del 1945, il partito raccolse un numero di voti uguale a quello degli iscritti segno che non tutti gli iscritti avevano votato per il partito, perché certamente una parte, sia pure minima di non iscritti al partito, aveva votato per i candidati del partito. Nelle elezioni del 1947 le cose migliorarono di poco, non certo in misura da indicare un cambiamento della posizione del partito nel paese.

 

In un partito così improvvisato e su una massa di iscritti non educati politicamente e abbandonati a se stessi, si istaurò una direzione personale e metodi di lavoro e di direzione che non favorivano certo il superamento delle debolezze iniziali. Infatti, negli ultimi dieci anni, lo sviluppo dei quadri è stato lentissimo, a causa proprio della direzione fortemente centralizzata. Rakosi dirige tutto personalmente, con l'ausilio solo di Geröe e di Farkas. L'Ufficio politico è tenuto all'oscuro delle questioni più importanti e il CC è convocato di rado e solo per approvare decisioni già prese. Un simile metodo di lavoro esautora il CC e abitua le organizzazioni periferiche al burocratismo. Si aggiunga a questo la diffidenza, il sospetto esasperati al massimo di Rakosi, che vede dappertutto spie e traditori. La montatura del processo Rajk è nata da questa diffidenza e all'insaputa di tutti gli organismi responsabili del partito. Per Rakosi, in chi era stato in carcere, nelle brigate internazionali in Spagna, all'estero, si doveva subodorare la spia, il traditore. In questo modo, di fatto, furono eliminati dai posti dirigenti quasi tutti i vecchi e più provati compagni. Furono attratti alle direzioni locali e ai maggiori posti di responsabilità giovani compagni, entrati nel partito dopo la liberazione e anche da pochi anni. Solo una piccolissima parte dei membri del CC partecipava alle discussioni. Quasi la metà dei componenti il CC non prese mai la parola in 8-10 anni di appartenenza al massimo organismo dirigente; così alcuni membri dell'Ufficio politico. In questo sono introdotti i segretari personali di Rakosi e di Geröe (Hegedus era il segretario di Geröe), e persino un compagno entrato nel partito solo nel 1947.

 

In questo modo l'autorità del CC e dell'Ufficio politico va sempre più scemando. Vecchi, provati e capaci compagni vengono messi in un angolo, scartati e rimpiazzati con giovani sconosciuti e soprattutto non sperimentati politicamente. E' comprensibile che i membri del partito non capissero questi cambiamenti. Così gli organi dirigenti del partito perdono il contatto con il partito, e questo perde il contatto con le masse. La critica iniziata nel 1953 non riesce a far modificare questa situazione. Per questo i quadri intermedi del partito si scoraggiano, perdono lo slancio nel lavoro, diventano politicamente impotenti di fronte ai gravi problemi che sorgono continuamente. Quando Nagy viene escluso dal partito, Rakosi addossa a lui tutti gli errori commessi e di cui la responsabilità spetta in primo luogo a Rakosi stesso, a Geröe e a Farkas. Questo non fa che aumentare il malcontento e alimentare la lotta interna facendola degenerare in lotta di frazione.

 

Nel 1956, dopo il XX Congresso del PCUS e il rapporto di Khrustciov su Stalin, tutti gli errori, tutte le debolezze, tutti i contrasti interni del partito scoppiano violentemente. Molti degli elementi malcontenti, oppositori, frazionisti spostano il terreno della lotta dall'attacco a Rakosi e ai suoi metodi di direzione, a tutto il partito come tale.

 

Il compagno Karoly Kiss, già presidente della commissione di controllo del Partito del lavoro ungherese, che si oppose ai metodi di direzione personale di Rakosi ed ora è responsabile della commissione di organizzazione del Partito socialista operaio ungherese, riconosce che Rakosi e Geröe violarono i principi leninisti e la legalità socialista, riconosce che si commisero molti errori tanto nel campo economico che in quello politico — ma, egli ammette, mai si sarebbe giunti ad una rivolta se essa non fosse stata preparata minuziosamente dall'interno del partito e del paese e dall'estero.

 

I famosi circoli «Petöfi» e «Kossuth» — egli dice — hanno condotto una propaganda di menzogne, tentando di dimostrare che tutto ciò che in Ungheria era stato fatto, dalla liberazione in poi, era male e che di ciò erano responsabili tutti i dirigenti del partito e il partito stesso. Ciò non corrisponde alla verità, perché l'Ungheria, sul piano delle realizzazioni economiche e socialiste non è certo l'ultimo paese. Grave sciagura per il partito e per il paese fu che le questioni della direzione del partito fossero discusse fuori e contro la direzione, il CC e il partito stesso. Fu certo un grave errore che solo nel giugno 1956 si sia riusciti a far dimissionare Rakosi. Sarebbe stato meglio se si fosse riusciti a compiere tale operazione, un anno prima, o, meglio, nel 1953 stesso, quando per la prima volta si pose la questione della direzione del partito e di Rakosi.

 

Le posizioni di Nagy nel 1953 erano molto sagge, ma in questi ultimi tre anni egli si circondò di gente nemica del partito, che lo ha largamente influenzato fino ad indurlo a compiere — prima e dopo i giorni di ottobre — quegli atti che hanno fatto precipitare la situazione, spezzato definitivamente il partito e aperto la strada alla controrivoluzione. Non è vero che non si fosse fatto e non si facesse nulla per correggere gli errori. Si faceva poco, è vero, e troppo lentamente. Inoltre, nell'azione per la correzione degli errori non ci fu la sufficiente e necessaria differenziazione. Le emissioni di «Europa libera» chiedevano che Rakosi seguisse gli insegnamenti del XX Congresso del Partito comunista dell'Unione sovietica; ma anche la parte sana del partito chiedeva la stessa cosa. Così «Europa libera», Imre Nagy, l'opposizione del partito e gli intellettuali si trovarono a rivendicare, sia pure per ragioni diverse, le stesse cose. Tutto ciò non poteva non determinare fra i membri del partito, fra i giovani, fra i lavoratori e le masse popolari la massima confusione.

 

Si arriva così al 23 ottobre. La richiesta «Via Geröe!» era giustificata, ma già in quell'occasione ad essa si unirono parole d'ordine anticomuniste e irredentistiche: «Vogliamo la grande Ungheria!», «Abbasso il dictat del Trianon!». Dopo gli avvenimenti del 23 ottobre Nagy entra nell'Ufficio politico del partito e diviene presidente del Consiglio dei ministri. Immediatamente inizia su di lui una violenta pressione da parte del suo entourage e ha inizio il suo progressivo arretramento su posizioni sempre più capitolarde. La parte che Nagy ha avuto nel corso degli avvenimenti di ottobre non è certo quella di un comunista — dichiarano concordi Kadar, Kiss e gli altri compagni dirigenti. Nagy è stato politicamente un disonesto. Egli era perfettamente d'accordo anche con il primo aiuto sovietico e in questo senso egli ha votato nell'Ufficio politico del partito, affermando che «oramai non vi poteva essere nessuna altra alternativa». Egli dichiarò poi di non essere stato d'accordo, ma disse ciò al solo scopo di salvare il suo prestigio presso i suoi amici controrivoluzionari. E' sempre Nagy che alla fine di ottobre impartisce l'ordine di cessare il fuoco : ma questo ordine viene rispettato solo dalle poche forze fedeli al governo. In quel torno di tempo viene attaccata la sede del partito a Budapest e fatta strage dei compagni che vi si trovano, i cui corpi sono appesi agli alberi della piazza antistante.

 

Nei giorni cruciali di ottobre, il CC del partito aveva designato un comitato di sei membri, per far fronte, con pieni poteri, a quella situazione eccezionale. I1 comitato era composto da Kadar, Kiss, Aprò, Szanto, Nagy e Munnich. Ma Nagy agì sempre senza mai consultare il comitato. Prese da solo tutte le più importanti decisioni, compresa quella di far uscire l'Ungheria dal Patto di Varsavia, compresa la dichiarazione di neutralità e la richiesta all'ONU di intervento. Senza consultare alcuno Nagy prese decisioni che non gli competevano in nessuna maniera, come quella di concedere al partito dei contadini, il club, il garage e le macchine del partito operaio ungherese; di passare in «dono» al circolo «Petöfi» la tipografia Szikra del partito e i suoi venti milioni di fiorini di utili.

 

A fine ottobre, la confusione raggiunge il colmo. Nella stanza dello stesso corridoio siedono in permanenza: a un capo, il CC del partito, esautorato, diviso, a cui Nagy partecipa solo per conoscerne le decisioni e comunicarle poi, al capo opposto, ad una specie di suo Stato maggiore, composto di elementi di ogni colore, che funziona da guida della rivolta, con cui è collegato telefonicamente, così come è collegato con le ambasciate straniere, e, a mezzo queste, con le emissioni di «Europa libera». Ogni decisione del CC del partito, dopo dieci minuti, è ripresa e commentata da «Europa libera», che spinge alla rivolta e ne detta gli orientamenti e le parole d'ordine.

 

Tace invece la direzione del partito. Ai compagni che chiedono direttive, Nagy fa rispondere di stare tranquilli, di non uscire di casa. Il giornale del partito cade sotto il controllo dei rivoltosi che obbligano il redattore capo, sotto la minaccia delle rivoltelle, a scrivere e a firmare un articolo di esaltazione degli «eroi della rivoluzione» e di condanna degli «assassini» che difendono il regime e gli organismi democratici. Questo articolo diffuso per le piazze e gridato alla radio dà il colpo di grazia a quanti resistono ancora. I soldati, gli agenti di polizia, i compagni che ancora si battono con le armi alla mano non capiscono più nulla, si demoralizzano, abbandonano il campo.

 

Ha inizio allora la caccia al comunista, l'assassinio e lo scempio di quanti avevano difeso e difendevano le istituzioni democratiche e socialiste. La controrivoluzione ha strada libera. Gli elementi reazionari, gli agenti hortysti, che negli ultimi anni erano stati liberati dal carcere e inviati nella produzione, in assenza della maggioranza degli operai e dei comunisti invitati a restare a casa, prendono la testa del movimento nelle fabbriche nelle piazze, danno vita ai cosiddetti consigli operai, espressione spesso di poche decine o di poche centinaia di operai ingannati da demagoghi.

 

Dall'estero entrano specialisti della guerra civile ed esponenti dei vecchi padroni delle fabbriche e delle terre. Il cardinale Mindszenty tenta di dare un nome e un programma alla controrivoluzione scatenata. E' oramai chiaro che Nagy non si fermerà sulla via della capitolazione.

 

Bisognava farla finita anche con lui e richiedere un nuovo aiuto alle truppe sovietiche per schiacciare la controrivoluzione che innalzava le bandiere della restaurazione capitalistica ed agitava i motivi «revanscisti», per polarizzare le forze nazionaliste e ricevere l'aiuto dell'imperialismo. L'Ungheria, sotto la guida della controrivoluzione, si apprestava a trasformarsi in un posto avanzato di provocazione e di minacce di guerra contro tutti i paesi confinanti, a trasformarsi, cioè, in un pericolo mortale per la pace in Europa e nel mondo.

 

A questo portarono gli errori del passato, la divisione e la lotta di fazione insinuatasi nel partito, che arrivò sino a predicare la necessità di rinnovare il partito con le armi e a bloccare con la piazza contro il partito, l'azione di liquidazione del partito e di capitolazione di fronte al nemico svolta nei giorni della lotta da Nagy. Per fortuna, sia pure, in extremis, l'aiuto sovietico, permise di respingere la controrivoluzione.

 

Il nuovo Partito socialista operaio ungherese, istruito dal passato, deve ora, in una situazione estremamente grave e difficile, riprendere la strada della costruzione socialista, unendo attorno a se la parte migliore degli operai, dei lavoratori e degli intellettuali, e ridare così al popolo ungherese unito la possibilità di prendere nelle sue mani la direzione dei propri destini, in piena libertà ed indipendenza.

 

Luigi Longo da Rinascita, gennaio 1957
12/12/06 - trascrizione a cura della Sezione Luigi Longo - PdCI - Torino


RAZZISTI ED ASSASSINI, ITALIANISSIMI


From: "Papillonrebibbia.bo"
Date: January 13, 2007 12:54:50 PM GMT+01:00
To: "BSF" <forum @ liste.bologna.social-forum.org>
Subject: Niente scuse per l'innocente Azouz Marzouk

Data la conclusione delle indagini sulla strage di Erba sarebbe bene
andarsi a rivedere cosa scrissero alcuni quotidiani e alcuni
"politici" il giorno della scoperta dei cadaveri. Contemporaneamente
la Lega della zona cominciava a preparare la solita manifestazione-
linciaggio contro gli immigrati. Come del resto aveva fatto nel caso
Erika e Omar anni fa. Allora si cercavano inesistenti albanesi.
L'altro ieri "il negro". Poi si è scoperto, ma guarda un pò, che il
male è dentro di noi, nelle nostre famiglie. E qui, dal Papa, nessun
commento. E dai giornali, colpevoli della più becera disinformazione
su migranti e indulto, nemmeno l'ombra di scuse all'innocente Azouz
Marzouk, oggetto del linciaggio mediastico.

Valerio Guizzardi, Papillon-Bologna
___

Dalla rassegna stampa di www.ristretti.it

Strage in famiglia: "Era fuori per indulto". Como, accoltellate e
bruciate 4 persone, sotto accusa un immigrato. Vittime la convivente,
la madre di lei, il figlio di due anni e la vicina. La caccia nella
notte. (Corriere della Sera, 12 dicembre 2006).

Strage in famiglia, uccide e brucia tre donne e un bimbo. La tragedia
a Erba, in Brianza: si cerca il convivente, un tunisino scarcerato
con l'indulto. Ammazzati a coltellate la compagna, il figlio di tre
anni, la madre e una vicina. (La Repubblica, 12 dicembre 2006).

Strage nel Comasco, si cerca un tunisino liberato dall'indulto.
Uccise tre donne e un bimbo. (Libero, 12 dicembre 2006).

Strage Erba: Castelli, tragici effetti di un indulto sciagurato.
(Repubblica.it, 12 dicembre 2006).

Tragedia ad Erba, uccise tre donne ed un bambino - Abdel Fami
Marzouk, pregiudicato tunisino, rilasciato a seguito della legge
sull'indulto, è ricercato dalle forze di polizia. (Ansa, 12 dicembre
2006)

Maurizio Gasparri di Alleanza Nazionale: "Chi ha votato l'indulto ha
contribuito a questo eccidio. Complimenti!" (Agenzie St 12 dicembre)

Ancora Gasparri: "un ulteriore conseguenza drammatica di una scelta
sciagurata. Bisognerebbe perseguire come favoreggiatori di questa
autentica strage quanti dissennatamente hanno votato l'indulto.
Un'autentica vergogna". (2° dichiarazione dello stesso giorno).

L'eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio afferma: "la
spaventosa mattanza cui ha dato luogo a Erba un delinquente
spacciatore tunisino, ci prospetta quello che sarà, molte altre
volte, uno scenario cui dobbiamo abituarci". "Al di là dell'effetto
indulto - continua Borghezio - che qui come in altri casi da la
libertà a che certo non la merita (riferimento sempre a Marzouk, ndr)
vi è, e resta in tutta la sua spaventosa pericolosità una situazione
determinata da modi di agire e di reagire spazialmente lontani dalla
nostra cultura e dalla nostra civiltà". E poi, aggiunge: "Quel che è
successo ad Erba può succedere, in ogni momento, dovunque personaggi
non integrati semplicemente perchè non integrabili, hanno trovato nel
nostro territorio e, purtroppo, anche in Padania facile accoglienza,
ottusa tolleranza, favoritismi politico-sociali d'ogni genere. È ora
di finirla".

Anche Piergiorgio Stiffoni ed Ettore Pirovano della Lega il 12
dicembre intervengono sul caso Erba. Anche i due esponenti leghisti
danno la colpa a chi ha votato l'indulto e parlano di "mani sporche
di sangue di una classe politica incosciente e pressappochista di
fronte alle conseguenze prodotte dell'indulto".

From: coopromanopijats @...
Subject: invito
Date: January 12, 2007 6:59:41 PM GMT+01:00


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Opera Nomadi sezione Lazio
Sportello di segretariato sociale per l’avviamento al lavoro delle
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Sinti e Camminanti


Cicl. in proprio Via di Porta Labicana, 59 00185 Roma

From:   r_rozoff
Subject:  Serbia: Seven Years Later, NATO To Remove Some Cluster Bombs
Date: January 10, 2007 2:48:07 PM GMT+01:00
To:   stopnato


http://www.iht.com/articles/ap/2007/01/10/europe/EU-GEN-Serbia-Norway.php

Associated Press
January 10, 2007

Norway to help Serbia remove cluster bombs left over
from 1999 NATO bombing

-The alliance used cluster bombs on several occasions
during the air war. The bombing killed hundreds and
destroyed much of Serbia's infrastructure....

BELGRADE, Serbia - Norway will help Serbia remove
cluster bombs and other munitions left over from the
1999 NATO bombing of the Balkan republic, the two
country's foreign ministers said Wednesday.

The move is part of stepped up military cooperation
following Serbia's recent accession to NATO's
Partnership for Peace program, nearly seven years
after the air war, the officials said.

"Norway will help Serbia remove those explosive
devices," Norwegian Foreign Minister Jonas Gahr Stoere
said after talks in Belgrade with his Serbian
counterpart, Vuk Draskovic.

Draskovic added that "this is good news."

"NATO knows where they (bombs) are, and Norway is
ready to help," he said.

NATO bombed Serbia for 78 days in 1999....

The alliance used cluster bombs on several occasions
during the air war. The bombing killed hundreds and
destroyed much of Serbia's infrastructure before
Milosevic pulled out of Kosovo and relinquished
control over the province to the U.N. and NATO.

Relations between Serbia and NATO have improved since
Milosevic was removed from power in 2000 by a
pro-Western coalition. The former president died last
March while on a trial for genocide charges at a U.N.
war crimes tribunal in The Hague, Netherlands.

No details were immediately available about the
quantities of the explosives scattered in Serbia.
Draskovic said the project will be funded by the
Norwegian government and carried out with the Serbian
army.

The Partnership for Peace program is a NATO project,
created in 1994, which aims to create trust between
NATO and states in Europe and the former Soviet Union.

===========================
Stop NATO
http://groups.yahoo.com/group/stopnato



(francais / italiano)

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/09-Gennaio-207/art32.html

Bottino di guerra, il petrolio iracheno alle multinazionali Usa

Petrolio etnico L'occupazione e la divisione dell'Iraq con nel mirino
Siria, Arabia Saudita e Iran. Una mossa contro l'Opec Il sacco di
Baghdad Presto una legge irachena «made in Usa» consegnerà nelle mani
delle società petrolifere il 70% dei proventi del petrolio

Stefano Chiarini da il Manifesto del 9.1.07 p. 4

«Scivolando silenziosamente nella notte del Golfo Persico i Navy
Seals - scriveva un eccitato reporter del «New York Times» il 23
marzo del 2003 - hanno occupato due terminali petroliferi off shore
con una serie di arditi attacchi terminati questa mattina all'alba, e
sono riusciti ad imporsi alle armi leggere delle guardie irachene
ottenendo una vittoria incruenta nella battaglia per il vasto impero
petrolifero dell'Iraq». Una vittoria che venne subito seguita, come
programmato dai dettagliati piani del Pentagono, dall'occupazione
delle principali installazioni petrolifere del paese e da quella, a
Baghdad, del ministero del petrolio presidiatissimo dalle truppe Usa
mentre gli stessi militari americani aprivano le porte degli altri
ministeri o ne abbattevano i muri per invitare la folla al saccheggio
della storia e della memoria dell'Iraq.
Nei prossimi giorni, forse ore, secondo quando ha scritto domenica il
settimanale britannico «The Indipendent on Sunday», l'Amministrazione
Bush e il cartello delle principali compagnie petrolifere, sarebbero
sul punto di mettere definitivamente le mani sul petrolio di quello
che Paul Wolfowitz definì «un paese che naviga sul petrolio».Un paese
considerato il terzo al mondo per riserve petrolifere, dopo l'Arabia
Saudita e l'Iran, ma che potrebbe essere in realtà il secondo, se non
il primo. Ufficialmente l'Iraq ha riserve per 115 miliardi di barili
di petrolio, il 10% del totale mondiale, ma in realtà nel deserto
occidentale vi sarebbero quantità di petrolio ancora sconosciute. Si
tratta di un petrolio di ottima qualità e molto facile da estrarre a
tal punto che in alcune zone le autorità hanno dovuto gettare delle
colate di cemento per evitare che i cittadini, scavando, facessero
zampillare dal suolo l'oro nero. Un petrolio che quindi costa
pochissimo da estrarre.
Questo giardino delle delizie per i petrolieri presto sarà di nuovo,
a oltre trent'anni dalla nazionalizzazione del settore portata avanti
dall'allora presidente Hassan al Bakr e dal vice presidente Saddam
Hussein nel 1972, pronto ad essere sfruttato a condizioni di grande
favore dalle grandi multinazionali come la Bp e la Shell britanniche
e le americane Exxon e Chevron. E magari qualche briciola relativa ai
giacimenti di Nassiriya potrebbe anche essere lasciata dalle
compagnie Usa all'Eni. Qualcosa di assai diverso da quel che sarebbe
potuto avvenire se Enrico Mattei non fosse stato ucciso con il suo
aereo il 26 ottobre del 1962 nei pressi di Linate. Pochi giorni dopo
il presidente dell'Eni avrebbe dovuto perfezionare un accordo con il
governo iracheno di Abdel Karim Kassem che il 30 settembre aveva
annunciato la formazione dell'Ente Nazionale Iracheno per il
petrolio, per la produzione annua di 20 milioni di tonnellate di
petrolio. Una vera sfida alle sette sorelle.
La nuova legge che sarà discussa dal governo di Baghdad filo-Usa e
filo-Iran e approvata dal parlamentino uscito dalle elezioni truffa
dello scorso anno, si discosta totalmente da quelle normalmente
applicate nella regione e nei paesi in via di sviluppo dal momento
che sotto un sistema chiamato «Production-Sharing Agreements», o Psa,
permette alle società petrolifere di incamerare il 75% dei profitti
fino a quando non avranno ricuperato i costi sostenuti per poi
scendere, se verrà mai quel giorno, al 20%. Esattamente il doppio di
quanto in passato governo di Saddam Hussein aveva offerto alla
vigilia della seconda guerra del Golfo alla Total per lo sviluppo di
un grande giacimento petrolifero e di quanto viene praticato
normalmente. Per di più i contratti avranno una durata trentennale e
se qualche futuro governo iracheno dovesse cambiare idea e
rivendicare la sovranità dell'Iraq sul suo petrolio ci saranno sempre
i marines a ricordargli i suoi doveri. Per questo si tratta di un
accordo che difficilmente sarà accettato dal popolo iracheno. Gli
accordi di Psa lasciano si la proprietà dei giacimenti al paese
ospitante ma assegnano gran parte dei profitti alle società che hanno
investito nelle infrastrutture e nella gestione dei pozzi, degli
oleodotti e delle raffinerie e per questa ragione la nuova legge
irachena sarebbe la prima di questo tipo mai adottata da un grande
paese produttore di petrolio della regione. Senza contare che nel
caso di controversie tra lo Stato iracheno e le società petrolifere,
la sovranità irachena non avrà alcun valore e le parti dovranno
ricorrere ad un arbitrato internazionale. Le società petrolifere,
secondo il documento ottenuto dall'Indipendent, inoltre potranno
esportare liberamente i loro profitti senza alcuna condizione e nel
farlo non saranno soggette ad alcuna tassa. Sia l'Arabia saudita che
l'Iran - così come l'Iraq dal 1972 ad oggi - controllano invece
entrambi il settore con società statali nelle quali non vi è alcuno
spazio per le compagnie straniere, così come la gran parte dei paesi
che aderiscono all'Opec. Le legge costituirebbe quindi una sorta di
pericoloso precedente per l'Organizzazione dei paesi esportatori da
sempre nel mirino dei «neocon» secondo i quali la guerra e
l'occupazione dell'Iraq sarebbero dovute servire per disgregare i
paesi arabi, prima l'Iraq, poi la Siria e infine l'Arabia Saudita e
quelli musulmani come l'Iran, sia per lasciare campo libero ad
Israele sia per assestare un colpo definitivo all'Opec. E proprio a
tal fine la costituzione provvisoria dell'Iraq, scritta dagli esperti
Usa, apre la strada alla divisione del paese in tre «patrie etniche»,
una curda, l'altra sunnita e la terza sciita, che gestiranno
autonomamente lo sfruttamento dei nuovi pozzi petroliferi lasciando
al governo centrale solamente una percentuale dei proventi derivanti
dai giacimenti già in via di sfruttamento. Ciò significherà non solo
un permanente conflitto tra le tre entità, ciascuna facilmente
ricattabile dalle multinazionali, ma costituirà anche la fine di un
ruolo preminente del governo centrale e quindi di qualsiasi forma di
«Welfare» e di intervento dello stato nell'economia.
La legge che legalizza la rapina delle risorse irachene non è stata
redatta, come si potrebbe pensare dal governo iracheno ma dalla
BearingPoint, una società Usa assoldata dal governo americano per
«consigliare» le autorità di Baghdad con un proprio rappresentante
fisso presso l'ambasciata Usa nella «zona verde». Nel giugno del 2003
la BearingPoint ricevette un contratto per «facilitare la ripresa
economica irachena» al quale si aggiunsero una serie di compiti assai
delicati: Redigere il budget iracheno, Riscrivere la legge sugli
investimenti, organizzare la raccolta delle tasse, redigere le nuove
regole liberiste per il commercio e le dogane, privatizzare le
imprese irachene, porre fine alla distribuzione di generi alimentari
a prezzi politici, creare una nuova valuta e fissare i tassi di
cambio. Una volta perfezionata, la legge sul petrolio è stata
presentata al governo Usa, alle società petrolifere e, a settembre,
al Fondo Monetario Internazionale. Molti deputati iracheni ancora ne
sono all'oscuro.

---

http://www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2007-01-10%
2009:53:06&log=invites

Butin de guerre

Stefano Chiarini

Bush a préparé une loi coloniale qui octroie aux sociétés US des
contrats aux privilèges ahurissants sur le pétrole irakien...

« Glissant silencieusement dans la nuit du Golfe persique, les Navy
Seals – écrivait un reporter excité du « New York Times » le 23 mars
2003- ont occupé deux terminaux pétroliers off shore par une série
d’attaques hardies qui se sont terminées ce matin à l’aube, et sont
arrivés à s’imposer face aux armes légères des gardes irakiens,
obtenant une victoire sans effusion de sang dans la bataille pour le
vaste empire pétrolier de l’Irak ». Une victoire qui fut
immédiatement suivie, comme cela avait été programmée en plans
détaillés par le Pentagone, par l’occupation des principales
installations pétrolières du pays et celle, à Bagdad, du très
surveillé ministère du pétrole par les troupes Usa alors que ces
mêmes militaires étasuniens ouvraient les portes des autres
ministères ou en abattaient les murs pour inviter la foule au saccage
de l’histoire et de la mémoire de l’Irak.

Dans les prochains jours, voire prochaines heures, selon ce qu’a
écrit dimanche l’hebdomadaire britannique « The Independent of Sunday
», l’Administration Bush et le cartel des principales compagnies
pétrolières, seraient sur le point de mettre définitivement la main
sur le pétrole de ce que Paul Wolfowitz avait défini comme « un pays
qui navigue sur le pétrole ».Un pays considéré comme le troisième au
monde pour les réserves pétrolifères, après l’Arabie Saoudite et
l’Iran, mais qui, en réalité, pourrait être le second, si ce n’est le
premier. Officiellement l’Irak a des réserves pour 115 milliards de
barils de pétrole, 10% du total mondial, mais il y aurait en fait
dans son désert occidental des quantités de pétrole encore inconnues.
Il s’agit d’un pétrole d’excellente qualité et très facile à
extraire, au point que dans certaines zones, les autorités ont du
couler du ciment pour éviter que les citoyens, en creusant, ne
fassent jaillir du sol l’or noir. Un pétrole qui coûte donc très peu
à l’extraction.

Ce jardin des délices sera de nouveau là pour les pétroliers, à plus
de trente ans de la nationalisation du secteur conduite par le
président de l’époque, Hassan al Bakr et son vice président Saddam
Hussein, en 1972 : prêt à être exploité dans des conditions très
favorables par les grandes multinationales comme Bp et Shell,
britanniques, et les étasuniennes Exxon et Chevron. Peut-être
quelques miettes relatives aux gisements de Nassiriya pourraient-
elles être laissées par les compagnies Us à l’Eni (Ente nazionale
idrocarburi, la société nationale des hydrocarbures, italienne,
fondée par Enrico Mattei, NDT). Quelque chose d’assez différent de ce
qu’il aurait pu advenir si Enrico Mattei n’avait pas été tué dans son
avion le 26 octobre 1962 aux environs de Linate (aéroport de Milan ;
l’enquête sur l’explosion en vol de l’avion personnel de Mattei, n’a
toujours pas déterminé les causes de cet accident, NDT). Quelques
jours plus tard le président de l’Eni aurait du mettre au point un
accord avec le gouvernement irakien d’Abel Karim Kassem qui avait
annoncé le 30 septembre la formation de la Société nationale
irakienne pour le pétrole, avec une production annuelle de 20
millions de tonnes de pétrole. Un véritable défi aux sept sœurs.

La nouvelle loi qui sera discutée par le gouvernement de Bagdad pro-
étasunien et pro-iranien et approuvée par le petit parlement issu des
élections-farce de l’année dernière, s’écarte totalement de celles
qui sont appliquées normalement dans la région et dans les pays en
voie de développement : en effet, sous un système appelé « Production-
Sharing Agreements », ou Psa, elle permet aux sociétés pétrolières de
s’approprier 75 % des profits tant qu’elles n’auront pas récupéré les
coûts supportés, pour ensuite descendre à 20%, à supposer que ce jour
arrive jamais. Le double exactement de ce que le gouvernement de
Saddam Hussein avait offert à la veille de la seconde guerre du Golfe
à Total, pour le développement d’un grand gisement pétrolifère, et de
ce qui est normalement pratiqué. De plus, les contrats auront une
durée trentenaire et si quelque gouvernement irakien à venir voulait
changer de perspective et revendiquer la souveraineté de l’Irak sur
son pétrole, il y aurait toujours des marines pour le rappeler à ses
devoirs.

C’est pour cela qu’il s’agit d’un accord qui sera difficilement
accepté par le peuple irakien. Les accords de Psa laissent bien sûr
la propriété des gisements au pays hôte mais assignent une grande
partie des profits aux sociétés qui ont investi dans les
infrastructures et dans la gestion des puits, des oléoducs et des
raffineries, et, de ce fait, la nouvelle loi irakienne serait la
première de ce type jamais adoptée par un grand pays producteur de
pétrole de la région. Sans compter qu’en cas de controverses entre
l’Etat irakien et les sociétés pétrolières, la souveraineté irakienne
n’aura aucune valeur et les parties en présence devront avoir recours
à un arbitrage international.

Les sociétés pétrolières, selon le document obtenu par The
Independent, pourront en outre exporter librement leurs profits sans
aucune condition, et elles ne seront soumises à aucune taxe en le
faisant. L’Arabie Saoudite aussi bien que l’Iran – de même que l’Irak
de 1972 à maintenant- contrôlent par contre tous les deux leur
secteur avec des sociétés d’état dans lesquelles il n’y a aucune
place pour des sociétés étrangères, comme c’est le cas pour la plus
grande partie des pays qui adhèrent à l’OPEP. La loi constituerait
donc une sorte de dangereux précédent pour l’Organisation des pays
exportateurs, depuis toujours dans le collimateur des « néo-cons »,
pour lesquels la guerre et l’occupation de l’Irak auraient du servir
à la désagrégation des pays arabes : l’Irak d’abord, la Syrie
ensuite, et pour finir l’Arabie saoudite, et les pays musulmans comme
l’Iran, pour tout à la fois laisser le champ libre à Israël et
asséner un coup définitif à l’OPEP.

Et la constitution provisoire de l’Irak, écrite par les experts
étasuniens, ouvre justement la voie à la division du pays en trois «
patries ethniques », une kurde, une sunnite et la troisième chiite,
qui gèreront de façon autonome l’exploitation des nouveaux puits
pétroliers, en ne laissant au gouvernement central qu’un pourcentage
de revenus dérivant des gisements déjà en exploitation. Cela
signifiera non seulement un conflit permanent entre les trois
entités, chacune pouvant être facilement rançonnée par les
multinationales, mais constituera aussi la fin d’un rôle prééminent
du gouvernement central et donc de toute forme de « welfare » et
d’intervention de l’état dans l’économie.

La loi qui légalise la rapine des ressources irakiennes n’a pas été
rédigée, comme on pourrait le penser, par le gouvernement irakien
mais par BearingPoint, une société étasunienne soudoyée par le
gouvernement étasunien pour « conseiller » les autorités de Bagdad,
ayant son propre représentant fixe auprès de l’ambassade Us dans la «
zone verte ». En juin 2003, BearingPoint a eu un contrat pour «
faciliter la reprise économique irakienne » auquel se sont ajoutés
une série de tâches assez délicates : rédiger le budget irakien,
réécrire la loi sur les investissements, organiser la collecte des
impôts, rédiger les nouvelles règles libérales pour le commerce et
les douanes, privatiser les entreprises irakiennes, mettre fin à la
distribution des denrées alimentaires à prix politiques, créer une
nouvelle monnaie et fixer les taux de change. Une fois perfectionnée,
la loi sur le pétrole a été présentée au gouvernement étasunien, aux
sociétés pétrolières et, en septembre, au Fond Monétaire
International. De nombreux députés irakiens l’ignorent encore.

Edition de mardi 9 janvier 2007 de il manifesto
Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=13491

La questione "rom"

di Adriano Ascoli

su Liberazione del 10/01/2007

Vista la crescente attenzione riguardo alla "vicenda rom", proponiamo
ai lettori un articolo del 25 marzo 1999, pubblicato da Liberazione
all'indomani dell'avvio della guerra contro la Federazione Jugoslava.

L'articolo è tratto da una intervista di Adriano Ascoli a un rom
jugoslavo riparato in un campo nomadi fiorentino.

A distanza di tanti anni da quella sciagurata aggressione militare, è
il caso di ricordare che la massiccia presenza rom in Italia è in
larga parte conseguenza annunciata di quella guerra non dichiarata,
ed illegale, qualcuno potrebbe definirla pure "eversiva", contro la
Federazione Jugoslava, ciò ha determinato gravi conseguenze sociali
sul nostro territorio che ora, a dispetto di facili rimozioni, stanno
assumendo centralità politica.

Il numero dei rom jugoslavi in Italia è andato aumentando di pari
passo con la destabilizzazione della rfsj, e con la "liberazione" del
Kossovo e l'instaurazione della dittatura terroristica criminale che
ad oggi continua a governarlo, grazie alla protezione delle forze
militari alleate, la quasi totalità dei rom kossovari ha dovuto
lasciare il proprio paese per riparare, in larga parte, proprio in
Italia. La prima volta che si ebbe a parlare sulla stampa italiana
dei rom del Kossovo, sfatando la falsa notizia di un Kosovo tutto
albanese, fu appunto in questo articolo del marzo 99.
Quella guerra, i cui risultati sono oggi così impietosi, fu anche
all'origine di altri drammi umani, con la malattia e la morte di
numerosi militari italiani e di un numero imprecisato di civili
jugoslavi (vedi
http://italy.indymedia.org/news/2004/09/635576.php)

MARZO 99. ROM: GLI INNOMINATI DEL KOSOVO

Incontriamo Ferat in un bar vicino al suo campo "nomadi", uguale a
tanti altri campi in cui sono ammassati a centinaia nelle città
italiane. Commentiamo insieme il rapido precipitare degli eventi
nella Federazione Jugoslava. Conosciamo Ferat da tempo, ma mai
avevamo compreso come ora la pesantezza della menzogna sul Kosovo.
Con tono mite e pacato, ci racconta la sua storia.
Nato nella Croazia scappa con moglie e figli abbandonando casa e
lavoro, scacciato dalle autorità di quella Croazia che fa impallidire
per la somiglianza con i peggiori regimi fantoccio del periodo
nazista. Ripara in Kosovo, da profugo non viene accolto in un campo,
come accade da noi, ma in una casa costruita a metà, come molte case
in questa regione, già povera e ancor più indebolita dal successivo
embargo. Periodici sono i viaggi in Italia per comperare stracci e
vestiti da rivendere al mercato. Lui, come i suoi compagni di
sventura, non rientra in nessuna delle etichette etniche
pubblicizzate sui nostri mezzi di informazione: non è serbo, non è
neanche albanese, è rom (quelli che vengonp chiamati zingari e che
parlano un misto di serbo e sancrito). Dunque non è vero che in
Kosovo ci sono solo albanesi e una infima minoranza di serbi?
Ferat ci risponde che i numeri riportati dai nostri giornali non
corrispondono al vero e, senza nulla togliere agli albanesi, non
viene mai ricordato che oltre al noto 15% di serbi vi è una secolare
presenza della comunità rom e che la consistenza numerica degli
albanesi è inferiore di quanto ci viene fatto credere. La questione
dei numeri, quasi maniacale nei Balcani, merita la sua attenzione
perché su di essa si è costruita la politica e la storia di questa
regione. in Kosovo vi è una minoranza di albanesi cattolici e una
maggioranza di albanesi musulmani, una nutrita minoranza rom e una
minoranza turca entrambe musulmane, ed infine una minoranza serba di
religione ortodossa (o anche atea) originaria di questa terra da
oltre mille anni. Tutte le componenti musulmane, spiega Ferat, sono
state assimilate, forza della statistica e degli interessi che questa
deve servire, all'etnia albanese.
Un capolavoro che ha consentito di presentare la situazione kosovara
estremamente diversa da come è in realtà. Le etnie musulmane ma non
albanesi non hanno partecipato infatti in alcun modo ai fermenti
autonomistici, paventando proprio quella pulizia etnica di cui sono
sempre state vittime dalla disgregazione della Jugoslavia, unico
stato, insieme alla successiva federazione serbo-montenegrina, a
garantire loro cittadinanza e dignità (con diritti nettamente
superiori a quelli che noi concediamo loro). I dati su cui si basano
gli esperti sono invece relativi alla semiotica dei cognomi: a un
cognome musulmano corrisponde una croce nella casella "etnia
albanese". Restiamo sbigottiti da queste affermazioni, pronunciate in
modo semplice e defilato dal nostro interlocutore e chiediamo quale
sia stato il trattamento riservato dalle forze serbe a questi
musulmani, né albanesi né serbi, i rom del Kosovo, gli innominati di
questa crisi, ma Ferat non vuole perdersi in chiacchiere e taglia
corto: nella federazione jugoslava la comunità musulmana è
perfettamente integrata, accettata in Serbia come in Montenegro,
stati entrambi multietnici come fu la Jugoslavia di Tito. E le
repressioni contro la popolazione civile? Tutta la comunità,
sostiene, sa distinguere: "C'è la guerra e nella guerra la povera
gente soffre sempre". Ma la preoccupazione più forte è sempre stata
il nazionalismo razzista dell'Uck privo di qualsiasi rivendicazione
sociale, "non si sa neanche cosa vogliono fare con un nuovo stato, si
sa solo che deve essere albanese puro e che non ci saranno né serbi
né zingari". Ferat ci ricorda ancora come, nel paese che con maggior
forza seppe liberarsi dai nazisti, circa un anno orsono è stato
rinvenuto un forno crematorio (vi si bruciavano serbi e albanesi
"collaborazionisti"), e le recenti stragi ai mercati opera dell'Uck
per terrorizzare la stessa popolazione albanese e impedire un accordo
tra le parti più moderate. Una guerra di bassa intensità,
strisciante, andata avanti a lungo per destabilizzare il paese,
dividerlo ed annettere le zone minerarie dove si estraggono minerali
preziosi (come a Mitrovica) ad una grande Albania etnica e pura,
assoggettata agli Usa e all'Europa. Ecco ora La Guerra, vera e cruda,
ultima di un calvario di disgrazie.
Ferat è convinto: i serbi non lasceranno il Kosovo, terra sacra, con
le più belle e antiche chiese (come lo splendido monastero di
Gracanica), meta privilegiata di pellegrinaggio e culla della storia
e della cultura serba. Stiamo per chiudere la conversazione quando il
telegiornale annuncia il lancio dei primi missili "intelligenti".
Cala un silenzio gonfio di lacrime; una corsa al telefono del bar,
una voce risponde: "A Vuctrin i negozi sono chiusi, ma stiamo bene".
All'improvviso: "E' andata via la luce! Come proseguirà questa
nottata?".



(english / italiano)

http://poisondust.org/


1) Preševo: 161 depleted uranium missiles found / SERBIA: RAID NATO 99, TROVATE ALTRE BOMBE ALL'URANIO IMPOVERITO 

2) VIDEO: Poison DUst. A NEW  LOOK AT U.S. RADIOACTIVE WEAPONS 

3) Intervista a Gigi Malabarba: Nuova indagine parlamentare sull'uranio impoverito

4) D. Leggiero: “Uranio. Storia di un’Italia impoverita”

5) Importante convegno a Modena

6) D.U. E FINANZIARIA: 15 milioni di euro per i militari ammalati / FINANZIARIA: BULGARELLI (VERDI), "BENE INTERVENTI PER ASSISTENZA MILITARI MALATI E BONIFICA AREE POLIGONI"

7) ARMI ALL'URANIO IN LIBANO ED IRAQ

8) BREVI / IN SHORT:

- URANIO: NUOVO CASO DI CONTAMINAZIONE DI UN MILITARE

- Italia. Uranio impoverito, due contaminati in Puglia

- Bosnia, Kosovo: Uranium 'killing Italian troops' 


=== 1 ===

http://www.b92.net/eng/news/society-article.php?yyyy=2006&mm=12&dd=11&nav_category=111&nav_id=38546

Beta (Serbia)
December 11, 2006

Preševo: 161 depleted uranium missiles found

RELJAN - In the past nine weeks, 161 depleted uranium
missiles were recovered in Reljan, near Preševo.

Directorate for the protection of the environment
representatives say that the missiles were left in the
area after the 1999 NATO bombing campaign.

The works in the area started on October 1.

So far, 6.5 out of 12 hectares of contaminated grounds
have been searched and cleared.

A total of 2.4 cubic meters of contaminated soil has
also been collected and removed.

The government has funded the cleanup operation in the
Reljan site with 350,000 euros. 

---

SERBIA: RAID NATO 99, TROVATE ALTRE BOMBE ALL'URANIO IMPOVERITO

BELGRADO - Altri 161 ordigni con uranio impoverito, sganciati dalla Nato sulla Serbia nel 1999, durante i bombardamenti della guerra del Kosovo, sono stati trovati e stoccati da ottobre a oggi nella piu' recente operazione di bonifica ad hoc compiuta nella repubblica ex jugoslava.

Le bombe in questione - il cui impiego e il cui presunto impatto sulla salute degli stessi militari Nato hanno suscitato in passato accesi contrasti in Italia e in vari Paesi occidentali - sono state rinvenute nella zona di Presevo (Serbia meridionale), a pochi chilometri dal confine amministrativo con la provincia secessionista a maggioranza albanese del Kosovo.

Esse erano sparpagliate in un area di 6,5 ettari e sono state messe ora in sicurezza, ha riferito all'agenzia Beta il Dipartimento governativo per la protezione ambientale di Belgrado. L'operazione e' stata condotta tra il primo ottobre e l'11 dicembre ed e' consistita anche nella delimitazione di 2,4 metri cubi di ''suolo tossico'', destinato a essere decontaminato nel giro di poco piu' di tre mesi.

Nella zona di Presevo - per la cui bonifica il governo serbo ha stanziato sino a oggi 27,5 milioni di dinari - restano da controllare ulteriori 5,5 ettari di terreno che si presumono soggetti alle conseguenze della contaminazione da uranio impoverito di sette anni orsono.
12/12/2006 14:08 


=== 2 ===


Poison DUst

A NEW  LOOK AT U.S. RADIOACTIVE WEAPONS

Join us in a campaign to expose and stop the use of these illegal weapons

On November 1, the BBC reported that the U.S. and British governments have continued to use radioactive and chemically toxic Depleted Uranium weapons in Iraq, disregarding warnings that these weapons pose a cancer risk and are linked to numerous other health issues.

According to the article, a report by a senior UN scientist said research showing how depleted uranium could cause cancer and other health problems was suppressed in a recent World Health Organization report:
But Dr Keith Baverstock, who worked on the project, ...described a process known as genotoxicity, which begins when depleted uranium dust is inhaled.   "The particles that dissolve pose a risk - part radioactive - and part from the chemical toxicity in the lung," he said.  Later, he said, the material enters the body and the blood stream, potentially affecting bone marrow, the lymphatic system and the kidneys.  The research was not included in the WHO report, and Dr Baverstock believes it was blocked.

During the current Iraq War the U.S. use of radioactive DU weapons increased from 375 tons used in 1991 to 2200 tons. Geiger counter readings at sites in downtown Baghdad record radiation levels 1,000 and 2,000 times higher than background radiation. The Pentagon has bombed, occupied, tortured and contaminated Iraq. Millions of Iraqis are affected. Over one million U.S. soldiers have rotated into Iraq. Today, half of the 697,000 U.S. Gulf War troops from the 1991 war have reported serious medical problems and a significant increase in birth defects among their newborn children.

The effects on the Iraqi population are far greater. Many other countries and U.S. communities near DU weapons plants, testing facilities, bases and arsenals have also been exposed to this radioactive material which has a half-life of 4.4 billions years.

---

You thought they came home safely from the war. They didn’t.

Poison DUst tells the story of three young men from New York who could not get answers for their mysterious ailments after their National Guard unit’s 2003 tour of duty in Iraq. A mother reveals her fears about the extent of her child’s birth defects and the growing disability of her young husband – a vet.

Filmmaker Sue Harris skillfully weaves, through interviews, their journey from personal trauma, to ‘positive’ test results for uranium poisoning, to learning the truth about radioactive Depleted Uranium weapons. Their frustrations in dealing with the Veterans Administration’s silence becomes outrage as they realize that thousands of other GI's have the same symptoms.

Veterans, anti-war organizers, environmentalists and health care providers will find this wake-up call to today’s GIs invaluable.

Today more than 1/3 of all 1991 Gulf war vets are on VA Disability Benefits. Meanwhile U.S. use of radioactive DU weapons has increased six-fold from 1991 to Gulf War II!

Scientists expose the Pentagon Cover-Up!

Poison DUst includes a powerful indictment of past U.S. use of radioactive weapons....

The U.S. military now admits that it deliberately radiated its own soldiers, known as the “Atomic Veterans,” during the Cold War. This documentary exposes U.S. use of radioactive weapons on peoples in not only Iraq, but the Marshall Islands; Vieques, Puerto Rico; Meihyang-Ri, South Korea; and Yugoslavia.

Poison DUst mixes interviews with soldiers with experts such as Dr. Helen Caldicott, Dr. Michio Kaku, and Dr. Rosalie Bertell explaining how DU contamination spreads and how residue from exploded DU shells radiates people.

A growing global resistance is expressed by former Attorney General Ramsey Clark, scientists and activists from Vieques, Puerto Rico, by New York Daily News reporter Juan Gonzalez, Sara Flounders of the International Action Center’s DU Education Project and Major Doug Rokke - the former U.S. Army DU Project head.

Poison DUst is an important educational tool in building the movement to stop this horror.

Help us get the word out--this important film is already being shown in schools, churches, community centers, and in a Coffee House set up for GIs outside of Fort Drum.

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From: The Queens Tribune, 4/21/2005

    Queens veterans of the War in Iraq share military stories, pay tribute to their fallen comrades and talk to each other about their experiences – and one element keeps ringing true to many of the soldiers. Depleted uranium.

    On Tuesday night, in the basement of All Saint’s Episcopal Church in Sunnyside, there was a screening of Poison DUst, a documentary that chronicles the United States government’s use of depleted Uranium. ...

    The movie makes a convincing case for its argument that depleted uranium is being used rampantly in Iraq, among other places, and that wherever it is used it causes terrible health problems. The audience was clearly disturbed by the film.

    “Isn’t there some crime being committed?” Bill Hagel, who attended, asked in the question and answer session that followed. “Shouldn’t someone be in jail?” 

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Join the campaign to stop the use of these illegal weapons.

How you can help:

Order the video from http://poisondust.org - arrange showings in your community 

Donate - You can make a difference! Funds are urgently needed to publicize and distribute Poison DUst. Send donations to the Depleted Uranium Education Project; 55W. 17 St., Rm. 5C, New York, NY 10011. Or donate on-line: http://iacenter.org/iacdonate.shtml

For more information, additional resources, bibliography, and more, see: PoisonDUst.org
Call 212-633-6646 for information 



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Nuova indagine parlamentare sull'uranio impoverito

08.11.2006    scrive Nicole Corritore


Il parlamento italiano ha istituito una nuova Commissione d'inchiesta sull'uranio impoverito, operativa da dicembre. Si indagherà questa volta non solo sui militari ma anche sui civili. Nostra intervista al primo firmatario, senatore Gigi Malabarba


Ad inizio ottobre è stata istituita una nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sulla questione uranio impoverito. Quali le differenze rispetto alla precedente? 

La Commissione Difesa ha deciso l’istituzione di una nuova Commissione d’inchiesta sull'uranio impoverito in sede deliberante, sulla base dell'accordo tra tutti i gruppi, e questo dovrebbe far superare le difficoltà che abbiamo avuto nella passata legislatura. Il dato estremamente positivo è che non abbiamo neanche dovuto ricorrere al voto dell’aula. L’istituzione di questa Commissione è stata la più veloce nella storia della nostra Repubblica, anche perchè si tratta della continuazione di un lavoro già avviato che gode del sostegno del 20% dei senatori di tutti i gruppi, concordi sul fatto che il lavoro debba continuare. Io sono il primo firmatario, ma se non ci fosse stato il sostegno di tutti i gruppi non ci sarebbe stata la possibilità di istituirla così velocemente. 

Che cosa era successo allora? Sappiamo che sono state molteplici le difficoltà incontrate durante l’anno di lavoro della prima Commissione... 

C’erano state reticenze di alcuni gruppi, in particolare Forza Italia, che aveva sia il Ministro della Difesa che il Presidente del Senato, ed ha avuto un ruolo forte di freno e sabotaggio. Questa volta, credo grazie soprattutto al lavoro fatto da tutta la Commissione l’anno passato, si sono fugati tutti i dubbi relativi a possibili attività propagandistiche che avrebbe potuto svolgere la Commissione ai danni delle gerarchie militari, del ministero della Difesa o delle Forze armate. Le cose che avevamo chiesto e che non ci sono state date allora le dobbiamo ottenere assolutamente ora, da parte del ministero della Difesa, e riguardano innanzitutto i dati su cui è possibile costruire degli elementi statistici fondanti. 

Con quali presupposti parte il lavoro della nuova Commissione? 

Allo stato attuale il lavoro è stato parziale, perché non ci sono mai stati forniti i dati. Penso che la Commissione possa entrare in funzione già prima di Natale e possa riconfermare la squadra molto valida che abbiamo avuto l’anno passato. Conterà sempre 21 membri e anche il numero dei consulenti dovrebbe essere riconfermato, anche perché sono persone che si sono dimostrate molto valide e sono ormai diventate di fama internazionale. Dopodiché abbiamo avuto anche la possibilità, che ho voluto introdurre come elemento legato alle valutazioni che avevamo fatto nella passata legislatura, di allargare il campo alle popolazioni civili sia attorno ai poligoni di tiro sia ai teatri di guerra che sono stati oggetto dell’intervento delle nostre missioni militari. 

Come intendete allargare il campo di indagine ai civili? 

Non è possibile pensare di fare un’indagine epidemiologica di massa nei territori dei Balcani, in Afghanistan e Iraq. Però è possibile acquisire degli elementi mirati in situazioni specifiche in cui ci sono state delle evidenze sulle popolazioni civili, che possono essere di conforto rispetto alle presenze più limitate nel tempo dei nostri militari. Raggiungere la verità sul rapporto causa effetto rispetto a determinati munizionamenti, all’uranio impoverito ma anche altri, è più facile se allarghiamo la possibilità d’indagine sul territorio a chi è stato stabilmente in quella realtà dall’inizio. Per quanto riguarda i Balcani questo è fondamentale perché lì abbiamo popolazioni civili che, benché vi siano dati dispersi, hanno vissuto tragedie immani, sono cadute come mosche. 

Nel 2001, scoppiato lo scandalo a seguito delle prime denunce di militari morti, si era avviato in Italia con decreto il monitoraggio sanitario dei militari e dei civili italiani che avevano operato nei Balcani. Si è concluso il primo quinquennio di raccolta dati. Sebbene l’adesione al monitoraggio fosse su base volontaria e i numeri dei soggetti che hanno aderito non siano alti, esistono oggi dati sui risultati? 

Sappiamo che ci sono delle persone che durante il servizio civile si sono ammalate, ma non abbiamo i dati statistici neppure di quelli che avevamo chiesto istituzionalmente, e cioè dei militari. C’è stato un sabotaggio da parte del ministero delle Difesa, che è quello che ci potrebbe dare degli elementi e che ha fatto di tutto per disperdere i dati. Parlo soprattutto di militari, perché è ciò di cui ci siamo occupati nel lavoro di indagine della prima Commissione. Avremmo avuto la possibilità, attraverso anche la stessa Commissione Mandelli che prevedeva monitoraggi prima, durante e dopo la missione, di avere un passaggio anche in alcune zone particolari, cioè in alcuni ospedali militari. Lavorando a ritmo serrato, ad esempio presso l’ospedale militare di Padova, avremmo potuto avere una campionatura molto precisa di tutti i dati. Invece, nonostante ci fosse il problema di recuperare questi dati statistici, i militari sono stati invitati a rivolgersi a ospedali qualsiasi con la scusa che sarebbe stato più comodo magari curarsi vicino a casa. Il risultato è che si è disperso il dato degli stessi militari, e neppure i distretti militari delle singole realtà sono stati in grado di fornire il dato specifico della loro zona. 

La nuova Commissione prevede di allargare l’indagine ai civili, potreste quindi pretendere di conoscere i dati del monitoraggio effettuato su di loro in questi anni, per quanto esiguo... 

La Commissione non ha oggi a disposizione nessun dato rispetto ai civili. Introducendo il nuovo elemento della ricerca anche su questa categoria, però, la Commissione è abilitata oggi ad occuparsene e dunque a pretendere di analizzare i dati. In alcune realtà, anche a Baghdad, piuttosto che a Kabul o altrove, ci sono ospedali che possiedono elementi relativi all’evoluzione sanitaria nel corso degli anni. Conosciamo i disastri della guerra… Ma esistono pur sempre dei dati. Anche a Sarajevo, che è stata completamente distrutta, e i cui archivi sono stati dispersi, ci sono dati significativi che, se utilizzati all’interno della prima Commissione d’inchiesta, ci avrebbero aiutato a capire meglio l’evoluzione delle patologie in relazione ai bombardamenti. Mettere ad esempio la dottoressa Gatti [responsabile del laboratorio dei biomateriali presso l'Università di Modena, ndr] in condizione di poter analizzare le persone che hanno subito gli effetti dei bombardamenti è un percorso che ci può aiutare per scoprire la verità rispetto ai nostri militari. 

Il sistema Italia opera nei Balcani con interventi di cooperazione grazie a fondi, come la legge 84/01, stanziati ad hoc per la stabilizzazione dell’area. Progetti di tutela e recupero ambientale, di sviluppo del turismo, di valorizzazione delle risorse locali, di sminamento, e tanto altro. Possibile pensare di chiudere il cerchio e far sì che l’Italia, se dovesse essere riconfermato il rifinanziamento della legge 84, possa indagare ma anche riparare in qualche maniera ai danni causati dai bombardamenti con uranio impoverito di cui siamo anche noi responsabili? 

Si tratta di un auspicio. La mia valutazione è molto negativa e sono un po’ pessimista, a riguardo, sebbene mi auguro di sbagliarmi. Io ho chiesto al sottosegretario Casula, che si occupa della parte sanitaria presso il ministero della Difesa, che ci sia la possibilità di avere nel nostro paese un centro di eccellenza per riuscire a monitorare queste situazioni. Il centro potrebbe basarsi sul lavoro fatto all’Università di Modena e Reggio Emilia dalla dottoressa Gatti, e all’ospedale militare di Padova dal dottor Enzo Chinelli. Se noi mettessimo insieme queste energie potremmo dare un contributo importante anche ai fini dell’attività disinquinante di quei territori, perché mettiamo a disposizione anche le competenze del nostro paese in quel settore. Se però non abbiamo la volontà di andare a concentrare le energie laddove le cose stanno funzionando, ho l’impressione che anche la cooperazione rischi di vanificarsi e addirittura diventare uno dei supporti alle attività militari… La mia preoccupazione è data dal fatto che su questo il nuovo governo non ha espresso una forte discontinuità, almeno fino ad oggi. Mi auguro di sbagliarmi… 


=== 4 ===


L'Italia dell'uranio

10.11.2006    scrive Nicole Corritore


A Sesto Fiorentino, nel quadro delle iniziative della giornata internazionale per la messa al bando delle armi all'uranio impoverito, è stato presentato il libro “Uranio. Storia di un’Italia impoverita” del Maresciallo Domenico Leggiero. Nostra intervista all'autore


Questo libro denuncia la vicenda di militari italiani ammalatisi di tumore dopo essere stati in missione in luoghi dove è stato usato munizionamento all'uranio impoverito. Quali sono i motivi che la hanno spinta a scriverlo? 

Verba volant, scripta manent. Volevo che il ricordo di questi ragazzi rimanesse vivo, quindi c’è un libro e c’è una testimonianza. Inoltre io ero carico, carico di emozioni che questi ragazzi mi avevano trasferito e che in qualche modo dovevo esprimere. L’ho fatto quindi con un libro, qualcosa che resta. Purtroppo, in base ai dati che abbiamo raccolto come Osservatorio Militare, dall’uscita del libro ad oggi sono morti altri tre soldati e il numero dei deceduti è salito a 42, mentre sono 492 quelli che fino ad ora si sono ammalati di tumore. 

Nel libro lei fa denunce molto dure, raccontando i retroscena delle storie dei singoli soldati con un unico filo conduttore: quello di un apparato, non solo militare, che ha voluto in tutti i modi nascondere la verità, attraverso falsificazione e omissione di dati, minacce, informazione censurata o pilotata. Quali sono state le reazioni a queste sue denunce? 

L’ho detto e l’ho scritto nel libro, affinché qualcuno di questi signori si degni di rispondere, un giorno. Anche se penso che i casi siano due: o non hanno letto il libro e quindi non mi arrestano perché non sanno che ho scritto tante sciocchezze, oppure sanno che sciocchezze non sono e non leggono il libro per non arrestare i veri responsabili. 

Voglio fare l’esempio di una trasmissione di Costanzo, che credo sia emblematica di un'informazione pilotata. La delusione, in questo caso, è stata enorme. Era appena morto un soldato, e nell’arco di sei ore hanno organizzato una puntata del Costanzo show facendo un addestramento dei miei colleghi. Il messaggio che doveva partire dai soldati in missione in Bosnia era: “Mamma, babbo, stiamo bene… venite qua, stiamo tutti bene”. 

Stiamo tutti meglio, si mangia bene, c’è il sole, qui non piove mai e l’uranio fa bene perché rinforza i tessuti… Questo era il messaggio che Costanzo ha voluto dare, a causa dei legami con Mandelli e con un sistema militare con il quale bisogna trovare il modo di convivere. Perché non ci si può mettere contro determinati militari... 

Il suo libro è uno specchio dell'attività del vostro Osservatorio Militare, che dal momento della sua istituzione segue questi ragazzi malati. Che cosa è cambiato dopo un anno di vostra attività? 

L’unica cosa che è cambiata è stata lo stanziamento in finanziaria di una piccola somma, che è stata aperta a tutti e non solo a questi ragazzi. Cioè non solo a quelli morti per leucemia, ma a tutti quelli che hanno avuto delle cause di servizio, che vanno dal dito slogato alla gamba rotta. Si tratta di dieci milioni di euro, da dividere tra le decine di migliaia di persone che hanno i requisiti, un’elemosina. Ma io lo considero comunque un primo segnale, la giustizia vera arriverà nei tribunali. Il 25 novembre ci sarà a Roma la prima udienza sul procedimento civile avviato dall’avvocato Tartaglia. Ogni procedimento è singolo, per evitare che un unico giudice possa decidere per tutti. Si tratta di una tecnica utilizzata dal legale per dar modo alla magistratura di dare un giudizio più allargato, nel senso che saranno molti i giudici destinati a giudicare e valutare. 

Il libro ha messo in movimento anche il ministero della Difesa. Infatti, al di là dell’ostruzionismo che c’è stato, il ministero sta utilizzando anche le informazioni contenute nel libro per preparare le contromosse. La cosa che il libro ha più evidenziato è che ancora non ci vuole essere collaborazione. La Difesa tende a voler nascondere le proprie colpe, mentre il mio libro voleva favorire una presa di coscienza e una chiarezza nel capire chi ha sbagliato e quindi tutelare, per assurdo, il ministero stesso. Perché nel momento in cui sappiamo che si lavora per individuare immediatamente il colpevole e c’è collaborazione da parte dell’intera istituzione, abbiamo la certezza di lavorare in un’istituzione, quella militare, più pulita, più chiara e corretta. Non va colpevolizzata l’intera istituzione, essa va salvaguardata. Si deve però capire se la politica ha la forza di salvaguardare le istituzioni e se le stesse hanno voglia di guardarsi all’interno ed eliminare le mele marce. 

Come Osservatorio Militare avete rapporti di collaborazione con vostri omologhi di altri paesi europei e americani? Avete ottenuto dei dati significativi al convegno internazionale di Hiroshima sul bando delle armi all'uranio impoverito dell’agosto scorso? 

Abbiamo rapporti di collaborazione con la Avigolfe francese ma anche con le associazioni di reduci americani e inglesi. Con i giapponesi, seppure ci sia stato un grande e importantissimo scambio di informazioni, è diverso perché non hanno la realtà e la dimensione di quello che è il caso uranio in Italia. Da un lato è fatto addirittura divieto ai militari di parlare di questioni militari, e dall’altro non c’è ancora un caso uranio, perché il Giappone opera solo da poco in ambito internazionale. Rispetto alla nostra collaborazione con Avigolfe e le associazioni americana e inglese non possiamo fornire pubblicamente alcun dato. Questa è stata la loro espressa richiesta e inoltre abbiamo intenzione di far presente tutti insieme la situazione. Vorremmo farlo entro breve a Strasburgo anche se, purtroppo e con grande dispiacere, le uniche forze politiche che si sono rese disponibili ad organizzare un incontro con la Commissione Difesa europea sono forze identificate come estremiste sia a destra che a sinistra… e non vorremmo essere strumentalizzati. 


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Trieste: quando morì mio padre

Giovedì, 04 Gennaio 2007
Risiera di San Sabba

Disegni e testimonianze di bambini sloveni deportati durante la Seconda Guerra Mondiale nei campi di concentramento del confine orientale. La mostra, aperta fino al 28 gennaio presso la Risiera di San Sabba, si rivolge soprattutto ai giovani, per conoscere il passato e riflettere sul futuro

Fonte: Comune di Trieste

"Quando morì mio padre" è il titolo di una mostra realizzata dal Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale "Leopoldo Gasparini" e resa possibile grazie alla collaborazione dell'Archivio di Stato della Slovenia e dal Museo di Storia Contemporanea di Lubiana.

La mostra, che si tiene nella cornice della Risiera di San Sabba, è curata da Metka Gombac, Boris M. Gombac e Dario Mattiussi. E' strutturata in ventisei grandi pannelli a colori, che riproducono scritti e disegni di bambini sopravvissuti alla deportazione nei campi di concentramento del confine orientale Gonars, Visco, Arbe-Rab e Monigo (Treviso) tra il 1942 ed il 1943. Essa è corredata da un volume dallo stesso titolo, che ripercorre le vicende storiche che portarono alla deportazione dei civili sloveni nei campi di concentramento italiani, posti a ridosso del confine orientale, ed in particolare indaga l'odissea dei bambini sloveni deportati in questi campi tra il 1942 ed il 1943.

I saggi contenuti nel volume sono l'accompagnamento storico indispensabile all'approfondimento dei temi affrontati dalla mostra, realizzata grazie agli scritti e disegni di bambini sopravvissuti alla deportazione e messi per la prima volta a disposizione dall'Archivio di Stato della Repubblica di Slovenia e dal Museo Sloveno di Storia Contemporanea di Lubiana.

Disegni e scritti vennero composti durante i corsi di terapia post traumatica avviati in strutture mediche partigiane dopo la liberazione dai campi, successiva all'8 settembre 1943. Diversi vennero raccolti in una sorta di concorso, organizzato nella zona libera della Kocevska, dalle istituzioni scolastiche locali. I maestri che proponevano i temi erano, normalmente, anche loro reduci dai campi ed erano quindi le persone più adatte per comunicare con i bambini, quasi tutti orfani. Ai tentativi di terapia, attuati stimolando i bambini a far riemergere la memoria delle sofferenze patite per poterle elaborare, ed ai temi svolti nelle scuole elementari organizzate dalle forze partigiane, dobbiamo la conservazione di questi materiali che costituiscono oggi una delle testimonianze più preziose e drammatiche di una delle pagine più buie della nostra storia.

L'orrore della deportazione e dei campi di concentramento ha colpito la nostra regione con una violenza ed una dimensione che hanno pochi riscontri nel resto del Paese. Sicuramente, in rapporto alla popolazione, il numero dei deportati dai nostri Comuni, anche senza tener conto della tragedia vissuta dalla comunità ebraica, è uno dei più alti in assoluto. Molti dei campi di concentramento - come Sdraussina, Fossalon, Gonars, Visco - che ospitarono donne, anziani e bambini deportati sia dalle zone d'occupazione militare sia dal nostro territorio, sono luoghi che conosciamo ed in cui tutti noi ci siamo trovati, probabilmente senza immaginare che sono stati teatro di tante sofferenze.

La conoscenza del nostro passato, anche delle sue pagine più buie, deve costituire uno stimolo per rafforzare il nostro impegno oggi contro intolleranza, violenza e razzismo. La ricerca che ha dato origine alla mostra e al volume è dunque importante perché si rivolge in modo particolare alle generazioni più giovani, a coloro che devono rendere concrete nella realtà parole come "uguaglianza", "pace", "rispetto dell'altro".

Risiera di San Sabba - Monumento Nazionale
via Giovanni Palatucci, 5
Tel.: 040 826202
Fax: 040 8330974
E-mail: risierasansabba@ comune.trieste.it

Per informazioni e prenotazioni e per le visite guidate:
Direzione Civici Musei di Storia ed Arte
Tel. 040 310500 - 040 826202
E-mail: serviziodidattico@ comune.trieste.it.



LA STAZIONE FERROVIARIA DELLA CITTÀ... DEL VATICANO


Riceviamo e volentieri giriamo, con l'intento di denunciare le scelte
bigotte del sindaco di Roma, Water Veltroni, di cui ricordiamo anche
l'appoggio entusiasta alla guerra di aggressione contro la RF di
Jugoslavia nel 1999 (CNJ)

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COMUNICATO STAMPA

La pretesa di intitolare al papa Giovanni Paolo II la stazione
centrale "Termini" della capitale della Repubblica italiana non è che
il culmine del confessionalismo istituzionale. La decisione è stata
assunta con un colpo di mano antidemocratico, non trasparente, in
periodo di silenzio-stampa, nonostante fosse stata già
precedentemente contestata da migliaia di cittadini e da centinaia di
associazioni italiane ed estere. Il sindaco Veltroni ha così negato
il carattere laico delle istituzioni e il profondo pluralismo
culturale, politico e religioso della società in cui viviamo. Ha
perduto il rispetto per ogni convinzione che non sia quella
cattolica. Riteniamo che, quanto meno, decisioni destinate a segnare
a tempo indeterminato il volto di Roma dovrebbero essere prese senza
demagogia e senza opportunismo.
Il 23 dicembre sarà ricordata a Roma come una data infausta per la
laicità e la democrazia delle istituzioni.
L’Assemblea delle associazioni laiche romane tenuta a Roma il
27-12-2006 in via delle Carrozze, 19
- invita tutti i cittadini a far sentire la propria protesta sui
giornali, sul sito del Comune di Roma e al call center 06.0606.
- richiede la convocazione di una riunione straordinaria del
Consiglio comunale per dibattere pubblicamente questa improvvida
decisione.
- invita i comuni italiani a protestare contro lo stravolgimento del
nome storico della Stazione della capitale italiana e contro la
prassi inedita del Comune di Roma con cui si è appropriato di un
simbolo della comunità nazionale.
- invita tutti i cittadini a sottoscrivere questo documento di
protesta presso info@..., in vista di una prossima
assemblea cittadina.

L’ASSEMBLEA DELLE ASSOCIAZIONI LAICHE ROMANE

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E' possibile protestare contro questa decisione utilizzando il form
presente sul sito del Comune di Roma:

http://www.comune.roma.it/was/wps/portal/!ut/p/_s.7_0_A/7_0_6MP?
menuPage=/&flagSub=

selezionando dal menu a tendina, come destinatario, il campo
'sindaco' e compilando il campo 'mittente' e lasciando un breve
messaggio.

Questo è il testo che ho inviato io:
"Desidero manifestare la mia indignazione per la decisione assunta di
Comune di Roma di voler rinominare la Stazione Termini.
Tempi, modi e contenuto di questa decisione dividono la cittadinanza
mentre l'approvazione del Consiglio Comunale lungi dal significare il
consenso dei romani non fa che indebolire la loro fiducia nella
rappresentanza elettorale."
(Andrea Baglioni)

(english / italiano / srpskohrvatski)


SAOPŠTENJE SEKRETARIJATA NKPJ:
IZBORNI ZAKON KRŠI LJUDSKA PRAVA

Nova komunistička partija Jugoslavije (NKPJ) bojkotovaće naredne
parlamentarne izbore u Srbiji, jer izborni zakon predstavlja grubo
kršenje osnovnih demokratskih načela i Univerzalne deklaracije o
ljudskim pravima. Zakon za veliki broj ljudi ukida tajnost glasanja,
jer najmanje 10 hiljada lica treba pred sudom da potpiše da će
glasati za neku partiju. Ti potpisi, i službenici koji overavaju
potpise, se plaćaju. Što znači, da oni koji nemaju novac da plate
sudsku taksu ne mogu učestvovati u izbornoj proceduri. Razume se, da
davanje potpisa, uz sve generalije potpisnika, može predstavljati
opasnost ili, u najmanju ruku, nelagodnost za mnoge pojedince.
Drugo, blizu 40 odsto stanovnika Srbije živi u mestima gde ne postoje
sudovi. Oni su praktično sprečeni da učestvuju u potpisivanju
podrške, odnosno u izbornom procesu.
Treće, određivanje službenika iz suda za overu potpisa nije jasno
pravno regulisano, pa se sudovi često pravdaju da nemaju dovoljno
personala za taj posao, izlazeći u susret jednim i diskriminišući
druge partije.
Sve ovo liči na Solonove zakone po kojima bogatiji imaju više prava
od siromašnijih, odnosno gde se cenzus određuje parama.

28. decembar 2006. godine, Beograd
Za NKPJ generalni sekretar Branko Kitanović


=== ENGLESKI ===

STATEMENT OF THE SECRETARIAT OF THE NKPJ:
THE ELECTORAL LAW VIOLATES THE HUMAN RIGHTS

The New Communist Party of Yugoslavia (NKPJ) will boycott the next
parliamentarian elections of Serbia, because the electoral law
clearly smashes the fundamental democratic principles and the
Universal Declaration on Human Rights. Indeed, the law for the
greater part of the citizens kills the anonymous character of the
poll, since it demands that at least 10 thousand individuals declare
in front of the Court that they will vote for a certain party. For
these signatures, and for the civil employees that have to
convalidate them, one has to pay. This means that those who do not
have the money to pay the Court tax cannot take part to the electoral
procedure. It is also evident that giving a signature with all
signer's personal information can be dangerous or at least disliked
to many citizens.
Moreover, nearly 40 per cent of the Serbian citizens live in places
where Courts simply do not exist. All these people are practically
prevented from participating to the signatures' collection, and
therefore to the electoral process altogether.
In third place, the activity of the Court civil employees for the
validation of the signatures is not clearly regulated, and the Courts
do often complain about not having enough personal for this job,
which causes some party to be favorite and some other to be
discriminated.
All this look like certain Solone's laws, which stated that the rich
has more rights than the poor, that is: the money goes
proportionally to the census...

Belgrade, 28 December, 2006
For the NKPJ, the general secretary: Branko Kitanović


=== ITALIJANSKI ===

COMUNICATO DELLA SEGRETERIA DELLA NKPJ:
LA LEGGE ELETTORALE VIOLA I DIRITTI UMANI

Il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) boicotterà le
prossime elezioni parlamentari della Serbia, perchè la legge
elettorale infrange nettamente i principi democratici fondamentali e
la Dichiarazione Universale sui Diritti Umani. La legge per la
maggior parte dei cittadini uccide la segretezza della consultazione,
perchè richiede che almeno 10mila persone dichiarino, davanti al
Tribunale, che voteranno per un certo partito. Per queste firme, e
per i funzionari che le convalidano, bisogna pagare. Questo significa
che chi non ha i soldi per pagare la tassa del tribunale non può
partecipare alla consultazione elettorale. Si comprende anche che
porre le firme con tutte le generalita' del firmatario puo' essere
pericoloso o perlomeno sgradito per molti individui.
Inoltre, quasi il 40 per cento dei cittadini della Serbia vive in
località in cui non esistono tribunali. Costoro sono in pratica
impossibilitati a partecipare alla raccolta delle firme, e dunque
anche al processo elettorale.
In terzo luogo, l'intervento dei funzionari dei tribunale per la
convalida delle firme non è regolato in maniera chiara, ed i
tribunali si lamentano spesso di non avere abbastanza personale per
questo lavoro, il che comporta che qualche partito è favorito e
qualchedunaltro è discriminato.
Tutto questo assomiglia alle leggi di Solone per cui i più ricchi
hanno più diritti dei più poveri, vale a dire: i soldi arrivano in
maniera direttamente proporzionale al censo...

Belgrado, 28 dicembre 2006
Per la NKPJ, il segretario generale: Branko Kitanović

From: jugoistrijan
Date: January 6, 2007 11:18:25 PM GMT+01:00
To: argomenti@..., segreteria.roma@..., cnj
(A riscontro dell'articolo "Ora facciamo una battaglia per i diritti
di Tarek Aziz", apparso oggi, 6 gennaio, su "Epolis")

Cara (si fa per dire) Rita Bernardini,

E così voi radicali ancora vi vantate di aver contribuito a creare
quel fazioso, politico "tribunale ad hoc", e di aver messo alla gogna
un presidente democraticamente eletto, Slobodan Milosevic: infangando
lui e tutto il popolo serbo, con le vostre campagne di stampa e di
lobbying, e condannandolo di fatto prima ancora che fosse giudicato
dal vostro "tribunale". Per poi ammazzarlo, mentre si difendeva dalle
vostre accuse. Si, ammazzarlo, perchè quale e' la differenza tra
uccidere fisicamente una persona ed accelerare la sua morte non
concedendogli le cure richieste ed indispensabili?

E come mai non avete raccolto firme o consigliato il vostro "amico
americano", nella persona di Bill Clinton, a firmare per il vero
Tribunale Penale Internazionale, dove dovrebbero essere giudicati
anche i crimini commessi dai soldati statunitensi? Viene da chiedersi
se le firme raccolte contro la pena di morte non siano servite per
includerle nella petizione per questo tribunale politico al servizio
degli USA!

Con le vostre ingannevoli campagne non fate altro che mettervi sul
carro dei vincitori, sempre. Guai contestarvi, con argomenti alla
mano: come minimo si viene cacciati a spintoni dalla vostra sede, e
insultati con un esplicito: "Ma vattene a casa tua! Vattene in
Serbia!". Come è successo al sottoscritto e ad un'altra persona
quando nella vostra sede invitaste la Carla Del Ponte. Quante accuse
contro di voi sono "cadute nel nulla"?! Percio' non vi credo nemmeno
adesso, quando dite: "Ora facciamo una battaglia per i diritti di
Tarek Aziz"! Voi che siete stati "in tempi non sospetti" in prima
fila contro l'Iraq, diffamandone il governo, spianando così la strada
alla guerra, alla disgregazione su base etnica ed alla colonizzazione
occidentale per lo sporco petrolio. Quello che avevate già fatto con
la mia Jugoslavia.

Senza stima,
Ivan P. Istrijan
(Il mio "cognome" definisce il luogo di provenienza)