Informazione
Parma, domenica 11 febbraio 2007
"Sala Aurea" della Camera di Commercio
Via Verdi 2
il Comitato antifascista di Parma per la verità sulla "vicenda foibe"
organizza:
FOIBE E FASCISMO
iniziativa di controinformazione in occasione della "Giornata del
ricordo
delle foibe e dell'esodo degli italiani dalla Venezia Giulia e
dall'Istria"
ore 15
proiezione di "Fascist Legacy"
ore 17
conferenza-dibattito con
Umberto Lorenzoni - presidente dell'ANPI di Treviso
Alessandra Kersevan - storica, Edizioni KappaVu
Sandi Volk - storico, ricercatore alla Biblioteca nazionale slovena
di Trieste
(Sulle passate iniziative del
Comitato antifascista di Parma per la verità sulla "vicenda foibe"
si veda: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/parmaprile06.htm )
Blair's other illegal war
Neil Clark
January 18, 2007 08:00 PM
Pop the champagne corks! Get out the cigars! At last! Tony Blair is standing trial for war crimes. Well, at least on Channel 4 he is, anyway.
But as pleasing as it is to see Blair - or rather Robert Lindsay portraying Blair - in the dock, why is the British PM only being charged with starting one illegal conflict?
Four years before "shock and awe" was unleashed on Baghdad, Blair played a key role in another act of international aggression which, like the Iraq war, was also based on a fraudulent prospectus.
The 1999 attack on Yugoslavia was in clear breach of international law. Only the UN security council can authorise military action against a sovereign state, and the UN security council was not consulted. The attack was also in breach of Nato's own charter, which only allowed the use of force when a member state was attacked.
The stated casus belli was that Yugoslavia, in Blair's own words, was "set on a Hitler-style genocide equivalent to the extermination of the Jews in world war two'' against the ethnic Albanian population in the province of Kosovo.
There was no evidence to back this assertion up at the time, and there certainly isn't any today. Over 100 prosecution witnesses were called at the trial of Milosevic at The Hague: not a single one testified that the former Yugoslav president had ordered genocide, or in fact had ordered any crimes or violence against the civilian population of Kosovo whatsoever. On the contrary, a Muslim captain in the Yugoslav army testified that no one in his unit had ever committed systematic harassment of Albanian civilians in Kosovo, and that he had never heard of any other unit doing so either, while the former head of security in the Yugoslav army, General Geza Farkas (an ethnic Hungarian), testified that all Yugoslav soldiers in Kosovo had been handed a document explaining international humanitarian law, and that they were ordered to disobey any orders which violated it.
In reality, the "Kosovan crisis" was as contrived as the Iraqi "WMD crisis" of four years later. The west encouraged a terrorist group, the KLA, to provoke the Yugoslav authorities, and when the anti-terrorist response from Belgrade came, the US and Britain were ready to produce a document at the Rambouillet "peace" conference, which as defence minister Lord Gilbert has conceded, was deliberately designed to be rejected by the Yugoslavs.
Why was it all done? The rump Yugoslavia was targeted not for "humanitarian" reasons - as many on the liberal-left still mistakenly believe - but simply because it stood in the way. You don't have to take my word for it - here's George Kenney of the US state department. "In post-cold war Europe no place remained for a large, independent-minded socialist state that resisted globalisation."
The illegal war against Yugoslavia may not have led to as much bloodshed and carnage as the Iraq conflict, but its importance should not be underestimated. For the first time since Warsaw Pact tanks rolled into Czechoslovakia in 1968, a European state, which threatened no other, had been attacked.
A dangerous precedent - that of riding roughshod over international law - had been set.
Just how dangerous, we would all see four years later.
=== IN ITALIANO ===
http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/6616/1/51/
Montenegro: un omicidio senza colpevoli
09.01.2007
Il 27 maggio 2004, il caporedattore del quotidiano di opposizione Dan
veniva assassinato a Podgorica. Due anni e mezzo più tardi, la
giustizia ha scagionato il principale indiziato. Sul banco degli
imputati non resta che lo Stato
Di Petar Komnenic, per Monitor, 29 dicembre 2006
Traduzione di Persa Aligrudic per Le Courrier des Balkans e di Carlo
Dall’Asta per Osservatorio sui Balcani
Il processo per l’omicidio di Dusko Jovanovic si è concluso
rapidamente, in silenzio. La sentenza del consiglio dei giudici che
scagionava Damir Mandic dall’accusa di complicità nell’omicidio è
stata letta da Radovan Mandic in un silenzio assoluto. La moglie del
defunto Dusko Jovanovic, Slavica, ha lasciato la sala del tribunale
in gran fretta, come anche la famiglia di Damir Mandic che senza
emozione apparente attendeva la sentenza.
Fin dall’inizio del processo, Monitor ha sempre ricordato che l’atto
di accusa emesso contro Damir Mandic, accusato di complicità
nell’omicidio di Dusko Jovanovic, capo redattore del quotidiano Dan,
si fondava su prove vaghe e pressoché prive di validità in sede
giudiziale. La sentenza emessa dal tribunale contraddice le tesi
della polizia e della Procura, che sostenevano che le prove raccolte
fossero irrefutabili.
La lettura della sentenza, dopo un processo di due anni e mezzo, non
è durata che qualche minuto. Il giudice Mandic ha brevemente spiegato
che sulla base delle prove fornite non era possibile concludere che
Damir Mandic si fosse trovato sul posto o nell’autoveicolo modello
Golf 3, dal cui interno erano state sparati su Jovanovic i proiettili
mortali, e che delle testimonianze oculari provavano che Damir Mandic
era stato visto nella discoteca Manija di Podgorica al momento del
crimine.
Una sentenza su commissione?
Contemporaneamente il tribunale ha condannato Damir Mandic a due anni
di prigione per il rapimento di Miodrag Nikolic. Dato che Mandic ha
trascorso più di due anni come detenuto in attesa di giudizio per
l’omicidio Jovanovic, tale pena è stata considerata come già
scontata, cosicché Damir Mandic è ormai un uomo libero. Naturalmente,
la decisione dell’Alta corte è solo di prima istanza, ed il
procuratore competente può sempre presentare un ricorso nei termini
di tempo stabiliti dalla legge.
La sentenza dell’Alta corte ha provocato vive reazioni da parte dei
colleghi del defunto Dusko Jovanovic. Si insinuano dubbi sul giudice
Radovan Mandic, che non avrebbe rispettato la legge. «È chiaro anche
ai profani che le prove sono più che sufficienti per condannare
l’imputato. Questa sentenza prova che noi non viviamo in uno Stato di
diritto», afferma il redattore capo di Dan, Mladen Milutinovic.
Anche i deputati di cinque partiti di opposizione hanno presentato un
comunicato congiunto al Parlamento, in cui definiscono scandalosa la
decisione dell’Alta corte. «O la Procura è incapace, e nel corso di
tutti questi anni ha ingannato i cittadini dicendo che i risultati
delle analisi effettuate a Wiesbaden confermavano senza ambiguità i
suoi sospetti, oppure la magistratura è corrotta a tal punto che le
prove non sono state prese in considerazione, mentre il diritto e la
giustizia sono stati svenduti in cambio di denaro sporco», nota
questo comunicato.
Antichi dubbi
Ricordiamo che il nostro giornale (Monitor, NdT) ha più volte messo
in dubbio la validità delle prove materiali che la Procura descriveva
come irrefutabili. In questo contesto si è spesso menzionata la
lattina di Red Bull ed il pacchetto di pistacchi trovati in
prossimità del veicolo utilizzato dagli autori del crimine. Questa
lattina, che presentava tracce del DNA di Mandic, è stata trovata in
circostanze assai strane, successivamente al sopralluogo e ad una
cinquantina di metri dal veicolo in questione. In sede di processo si
è stabilito che questa prova era stata acquisita seguendo una
procedura dubbia, dato che dalle note della polizia risulta che essa
sarebbe stata inviata al laboratorio di analisi prima ancora di
essere stata scoperta! Gli avvocati di Mandic accusano pubblicamente
la polizia di avere fabbricato questa prova.
In effetti questa prova non stabilisce alcun legame tra Mandic ed il
veicolo del crimine. Sull’arma trovata nel veicolo, usata per
uccidere Jovanovic, non si è rilevata alcuna traccia, mentre sul
fucile di riserva, che non è stato utilizzato, sono state trovate
diverse tracce di DNA, ma gli esperti non le hanno potute
identificare con certezza come appartenenti all’imputato.
La situazione è analoga per le particelle di polvere trovate sulla
maglietta di Mandic, che non possono con sicurezza essere imputate
all’arma dell’omicidio e che potrebbero avere un’origine del tutto
diversa.
Sulla base di tutte le prove fornite, il tribunale non ha potuto
concludere che due cose: che Mandic aveva probabilmente tenuto in
mano il fucile che sicuramente non è servito ad uccidere Dusko
Jovanovic; e d’altra parte che egli si trovava, a un’ora imprecisata,
a cinquanta metri dal luogo in cui il veicolo del crimine è stato
ritrovato. Ciò naturalmente a condizione che la lattina di Red Bull,
che porta la «firma» DNA di Mandic possa essere accettata come prova,
ma la provenienza di questa lattina è estremamente discutibile.
In assenza di serie prove materiali, il consiglio dei giudici ha
stimato che le prove addotte non sono convincenti. Il tribunale non
ha trovato ulteriori prove per suffragare una sentenza di
colpevolezza neppure nel tabulato delle telefonate fatte da Damir
Mandic, con cui la Procura aveva cercato di contestare il suo alibi.
Anche le dichiarazioni dei reporter di Dan, che hanno rimarcato la
presenza de Mandic alla discoteca Manija, sono state interpretate a
favore dell’imputato. La Corte ha spiegato che Mandic non poteva
trovarsi in due posti nello stesso momento. Così tutte le tesi della
polizia e della Procura sono state smentite.
Le lacune
In realtà fin dall’inizio questo caso è stato segnato da errori
investigativi e da sbrigative condanne. Ricordiamo che, stando a
quanto affermato dagli ispettori di polizia, la scena del crimine
dell’omicidio Jovanovic è stata ricostruita sulla base della
confessione di Damir Mandic che nel corso del primo colloquio
informale avrebbe, a quanto egli stesso afferma, descritto il delitto
ed identificato i complici. Questo famoso rapporto di polizia, in
ogni caso non utilizzabile in sede giudiziaria, non è mai stato reso
pubblico.
Ma la polizia, basandosi su queste presunte informazioni, ha accusato
Vuk Vulevic, di Berane, e Armin Musa Osmanagic, di Bar, di essere i
complici che erano stati ricercati per mesi dopo l’omicidio. Si
annunciava allora, ufficiosamente, che il loro arresto avrebbe chiuso
il caso Jovanovic.
Ci si è ben presto accorti che la polizia aveva sparato un colpo nel
vuoto. Vuk Vulevic è stato arrestato a Belgrado, ed è attualmente
sotto processo per un caso completamente diverso, di traffico di
stupefacenti. In mancanza di prove, contro di lui non è stata sporta
alcuna denuncia per l’omicidio di Jovanovic.
Armin Musa Osmanagic, dopo molti mesi di ricerche, si è
spontaneamente presentato alla polizia e, dopo un breve
interrogatorio, è stato rimesso in libertà, anch’egli per mancanza di
prove.
Il fallimento dell’inchiesta
Con il verdetto di assoluzione di Damir Mandic, questo complicato
caso ritorna dunque al suo punto di partenza. Le prove materiali non
sono state sufficienti a persuadere il consiglio dei giudici del
tribunale della colpevolezza di Mandic. Le indagini successive ed un
processo di due anni contro Damir Mandic non hanno gettato alcuna
luce sulle ragioni dell’assassinio di Dusko Jovanovic: gli eventuali
committenti del crimine non sono stati scoperti, e i veri motivi
dell’omicidio non sono stati resi noti all’opinione pubblica.
Nel caso in cui la sentenza venisse confermata, Damir Mandic avrebbe
diritto a chiedere allo Stato un risarcimento per una detenzione
ingiustificata di quasi sei mesi: il periodo cioè che egli ha passato
in prigione, oltre ai due anni di reclusione comminati per il
rapimento di Miodrag Nikolic. Si sono già valsi del diritto a fare
ricorso Vuk Vulevic ed Armin Musa Osmagnagic, che sono stati trattati
pubblicamente come assassini, senza prove, dai più alti funzionari di
polizia.
Da come si stanno mettendo le cose, sul banco degli imputati non
rimarrà che lo Stato. Se lo merita, perché ha creato un'atmosfera in
cui gli assassini possono respirare a pieni polmoni. Purtroppo ciò
non può essere di consolazione per la famiglia di Dusko Jovanovic. Un
delitto rimasto insoluto è uno scacco in più per le nostre speranze
di giustizia in Montenegro. E nessuna delle autorità competenti se ne
assume la responsabilità.
=== EN FRANCAIS ===
http://balkans.courriers.info/article7508.html
MONITOR
Monténégro : un meurtre sans coupable ?
TRADUIT PAR PERSA ALIGRUDIC
Publié dans la presse : 29 décembre 2006
Mise en ligne : mercredi 3 janvier 2007
Le 27 mai 2004, le rédacteur en chef du quotidien d’opposition Dan
était abattu dans la rue, en plein centre de Podgorica. Deux ans et
demi plus tard, la justice a innocenté le seul suspect jugé dans
cette affaire. Le meurtre de Dusko Jovanovic reste donc inexpliqué,
au grand dam de l’opposition, qui dénonce la faillite de la justice.
En effet, sur le banc des accusés, ne reste plus guère que l’État
monténégrin...
Par Petar Komnenic
Le procès pour le meurtre de Dusko Jovanovic s’est rapidement
terminé, en silence. La sentence du Conseil des juges énoncée par
Radovan Mandic, acquittant Damir Mandic de l’inculpation de
complicité de meurtre a été lue dans un silence absolu. L’épouse du
défunt Dusko Jovanovic, Slavica, a quitté la salle du tribunal en
grande hâte, ainsi que la famille de Damir Mandic qui, sans
exaltation apparente, attendait la sentence.
Depuis le début du procès, Monitor a toujours rappelé que l’acte
d’accusation lancé contre Damir Mandic, inculpé de complicité dans le
meurtre de Dusko Jovanovic, le rédacteur en chef du quotidien Dan,
reposait sur des preuves floues et sans guère de validité pour le
tribunal. La sentence énoncée par le Tribunal contredit les
allégations de la police et du Parquet, qui prétendaient que les
preuves recueillies étaient irréfutables.
La lecture de la sentence, après un procès de deux ans et demi, n’a
duré que quelques minutes. Le juge Mandic a brièvement expliqué que
sur la base des preuves fournies, on ne pouvait conclure que Damir
Mandic se trouvait sur les lieux ou dans le véhicule de type Golf 3,
à partir duquel les balles meurtrières ont été tirées sur Jovanovic,
et que des témoignages de témoins prouvaient que Dami Mandic avait
été vu dans la discothèque Manija de Podgorica au moment du crime.
Une sentence sur commande ?
Dans le même temps, le tribunal a condamné Damir Mandic à deux ans
d’emprisonnement pour l’enlèvement de Miodrag Nikolic. Comme il a
passé plus de deux ans en détention dans l’attente de son procès pour
le meurtre de Jovanovic, cette peine est considérée comme ayant été
déjà effectuée, de sorte que Damir Mandic est désormais un homme
libre. Naturellement, la décision du Haut tribunal n’est que de
première instance, et le procureur compétent a toujours la
possibilité de déposer une plainte dans le délai légal.
La sentence du Haut tribunal a provoqué de vives réactions de la part
des collègues du défunt Dusko Jovanovic. Le doute s’insinue sur le
juge Radovan Mandic, qui n’aurait pas respecté la loi. « Il est
clair, même pour les profanes, que les preuves sont plus que
suffisantes pour condamner l’accusé. Cette sentence prouve que nous
ne vivons pas dans un État de droit », affirme le rédacteur en chef
de Dan, Mladen Milutinovic.
Les députés de cinq partis d’opposition ont également publié un
communiqué commun au Parlement, déclarant que la décision du Haut
tribunal était scandaleuse. « Ou bien le Parquet est incapable et,
durant toutes ces années, il a trompé les citoyens en disant que les
résultats des analyses effectuées à Wiesbaden confirmaient sans
ambiguïté ses soupçons, ou bien la Justice est corrompue à tel point
que les preuves n’ont pas été prises en considération, tandis que le
droit et la justice ont été bradés contre de l’argent sale », note ce
communiqué.
Des doutes anciens
Rappelons que notre journal a plusieurs fois mis en question la
validité des preuves matérielles, proclamées irréfutables par le
Parquet. Dans ce contexte, on a très souvent mentionné la canette de
Red Bull et le paquet de pistaches trouvés à proximité du véhicule
utilisé par les auteurs du crime. Cette canette, présentant les
traces ADN de Mandic, a été trouvée dans d’étranges circonstances,
après la fin du constat, à une cinquantaine de mètres du véhicule en
question. Lors du procès, il a été établi que cette preuve avait été
inscrite selon une procédure douteuse, car il résulte des notes de la
police qu’elle aurait été envoyée à l’expertise avant qu’elle ne soit
découverte ! Les avocats de Mandic accusent publiquement la police
d’avoir fabriqué cette preuve.
En fait, cette preuve n’établit aucun lien entre Mandic et le
véhicule du crime. Sur l’arme trouvée dans le véhicule, utilisée pour
le meurtre de Jovanovic, aucune trace n’a été relevée, tandis que sur
le fusil de réserve qui n’a pas été utilisé, différentes traces d’ADN
ont été trouvées, mais les experts n’ont pas pu les identifier avec
certitude comme étant ceux de l’accusé.
Il en est de même avec les particules de poudre décelées sur le
maillot de Mandic, qui ne peuvent avec fiabilité être imputées à
l’arme du meurtre et qui peuvent avoir une toute autre origine.
Sur la base de toutes les preuves fournies, le tribunal pouvait
conclure deux choses : que Mandic avait probablement tenu dans ses
mains le fusil qui n’a sûrement pas servi à tuer Dusko Jovanovic, et
d’autre part qu’il se trouvait, à une heure imprécise, à cinquante
mètres du lieu où le véhicule du crime a été retrouvé. Ceci, bien
sûr, à la condition que la canette de Red bull, portant la «
signature » ADN de Mandic soit acceptée comme preuve, mais l’origine
de cette canette est extrêmement discutable.
En l’absence de preuves matérielles sérieuses, le Conseil judiciaire
estime que les preuves avancées ne sont pas convaincantes. Le
tribunal n’a pas davantage trouvé de quoi étayer une sentence de
culpabilité dans les listings des appels téléphoniques de Damir
Mandic, avec lesquels le Parquet avait essayé de contester son alibi.
Même les déclarations des reporters de Dan, qui ont remarqué la
présence de Mandic à la discothèque Manija, ont été interprétées en
faveur de l’accusé. Le Conseil de la cour a expliqué que Mandic ne
pouvait se trouver à deux endroits en même temps. C’est ainsi que
toutes les allégations de la police et du Parquet ont été démenties.
Les lacunes
En réalité, depuis le début, cette affaire est empreinte d’erreurs
d’investigation et de condamnations à la hâte. Rappelons que les
inspecteurs de police affirment que le scénario du meurtre de
Jovanovic a été conçu sur la base des aveux de Damir Mandic qui
aurait, soi-disant, lors du premier interrogatoire informel, décrit
le crime et identifié les complices. Ce fameux rapport de police, par
ailleurs inacceptable pour le tribunal, n’a jamais été rendu public.
Or, la police, en se fondant sur ces présumées informations, a accusé
Vuk Vulevic, de Berane, et Armin Musa Osmanagic, de Bar, d’être les
complices qui ont été recherchés pendant des mois après le meurtre.
On annonçait alors, officieusement, que leur arrestation mettrait fin
à l’affaire Jovanovic.
On s’est aperçu très vite que la police avait tiré dans le vide. Vuk
Vulevic a été arrêté à Belgrade, et il est actuellement jugé pour une
toute autre affaire de trafic de stupéfiants. Faute de preuves,
aucune plainte n’a été déposée contre lui pour le meurtre de Jovanovic.
Armin Musa Osmanagic, après plusieurs mois de recherche, s’est lui-
même rendu à la police et, après un bref interrogatoire, il a été
remis en liberté, également pour manque de preuves.
Débâcle de l’enquête
Avec le verdict d’acquittement de Damir Mandic, cette affaire
compliquée revient donc à son point de départ. Les preuves
matérielles n’ont pas été suffisantes pour persuader le conseil du
tribunal de la culpabilité de Mandic. L’enquête poursuivie et le
procès de deux ans contre Damir Mandic n’ont apporté aucune lumière
sur les raisons du meurtre de Dusko Jovanovic : les éventuels
commanditaires du crime n’ont pas été découverts, et les véritables
motifs du tueur n’ont pas été communiqués à l’opinion publique.
Dans le cas où la sentence serait validée, Damir Mandic aurait le
droit de demander des dédommagements à l’Etat pour une détention
infondée de près de six mois qu’il a passée en prison, au-delà des
deux ans d’emprisonnement prévus pour l’enlèvement de Miodrag
Nikolic. Le droit de recours a déjà été acquis par Vuk Vulevic et
Armin Musa Osmagnagic, qui ont été publiquement traités de tueurs,
sans preuves, par les plus hauts fonctionnaires de la police.
De la façon dont les choses se déroulent, il ne restera plus que
l’État sur le banc des accusés. Il le mérite bien, car il a créé une
atmosphère dans laquelle les tueurs peuvent respirer à pleins
poumons. Malheureusement, cela ne peut pas être une consolation pour
la famille de Dusko Jovanovic. Un crime non élucidé, c’est un échec
de plus pour nos espoirs de justice au Monténégro. Or, personne parmi
les autorités compétentes n’en assume la responsabilité.
No alla base militare USA a Vicenza |
Venerdì 19 gennaio alle ore 16.00 in piazza a Roma anche una delegazione dei Comitati vicentini per il NO |
Questo governo e la coalizione di forze che lo sostengono, oggi sono chiamate a scegliere tra sovranità popolare e lealtà ad un esecutivo orientato su una scelta antidemocratica e bellicista. La nuova base militare USA al Dal Molin sarà una base pienamente operativa e funzionale alla dottrina della guerra preventiva statunitense per le aggressioni contro i popoli nel Medio Oriente. Il servilismo e la subalternità agli USA e alla NATO, la presenza delle loro basi militari nel nostro territorio e la partecipazione alle missioni militari nei teatri di guerra, vanno rimessi in discussione radicalmente. Venerdi 19 gennaio concentramento a Montecitorio alle ore 16.00 a sostegno del movimento che si oppone alla nuova base militare a Vicenza. Sarà presente anche una delegazione dei Comitati vicentini per il NO all’allargamento della base militare USA. Comitato per il ritiro dei militari italiani, Confederazione Cobas, Federazione RdB/CUB, Rete dei Comunisti, Partito Comunista dei Lavoratori, Comitati Iraq Libero, CARC, Utopia Rossa, Associazione Officina Comunista, Comitato comunista "A. Gramsci", redazione di www.infromationguerrilla.org. |
La première impression des étrangers qui arrivent à Podgorica est celle de croissance économique. De nouveaux immeubles luxueux en construction, des rues en chantier, des places publiques réaménagées... Pourtant, 10% des Monténégrins vivent dans la pauvreté, et les enseignants ne gagnent que 250 euros par mois. Seuls s’enrichissent les amis du pouvoir.
Par Veseljko Koprivica
Le Monténégro présente aujourd’hui des images comparables à celles que l’on pouvait voir dans les années 1990, lorsque la population faisait la queue pour acheter du pain, du lait, de l’huile, de l’essence... Les habitants de Podgorica font la queue pendant des jours au centre ville pour acheter de nouveaux téléphones portables ! Ca fait longtemps que le Monténégro est classé au sommet de la liste européenne du nombre de portables par habitant, mais la soif de nouveaux modèles de marques prestigieuses ne semble pas encore assouvie. Il en est de même avec les conversations téléphoniques qui se prolongent à l’infini. Les citoyens monténégrins ont dépensé l’année dernière environ dix millions d’euros pour les conversations téléphoniques et les SMS, indiquent les données d’un opérateur mobile. Combien d’appartements et de nourriture auraient-ils pu acheter... ?
La première impression des étrangers qui arrivent à Podgorica est celle de croissance économique. De nouveaux immeubles luxueux en construction, des rues en chantier, des routes en reconstruction, des places publiques réaménagées... Les derniers modèles des marques automobiles sont garés sur les trottoirs. Un habitant sur deux de la capitale monténégrine en possède une, ce qui représente plus de 100.000 voitures au total à Podgorica. Le nombre de familles qui possèdent plus d’une voiture augmente rapidement. On achète des voitures d’occasion, mais aussi les modèles les plus chers. Les vendeurs des voitures d’occasion à la périphérie de Podgorica et ceux de la route Podgorica-Cetinje-Budva offrent tout ce que l’on peut imaginer en industrie automobile. Les Monténégrins sont des passionnés d’automobiles, mais aussi de conduite. En dépit du nombre impressionnant de voitures, qui provoque des embouteillages fréquents en ville, Podgorica possède treize compagnies de taxis. Il semble que ce nombre de taxis par rapport au nombre d’habitants soit unique au monde.
Deux avions, s’il vous plaît !
Il ne serait pas étonnant de voir se créer des associations privées de transport aérien. En effet, il est possible d’obtenir gratuitement des avions de combat sur trois ans. Deux avions, même. C’est ce qui est récemment arrivé à « Nasa krila », le club aérien privé de Podgorica. Milo Djukanovic, ancien Premier ministre et Ministre de la Défense, lui a accordé l’utilisation triennale gratuite de deux avions de combat type « supergaleb ». Le fait que le club en question ait été fondé par ses amis (son ancien garde du corps et plusieurs agents de police) est bien sûr une pure coïncidence.
Les partis d’opposition ont dénoncé ce cadeau surprenant, et ont posé des questions ennuyeuses sur les lois qui permettent au Ministre de la Défense de donner du matériel militaire en cadeau. Le successeur de Milo Djukanovic, Boro Vucinic, a justifié ce cadeau par le fait que ces avions n’étaient plus utilisables par l’armée et que le don avait permis à l’État de « décharger le budget militaire, et de contribuer en même temps à l’affirmation du sport au Monténégro ».
Les députés de l’opposition ont vraiment titillé les partis au pouvoir : ils ont voulu savoir l’origine des moyens financiers qui permettent à d’anciens policiers - les fondateurs du club aérien, d’entretenir et de réparer ces avions. Ranko Kadic, président du parti démocrate serbe a même osé demander : « Cela nous ferait très plaisir, à nous, de faire de la plongée et de la conduite. Pouvez-vous nous offrir un sous-marin et un char de combat ? »
On accuse le gouvernement de dissiper la fortune de l’État, mais en réalité, le gouvernement se comporte en bon maître de maison. L’exemple le plus récent est celui de la privatisation de l’Institut technique marin « Sava Kovacevic » de Tivat, vendu au milliardaire canadien Peter Monk. Le gouvernement affirme que c’est une des affaires les plus réussies dans la récente histoire du Monténégro.
En plus d’environ 280.000 m² de terrains équipés d’une infrastructure excellente et situés sur la plus belle partie de la baie de Tivat, en complément de 90.000 m² de bâtiments, l’homme d’affaires canadien a obtenu un équipement technique d’une valeur de 5.476.975 euros, pour un prix total de 3,26 millions d’euros, indique le journal Vijesti de Podgorica. Le syndicat de l’Institut a demandé au gouvernement de ne pas accepter une offre inférieure à 80 millions d’euros, et cette demande a été unanimement soutenue par l’assemblée municipale de Tivat. Cependant, le gouvernement a décidé de céder le terrain, les bâtiments et des équipements d’une valeur de 5,5 millions euros à M. Monk pour la somme totale de 3,26 millions d’euros. De plus, le milliardaire canadien a obtenu une concession de 30 ans renouvelable deux fois sur les terrains appartenant à l’Institut, bien que cette décision soit illégale car le complexe en question est située sur une zone côtière.
Qui pourrait dire que le Monténégro n’est pas riche ?
Ce sont toujours les étrangers qui se croient beaucoup plus avancés dans tous les domaines que les habitants des Balkans. Un récent sondage du Programme des Nations Unies pour le développement (PNUD) a démontré qu’environ 70.000 habitants du Monténégro étaient pauvres. 12% des citoyens vivent sous le seuil de pauvreté, au fond de la misère. Les experts étrangers n’ont pas réussi non plus à calculer le nombre de riches, mais ils affirment que la différence entre les pauvres et les riches au Monténégro est aujourd’hui la plus impressionnante de la région. Les riches dépensent sept fois plus que les pauvres. Il y a une chose qui n’a pas été démontrée par le sondage mais qui est évidente : les pauvres ont honte de leur pauvreté tandis que les riches n’ont pas honte de leur fortune, même si elle est acquise en peu de temps et de façon plus que douteuse.
Les statistiques nationales présentent une situation sociale idéalisée : le salaire moyen en novembre serait de 250,34 euros, et le panier du consommateur contenant les produits alimentaires et les boissons pour une famille avec deux enfants serait de 273,01 euros.
Les enseignants et les médecins ont les salaires les plus bas. C’est pourquoi le Syndicat des enseignants a longtemps lutté contre le gouvernement, mais aussi contre la Confédération des syndicats, pour augmenter le salaire minimum. De nombreux économistes proposent d’abolir les prix fixés au niveau national et de laisser le marché se réguler. Le gouvernement a proposé en novembre une augmentation du salaire minimum de deux euros. Le syndicat des enseignants a organisé des protestations devant le Parlement. En même temps, les enseignants se sont fait accuser par la Confédération des syndicats de vouloir compromettre sa réputation de protecteur des droits des travailleurs.
Le niveau des salaires des enseignants est un exemple de ce souci constant des syndicats et de l’État de veiller aux droits des travailleurs. Les indemnités pour les transports et les repas sont toujours en retard et certains enseignants attendant deux ans pour obtenir l’assistance financière obligatoire en cas de décès d’un membre de leur famille...
Ces derniers jours, les partis d’opposition et ceux au pouvoir ont débattu sur une proposition de budget. Devinez qui l’a emporté ! Le budget total pour 2007 sera de 616,86 millions d’euros. La recherche scientifique se verra décerner 0,5% du budget, tandis que l’armée et la police, considérées comme des appareils de répression dans d’autres pays, obtiendront la modeste enveloppe de 110 millions d’euros.
Les critiques de l’opposition n’ont pas fait renoncer le gouvernement à l’idée de se construire un nouveau bâtiment au centre de Podgorica, financé par les impôts des citoyens. Il coûtera un peu plus de six millions d’euros. En effet, le gouvernement est actuellement locataire, puisque son bâtiment est par magie devenu la propriété du Parti démocrate des socialistes (DPS).
Le Monténégro entame son huitième mois d’indépendance, mais de nombreux indépendantistes sont plus préoccupés par leur propre enrichissement et la construction de villas que par la construction d’un État de droit. Les médias monténégrins ont publié les noms des personnalités qui construisent des maisons de manière illégale : Mladen Vukcevic, président de la Cour suprême du Monténégro, Miomir Mugosa, maire de Podgorica, Rajko Kuljaca, maire de Budva.
Les hommes politiques n’aiment pas exposer leurs richesses en public, même s’ils y sont obligés par la loi. La Commission de contrôle des conflits d’intérêts a décidé d’entamer des procédures contre 38 députés nationaux et élus des assemblées locales pour avoir caché leurs revenus et leurs propriétés, dont le vice-Ministre du travail, le maire-adjoint de Podgorica, le directeur exécutif de l’Agence de construction de Podgorica...
Ces personnes appartiennent probablement à la même catégorie sociale que ces gens qui ont réservé toutes les chambres d’hôtel à Zabljak en janvier, qui ont payé si cher pour passer les fêtes de fin d’année sur la côte ou à étranger, et dont les enfants font leurs études dans le monde entier...
GIORNATA MEMORIA: A BARI MOSTRA SU CAMPO STERMINIO CROAZIA
BARI - In occasione della 'Giornata delle memoria', 'Most za Beograd-
Un ponte per Belgrado in terra di Bari' l' associazione culturale di
solidarieta' con le popolazioni jugoslave che ha sede a Bari ha
curato una mostra fotografica sul campo di sterminio di 'Jasenovac
(1942-1945) in cui morirono, tra gli altri, 12.432 bambini al di
sotto dei 14 anni. la mostra sara' inaugurata il 25 gennaio prossimo.
Nel darne notizia un comunicato ricorda che l'associazione promuove,
tra l'altro, iniziative di conoscenza della storia e della cultura
jugoslave, iniziative di solidarieta' nei confronti delle vittime
della guerra nel campo sanitario, scolastico, alimentare e in ogni
altro campo e di adozioni a distanza di bambini jugoslavi. La mostra
e' stata organizzata in collaborazione con il 'Museo delle vittime
del genocidio' di Belgrado, l'Istituto pugliese di Storia
dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea, gli assessorati alla
cultura del Comune e della provincia di Bari, con il patrocinio del
consolato di Serbia e dell'assessorato al Mediterraneo della Regione
Puglia. La mostra, che propone anche audiovisivi, riguarda Jasenovac,
il piu' grande campo di concentramento e di sterminio dell'area
balcanica, in Croazia, sulle rive del fiume Sava, un centinaio di
chilometri a sud di Zagabria. Jasenovac fu costruito nell'agosto 1941
e rimase attivo fino all'aprile del 1945, quando fu smantellato. Le
vittime di Jasenovac, secondo stime attendibili degli studiosi - e'
detto nel comunicato - si aggirano intorno a seicentomila (anche se
una storiografia 'riduzionista' tende a ridimensionarne il numero a
meno di centomila), in prevalenza serbi, rom, ebrei, e chiunque si
opponesse al regime filonazista degli ustascia di Ante Pavelic. A
Jasenovac furono imprigionati circa 25.000 ebrei di tutta la regione,
a partire da Sarajevo, quasi tutti sterminati nell'agosto del 1942.
Molti dei morti di Auschwitz provenivano da Jasenovac. In condizioni
inumane, venivano tenuti in vita coloro i quali potevano essere utili
al regime: farmacisti e dottori, fabbri e ciabattini, gli altri
venivano sterminati nei campi di Granik e Gradina. Jasenovac e'
considerato dagli storici, ''per crudelta' e torture'', uno dei
luoghi infernali della storia. La mostra e' stata realizzata con la
collaborazione del 'Museo delle vittime del genocidio' di Belgrado,
che ha fornito ampia documentazione e la mostra 'Bili su samo
deca' (erano solo bambini) sulla storia delle 19.432 vittime
accertate al di sotto dei 14 anni del campo. Altro materiale
documentario proviene dal 'Jasenovac Research Institute' (JRI) di New
York. La rassegna sara' arricchita da pannelli realizzati con la
collaborazione del prof. Antonio Leuzzi, direttore dell'Istituto
pugliese per la Storia dell'Antifascismo e dell'Italia Contemporanea
(c/o la Biblioteca del consiglio regionale), sulla presenza in Puglia
e Basilicata, di numerosi internati di origine jugoslava. La mostra
sara' allestita nella Sala Murat e aperta al pubblico fino al 4
febbraio. XBN
11/01/2007 13:57
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CROAZIA 1941-1944: UNA CATTOLICISSIMA MACELLERIA
Il nazista Pavelic e l'arcivescovo Stepinac, alleati di genocidio
di Karlheinz Deschner
-- Il testo che segue è la traduzione letterale di quello
presentato da Karlheinz Deschner il 26/12/1993 in occasione
dell'ultima puntata della sua serie televisiva sulla politica
dei Papi nel XX secolo. Questa serie è stata trasmessa
in Germania da Kanal 4, sulle frequenze di RTL. Il testo
e' stato ripreso dalla rivista marxista tedesca "Konkret"
(n.3-1994, pg.47) e tradotto in italiano a cura del Coord.
Romano per la Jugoslavia. --
Il Papato di Roma - divenuto grande attraverso la
guerra e l'inganno, attraverso la guerra e l'inganno
conservatosi tale - ha sostenuto nel XX secolo il
sorgere di tutti gli Stati fascisti con
determinazione, ma più degli altri ha favorito proprio
il peggior regime criminale: quello di Ante Pavelic
in Jugoslavia.
Questo ex-avvocato zagrebino, che negli anni '30
addestrò le sue bande soprattutto in Italia, fece
uccidere nel 1934 a Marsiglia il re Alessandro di
Jugoslavia in un attentato che costò la vita anche al
ministro degli Esteri francese. Due anni più tardi
celebrò con un libello le glorie di Hitler, "il più grande
ed il migliore dei figli della Germania", e ritornò
in Jugoslavia nel 1941, rifornito da Mussolini con armi
e denari, al seguito dell'occupante tedesco. Da despota
assoluto Pavelic si pose nella cosiddetta
Croazia Indipendente a capo di tre milioni di Croati
cattolici, due milioni di Serbi ortodossi, mezzo
milione di Musulmani bosniaci nonchè numerosi
gruppi etnici minori. Nel mese di maggio cedette
quasi la metà del suo paese con annessi e connessi
ai suoi vicini, soprattutto all'Italia, dove con
particolare calore fu accolto e benedetto da Pio XII
in udienza privata (benchè già condannato a
morte in contumacia per il doppio omicidio di
Marsiglia sia dalla Francia che dalla Jugoslavia). Il
grande complice dei fascisti si accommiatò da lui
e dalla sua suite in modo amichevole e con i migliori
auguri, letteralmente, di "buon lavoro".
Così ebbe inizio una crociata cattolica che non ha
nulla da invidiare ai peggiori massacri del
Medioevo, ma piuttosto li supera. Duecentonovantanove
chiese serbo-ortodosse della "Croazia
Indipendente" furono saccheggiate, annientate,
molte trasformate persino in magazzini, gabinetti
pubblici, stalle.
Duecentoquarantamila Serbi ortodossi furono costretti
a convertirsi al cattolicesimo e circa
settecentocinquantamila furono assassinati. Furono
fucilati a mucchi, colpiti con la scure, gettati nei
fiumi, nelle foibe, nel mare. Venivano massacrati
nelle cosiddette "Case del Signore", ad esempio
duemila persone solo nella chiesa di Glina. Da vivi
venivano loro strappati gli occhi, oppure si
tagliavano le orecchie ed il naso, da vivi li si
seppelliva, erano sgozzati, decapitati o crocifissi. Gli
Italiani fotografarono un sicario di Pavelic che
portava al collo due collane fatte con lingue ed occhi di
esseri umani.
Anche cinque vescovi ed almeno 300 preti dei Serbi
furono macellati, taluni in maniera ripugnante,
come il pope Branko Dobrosavljevic, al quale furono
strappati la barba ed i capelli, sollevata la pelle,
estratti gli occhi, mentre il suo figlioletto era
fatto letteralmente a pezzi dinanzi a lui. L'ottantenne
Metropolita di Sarajevo, Petar Simonic, fu sgozzato.
Ciononostante l'arcivescovo cattolico della città
di Oden scrisse parole in lode di Pavelic, "il duce
adorato", e nel suo foglio diocesano inneggiò ai
metodi rivoluzionari, "al servizio della Verità, della
Giustizia e dell'Onore".
Le macellerie cattoliche nella "Grande Croazia" furono
così terribili che scioccarono persino gli stessi
fascisti italiani; anche alti comandi tedeschi
protestarono, diplomatici, generali, persino il servizio di
sicurezza delle SS ed il ministro degli Esteri nazista
Von Ribbentrop. A più riprese, di fronte alle
"macellazioni" di Serbi, truppe tedesche intervennero
contro i loro stessi alleati croati.
E questo regime - che ebbe per simboli e strumenti
di guerra "la Bibbia e la bomba" - fu un regime
assolutamente cattolico, strettamente legato alla
Chiesa Cattolica Romana, dal primo momento e sino
alla fine. Il suo dittatore Ante Pavelic, che era
tanto spesso in viaggio tra il quartier generale del
Führer e la Berghof hitleriana quanto in Vaticano,
fu definito dal primate croato Stepinac "un croato
devoto", e dal papa Pio XII (nel 1943!) "un cattolico
praticante". In centinaia di foto egli appare fra
vescovi, preti, suore, frati. Fu un religioso ad
educare i suoi figli. Aveva un suo confessore e nel suo
palazzo c'era una cappella privata. Tanti religiosi
appartenevano al suo partito, quello degli ustasa,
che usava termini come dio, religione, papa, chiesa,
continuamente. Vescovi e preti sedevano nel
Sabor, il parlamento ustasa. Religiosi fungevano
da ufficiali della guardia del corpo di Pavelic. I
cappellani ustasa giuravano ubbidienza dinanzi a
due candele, un crocifisso, un pugnale ed una
pistola. I Gesuiti, ma più ancora i Francescani,
comandavano bande armate ed organizzavano
massacri: "Abbasso i Serbi!". Essi dichiaravano
giunta "l'ora del revolver e del fucile"; affermavano
"non essere più peccato uccidere un bambino di
sette anni, se questo infrange la legge degli ustasa".
"Ammazzare tutti i Serbi nel tempo più breve
possibile": questo fu indicato più volte come "il nostro
programma" dal francescano Simic, un vicario militare
degli ustasa. Francescani erano anche i boia
dei campi di concentramento. Essi sparavano, nella
"Croazia Indipendente", in quello "Stato cristiano
e cattolico", la "Croazia di Dio e di Maria", "Regno
di Cristo", come vagheggiava la stampa cattolica
del paese, che encomiava anche Adolf Hitler
definendolo "crociato di Dio". Il campo di
concentramento di Jasenovac ebbe per un periodo
il francescano Filipovic-Majstorovic per
comandante, che fece ivi liquidare 40.000 esseri
umani in quattro mesi. Il seminarista francescano
Brzien ha decapitato qui, nella notte del 29 agosto
1942, 1360 persone con una mannaia.
Non per caso il primate del paradiso dei gangsters
cattolici, arcivescovo Stepinac, ringraziò il clero
croato "ed in primo luogo i Francescani" quando
nel maggio 1943, in Vaticano, sottolineò le conquiste
degli ustasa. E naturalmente il primate, entusiasta
degli ustasa, vicario militare degli ustasa, membro
del parlamento degli ustasa, era bene informato di
tutto quanto accadeva in questo criminale eldorado
di preti, come d'altronde Sua Santità lo stesso
Pio XII, che in quel tempo concedeva una udienza dopo
l'altra ai Croati, a ministri ustasa, a diplomatici
ustasa, e che alla fine del 1942 si rivolse alla
Gioventù Ustasa (sulle cui uniformi campeggiava
la grande "U" con la bomba che esplode all'interno)
con un: "Viva i Croati!". I Serbi morirono allora,
circa 750.000, per ripeterlo, spesso in seguito a
torture atroci, in misura del 10-15% della
popolazione della Grande Croazia - tutto ciò
esaurientemente documentato e descritto nel mio
libro La politica dei papi nel XX secolo [Die Politik
der Paepste im XX Jahrhundert, Rohwohl 1993; si veda
pure "L'Arcivescovo del genocidio", di M.A. Rivelli,
ediz. Kaos 1999]. E se non si sa nulla su questo
bagno di sangue da incubo non si può comprendere
ciò che laggiù avviene oggi, avvenimenti
per i quali lo stesso ministro degli Esteri dei nostri
alleati Stati Uniti attribuisce una responsabilità
specifica ai tedeschi, ovvero al governo Kohl-Genscher.
Più coinvolto ancora è solo il Vaticano, che
già a suo tempo attraverso papa Pio XII non solo
c'entrava, ma era così impigliato nel peggiore degli
orrori dell'era fascista che, come già scrissi
trent'anni fa, "non ci sarebbe da stupirsi, conoscendo la
tattica della Chiesa romana, se lo facesse santo".
Comunque sia: il Vaticano ha contribuito in maniera
determinante alla instaurazione di interi regimi
fascisti degli anni venti, trenta e quaranta. Con i
suoi vescovi ha sostenuto tutti gli Stati fascisti
sistematicamente sin dal loro inizio. E' stato il
decisivo sostenitore di Mussolini, Hitler, Franco,
Pavelic; in tal modo la Chiesa romano-cattolica si
è resa anche corresponsabile della morte di circa
sessanta milioni di persone, e nondimeno della morte
di milioni di cattolici. Non è un qualche secolo
del Medioevo, bensì è il ventesimo, per lo meno dal
punto di vista quantitativo, il più efferato nella
storia della chiesa.
-- POSTILLA: In occasione del primo viaggio in Croazia di
Giovanni Paolo II, il quotidiano italiano la Repubblica
taceva su tutto quanto sopra raccontato, pero' scriveva:
"...Ma il contatto con la folla fa bene a Giovanni Paolo
II. I fedeli lo applaudono ripetutamente. Specie quando
ricorda il cardinale Stepinac, imprigionato da Tito per
i suoi rapporti con il regime di Ante Pavelic, ma sempre
rimasto nel cuore dei Croati come un'icona del
nazionalismo. Woityla, che sabato sera ha pregato sulla
sua tomba, gli rende omaggio, però pensa soprattutto
al futuro..." (la Repubblica, 12/9/1994). Tre anni dopo,
lo stesso papa proclamava beato il nazista Stepinac, con
una pomposa cerimonia alla quale partecipava pure Franjo
Tudjman, regista della cacciata di tutta la popolazione
serba delle Krajne nella versione di fine secolo della
"Croazia indipendente". --
---
Sulla mostra organizzata a Bari da Most za Beograd si veda anche:
https://www.cnj.it/INIZIATIVE/jasenovac_most.htm
Sui crimini degli ustascia si vedano anche i link e i documenti
raccolti alla pagina:
https://www.cnj.it/documentazione/ustascia1941.htm
DEAR MR PRESIDENT
L'autore di "Fahrenheit 911", Michael Moore, scrive ironicamente a
Bush: "Ancora 20mila soldati in Iraq? Troppo poco! Dobbiamo inviarne
almeno 28 milioni!"
Ma c'è poco da scherzare... La distanza che separa Bush dai comuni
mortali, e da una comune percezione del mondo, è sostanziale. Si
legga, qui in fondo, anche una analisi sui sistemi di sicurezza
personale usati da questo signore.
---
Dear Mr. President: Send Even MORE Troops (and you go, too!) ...
1/10/07
Dear Mr. President,
Thanks for your address to the nation. It's good to know you still
want to talk to us after how we behaved in November.
Listen, can I be frank? Sending in 20,000 more troops just ain't gonna
do the job. That will only bring the troop level back up to what it was
last year. And we were losing the war last year! We've already had over
a million troops serve some time in Iraq since 2003. Another few
thousand is simply not enough to find those weapons of mass
destruction! Er, I mean... bringing those responsible for 9/11 to
justice! Um, scratch that. Try this -- BRING DEMOCRACY TO THE MIDDLE
EAST! YES!!!
You've got to show some courage, dude! You've got to win this one!
C'mon, you got Saddam! You hung 'im high! I loved watching the video of
that -- just like the old wild west! The bad guy wore black! The
hangmen were as crazy as the hangee! Lynch mobs rule!!!
Look, I have to admit I feel very sorry for the predicament you're in.
As Ricky Bobby said, "If you're not first, you're last." And you being
humiliated in front of the whole world does NONE of us Americans any
good.
Sir, listen to me. You have to send in MILLIONS of troops to Iraq , not
thousands! The only way to lick this thing now is to flood Iraq with
millions of us! I know that you're out of combat-ready soldiers -- so
you have to look elsewhere! The only way you are going to beat a nation
of 27 million -- Iraq -- is to send in at least 28 million! Here's how
it would work:
The first 27 million Americans go in and kill one Iraqi each. That will
quickly take care of any insurgency. The other one million of us will
stay and rebuild the country. Simple.
Now, I know you're saying, where will I find 28 million Americans to
go to Iraq ? Here are some suggestions:
1. More than 62,000,000 Americans voted for you in the last election
(the one that took place a year and half into a war we already knew we
were losing). I am confident that at least a third of them would want
to put their body where there vote was and sign up to volunteer. I know
many of these people and, while we may disagree politically, I know
that they don't believe someone else should have to go and fight their
fight for them -- while they hide here in America .
2. Start a "Kill an Iraqi" Meet-Up group in cities across the country.
I know this idea is so early-21st century, but I once went to a Lou
Dobbs Meet-Up and, I swear, some of the best ideas happen after the
third mojito. I'm sure you'll get another five million or so enlistees
from this effort.
3. Send over all members of the mainstream media. After all, they were
your collaborators in bringing us this war -- and many of them are
already trained from having been "embedded!" If that doesn't bring the
total to 28 million, then draft all viewers of the FOX News channel.
Mr. Bush, do not give up! Now is not the time to pull your punch! Don't
be a weenie by sending in a few over-tired troops. Get your people
behind you and YOU lead them in like a true commander in chief! Leave
no conservative behind! Full speed ahead!
We promise to write. Go get 'em W!
Michael Moore
mmflint @...
www.michaelmoore.com
---
http://www.presspubblica.it/index.php?
option=content&task=view&id=917&Itemid=2
La scorta del Presidente Usa Bush
Inviato da upiratu
martedì 16 gennaio 2007
Sono più di 30 gli autoveicoli che si mettono in moto ogni volta che
il presidente degli Stati Uniti esce dal suo Paese. Ecco com’è
formata la comitiva
Tre elicotteri, una dozzina abbondante di autoveicoli blindati e più
di 100 persone del servizio segreto, in grado di raggiungere
qualsiasi punto del mondo su un Boeing 747, vegliano sulla sicurezza
di Bush ogni volta che entra nel suo aereo Air Force One.
Nei tre giorni in cui Bush si trattenne a San Pietroburgo in Russia
per partecipare al vertice del G8 lo spiegamento delle sue forze
costò la bellezza di 2,3 milioni di euro. La sua carovana, composta
da 40 autoveicoli, fu quella più grande mai impiegata da un capo di
governo in tutta la storia.
Vediamo ora le singole unità:
sono sei le automobili della polizia che aprono la strada in
perlustrazione alla ricerca di esplosivi;
il nucleo della comitiva è formato da due limousine Cadillac De
Ville, ci sono diversi monovolume CMC armati fino ai denti e il
Chevrolet Express, in cui viaggia il coordinatore delle operazioni;
segue una flotta di minibus in cui viaggiano i collaboratori di Bush
(segretari, il medico e perfino il parrucchiere della moglie di Bush).
Quando ci sono riunioni ad alto livello ci sono anche il segretario
di Stato, il responsabile della sicurezza nazionale e il capo di
gabinetto;
sono un centinaio i giornalisti che accompagnano Bush all’estero, i
loro minibus si inseriscono nella comitiva;
la comitiva viene chiusa dai furgoni su cui viaggiano i tiratori
scelti, un’ambulanza e altri poliziotti;
l’auto di Bush è talmente blindata anche nei vetri che il loro
spessore impedisce alla luce naturale di penetrare all’interno
dell’auto che viene illuminata con lampade fluorescenti;
i cristalli dei finestrini sono a prova di proiettili, hanno uno
spessore di 63,50 millimetri, dieci volte superiore all’usuale;
la flotta automobilistica presidenziale è composta da quattro
limousine Cadillac De Ville identiche, del valore di tre milioni di
euro ognuna; possono portare fino a sette persone ed hanno interni
tappezzati di cuoio nero;
la blindatura dell’automobile è costruita per resistere all’impatto
di una granata o all’esplosione di una bomba di due chili posta sotto
l’automobile. I pneumatici sono del tipo flat-run, affinché
l’automobile possa essere guidata anche con le quattro ruote forate.
upiratu
maggio el Partito della Rifondazione Comunista organizza per venerdi
19 gennaio alle ore 18 presso la Casa del Popolo di Sottolongera
(Trieste, via Masaccio 24) la proiezione del documentario
"The Gonars Memorial" 1942-1943. Il simbolo della memoria italiana
perduta".
Il documentario, curato dalla storica Alessandra Kersevan e prodotto
su progetto finanziato dalla Direzione generale per l'istruzione e la
cultura della Commissione europea, dalla Regione autonoma Friuli
Venezia Giulia e dai Comuni di Visco e Gonars (UD), verte sul campo
di prigionia per internati civili deportati dalla Jugoslavia occupata
dal governo fascista.
Sarà presente l'autrice.
Grazie per la pubblicazione e diffusione
Claudia Cernigoi
---
Sullo stesso tema:
Il sito curato da Alessandra Kersevan:
http://www.gonarsmemorial.org/
Le fotografie dei campi di prigionia italiani sul sito de La Nuova
Alabarda:
http://www.nuovaalabarda.org/foto-gallery/galleria3_pagina1.php
La nostra pagina sui campi di concentramento italiani:
https://www.cnj.it/documentazione/campiconcinita.htm
SHARED VALUES
Il Regno Unito è "un paese costruito sui valori condivisi, ed è
servito da modello per il resto del mondo." Riuscirà solo per questo
ad evitare la frammentazione in quattro nazioni diverse (Inghilterra,
Scozia, Galles ed Irlanda del Nord)? Mah, guardando a come la classe
politica britannica si è comportata rispetto alla crisi jugoslava e
ad altri scenari, in tutti questi anni, laddove ha sempre giocato sul
"divide et impera" a casa altrui... (segnalato da DK)
http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/politics/6258089.stm
UK's existence is at risk - Brown
Gordon Brown is widely expected to be the next Labour leader
The identity of the United Kingdom is threatened by an "opportunist
group of nationalists", Gordon Brown has warned.
The chancellor told the Fabian Society that some groups were "playing
fast and loose" with the union of England, Scotland, Wales and
Northern Ireland.
He said the UK was a country "built on shared values" which served as
a "model for the rest of the world".
(Fonte dei testi che seguono è il periodico triestino Nuova Alabarda:
http://www.nuovaalabarda.org/)
1) Basovizza: Denuncia
2) Imbrattata la Foiba? Quale Foiba è stata imbrattata?
Galleria fotografica:
il luogo - http://www.nuovaalabarda.org/foto-gallery/
galleria5_pagina1.php
come cambiano le lapidi da un anno all'altro - https://www.cnj.it/
FOIBEATRIESTE/Appendici.htm#_Toc28102472
Per approfondire:
Operazione foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica:
dalla propaganda nazifascista attraverso la guerra fredda fino al
neoirredentismo (versione online integrale della edizione 1997 del
libro di Claudia Cernigoi)
https://www.cnj.it/FOIBEATRIESTE/index.htm
La pagina sulle "foibe" ed il neo-irredentismo italiano
https://www.cnj.it/documentazione/paginafoibe.htm
=== 1 ===
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-una_denuncia_per_la_%
27foiba%27_di_basovizza.php
Una denuncia per la 'foiba' di Basovizza
RIAPRITE LA FOIBA DI BASOVIZZA!
In data 25 ottobre 2005 i ricercatori storici Samo Pahor e Claudia
Cernigoi hanno presentato ai Carabinieri un esposto indirizzato alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trieste relativo ai
“lavori di riqualificazione” inerenti al sito della cosiddetta Foiba
di Basovizza, finanziati con i fondi stanziati per i cinquanta anni
del ritorno dell’Italia a Trieste. Eccone il testo:
OGGETTO: esposto relativo alle attività previste con deliberazione
comunale n. 68 d.d. 3 ottobre 2005 variante n. 86 al vigente PRGC –
recupero dell’area e del monumento della Foiba di Basovizza.
I sottoscritti Claudia CERNIGOI (n. Trieste 17/2/1959, ivi residente
in via San Primo 20) e Samo PAHOR (n. Trbovlje 22/5/1939, residente a
Trieste in Salita di Vuardel 21) espongono quanto segue in
riferimento ai lavori di cui alla delibera comunale in oggetto.
Da decenni il pozzo della Miniera sito nella proprietà della
comunella di Boršt risulta dichiarato monumento nazionale e luogo di
manifestazioni di vario carattere con riferimento ad esecuzioni
sommarie che sarebbero avvenute in loco nel periodo immediatamente
successivo al 1° maggio 1945.
Dopo i recuperi effettuati dalle autorità anglo-americane nell’estate/
autunno 1945, non risultano effettuati altri recuperi di salme,
nonostante da più parti si parlasse della presenza di “centinaia” o
“migliaia” di persone uccise sommariamente e gettate nella voragine.
Citiamo a questo proposito una relazione del direttore della
Divisione terza della XII Ripartizione (lavori pubblici) del Comune
di Trieste, datata 13/9/1954, in cui si legge che
< fuori del Cimitero si è a conoscenza della giacenza dei resti non
riconoscibili nella foiba denominata della “Miniera” di Basovizza,
frammisti a munizioni ed armi, di difficile raccolta, presumibilmente
n. 4000 >. (allegato 1)
Successivamente nel 1959 il Ministero della Difesa predisponeva una
sistemazione del fondo con l’apposizione dell’attuale copertura allo
scopo di impedire l’uso a discarica della voragine mineraria.
All’epoca il deputato Giorgio Almirante, capogruppo del partito
denominato “Movimento Sociale Italiano”, presentò un’interrogazione
parlamentare
< in ordine al pietoso recupero delle salme degli infoibati nelle
zone della Venezia Giulia rimaste all’Italia, anche in relazione al
fatto che due tra le più grandi foibe, quelle di Basovizza e di
Monrupino, contenenti migliaia di cadaveri, sono state rozzamente
tappate con un solettone di cemento >.
Il ministro della Difesa pro tempore, on. Giulio Andreotti, rispose:
< I lavori eseguiti (...) hanno esclusivamente funzione protettiva,
per evitare che continui lo scarico delle immondizie nelle foibe. La
chiusura è del tutto provvisoria. Essa è costituita da lastre di
cemento poggiate su travi di ferro e munite di anelloni per il loro
sollevamento. La chiusura non preclude quindi la possibilità del
recupero delle salme giacenti nel fondo del pozzo, recupero che sarà
effettuato quando sarà possibile superare le molteplici e serie
difficoltà di ordine igienico e di sicurezza. Occorre tener presente
(...) anche il fatto ormai accertato, che (...) sono stati gettati
ingenti quantitativi di esplosivo e residuati di nafta, il che
aumenta notevolmente il rischio delle operazioni >
Analoga interrogazione fu presentata dal deputato Gefter-Wondrich e
risposta simile a quella sopra citata fu data dal Sottosegretario di
Stato per la difesa Caiati nella seduta del 12/12/59.
(Le due interrogazioni si trovano in “Atti parlamentari anno 1959-60.
Risposte scritte ad interrogazioni dal 13/10/59 al 25/1/60”. Seduta
4/12/59, allegato 2)
Da dette risposte si evince chiaramente che i recuperi stante
l’attuale sistemazione sono tecnicamente possibili; ma nel caso in
questione sono anche giuridicamente dovuti ai sensi del comma 2
dell’art. 116 delle norme di attuazione c.p.p. che recita:
< Il disseppellimento di un cadavere può essere ordinato, con le
dovute cautele, dall’autorità giudiziaria se vi sono gravi indizi di
reato >.
I recuperi dei resti mortuari sono inoltre resi obbligatori dall’art.
50 del Regolamento di Polizia Mortuaria (DPR 10/9/90 n. 285) che recita:
< Nei cimiteri devono essere ricevuti quando non venga richiesta
altra destinazione:
- i cadaveri delle persone morte nel territorio del Comune, qualunque
ne fosse in vita la residenza; (omissis)
- i resti mortali delle persone sopra elencate >.
Le ripetute affermazioni relative a massacri avvenuti presso il Pozzo
della miniera, nonché le costanti manifestazioni che vi si svolgono
da decenni costituiscono di per se stesse “notitia criminis” nonché
“gravi indizi di reato”, così come previsti dalle normative vigenti.
Che nel Pozzo della miniera si trovino resti umani, risulta inoltre
dal fascicolo RGNR 631/00 della Procura della Repubblica presso il
Tribunale Ordinario di Trieste, a firma del PM dott. Dario Grohmann,
nel quale si legge che < il monumento indicato > è < da considerarsi
sepolcro > (allegato 3).
La copertura prevista dal progetto approvato dal Comune di Trieste
con la deliberazione in oggetto specificata, qualora realizzata,
costituirà un grave ostacolo ai recuperi dei resti umani di cui con
tanta costante iterazione si afferma l’esistenza, possibili invece
con l’attuale sistemazione; la mancanza di questi accertamenti
causerebbe inoltre impedimento alla Magistratura di acquisire prove
fondamentali per le valutazioni giudiziarie dell’accertamento dei
fatti avvenuti e delle eventuali responsabilità penali conseguenti.
I sottoscritti ritengono opportuno che venga sentito in qualità di
persona informata sui fatti l’onorevole Giulio Andreotti, o, in
subordine, l’onorevole Caiati.
Si chiede pertanto a codesta spettabile Autorità Giudiziaria di voler
emettere un’ordinanza di sospensione dei lavori di cui alla delibera
in oggetto, e di voler procedere ad un’esplorazione del contenuto del
pozzo della miniera di Basovizza, per verificare la presenza di resti
umani, e provvedere alla loro dignitosa sepoltura in luogo all’uopo
preposto.
I sottoscritti chiedono inoltre di venire avvisati dell’eventuale
richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 408 c.p.p..
In data 7/11/05 l’esposto è stato archiviato, su indicazione del
dottor Nicola Maria Pace, Procuratore della Repubblica di Trieste,
nel Registro degli “atti non costituenti reato”; tale tipo di
archiviazione, ci è stato spiegato negli Uffici della Procura, non
obbliga il Procuratore a motivare la propria decisione, né a darne
notizia ai denuncianti. Di conseguenza, nel fascicolo relativo,
abbiamo trovato solo copia della documentazione da noi presentata, la
lettera di trasmissione alla Procura della Stazione dei Carabinieri
di Basovizza e nel frontespizio le seguenti annotazioni a penna: “al
Procuratore per Sue valutazioni, data la peculiarità dell’esposto...
io non credo si debba provvedere a sospendere (sic) un atto
amministrativo, né c’è alcun reato in corso”. Data 2/11/05, firma
illeggibile (non è quella del dottor Pace).
In seguito a questa dichiarazione, che non essendo più
particolareggiata non ci permette di comprendere a fondo il motivo
per cui quanto da noi denunciato non raffiguri alcun reato, dobbiamo
per forza cercare di dare delle interpretazioni a quanto la Procura
ha inteso sostenere.
Se la Procura non ritiene necessario procedere ad un recupero delle
salme presenti nel Pozzo della Miniera prima dell’ultimazione dei
lavori che potrebbero inibirne la successiva possibilità, nonostante
tutte le notizie di presenza di dette salme (che potrebbero
costituire i “gravi indizi di reato”), ciò può significare soltanto,
a parere nostro, che la Procura non ritenga che vi siano salme ancora
giacenti nel Pozzo suddetto: altrimenti ne avrebbe dovuto ordinare il
recupero.
A questo punto, però, dobbiamo ritenere che, oltre a quanto fu
recuperato dalla voragine nel 1945 a cura degli angloamericani (il
verbale di tali recuperi fu pubblicato sul “Piccolo” di Trieste il
31/1/95, e fu sintetizzato nelle seguenti parole scritte dal
giornalista: < Ma una decina di corpi smembrati e irriconoscibili non
dovevano sembrare un risultato soddisfacente e alla fine si preferì
sospendere i lavori >.
Di conseguenza, possiamo essere portati a pensare che oltre alla
“decina di corpi smembrati e irriconoscibili”, già recuperati nel
1945, nel Pozzo della miniera non ci sono mai stati altri resti
umani; che tutto quanto apparso sulla stampa, in testi storici, in
dichiarazioni di intellettuali e di uomini politici rispetto alle
“centinaia”, “migliaia” di infoibati, agli eccidi di Basovizza e via
di questo passo, siano soltanto voci inconsistenti, non degne di
essere considerate notizie di reato (chi parla di massacri avvenuti
in un certo posto e di cadaveri ancora lì giacenti, cosa fa, se non
comunicare di essere a conoscenza di un reato consumatosi?) da parte
della nostra Procura della Repubblica.
Però a questo punto potremmo anche ritenere che non solo la foiba di
Basovizza non dovrebbe più essere considerata un monumento nazionale
(monumento a ricordo di fatti che non sono avvenuti?), ma potremmo
anche chiedere che le voci, non degne di fede, di coloro che
continuano a parlare di eccidi avvenuti a Basovizza, quando la
Procura non ritiene di dover agire per recuperarne i resti delle
presunte vittime, vengano fatte tacere, in quanto false ed
inattendibili, ed atte a turbare l’ordine pubblico.
E potremmo anche chiederci e chiedere alle autorità competenti, se
sia congrua la spesa di 805.000 Euro, tratte dai fondi per le
celebrazioni del cinquantenario del ritorno di Trieste all’Italia,
per “riqualificare” un monumento che non ha ragione di esistere, in
quanto propaganda un falso storico
Per opportuna conoscenza ai nostri lettori, pubblichiamo la lettera
inviata dai sottoscritti Pahor e Cernigoi al senatore Giulio Andreotti.
Egregio Signore
Giulio ANDREOTTI
Senatore a vita
Senato della Repubblica
Palazzo Madama
00186 - ROMA
Nell’ormai lontanissimo 1959 Ella, nella veste di Ministro della
Difesa, ha assicurato, rispondendo ad una interrogazione parlamentare
dell’on. Giorgio Almirante, che la copertura delle foibe di Basovizza
e di Monrupino è provvisoria, già predisposta per essere tolta, ed ha
promesso che tale copertura sarebbe stata tolta non appena le
condizioni sanitarie e di sicurezza l’avrebbero permesso.
Il progresso della medicina e della tecnologia civile e militare, ha
fatto tali passi da rendere del tutto possibile il promesso recupero
dei resti mortali, rispetto al quale l’on. Almirante ha posto
l’interrogazione parlamentare nell’interesse dei congiunti delle
persone che colà sarebbero state uccise nel 1945.
L’amministrazione comunale di Trieste ha deciso di coprire la
copertura fatta nel 1959 a cura del Commissariato generale per le
onoranze ai caduti in guerra sulla voragine di Basovizza con un
enorme cofano di ferro, annullando così la possibilità di recupero
delle salme che ivi si troverebbero.
Le chiediamo pertanto di intervenire nelle sedi competenti affinché
quanto promesso dal Ministro della difesa dell’epoca ai familiari
delle persone uccise in quelle località venga fatto prima della
collocazione di detto cofano di ferro.
Oltre che per il fatto di veder mantenuta una promessa che Ella ha
fatto ai congiunti, rappresentati dall’on. Almirante, riteniamo che
sia Suo interesse che la copertura delle due voragini venga tolta ed
i resti mortali colà giacenti recuperati, anche per un altro motivo.
Infatti dalle nostre parti corre voce, specialmente dopo che il
dottor Giorgio Rustia ha scritto, nel 2000, che “la foiba di
Monrupino è un eccesso della nostra storiografia che ha voluto creare
una foiba in cui saranno stati buttati una dozzina o una ventina di
soldati tedeschi”, che Ella sapeva benissimo, già prima della
decisione di far chiudere le due voragini, che esse non contenevano
resti mortali di italiani, uccisi solo perché italiani, ma ha voluto
impedire che le operazioni di recupero di resti mortali inesistenti
dimostrassero l’infondatezza delle accuse nei confronti delle forze
armate jugoslave, accuse che sono servite per decenni come pretesto
per negare alla minoranza linguistica e nazionale slovena quella
tutela che, secondo le sentenze della Corte Costituzionale, le
spettava fino dal 1° gennaio 1948. Sarebbe quindi auspicabile un Suo
intervento per evitare che i lavori in corso sul monumento di
Basovizza rendano non realizzabile il recupero delle salme da Lei a
suo tempo promesso.
In attesa di un gentile riscontro porgiamo distinti saluti.
Dobbiamo a questo punto precisare che fino a questo momento non
abbiamo avuto alcun riscontro. Abbiamo quindi deciso di rendere
pubbliche queste nostre note.
Marzo 2006.
=== 2 ===
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-il_caso_dell%
27imbrattamento_delle_due_foibe.php
Il Caso Dell'Imbrattamento Delle Due Foibe
QUALE FOIBA E' STATA IMBRATTATA? QUELLA DI BASOVIZZA O QUELLA DI
MONRUPINO?
“Imbrattata ancora una volta la Foiba di Basovizza dove è ancora
aperto il cantiere per il rinnovamento del sito”, leggiamo sul
“Piccolo” del 18/10/06, e più avanti: “l’atto vandalico ha subito
provocato la reazione del presidente provinciale di AN Gilberto Paris
Lippi” (Lippi, lo ricordiamo, è anche vicesindaco del Comune di
Trieste). Leggiamo poi che Lippi si è dichiarato “sconcertato e
allibito di fronte alla notizia che alcuni vandali hanno nuovamente
imbrattato il cippo dei Volontari (...) con la scritta in vernice
nera, Ozna, con la stella rossa, falce e martello, hanno rimarcato la
loro mancanza di coraggio”; seguono altre affermazioni del
vicesindaco che accusa i “vandali” di “viltà e vigliaccheria” e di
essere “capaci di comunicare le loro idee” solo con “l’atto
vandalico”, ed in tal modo “oltraggiano il ricordo dei nostri
cittadini e danneggiano contemporaneamente il patrimonio comune”;
inoltre Lippi stigmatizza la “mancanza di cultura” dei “vandali”, di
quella “cultura che oggi ci induce ad intraprendere un percorso che
porti il nostro Paese verso una memoria condivisa e non ad una
costante dimostrazione di intolleranza, risentimento e violenza”.
Stanti queste affermazioni di Lippi contrarie ad “intolleranza,
risentimento e violenza”, auspichiamo che quest’anno il nostro
rappresentante istituzionale si sia astenuto dal festeggiare la
ricorrenza della marcia su Roma, come era invece uso fare in un
passato neanche tanto remoto. Del resto è proprio da alcune sue
dichiarazioni a proposito della serata di festeggiamenti (pubblicate
sul “Piccolo” del 31/10/00) che possiamo forse comprendere meglio il
concetto di memoria condivisa propugnato dall’oggi vicesindaco ed
allora consigliere regionale:
“Abbiamo passato una bella serata. Un modo come un altro per stare
assieme. Il 26 ottobre si celebra la seconda redenzione di Trieste,
quella del 1954, e visto che il 28 ottobre era vicino, lo abbiamo
ricordato collettivamente (...) La marcia su Roma del resto fa parte
del nostro passato, perché fingere di essercene dimenticati?”.
Già, perché Lippi e Menia non dovrebbero festeggiare il proprio
passato, soltanto perché vorrebbero che altri rinnegassero il proprio?
Ma torniamo alla questione dell’imbrattamento della foiba, così come
denunciato da Lippi. Innanzitutto non ci risulta che presso il
monumento esista alcun “cippo dei volontari” (volontari in quale
Corpo, ci chiediamo innanzitutto): c’è un cippo posto dagli alpini,
uno dalla Guardia di Finanza ed uno dalla Federazione grigioverde a
ricordo di tutti i militari. Inoltre non ci sembra molto chiara la
descrizione della scritta in vernice nera che comprende anche una
stella rossa: o gli ignoti “vandali” si sono dedicati alla policromia
nell’imbrattamento, o forse per Lippi tutte le stelle sono rosse per
definizione se si trovano presso una falce e martello.
Alla protesta di Lippi è seguita una nota del capogruppo dei DS in
Consiglio comunale, Tarcisio Barbo, che sostiene essere il fatto “più
che un atto vandalico una vera e propria provocazione (...) ne è
evidente dimostrazione il richiamo all’Ozna” (dal “Piccolo” del 19
ottobre).
Anche qui c’è qualcosa che non ci convince. L’Ozna era un organo
istituzionale di polizia jugoslavo esattamente come all’epoca dei
presunti “infoibamenti” erano organi istituzionali di polizia l’OSS
statunitense e la FSS britannica, tutti di paesi che erano alleati
nella guerra contro il nazifascismo. Dove stia la provocazione nel
richiamo all’Ozna, Barbo ce lo dovrebbe spiegare meglio; ma rileviamo
che anche lui conclude il comunicato con un richiamo alla
“pacificazione in atto”, proprio come Lippi.
Fin qui le notizie sulla stampa: però a questo punto noi andiamo
oltre perché abbiamo avuto delle informazioni interessanti da parte
del professor Samo Pahor, che, non risultandogli l’esistenza di alcun
“cippo dei volontari” presso la foiba di Basovizza, si è recato con
un altro testimone sul luogo per verificare lo stato dei luoghi.
Ricordiamo che l’intera area è ancora recintata per i lavori di
“riqualificazione” a cura del Comune di Trieste, ma lo stato dei
luoghi è visibile anche dall’esterno. Sentiamo ora cosa ci ha
raccontato Pahor.
“Siamo andati fino al cantiere per verificare cosa fosse stato
effettivamente imbrattato, però non abbiamo visto alcuna scritta o
imbrattamento. Così, pensando che si fosse già provveduto, nel corso
dei tre giorni intercorsi, alla pulizia del sito, ci siamo recati
presso la stazione dei Carabinieri di Basovizza, per chiedere
chiarimenti. Alle nostre domande il maresciallo ci ha risposto che
loro non hanno constatato alcun imbrattamento, e la ditta che sta
effettuando i lavori ha negato che vi sia stato alcun atto vandalico”.
A questo punto ci siamo chiesti, noi come il professor Pahor, come
abbia potuto il vicesindaco Lippi denunciare, oltretutto con tale
dovizia di particolari, un imbrattamento che non è avvenuto. Così,
mentre noi ci limitiamo a segnalare all’opinione pubblica questa
palese contraddizione, Pahor ha invece presentato una denuncia alla
Procura della Repubblica, avente come oggetto: “denuncia penale per
il reato previsto e punito dall’art. 656 del c.p. con l’aggravante ai
sensi dell’art. 3 della legge 13/10/75 n. 654 e della legge 25/6/93
n. 205 (...)”.
Pahor si richiama all’art. 656 (“pubblicazione o diffusione di
notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine
pubblico”) poiché “l’atto che non è stato commesso è però tale che
avrebbe turbato l’opinione pubblica ed avrebbe causato il disturbo
dell’ordine pubblico”, e quindi chiede vengano acquisite dalla
magistratura le note inviate sia da Lippi sia da Barbo.
Per la cronaca, diciamo subito che questa denuncia è stata quasi
immediatamente archiviata dalla Procura triestina tra quelle “non
costituenti notizia di reato”.
Un’altra denuncia, di simile tenore, è stata presentata anche da
Paolo Parovel; a queste denunce sono seguiti comunicati stampa, che
sono stati peraltro ignorati sia dal “Piccolo”, sia dalle emittenti
radiotelevisive locali, mentre hanno trovato spazio sulla stampa
slovena di Trieste ed in alcuni siti internet nazionali. Va però
rimarcato che, ancora il 9 ed il 14 novembre scorsi, il “Piccolo” ha
pubblicato, all’interno di elenchi di atti vandalici avvenuti in
città negli ultimi mesi (soprattutto danneggiamenti a strutture
scolastiche) anche l’annotazione che il 17 ottobre la foiba di
Basovizza è stata imbrattata con la scritta “Ozna”.
Fin qui abbiamo trattato delle notizie apparse sulla stampa
triestina. Se però andiamo a leggere la stampa friulana, scopriamo
che l’intreccio si complica e le contraddizioni aumentano: infatti il
2 novembre (quindi alcuni giorni dopo le denunce presentate da Pahor
e Parovel, ed i relativi comunicati stampa – inviati anche a testate
regionali), sul “Gazzettino” troviamo in prima pagina il seguente
titolo “Foiba di Opicina (il corsivo è nostro, n.d.r.) sfregiata la
stele”, ed il rimando alle pagine interne, dove due articoli, firmati
dai giornalisti Maurizio Bait e Roberto Urizio, ci rendono edotti del
fatto che, in seguito ad una segnalazione inviata al
“Gazzettino” (diciamo subito che la stessa lettera è apparsa
integralmente sul “Messaggero Veneto” dello stesso giorno) dal
generale in congedo Luciano Santoro, la stele “che ricorda le vittime
della foiba di Monrupino” era stata “imbrattata con la scritta Ozna
accompagnata da una grossa stella e dalla falce e martello”.
Prendiamo atto che all’interno dell’articolo è pubblicata anche una
foto della lapide imbrattata (in vernice nera, come segnala
l’articolo), dalla quale possiamo dedurre che la scritta non deve
essere stata fatta con una bomboletta spray in fretta e furia ma con
un pennello e, data l’accuratezza e la precisione del disegno della
stella rossa in vernice nera, l’anonimo “artista” deve averci messo
un po’ di tempo per realizzare la sua “opera”. Nell’articolo leggiamo
anche che il Comune di Trieste ha provveduto immediatamente alla
pulizia della stele e che le cerimonie dei giorni seguenti si sono
svolte regolarmente.
Tralasciamo di commentare tutti gli annessi e connessi degli articoli
dei due cronisti, che per l’ennesima volta ci presentano le solite
falsità sulla questione delle “foibe”, mettendo in evidenza solo il
fatto che una volta ancora non viene detto che nella foiba 149 di
Monrupino sono stati sepolti sommariamente i militari germanici
caduti nella battaglia di Opicina, i cui corpi sono poi stati
traslati dapprima al cimitero triestino di S. Anna e successivamente
a quello militare germanico di Costernano in provincia di Verona,
quindi la stele posta a ricordo degli “istriani fiumani e dalmati”
ivi caduti è un falso storico che non rende giustizia a nessuno.
L’atto vandalico è stato denunciato alla stampa, abbiamo detto, dal
generale Santoro, che, leggiamo, si era recato il 14 ottobre (notiamo
che le notizie sull’imbrattamento di Basovizza lo datano invece al 17
ottobre) con “un gruppo dell’Anupsa (Associazione nazionale ufficiali
provenienti dal servizio attivo) di Udine che, composto da una
cinquantina di persone, dopo una visita al laboratorio di luce al
sincrotrone Elettra di Basovizza, ha deciso di recarsi alla foiba in
questione (cioè quella di Monrupino, n.d.r.) poiché quella, più
famosa, di Basovizza è oggetto in questo periodo d’interventi di
riqualificazione”.
A questo punto ci troviamo di fronte a diversi fattori da valutare.
Innanzitutto ricordiamo che a Trieste Paris Lippi aveva denunciato,
come avvenuto alla foiba di Basovizza, un imbrattamento (che però non
risulterebbe essere avvenuto) la cui descrizione corrisponde a quello
che abbiamo visto nelle foto pubblicate dai giornali friulani come
riferito alla foiba di Monrupino. Dunque, se l’imbrattamento è
avvenuto a Monrupino, perché Lippi parla di Basovizza, e, anche
ammettendo che si sia confuso tra le due foibe, perché non ha fatto
una rettifica pubblica?
Secondo punto: perché sulla stampa triestina si è parlato solo ed
esclusivamente del presunto imbrattamento di Basovizza e mai di
quello (reale, supponiamo, stante la foto) di Monrupino, che invece è
stato trattato dalla stampa friulana con un forte risalto? Dato che
il “Messaggero” ed il “Piccolo” appartengono allo stesso gruppo
editoriale, ci risulta oscuro il motivo per cui la lettera del
generale Santoro sia stata pubblicata dal quotidiano friulano e non
da quello triestino, considerando soprattutto che il fatto denunciato
si sarebbe svolto in provincia di Trieste e non in quella di Udine.
Poi ci è sorto l’interesse di conoscere meglio i protagonisti di
questo “caso stampa”. L’associazione cui fa riferimento il generale,
innanzitutto. Cos’è l’Associazione nazionale ufficiali provenienti
dal servizio attivo (Anupsa)? Nel sito internet dell’Esercito abbiamo
trovato che l’atto costitutivo dell’Anupsa porta la data del 3
febbraio 1948; successivamente viene citata “una frase significativa
dello Statuto sociale” che “ne delineava gli scopi principali”.
Eccola: “La fiamma che per oltre un trentennio ha sorretto il nostro
animo non può e non deve spegnersi. Appare pertanto evidente la
necessità di organizzarsi sia per alimentare la fiamma sia per
garantire i nostri interessi presso le Autorità Militari sia per
valorizzare le nostre capacità lavorative in ogni campo”.
Questo richiamo al “trentennio” precedente al 1948 può forse far
pensare ad una sorta di “nostalgia” per il periodo storico
corrispondente al ventennio fascista, così come anche il concetto di
“alimentare la fiamma” ci ricorda altri simboli di movimenti politici
nostalgici della medesima epoca; ultima annotazione, leggiamo che il
loro primo “Notiziario interno” uscì il 31 luglio 1948 e “cambiò
veste e titolo” nel gennaio 1958, diventando “Tradizione Militare”.
Passiamo ora al generale Luciano Santoro, residente a Cividale, che,
da fonti Internet ci risulta “nel 1965 tenente proveniente
dall’accademia militare di Modena (...) in servizio nel 76° Rgt.
fanteria con sede in Cividale del Friuli” (segnalazione nel sito
Esercito italiano bacheca), nonché rappresentante di una
“Associazione di Studi Storici cividalesi”, della quale attività non
abbiamo trovato però molte notizie. Gli interventi del generale
Santoro sulla stampa, presenti in rete, sono per lo più tratti dal
“Gazzettino”, ed hanno come tema ricorrente i “pericoli identitari”
per Cividale e le valli del Natisone se fosse applicata la legge di
tutela per la minoranza slovena, in quanto, Santoro, come anche la
Lega Nazionale del Friuli, ritengono che nella zona non esista alcuna
comunità “slovenofona”. Non sappiamo inoltre se, e in quale legame di
parentela egli sia con la professoressa Piera Specogna Santoro, pure
di Cividale, che fu tra gli eredi del “gladiatore” Aldo Specogna che
querelarono gli autori del testo “Gli anni bui della Slavia” per
quanto essi avevano scritto su di lui.
È invece necessario ora riportare alcune delle espressioni usate dal
generale in congedo nella lettera pubblicata dal “Messaggero”, per
comprendere il suo pensiero. Riferendosi a varie scritte “anti-
italiane” che sarebbero comparse in vari tempi (non specifica quali)
e vari luoghi, egli sostiene che “sono segnali molto preoccupanti di
un revanscismo sloveno o filosloveno che probabilmente noi stiamo, a
causa del nostro solito buonismo e del menefreghismo politico,
sottovalutando. Se poi si aggiunge che si vuole riconoscere la
minoranza linguistica nazionale slovena anche dove lo sloveno non si
è mai parlato, né viene capito, e cioè nelle valli del Natisone,
Torre-Cornappo, Resia, dove si usano parlate molto particolari, ma
addirittura anche a Cividale del Friuli, che con gli sloveni, nella
sua bimillenaria storia, non ha avuto niente da spartire, allora ci
si domanda se, per caso, non c’è dietro qualche altro progetto, che
alla fine della seconda guerra mondiale non è stato, per nostra
fortuna realizzato (la formazione, con i territori italiani di
Trieste, di Gorizia e della provincia di Udine, della settima
repubblica della federazione jugoslava), ma che adesso piano piano
potrebbe attuare una qualche attuazione”.
Queste grottesche (nonché anacronistiche, stante che la Jugoslavia è
un bel po’ di tempo che non esiste più) affermazioni di Santoro ci
richiamano alla mente quelle, altrettanto curiose, espresse dal
triestino Giorgio Rustia in un volantino diffuso nel novembre 1998 a
firma di un “Comitato spontaneo di cittadini che non parlano
sloveno”: all’epoca, quando la legge di tutela non era ancora stata
approvata, Rustia, sosteneva che tramite essa gli sloveni sarebbero
riusciti ad ottenere per mano legale ciò che non riuscì loro “manu
militari” nel ‘45 con i carri armati: cioè occupare i “nostri”
territori. E come? Semplice, spiega Rustia: con questa legge di
tutela a Trieste ci sarà bisogno di circa 250/300 interpreti che
dovranno giocoforza venire qui da oltre confine perché “a Trieste non
ci sono sloveni disoccupati”; questi interpreti si porterebbero
dietro la propria famiglia (“moglie, due figli, genitori, fratelli”),
cosicché in men che non si dica a Trieste ci sarebbero un migliaio di
sloveni in più, dal che nascerebbe un ulteriore bisogno di
interpreti, che dovrebbero nuovamente venire “importati” da oltre
confine e via di seguito; in tal modo, secondo Rustia, si sarebbe
sviluppata a Trieste una “catena di Sant’Antonio” che avrebbe
riempito di sloveni la città costringendo gli italiani all’emigrazione.
Al di là delle facili ironie che si possono fare leggendo
affermazioni di questo tipo, noi riteniamo che esse siano invece
molto gravi, innanzitutto perché pretendono di negare, usando
argomenti falsi, la presenza storica della comunità slovena nella
Regione (è ben vero che lo sloveno che si parla nelle valli del
Natisone non è lo stesso che si parla a Lubiana, ma non è accettabile
che venga liquidato come “parlata molto particolare”, come se si
trattasse del grammelot di Dario Fo invece che di un idioma
sviluppatosi in un’isola linguistica e proprio per questo diverso
dallo sviluppo che ha avuto la lingua slovena “riconosciuta”); e poi
perché, tramite questa negazione, attribuiscono alla comunità slovena
(ed ai “filosloveni”, cioè a coloro che pur non essendo sloveni,
ritengono che la tutela delle lingue e culture minori sia doverosa
per uno stato democratico) intenzioni eversive che non esistono se
non negli incubi fantastorici di persone come Rustia o Santoro.
Tornando alla questione degli imbrattamenti, reali o presunti,
abbiamo visto come quella che poteva sembrare soltanto una bufala a
proposito di atti vandalici mai avvenuti, si è rivelata invece una
costruzione di falsità ed ambiguità, i cui fini non ci sono chiari,
ma che andrebbero indagati a fondo per le implicazioni che potrebbero
avere nella civile convivenza democratica tra popoli di diversa etnia.
Riteniamo necessario a questo punto che le autorità competenti aprano
un’indagine approfondita su tutta questa vicenda (comunicati,
lettere, articoli, testimonianze, verifiche sull’imbrattamento di
Monrupino, connessioni tra le persone e via di seguito), per chiarire
a fondo di quale tipo di provocazione si sia trattato. Ed auspichiamo
infine che, data l’interrogazione presentata in merito dal
consigliere comunale Barbo lunedì 6 novembre, il vicesindaco Lippi
voglia chiarire pubblicamente i motivi che lo hanno portato a
denunciare alla stampa un imbrattamento che è sì avvenuto nei termini
da lui descritti, ma non sulla foiba da lui indicata.
Novembre 2006
Četiri jahača apokalipse
Ovih dana Srbijom defiluju političari svih boja u svojim predizbornim kampanjama. Laže se, obećava, zaklinje... U toj opštoj presiji četvorica su posebno beskrupulozna. Pomislih, Bože da li to Antihrist sa svoja četiri jahača iz apokalipse hara Srbijom.
"Apokalipsa" je grčka reč, a znači otkrivenje Sv. Joana Bogoslova, poslednja knjiga Novog zaveta, koja govori o prvim danima Hrišćanstva i dolasku Antihrista. Četiri jahača apokalipse su vizija ili predskazanje šta se sve može dogoditi ako Antihrist dođe. Ako sve ovo parafraziramo na današnje vreme i trenutak u kojem se Srbija nalazi neodoljivo podseća na to da su „Četiri jahača apokalipse“ već tu i da tutnje Srbijom.
Ta pomisao mi se prosto nametnula jer nikako drugačije se ne može objasniti agresivnost, stepen bezočnosti i nemoralnosti „demokratskih“ snaga u pridobijanju birača gde ništa nije sveto i gde ovaj napaćeni narod valjda posmatraju kao stoku. Valjda smatraju da narod toliko sluđen da više nezna ni gde je ni šta su mu te političke „veličine“ obećavale a šta ispunile od 05. oktobra ili od samih prošlih izbora od pre tri godine.
Osim toga postoji neka prosto neverovatna podudarnost sa jahačima iz predskazanja Svetog Jovana sa našim izbornim vedetama ili nosiocima izbornih lista kako se to izbornim žargonom kaže. Ali daj da prvo vidimo Kako je Sv. Jovan video pojedinačno svakog jahača i šta on narodu donosi.
Može se prihvatiti i mišljenje da su ovakva poređenja krajnje neumesna, čak i politički obojena, ali ima dosta toga što u ovoj zemlji počinje sa ali. Ono što je svima vrlo uočljivo je da ova četiri jahača i bukvalno tutnje Srbijom. Gde god se okrenete sa bilborda vas znati gleda neko od pomenutih jahača. Drugih nema, kao da u kampanji i ne učestvuju. Tako su uzjahali i sve medije da su ljudi u šoku zaboravili na slave, novu godinu i pripreme za najradosniji praznik Božić.
U kampanjama Koštunica se stalno poziva na patriotizam, moralnost i evidentne uspehe Vlade. Od njegovog patriotizma država nam je sve manja i manja, lopova je sve više a od uspeha Vlade i pored napora ne mogu da se setim ni jednog. Antiratni Tadić nas valjda zbog slogana „život ne može da čeka“ svim silama gura u NATO a koliko znam to nije sportska već surova vojna organizacija koja je samo pre šest godina i na našim prostorima sejala smrt. Dinkić hoće sve da nas zaposli iako je od 05. oktobra bio glavni protagonista da pola miliona ljudi izgubi posao. A Čeda bi da uredi zemlju i da se on i njegovi pitaju, odnosno vladaju. Kao da sami u svojim kampanjama žele da istaknu upravo ono gde su grešili zahtevajući da im narod da podršku da u tom pravcu i nastave.
Zato mi ova vizija Sv. Joana Bogoslova iz perioda začetka hrišćanstva mnogo liči na naš početni stadijum kapitalizma, odnosno tranziciju, a ako je Antihrist već došao u Srbiju onda se to verovatno dogodilo još 05. oktobra. U Srbiju uvukao na mala vrata u obliku lažnog Isusa a u liku Koštunice. Sada smo viziju u potpunosti iskompletirali sa četiri jahača pa se definitivno stradanje Srbije može očekivati od 21 januara 2007 godina posle Hrista.