Informazione


Dello stesso autore raccomandiamo anche la lettura del saggio in cinque parti:

Perché l\'uscita dall\'euro è internazionalista

Parte Prima. L\'ideologia dominante è il cosmopolitismo non il nazionalismo 
http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/notizia/Economia/2017/3/24/49123-perche-luscita-dalleuro-e-internazionalista-intervento-di/
http://contropiano.org/fattore-k/2017/07/04/perche-luscita-dalleuro-internazionalista-093581
http://www.resistenze.org/sito/os/ep/osephc27-019036.htm
Parte Seconda. Nazione, Stato e imperialismo europeo
http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2017/6/20/49642-perche-luscita-dalleuro-e-internazionalista-intervento-di/
https://www.sinistrainrete.info/europa/10046-domenico-moro-perche-l-uscita-dall-euro-e-internazionalista-2.html
http://contropiano.org/fattore-k/2017/07/10/perche-luscita-dalleuro-e-internazionalista-parte-ii-093776
http://www.resistenze.org/sito/os/ep/osephf20-019337.htm
Parte Terza. Oltre il rifiuto del politico. L\'euro come anello fondamentale del recupero della lotta politica

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Quale antifascismo nell’epoca dell’euro e della democrazia oligarchica?

Pubblicato il 1 ott 2017

di Domenico Moro
Sul fascismo e sulla polemica sui recenti provvedimenti di legge credo sia necessaria qualche precisazione. Ogni provvedimento formale di legge che vada contro simboli e organizzazioni fasciste, più o meno espliciti, va accolto con favore e anzi caldeggiato. È in atto una rinascita di questo tipo di organizzazioni, che rappresentano, comunque e sempre, un grave pericolo. Queste organizzazioni, anche se hanno, almeno per il momento, prospettive limitate, possono prosperare nel clima di crisi e di peggioramento delle condizioni sociali che si sta affermando. Di fatto, esse non rappresentano agli occhi di chi ha il potere vero, quello economico, una opzione credibile di gestione complessiva del sistema, ma sono sempre un pedone della scacchiera che si può usare, e si usa già oggi strumentalmente, per distrarre l’attenzione delle masse verso pericoli fittizi, creare confusione e accentuare le contraddizioni presenti all’interno delle classi subalterne. Premesso questo, il termine fascismo è usato da tempo estensivamente, per definire varie forme di autoritarismo e/o violenza politica. Se questo è più o meno comprensibile sul piano della polemica politica, tuttavia non mi sembra molto utile ai fini della comprensione della realtà, delle sue specificità attuali e quindi della capacità di sviluppare una lotta efficace sulla distanza.
Come vedremo più avanti, l’antifascismo è oggi, forse più che negli anni ’60 e ‘70, la base necessaria a una politica di sinistra e di perseguimento degli interessi delle classi subalterne. A patto, però, di capire le differenze e soprattutto le analogie con l’oggi del fascismo storico e della forma fascista di governo e di non restringere la funzione dell’antifascismo al contrasto (per quanto necessario, lo ripetiamo) a simboli e gruppi più facilmente identificabili direttamente con quella tradizione.

 

  1. Specificità del fascismo
Sono diverse le forme di governo che, pur non essendo assimilabili al fascismo, sono autoritarie e fanno uso di violenza più o meno esplicita e diffusa. Sarebbe bene chiarire che il fascismo, inteso come forma specifica di governo politico, non è solamente o specificatamente caratterizzato da autoritarismo e violenza. In primo luogo, nel modello fascista queste caratteristiche sono spinte agli estremi e sono esplicitate in modo aperto, attraverso una contro-mobilitazione di massa e l’organizzazione di unità paramilitari. Non è di poco conto che nel fascismo il Parlamento sia progressivamente abolito (dalla legge Acerbo che assegnava i due terzi dei voti alla lista che avesse ottenuto un quarto dei voti nel 1923, fino alla trasformazione del Parlamento in Camera dei fasci e delle corporazioni nel 1939), che siano eliminati partiti, sindacati, elezioni, libertà di stampa, divisione dei poteri, ecc. e che esistano milizie paramilitari fasciste istituzionalizzate. Soprattutto, tali caratteristiche hanno un segno sociale preciso: sono dirette per conto dell’élite del capitale contro i subalterni, in particolare contro il movimento dei salariati – sindacati, partiti, organizzazioni di vario tipo -, allo scopo di disarticolarne la capacità di resistenza. In secondo luogo, il fascismo è il prodotto necessario di una fase storica ben precisa e per certi aspetti diversa da quella attuale, a partire dal livello dei rapporti di produzione capitalistici, una fase in cui l’accumulazione e le imprese operano soprattutto su base nazionale, mentre oggi operano in gran parte su una base multinazionale. Il fascismo è stata la forma della lotta di classe e della riorganizzazione dell’accumulazione da parte dell’élite del capitale nazionale in un periodo di crisi e di capitalismo autarchico e non globalizzato, in cui prevalgono gli imperi territoriali a base nazionale e non l’imperialismo delle multinazionali, in cui esistono una alternativa reale di sistema nell’Urss e forti organizzazioni socialiste e comuniste in Occidente. Non da ultimo, è un sistema sorto dopo una guerra spaventosa, in paesi sconfitti o consumati da questa (e dalla crisi del ’29), come la Germania e l’Italia, e in cui ci si prepara al regolamento dei conti del secondo round, la guerra europea tra imperi (senza preoccuparsi di far esplodere il debito pubblico) e non a una sorta di nuovo “Grande gioco” delle guerre per procura contro Paesi terzi. Tanto per non fare confusioni, il fascismo è stata la forma di governo di paesi imperialisti, centrali nel sistema economico mondiale, ed è ben diverso, ad esempio, dalle dittature militari del Sud America o di Paesi africani o asiatici periferici, generalmente espressione di borghesie dipendenti (la borghesia compradora) o direttamente degli interessi dei Paesi imperialisti dominanti.

 

  1. Analogie e differenze tra l’oggi e il periodo fascista
Oggi, il modello egemone di dominio di classe, proprio nei Paesi imperialisti e dominanti, è quello, secondo la definizione di Agamben, della democrazia governamentale, in cui l’esecutivo prevale sul parlamento, o, secondo un’altra definizione possibile, della democrazia oligarchica. Del resto, l’analogia dell’attualità con il fascismo sta nel fatto che esso, analogamente alla democrazia oligarchica, è espressione diretta – l’uno senza mediazioni di classe, l’altra con mediazioni ridotte e addomesticate – del dominio del vertice del capitale industriale e bancario. Gli strumenti, però, sono diversi, perché la fase di sviluppo del capitale è diversa. Oggi, i meccanismi democratici formali sono conservati, mentre l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra, sempre però sul piano formale e non sostanziale, sui diritti civili, a copertura del drastico peggioramento delle condizioni materiali e democratiche della maggioranza della popolazione. Tuttavia, il dominio di classe è tanto più saldo quanto più i suoi meccanismi appaiono “neutrali” e “oggettivi”. I meccanismi della “lotta di classe democratica”, il patto sociale tra capitale e lavoro salariato, sancito dalle Costituzioni antifasciste dopo la seconda guerra mondiale, è saltato. È saltato grazie non alla violenza aperta ma grazie a una serie di modifiche, all’apparenza democratiche, e presunte neutrali e necessarie dal punto di vista della sostenibilità economica (l’”eccesso” di debito pubblico e quindi di spesa sociale). Queste misure si concretizzano nell’introduzione di leggi elettorali maggioritarie, nella modifica dei regolamenti parlamentari (che enfatizzano il ruolo dei decreti legge governativi sulle leggi parlamentari), e soprattutto dell’uso di meccanismi “oggettivi”, che vedono il mercato e le sue regole, al centro del processo decisionale.
Mentre in altri paesi – Usa e Regno Unito – la controrivoluzione conservatrice si è attuata senza strumenti esterni allo stato nazione, in Europa continentale, dove c’erano rapporti di forza e una storia specifici, è stata usata l’integrazione europea, cioè i trattati, i vincoli alla spesa e la gabbia dell’euro, cioè elementi “esterni” e “oggettivi”. Insomma, non c’è stato bisogno, come fece Mussolini, di porre fine prima con la violenza e poi formalmente con una legge al governo parlamentare svincolando l’esecutivo da qualsiasi limitazione, perché è stato, molto più semplicemente, bypassato. Anzi, è stato molto meglio conservarlo, con le mani legate e ridotto a camera di compensazione dei contrasti tra fazioni dell’élite, che svelare in modo aperto la natura repressiva del potere. Da questo punto di vista, il fascismo, al di là della specificità della fase in cui è sorto, ha dimostrato tutti i suoi limiti, relativi alla rigidità del processo di governo, ad esempio per la impossibilità di avvicendamento del personale di governo, e alla difficoltà di mediare tra le componenti del capitale. L’attacco ai politici, individuati come causa dei problemi (anche in questo c’è un’analogia della critica alla casta odierna con il fascismo e il suo antiparlamentarismo e la sua polemica contro i politici traditori e corrotti) è inserito all’interno di una subordinazione della politica all’economia, che poi è la subordinazione dei corpi intermedi, mentre le decisioni oggettive sono prese dai governi in consessi europei e/o internazionali.
Oggi, la diffusione a livello di massa del nazionalismo e della xenofobia sono in gran parte il prodotto dell’Europa. In parole semplici, la Le Pen è il prodotto dei Macron, o meglio di chi gli sta dietro, cioè l’élite del capitale. Pretendere di curare il male, rappresentato dalla prima, con il secondo è come curare la febbre, cioè il sintomo, inoculando altre dosi di virus, cioè con la causa. Ma c’è dell’altro, più importante. L’Europa determina la ripresa del vero nazionalismo – non quello plebeo e populista – ma quello concreto degli interessi geostrategici e economici, mediante l’aumento dei divari tra potenze europee e la riduzione della domanda interna, che accentuano la tendenza all’espansione estera. Ne consegue la modifica dei rapporti di forza pregressi e quindi l’aumento della competizione e della concorrenza, non solo tra capitali ma anche tra stati, e della aggressività militare. In sostanza si afferma, pur nel contesto della globalizzazione e dell’ideologia cosmopolita, un nuovo nazionalismo. L’aggressione della Francia contro la Libia di Gheddafi, al fine di scalzare l’Italia dal controllo di petrolio e appalti, non sono dovute Le Pen, ma al “democratico” Sarkozy, mentre lo stop alla acquisizione dei cantieri navali francesi da parte di Fincantieri non è dovuta alla nazionalista Le Pen ma a Macron, all’alfiere dell’internazionalismo liberale e dell’europeismo.

 

  1. Quale antifascismo oggi e perché è importante
Dunque, se, da una parte, va condotta una lotta contro il fascismo tradizionale e classico, utilizzando ogni strumento possibile, non va dimenticato che il problema centrale è rappresentato dalla democrazia oligarchica e dai suoi meccanismi. Questa è la forma del dominio da parte dell’élite economica, così come, negli anni ’20 e ’30, con condizioni storiche e sociali molto diverse, lo era il fascismo. La vera analogia sta nell’essere entrambi espressione diretta e immediata (sottolineo: diretta e immediata) del potere oligarchico dello strato di vertice del capitale, associato all’élite burocratica e tecnica statale (e, oggi in Europa, anche sovrastatale). La classe socio-economica che ormai quasi cento anni fa, nel ’22, trovò espressione nel fascismo oggi, mutata essa stessa, lo trova nelle forme della democrazia oligarchica e nei meccanismi dell’integrazione europea. È per questa ragione che l’antifascismo è non solo attuale, ma è ancora più attuale oggi rispetto a qualche decennio fa. Non solo e non tanto per prevenire lo sviluppo dei gruppi dichiaratamente fascisti e di estrema destra, che pure stanno rialzando la testa e vanno contrastati. E certamente non perché in Italia sia possibile una opzione fascista, scartata a favore di altre forme di soluzione delle contraddizioni sociali già negli anni ’60 e ’70, in contesti ben più “caldi” di quelli odierni. Ma perché lo strato di vertice del capitale, come negli anni ’20 e ’30 in Italia e Germania durante il fascismo, sta affermando il suo dominio senza mediazioni o con mediazioni corporative e non di classe, ricreando analoghe situazioni e meccanismi di concentrazione del potere politico all’interno e di espansione, anche aggressiva e militare, all’esterno. In entrambi i casi il sistema parlamentare è sostituito da un sistema governamentale, in cui è l’esecutivo (e all’interno di esso il premier) a dominare, egemonizzato nel fascismo dalla persona del duce o del führer (ma in Italia con una sorta di diarchia con la monarchia), oggi in modo più direttamente “elitario” e oligarchico.
Del resto, non è un caso che nel mirino della strategia di controriforma del capitale internazionale, come prova il documento The euro area adjustement: about halfway theredella banca J.P. Morgan (2013), venga indicata la necessità di modificare le costituzioni antifasciste in quanto incompatibili con l’integrazione europea (1). Non solo perché le Costituzioni sono contro il fascismo, ma soprattutto perché, essendo il prodotto della lotta contro il fascismo, esprimono contenuti che entrano in contraddizione con gli interessi dell’élite capitalistica. I gruppuscoli fascisti rialzano la testa perché annusano l’aria di cambiamento, e sentono affinità elettive con il contesto. Non si può essere antifascisti, in modo concreto e adeguato all’attualità, senza capire il ruolo non solo del neoliberismo ma degli strumenti concreti con cui si è attuato in Italia e in Europa occidentale, attraverso le leggi elettorali maggioritarie, la concentrazione del potere mediatico nelle mani dei grandi gruppi, la creazione di forme partito leggere e personalistiche, e soprattutto attraverso la leva dell’integrazione economica e valutaria europea. Non si può difendere la Costituzione o pensare alla sua attuazione senza affrontare il contesto dei vincoli europei e il fatto che il suo stesso testo è gravemente minato dall’introduzione dell’obbligo del paraggio in bilancio. Pretendere di essere antifascisti oggi senza capire tutto questo vuol dire pensare l’antifascismo soltanto come memoria storica, cosa che pure è importante, e non come componente vitale e perciò più forte del nostro essere e del nostro agire nel presente.
Il punto principale, va sempre ricordato, è sempre quello di capire la forma e le specificità del dominio (comprese analogie e differenze con il passato), per poterlo affrontare con efficacia.

Note
1 Report di JP Morgan (28 maggio 2013).



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Gabriele D\'Annunzio lo slavofobo

1) 1919, D\'Annunzio e gli slavi: \"il flutto della barbarie schiava giungerebbe su Trieste\"
2) La Repubblica di Croazia sulla celebrazione della marcia su Fiume (di Marco Barone, settembre 2017)


Si vedano anche:

La Profezia di Gabriele D\'Annunzio sul destino dello Stato jugoslavo (1920)

Inchiesta sul Monumento a D\'Annunzio ed ai Legionari in #Monfalcone: Dal fiumanesimo, al fascismo, a Gladio (2014)
Tra Ronchi e Monfalcone esiste un monumento falsamente eretto il 12 settembre 1960, dedicato ai legionari di D\'Annunzio ed a quella impresa di Fiume che per molti suoi determinanti aspetti ha anticipato la marcia su Roma e le violenze che hanno subito in primis le popolazioni di quella che oggi chiamiamo ex Jugoslavia..Dopo diversi mesi di analisi di diversi documenti e non solo, nasce l\'inchiesta sul monumento a D\'Annunzio ed ai Legionari in Monfalcone che spiega i collegamenti che sussistono dal fiumanesimo al fascismo e gladio intorno a quel manufatto ancora oggi contestato...
http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/09/inchiesta-sul-monumento-dannunzio-ed-ai.html
IL DOCUMENTO a cura di Marco Barone e Luca Meneghesso IN FORMATO PDF:


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D\'Annunzio e gli slavi: \"il flutto della barbarie schiava giungerebbe su Trieste\"

di Marco Barone, 9 ottobre 2017

19 ottobre 1919 una lettera che ha come destinatari principali i fiumani dal titolo Italia e Vita. Una lettera dove emergono concetti ed aspetti che connoteranno quell\'imperialismo italiano che porterà all\'invasione del Balcani con tutte le conseguenze nefaste che la storia ci ha ben insegnato. Una lettera, con un linguaggio semplicemente incomprensibile  in molti passaggi, e con uno stile assurdo, dove si eleva bene quel senso di disprezzo verso gli slavi che verrà rimarcata dal poeta amante della guerra in diverse occasioni. 
Un D\'Annunzio che esalta lo spirito degli italiani che hanno difeso l\'italianità di Fiume, del Carnaro, dove \"voi spiegaste nel vento del Carnaro il tricolore italiano, in faccia ai Croati che dal governatore ungaro avevano ricevuto il potere civico per inizio di quella frode più tardi proseguita sopra le navi imperiali in Pola nostra.\"
Uno spirito dell\'italianità che sarebbe stato presente in diverse località, \"per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe.\"
Rimarcando che \"l’istinto profondo della razza vi avverte che una falsa libertà è peggiore d’una servitù rivoltosa.\" 
Un D\'Annunzio che prova a giustificare il perchè della necessità di mantenere sotto il dominio italiano alcune zone strategiche: \"a settentrione di Fiume, essi debbono includere Idria, affinché la torbida Balcania non prema le spalle di Gorizia e di Tolmino. \"
Od ancora \" Come Idria, Postumia aspetta a noi. Se non la tenessimo, il flutto della gente balcanica, il flutto della barbarie schiava, giungerebbe a una ventina di chilometri dalle mura di Trieste.\"

Ed un nuovo elogio ( si fa per dire) di D\'Annunzio nei confronti degli slavi, che continua a ritenere come inferiori rispetto alla cultura latina, italiana :

\"Col distretto di Postumia lasceremmo in mano degli Schiavi meridionali il valico di Longatico, quello di Nauporto e forse quello di Prevaldo, che costituiscono da tempo immemorabile la vera Porta d’Italia, la soglia latina calcata dalle incursioni boreali e orientali dei Barbari di ogni evo.\"

Un disprezzo non politico, ma verso un popolo che connoterà quel razzismo che si scaglierà contro chi aveva come colpa  quello di non appartenere alla \"razza\" latina, italiana.
Marco Barone



=== 2 ===


La Repubblica di Croazia dica no alla celebrazione della marcia su Fiume. Lettera all’Ambasciata

di Marco Barone, 5 settembre 2017

Alla cortese attenzione dell\'AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA DI CROAZIA
Via Luigi Bodio 74/76
00191 Roma
ITALIA E-Mail: vrhrim@...


Pregiatissimo Ambasciatore, 
la contatto in qualità di cittadino della Repubblica italiana nonché di residente nel Comune di Ronchi dei Legionari (Gorizia) in Friuli Venezia Giulia. 
La contatto poichè Lei è il massimo rappresentante della Repubblica di Croazia in Italia e deve essere informato su quanto accade puntualmente da diversi anni nel Comune di Ronchi ogni 12 settembre. 
Il 12 settembre del 1919 Gabriele D’Annunzio partì casualmente dal Comune di Ronchi per occupare militarmente la città di Fiume ( Rijeka ). Fatto storico che diversi intellettuali italiani, come Pasolini, definirono una “pagliacciata narcisistica” ed importanti storici come marcia che ha anticipato quella fascista su Roma, per gesti, modalità e ritualità. 
Impresa nazionalistica capeggiata da una persona guerrafondaia, come D’Annunzio e razzista nei confronti del popolo croato. Cosi si rivolgeva verso i croati ed il popolo slavo: \"il croato lurido, s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scarpellò il Leone alato oppure (…) \" quell’accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso\" ... oppure da Gli ultimi saranno i primi, 4 maggio 1919 (…) \"Fuori la schiaveria bastarda e le sue lordure e le sue mandre di porci!\". Concetti che saranno fatti propri dal dittatore fascista Mussolini. 
Il Comune di Ronchi deve la sua attuale denominazione, “dei legionari” proprio a quella marcia. Denominazione che venne conseguita sotto il fascismo dopo l’aver omaggiato Mussolini con la cittadinanza onoraria, cosa che è stata revocata solo recentemente. Ma la comunità di Ronchi è sempre stata complessivamente contraria ad omaggiare sia D’Annunzio che quella marcia, basta pensare che il monumento che è stato costruito per ricordare e celebrare l’occupazione militare di Fiume da parte dell’Italia per mano di D’Annunzio è stato realizzato nel confinante Comune di Monfalcone perché il Comune di Ronchi non diede la propria disponibilità stante il carattere fascista di quella marcia e la storia partigiana di Ronchi.
Il noto scrittore Boris Pahor in merito a questa vicenda nel 2014 ha avuto modo di sottolineare in sostanza che dei legionari non ha più, oggi ragione e diritto di esistere, tolta la cittadinanza onoraria a Mussolini è altrettanto naturale togliere la denominazione dei Legionari di Ronchi, ben tenendo conto anche del fatto che oggi popoli e paesi come l’Italia, Slovenia e Croazia vivono in amicizia, e che Ronchi è un territorio multietnico, multiculturale e vista anche la presenza dell’aeroporto, sarebbe il caso di accogliere, chi giunge in questi luoghi, in modo diverso e non con la denominazione dei Legionari. 
Se D\'Annunzio da alcuni viene considerato come un valore d\'Italia, per molti cittadini non lo è. Perchè razzista prima di tutto ed offensivo contro gli amici e fratelli croati. Ogni 12 settembre dei nazionalisti si riuniscono presso il monumento dedicato a D’Annunzio per la marcia di occupazione di Fiume, con anche alcune delegazioni che provengono dalla città di Fiume. Celebrazione storica ma dal chiaro connotato politico. Celebrazione a cui partecipano anche amministratori locali con la fascia tricolore a rappresentare, dunque, la Repubblica italiana. 
Perché celebrare quella marcia significa rivendicare l’italianità di Fiume. Atto totalmente irrispettoso nei confronti della Repubblica di Croazia e della città di Fiume. Atto storico e politico che certamente non corre nella direzione di favorire i rapporti tra Italia e Croazia per i motivi come succintamente esposti. 
Nel 2019 ci sarà il centenario per tale evento e circolano voci che qualcuno vorrebbe promuovere un pellegrinaggio storico/politico dal Comune di Ronchi alla città croata di Fiume per celebrare quell’occupazione militare. 
Tutte questioni che favoriscono sentimenti nazionalistici che compromettono in modo rilevante quella edificazione di una Europa di pace e fratellanza ed amicizia tra popoli che stiamo tutti insieme e con fatica cercando di realizzare. 
Tanto premesso
si chiede all’Ambasciata della Repubblica di Croazia, nella persona dell\'Ambasciatore, di sollecitare l’intervento della Repubblica di Croazia nei confronti delle autorità italiane perché non abbiano più luogo cerimonie, celebrazioni, della marcia di occupazione su Fiume e che non venga considerato più come un “valore” d\'Italia la figura di D’Annunzio stante le sue parole altamente offensive e razziste come manifestate nei confronti del popolo croato.
Confidando in un suo cortese riscontro, nel nome della fratellanza ed amicizia tra i popoli, le porgo i più cordiali saluti. 

Marco Barone 
Ronchi (Gorizia), 5 settembre 2017 

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Celebrazione di D\'Annunzio e Fiume, risponde l\'Ambasciata croata: Basta celebrazioni ci attiveremo

di Marco Barone, 18 settembre 2017

Il cinque settembre, come è noto, avevo scritto una lettera all\'Ambasciata della Repubblica di Croazia con sede in Roma in merito a quanto puntualmente ogni anno avviene in Monfalcone. Si celebra l\'occupazione militare di Fiume ed un poeta razzista nei confronti dei croati quale D\'Annunzio. Mi ero sempre chiesto ma perchè la Repubblica di Croazia tace? Probabilmente perchè non era a conoscenza di quanto accade in Italia? Per tagliare la testa al toro ho scritto la lettera di cui in premessa e mi ha risposto gentilmente ed in tempi anche rapidi il Ministro Plenipotenziario dell\'Ambasciata della Repubblica di Croazia Mladenka Šarac-Rončević. 

Questo il testo della sua risposta, come si potrà vedere chiaro, conciso: 

\"Ringraziamo della Sua mail del 5 settembre 2017. Condividiamo la Sua opinione che simili anniversari danneggiano l\'atmosfera dei rapporti amichevoli tra i nostri due paesi e che celebrarli incita sentimenti nazionalistici. L\'Ambasciata della Repubblica di Croazia a Roma da parte sua intraprenderà tutto il possibile nell\'ambito delle proprie competenze, e apprezzeremmo altrettanto il Suo ulteriore impegno nella questione. Siamo sicuri che Lei, come stimato cittadino della Repubblica Italiana, insieme ad altri Suoi concittadini, può, più di tutti, contribuire al cambiamento di tale clima e alla ancora migliore costruzione dei rapporti di buon vicinato, in particolare nelle zone multietniche adiacenti ai confini.\"

Nella mia lettera concludevo, dopo aver evidenziato che quelle celebrazioni del 12 settembre per Fiume e D\'Annunzio \"favoriscono sentimenti nazionalistici che compromettono in modo rilevante quella edificazione di una Europa di pace e fratellanza ed amicizia tra popoli che stiamo tutti insieme e con fatica cercando di realizzare\" in questo modo: chiedo all’Ambasciata della Repubblica di Croazia, nella persona dell\'Ambasciatore, di sollecitare l’intervento della Repubblica di Croazia nei confronti delle autorità italiane perché non abbiano più luogo cerimonie, celebrazioni, della marcia di occupazione su Fiume e che non venga considerato più come un “valore” d\'Italia la figura di D’Annunzio stante le sue parole altamente offensive e razziste come manifestate in modo eloquente soprattutto nei confronti dei croati.



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Roma, venerdì 13 ottobre 2017
presso il CSOA Ex Snia, Via Prenestina

nell\'ambito della settima edizione di Logos / Festa della Parola – parola di questa edizione: Rivoluzione!

*** Giornata dedicata alla Rivoluzione d’Ottobre ***

Al termine della mattina:
LUKA BOGDANIĆ (Università di Zagabria) terrà una lezione rivolta principalmente agli studenti, sul tema
\"Lenin: l\'autodeterminazione dei popoli e la Rivoluzione del 1917\"

Alle ore 18.00:
\"L’Ottobre siamo noi. L’immaginario collettivo alla prova di una data storica: cosa si sogna, oggi, quando si pensa alla Rivoluzione?\"
con LUKA BOGDANIĆ (Università di Zagabria),  Virginia Pili (curatrice de I quattro anni che cambiarono il mondo), Salvatore Ricciardi, Franco Piperno, modera Cristiano Armati 

Gli incontri con Luka Bogdanić saranno anche occasione per ricordare la figura di Jasna Tkalec, mamma di Luka oltre che nostra compagna di Jugocoord Jasna Tkalec (1941-2017: https://www.cnj.it/home/index.php?option=com_content&view=article&id=8706:jasna-tkalec&catid=30&lang=it&Itemid=206 ).



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Soros e l\'Ucraina / 3

documentazione in ordine cronologico inverso

1) Soros, sobillatore di conflitti. Il caso dell\'Ucraina (KPU, 26.9.2017)
2) Ucraina ed Europa, che cosa fare? (di George Soros, 26 settembre 2015)
3) Le lettere di Soros e il “manovratore” della crisi ucraina (di Giampaolo Rossi, 2 luglio 2015)
4) Soros: “l’Ucraina è oggi ciò che deve diventare domani l’Unione Europea” (O. Renault, 13.03.2015)


Si vedano anche:

Le ONG umanitarie (2). La rete di George Soros / SOROS IN UCRAINA (di Maria Grazia Bruzzone, 07/05/2017)

Leaked memo proves George Soros ruled Ukraine in 2014, minutes from “Breakfast with US Ambassador Geoffrey Pyatt” (ALEX CHRISTOFOROU, August 20, 2016)
http://theduran.com/leaked-memo-proves-george-soros-ruled-ukraine-in-2014-minutes-from-breakfast-with-us-ambassador-geoffrey-pyatt/
TRAD.: George Soros e la distruzione dell’Ucraina (Alex Christoforou, The Duran 20/8/2016)
Potere e controllo di George Soros sull’Ucraina di Majdan vanno oltre ogni immaginazione...
https://aurorasito.wordpress.com/2016/08/21/george-soros-e-la-distruzione-dellucraina/

Source: Soros : L’Europe doit devenir comme l’Ukraine ! (Olivier Renault pour Novorossia Vision, 13/3/2015)
A la conférence de sécurité de Munich du mois de février 2015, George Soros a fait des révélations sur ce que doivent devenir les pays de la zone euro...
http://novorossia.vision/fr/soros-l-europe-doit-devenir-comme-l-ukraine/

Siehe auch: Münchner Sicherheitskonferenz. Forderung an Starinvestor: \"Geben Sie eine Milliarde für die Ukraine, Herr Soros!\"
Samstag, 07.02.2015, 12:35 · von FOCUS-Online-Redakteurin Linda Wurster(München)
http://www.focus.de/politik/ausland/ukraine-krise/auftritt-auf-muenchner-sicherheitskonferenz-forderung-an-starinvestor-geben-sie-eine-milliarde-fuer-die-ukraine-herr-soros_id_4460280.html

Soros e l\'Ucraina / 2 (rassegna JUGOINFO 19.1.2015)

Soros e l\'Ucraina / 1 (rassegna JUGOINFO 8.1.2015)


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Soros, sobillatore di conflitti. Il caso dell\'Ucraina

26 Settembre 2017

di Partito Comunista di Ucraina

da kpu.ua

Traduzione dal russo di Mauro Gemma

“Attraverso numerosissime organizzazioni cosiddette non profit, create e finanziate da governi stranieri, in primo luogo dal Dipartimento di Stato USA, ma anche da vari “fondi caritatevoli”, come, ad esempio, il Fondo Soros, nel corso di due decenni si è attuato un intenso lavoro allo scopo di riformattare la coscienza degli ucraini, in particolare giovani, di dividere il nostro paese su basi etniche, linguistiche, religiose, di elevare il neonazismo e la russofobia al rango di ideologia nazionale... In questi anni in Ucraina è stata formata una “quinta colonna”, i cui rappresentanti si sono impadroniti delle strutture statali e degli organi di potere locale” (PETRO SIMONENKO).

Il 20 agosto nel sito web della Casa Bianca è stata pubblicata una petizione di cittadini statunitensi che chiede al presidente di dichiarare George Soros un “terrorista” e di bloccare tutti i beni delle sue organizzazioni in conformità con la “Legge sulla confisca delle proprietà dei terroristi”. Nella petizione si afferma che da Soros sono state create e finanziate decine di organizzazioni, il cui unico scopo è quello di disgregare con i metodi del terrore l\'ordine costituzionale degli Stati Uniti, di porre sotto la sua influenza le strutture del Partito Democratico e del governo federale. Le prime 100.000 firme necessarie perché l\'amministrazione presidenziale USA esamini la petizione, sono state raccolte molto prima del termine stabilito di 1 mese, scrive Capital.

Oggi riguardo a Soros, neppure i suoi più fidati (il che significa a libro paga) agenti non negano l\'evidenza dell\'aperta ingerenza del “miliardario filantropo” negli affari interni di altri stati. Tuttavia, essi trovano sempre una spiegazione nella presunta lotta di Soros per i “valori umani universali” che non avrebbero un ambito prettamente nazionale. Noi non intendiamo impegnarci in dibattiti teorici e ideologici, ma semplicemente rilevare che i “difensori dei diritti a comando”  di Soros si ritrovano regolarmente coinvolti nei processi indirizzati al rovesciamento di governi in carica in tutto il mondo.

(…) Le attività delle organizzazioni non governative finanziate da George Soros ora hanno già provocato il conflitto (con un diverso grado di asprezza) dei governi all\'interno dell\'UE di Romania, Slovacchia e Bulgaria – e anche di quelli di Serbia e Azerbaigian - con il “filantropo”.

Ma l\'ottantasettenne George Soros, ha apparentemente fiducia nella sua immortalità e continua a suscitare conflitti – dalle proteste pacifiche ai sanguinosi massacri – in tutto il mondo.

E\' difficile valutare in modo inequivocabile l\'affidabilità delle informazioni sul coinvolgimento di Soros nell\'attuale conflitto che contrappone buddisti e musulmani in Myanmar, nello stato di Rakhine, le cui cause sono da ricercare, come al solito, nella presenza del petrolio in una zona di contrasti etnici e nel desiderio di contrapporre la Cina, che ha buoni rapporti con il Myanmar, al mondo islamico.

Tuttavia, la partecipazione di Soros all\'organizzazione della “riunione solenne” di Mikho Saakashvili sul confine polacco-ucraino, non va messa in dubbio, se consideriamo l\'elenco dei principali partecipanti che, a iniziare dallo stesso ex presidente della Georgia, sono “affiliati” alle strutture del miliardario...

Si tratta, in primo luogo del gruppo georgiano, guidato dall\'ex procuratore generale aggiunto David Sakvaleridze che, come tutta la leadership georgiana dei tempi della presidenza di Mikhail Saakashvili, riceveva uno stipendio dai fondi creati da Soros (e ci sono tutte le ragioni  per affermare che il finanziamento, ora però per altri personaggi, stia continuando). Poi c\'è il gruppo degli “euro-ottimisti” guidati dai giornalisti Mustafa Nayem, Serghey Leschenko e Svetlana Zalischuk che hanno passato molti anni a utilizzare i fondi di Soros “per lo sviluppo della democrazia in Ucraina”. Qui va aggiunto anche il gruppo dei nazional-liberali del “Pacchetto di rianimazione delle riforme”, i cui leaders sono il vice speaker Oksana Syroed e la parlamentare Anna Golko, da molti anni destinatarie dei finanziamenti del fondo “Rinascimento”; la seconda assume regolarmente la funzione de facto di rappresentante di Soros nella Rada Suprema ucraina.

Anche Valentin Nalivaychenko e una serie di combattenti “sociali” contro la corruzione si rivolgono al Partito Democratico diretto da Joe Biden e Hillary Clinton, i quali prestano ascolto alle opinioni del miliardario (ovviamente in cambio di iniezioni generose di fondi elettorali).

Si può ricordare che nel 2015 il presidente Petro Poroshenko ha insignito George Soros dell\'Ordine della Libertà: “per il rafforzamento dell\'autorità dell\'Ucraina”. Ma Soros non aveva bisogno dell\'onorificenza, ma, secondo quanto egli stesso ha dichiarato, di terra ucraina da sfruttare...

“Particolare zelo nell\'intervento sul mercato dei terreni è stato mostrato da figure della cerchia dell\'ex ministro delle Finanze dell\'Ucraina, la cittadina degli Stati Uniti Natalya Yares\'ko e dall\'ex ministro dello Sviluppo Economico, il cittadino della Lituania Aivaras Abromavicius. A una veloce apertura del mercato della terra, allo scopo di concentrare in mani private le grandi proprietà terriere, sono interessate le compagnie di investimento straniere Horizon Capital e East Capital,   a cui sono direttamente legati Yares\'ko e Abromavicius.

...All\'esterno dell\'Ucraina ci sono anche altri potenti super-oligarchi interessati al sequestro delle terre ucraine. Così, il noto George Soros ha recentemente espresso il desiderio di investire, a questo scopo, 1 miliardo di dollari. Ha mostrato interesse per le nostre terre anche il fondo di investimento Rothschild, che da molto tempo può contare sulla collaborazione della famiglia di Poroshenko”.

(Dalla Dichiarazione del Presidium del CC del Partito Comunista di Ucraina)


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Ucraina ed Europa, che cosa fare?

Il finanziere e la riflessione sulle cinque crisi Ue (migranti, Grecia, euro, Ucraina, Brexit)

di George Soros, 26 settembre 2015

A causa dei difetti strutturali dell’euro, le autorità europee sono dovute diventare esperte nell’arte dell’arrangiarsi tra una crisi e l’altra. Tale pratica è conosciuta in gergo come “menare il can per l’aia”, anche se, ad essere precisi, il cane continua a ritornare indietro. Ma l’Europa ora deve affrontare per lo meno cinque crisi allo stesso momento: quattro interne - l’euro, la Grecia, i migranti e il referendum britannico sul rimanere o meno nell’UE - ed una esterna, l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina. Le varie crisi tendono a rinforzarsi vicendevolmente. Sia le opinioni pubbliche che le autorità sono sopraffatte. Che si può fare per arrestare e invertire il processo di disintegrazione? E’ ovvio che non si riesce a risolvere cinque crisi tutte allo stesso momento. Bisogna in certo modo assegnare priorità ad alcune di esse senza però trascurarne nessuna. Io ho sempre sostenuto con forza che l’Ucraina merita priorità assoluta. 

La Ue e le crisi interne


Le crisi interne tendono a dividere l’UE in paesi debitori e creditori, il Regno Unito e il resto d’Europa, nonché in paesi “arrivo” e paesi “destinazione”. D’altra parte, una minaccia esteriore come l’aggressione russa contro l’Ucraina dovrebbe unire l’UE. C’è una nuova Ucraina che è determinata a diventare l’opposto della vecchia Ucraina. La vecchia Ucraina aveva molto in comune con la vecchia Grecia, che si è rivelata così difficile da riformare: un’economia dominata da oligarchi ed una classe politica che sfruttava la sua posizione ai fini di guadagni personali piuttosto che del servizio pubblico. In contrasto, invece, la nuova Ucraina si ispira allo spirito della Rivolta di Piazza Maidan nel febbraio 2014 e cerca di riformare radicalmente il paese. Trattando l’Ucraina alla stregua di una Grecia di second’ordine, che non è nemmeno un membro dell’UE, l’Europa corre il rischio di far ridiventare la nuova Ucraina ancora una volta la vecchia Ucraina di sempre, e questo sarebbe un gravissimo errore, in quanto la nuova Ucraina è una delle risorse di maggior valore che l’Europa ha, sia per contrastare l’aggressione russa che per ritrovare lo spirito di solidarietà che caratterizzava l’Europa agli inizi. Ritengo di essere nella posizione di sostenere con forza questa tesi, dal momento che ho una profonda conoscenza della nuova Ucraina sia grazie alla mia Fondazione che al mio diretto coinvolgimento nel paese. All’inizio dell’anno ho sviluppato quella che ho chiamato “una strategia vincente per l’Ucraina” e l’ho distribuita tra le autorità europee. Ho anche descritto le linee della strategia in queste pagine. (* «A new policy to rescue Ucraine» The New York Review, 5 febbraio 2015) . Sostenevo che le sanzioni contro la Russia sono necessarie ma non sufficienti. Il presidente Vladimir Putin ha sviluppato una riuscita interpretazione dell’attuale situazione, con la quale difendersi dalle sanzioni. Sostiene infatti che tutte le difficoltà economiche e politiche che la Russia fronteggia sono dovute all’ostilità dei paesi occidentali, che vogliono negare alla Russia la sua dovuta posizione nel mondo. 

La Russia

La Russia è pertanto la vittima di tale aggressione. Questa tesi piace alla popolazione patriota, cui viene richiesto di sopportare le difficoltà in termini di instabilità finanziaria e scarsità di beni causate dalle sanzioni. In realtà, tali difficoltà rafforzano la sua tesi, e l’unico vero modo di smentire Putin è il migliorare l’equilibrio tra le sanzioni contro la Russia e l’appoggio all’Ucraina. La mia “strategia vincente” implica un’efficace assistenza finanziaria all’Ucraina, che abbinerebbe un supporto budgettario di larga scala ed un’abbordabile assicurazione contro il rischio politico, nonché vari incentivi per il settore privato. Combinate alla radicale riforma politica ed economica che la nuova Ucraina è intenzionata ad introdurre, queste misure le consentirebbero di diventare un paese interessante ai fini degli investimenti. Il cardine delle riforme economiche è la ristrutturazione di Naftogaz, azienda statale che detiene il monopolio del gas. Ci si sposterebbe dagli attuali prezzi mantenuti artificialmente bassi a veri prezzi di mercato e si introdurrebbero aiuti alle famiglie bisognose per l’acquisto del gas. Le riforme politiche sono incentrate sul creare un sistema giudiziario e dei mass-media che siano onesti, indipendenti e competenti, il lottare contro la corruzione, nonché l’istituire una pubblica amministrazione che sia al servizio della gente piuttosto che al suo sfruttamento. Queste riforme sarebbero anche gradite a una grande fetta della popolazione russa, che esigerebbe un simile approccio, e questo aspetto è precisamente quello che Putin teme. E’ proprio per questa ragione che ha tentato così radicalmente di destabilizzare la nuova Ucraina. 

Ucraina


Se gli alleati dell’Ucraina abbinassero le sanzioni contro la Russia ad un effettivo sostegno alla nuova Ucraina, non ci potrebbe essere propaganda che oscurasse il fatto che i problemi economici e politici russi non sono che il risultato delle politiche di Putin. Naturalmente, in diretta violazione dell’accordo Minsk-2 dell’11 febbraio 2015, Putin potrebbe impedire il successo della nuova Ucraina con un intervento militare di larga portata, ma ciò segnerebbe una sua sconfitta politica, esporrebbe la falsità della sua interpretazione del conflitto ucraino; inoltre, la conquista militare di parte dell’est dell’Ucraina sottoporrebbe la Russia ad un notevole onere economico e politico. Il presidente Putin ha guadagnato un temporaneo vantaggio tattico sull’Ucraina perché è pronto a rischiare una guerra di larga scala e perfino nucleare, mentre gli alleati dell’Ucraina sono determinati ad evitare il conflitto militare diretto con la Russia. Ciò gli ha consentito di alternare a suo piacimento una sorta di pace ibrida e di guerra altrettanto ibrida, ed egli ha totalmente sfruttato tale vantaggio. L’Ucraina non può prevalere militarmente sulla Russia in quanto il presidente Putin può mobilizzare sul campo di battaglia forze armate che sono maggiori e meglio attrezzate di quelle a disposizione dell’Ucraina e dei suoi alleati. Il presidente ucraino Petro Poroshenko ha dovuto imparare la lezione a sue spese. Ma sicuramente l’Europa e gli USA possono superare la Russia finanziariamente. Queste considerazioni a favore di un sostegno europeo e statunitense hanno avuto un certo impatto sugli alleati dell’Ucraina ma la mia affermazione circa la loro volontà di fornire un sostegno finanziario di larga portata si è rivelata errata, almeno fino ad ora. Attribuisco questo fatto a due fattori: il primo è la crisi greca, una diretta conseguenza della crisi dell’euro ed un cattivo esempio per l’Unione Europea da seguire in Ucraina. 

L’euro

L’altro fattore è l’accordo di Minsk stesso che, per ragioni che spiego oltre, ha indotto le autorità europee a continuare a mantenere l’Ucraina in condizioni finanziarie di ristrettezza. La crisi dell’euro ha determinato una grave scarsità di fondi a scopo di budget. Il budget europeo di 145 miliardi di euro è solo all’incirca l’uno per cento del PIL degli stati membri, ma la crescita dell’Europa è assolutamente minima e i gli stati membri stanno ventilando di ridurre i propri contributi al bilancio europeo. La carenza di fondi si fa sentire più acuta nella zona euro, che non ha un bilancio a sè stante. Le autorità europee, sotto la guida della Germania, hanno mal gestito la crisi greca; all’inizio hanno erogato prestiti di emergenza a tassi di interesse molto elevati, hanno imposto il loro programma di riforme e lo hanno micro gestito invece di lasciare che fosse la Grecia stessa a prendersi la responsabilità ed il controllo delle riforme - e sempre i prestiti sono risultati inadeguati nell’ammontare ed erogati troppo tardi. Le autorità greche non sono peraltro esenti da responsabilità, anche se la colpa principale rimane della Germania, in funzione della sua leadership. Il debito nazionale greco è diventato insostenibile ma le autorità europee non sono disposte a ridurre i loro prestiti alla Grecia. Su questo punto, una disputa tra gli stati membri e il Fondo Monetario Internazionale ha fortemente complicato le negoziazioni recenti ed attuali. Le autorità hanno corretto alcuni dei loro errori, quali ad esempio l’insistenza nel richiedere il “bail in”, la riduzione del valore dell’obbligazione, piuttosto che il “bail out”, il salvataggio. Ma continuano a ripetere altri errori. Il più grave di questi è stato il trattare l’Ucraina come fosse la Grecia. La nuova Ucraina sta cercando di essere il contrario della Grecia e, nonostante non sia uno stato membro, sta attivamente difendendo l’Unione Europea contro la minaccia militare e politica russa. Come ho sostenuto nella mia proposta originale per una strategia vincente, gli aiuti all’Ucraina dovrebbero essere considerati a stregua di spese per la difesa. In questa luce, l’attuale contributo di 3.4 miliardi di euro da parte dell’UE al pacchetto di aiuti del FMI a favore dell’Ucraina è assolutamente inadeguato. 

Lo strumento fiscale Ue


L’UE ha lo strumento fiscale adatto (il meccanismo dell’assistenza macro finanziaria) che, una volta apportate le necessarie modifiche, potrebbe venire utilizzato per superare la mancanza di fondi nel bilancio europeo. Tale meccanismo consente all’UE di prendere fondi a prestito sui mercati finanziari, utilizzando il suo quasi inutilizzato rating a tripla A. Il budget dell’UE deve stanziare solo il 9% dell’ammontare dei prestiti all’Ucraina come riserva non cash obbligatoria a fronte della possibilità di una futura inadempienza. A paragone, le regole di bilancio statunitense prevedono un 44% di riserva non cash obbligatoria sulla recente garanzia sul credito di 1 miliardo di dollari che gli USA hanno fatto all’Ucraina. Pertanto l’onere di budget sul contributo di 2 miliardi di dollari al pacchetto di aiuti del FMI è in realtà più grande di quello dell’UE. Ma l’accordo sul meccanismo di assistenza macro finanziaria è scaduto nel 2009, coll’introduzione del trattato di Lisbona, e necessita di essere rinnovato per un uso su più larga scala. Lo stanziamento dell’1 per cento del bilancio europeo a favore della difesa dell’Ucraina sembra adeguato; ciò consentirebbe all’UE di contribuire fino a 14 miliardi di euro all’anno al pacchetto di aiuti del FMI ed il contributo sarebbe sufficiente a che l’Europa possa fare “tutto ciò che è necessario” a sostegno del successo ucraino. L’accordo Minsk-2 del febbraio 2015 ha fatto seguito ad una pesante sconfitta inflitta all’Ucraina da parte dei separatisti, largamente assistiti dalla Russia. L’Ucraina cercava un cessate il fuoco e ha negoziato in condizioni di coercizione. 

L’accordo Minsk-2 


L’accordo Minsk-2 garantiva uno stato speciale alle enclave separatiste nella regione del Donbass nell’est dell’Ucraina e prevedeva anche che l’Ucraina le sovvenzionasse. Il presidente Putin seppe sfruttare il suo vantaggio e mantenne deliberatamente ambiguo il testo dell’accordo, che richiedeva che il governo ucraino negoziasse con rappresentanti della regione del Donbass, pur senza precisare chi fossero. L’accordo fu firmato dai presidenti Putin, Poroshenko e François Hollande nonché dalla Cancelliera Angela Merkel. Ciò costituì una trappola per questi ultimi due, che volevano che un accordo che portasse le loro firme tenesse; in caso di fallimento, doveva essere la Russia ad esserne responsabile, non l’Ucraina. Erano anche ansiosi di evitare il confronto militare. Questo atteggiamento li portò a tollerare violazioni della tregua da parte dei Russi e dei separatisti e, nel mentre, insistere che l’Ucraina dovesse seguire gli accordi presi alla lettera. Nell’assumere una posizione neutrale sulla questione del come il presidente Poroshenko avrebbe potuto rispettare le richieste dell’ambiguo accordo, Hollande e la Merkel hanno di fatto rinforzato il vantaggio di Putin. Dopo il raggiungimento dell’accordo, l’Ucraina ha sfiorato il collasso finanziario a causa del ritardo con cui fu erogato, l’11 marzo 2015, il secondo pacchetto di aiuti finanziari del FMI. Il punto massimo della crisi fu raggiunto in febbraio, quando il popolo ucraino perse la fiducia nella moneta nazionale, la grivnia. Le transazioni ufficiali vennero sospese e la quotazione in quel momento sul mercato nero era tra 30 e 40 grivnie per un dollaro. Da allora, la moneta ha recuperato e ora il valore è di circa 20-25 grivnie per un dollaro. 

Fattori economici

Una precaria stabilità finanziaria è stata pertanto ristabilita, ma solo al prezzo di una accelerata contrazione economica. Il crollo improvviso del valore di scambio ha comportato un aumento dell’inflazione, il peggioramento della qualità di vita e un sostanziale calo delle importazioni; questo ha influito positivamente sulla riduzione del deficit import/export. Contemporaneamente il bilancio ha risentito positivamente delle minori spese in oneri sociali per la popolazione e stipendi per la pubblica amministrazione. Quando ho visitato l’Ucraina lo scorso aprile, ho notato un’allarmante contraddizione tra la realtà oggettiva, che stava chiaramente deteriorando, e lo zelo riformista della nuova Ucraina che era sotto enorme pressione economica, politica e militare ma che ancora procedeva con le riforme, che stavano raggiungendo effetti cumulativi. Durante il 2014 il programma di riforme per una nuova Ucraina era allo stato di progetto; solo nel 2015 si è visto il risultato di un notevole numero di leggi approvate al fine di soddisfare i requisiti imposti dal FMI e, più recentemente, l’accordo di Minsk. Ciò nonostante, gli oligarchi - quegli industriali che utilizzano la loro influenza politica per arricchirsi - erano più esperti nel difendere i propri interessi di quanto lo fossero i riformisti nel frenarli. Proprio quando l’economia era sull’orlo del baratro e le tensioni politiche a livelli altissimi, il governo ha dovuto far fronte alla sfida del più potente oligarca, Igor Kolomoisky, che ha cercato di usare la sua personale forza militare per mantenere il suo controllo di una società del gruppo Naftogaz. 

Gli oligarchi

Il governo fu messo in condizione di opporre resistenza e riuscì a sconfiggerlo. Quello fu un punto di svolta. Da allora, la banca centrale ha esercitato uno stretto controllo del Sistema creditizio, anche se per la ricapitalizzazione degli istituti di credito ci vorrà del tempo. Altri oligarchi, tra cui principalmente Dmytro Firtash e Rinat Akhmetov, sono stati richiamati all’ordine. Purtroppo questo avviene per casi specifici e non per diretta applicazione di leggi al riguardo. Tentativi di riformare la polizia, introdurre servizi online nel governo e trasparenza nelle acquisizioni e appalti ufficiali stanno facendo progressi. Ma i riformatori stando incontrando difficoltà ad ogni passo e la popolazione in generale è sempre più scontenta della lentezza delle riforme e del continuo peggioramento della qualità della vita. Pertanto la pressione sotto cui operano i riformatori continua ad aumentare e può raggiungere un punto di rottura in qualsiasi momento. La crisi greca ha grandemente intensificato i problemi ucraini col distrarre l’attenzione delle autorità europee dall’Ucraina e col rinforzare la loro tendenza a trattarla come fosse un’altra Grecia. L’effetto sulla cancelliera Merkel è stato particolarmente deleterio. Lei si è comportata come una vera leader europea nel fronteggiare il presidente Putin ma allo stesso tempo è rimasta esitante sul dare un sincero aiuto all’Ucraina. Quando si è trattato della Grecia, ha abbandonato la sua caratteristica cautela allo scopo di evitare che la Grecia uscisse dalla zona euro. Questa posizione le ha causato conflitti con il proprio partito e il suo Ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, che aveva il sostegno del suo partito. 

Accordo ambiguo

Nonostante sia riuscita, almeno per il momento, a mantenere la Grecia in zona euro, ha investito molto del suo capitale politico nel processo. La sua mancanza sarà molto sentita dalla nuova Ucraina, che necessita di tutto il sostegno che riesce ad ottenere per aderire alle richieste degli accordi di Minsk. L’ambiguità dell’accordo ha forzato entrambe le parti in una farsa dove il compito è passare all’altra parte la patata bollente (l’obbligo di fare la mossa successiva). Kiev ha imparato la lezione velocemente. Su spinta dei suoi alleati, ha istituito lo stato speciale delle enclave della Donbass passando una legge che faceva riferimento all’ambiguo testo dell’accordo di Minsk, parola per parola. Questo ha creato problemi finanziari al presidente Putin, privando le enclave di finanziamenti fino a quando non fossero disposte ad indire elezioni in linea con la legge ucraina. Ma sarebbe rischioso da parte degli alleati dell’Ucraina di spingere troppo il presidente Poroshenko a fare concessioni unilaterali ai separatisti. Come recentemente dimostrato dallo spargimento di sangue di fronte al parlamento ucraino, gli elementi ultranazionalisti sono sul punto di ribellarsi. In breve, la condizione politica ed economica della nuova Ucraina è estremamente precaria. Un esame critico dei recenti negoziati con la Grecia rivela dove questi abbiano fallito. La Grecia non avrebbe dovuto avere precedenza sull’Ucraina e l’Ucraina non avrebbe dovuto essere trattata come ancora un’altra Grecia. Una simile analisi dell’accordo di Minsk conduce ad una conclusione più equivoca. Gli alleati europei dell’Ucraina sono caduti in una trappola ma la conseguente situazione di impasse ha portato un importante beneficio: ha bloccato la Russia dal portare le sue violazioni del cessate il fuoco oltre il punto in cui possa negarle. Sarebbe un peccato perdere tale vantaggio. 

L’Ue e l’Ucraina

Questa analisi conduce logicamente ad una nuova strategia vincente per l’Ucraina, che merita di ritornare in cima alla lista delle priorità europee proprio perché la nuova Ucraina è una delle sue grandi risorse. Si dovrebbe cercare in tutti i modi non solo di mantenere la nuova Ucraina, ma di assicurarne il successo. Se grazie agli aiuti all’Ucraina l’UE riuscisse a respingere in modo effettivo la minaccia russa, allora gran parte degli altri problemi dell’UE si sistemerebbero; se fallisse, gli altri obiettivi si allontanerebbero sempre di più. Come si può assicurare il successo della nuova Ucraina? L’analisi sulla quale si basava l’originale strategia vincente è tuttora valida. E’ sempre stato ed è tuttora chiaro che il presidente Putin può sempre dimostrare alla Russia di essere più potente dell’Ucraina e dei suoi alleati, incrementando il suo utilizzo della forza. L’Ucraina non è in grado di prevalere militarmente sulla Russia. Ciò significa che non può riappropriarsi del territorio perso, per lo meno nel breve periodo, ma può mantenere la sua integrità morale e politica. E quando si è davanti ad una tale scelta, la seconda opzione è di gran lunga la più importante. La nuova Ucraina è impaziente di imbarcarsi in radicali riforme politico-economiche. Dispone di una vasta popolazione e di un esercito di provata efficienza desideroso di difendere l’Unione Europea per il tramite della autodifesa. Inoltre, lo spirito di volontariato e di sacrificio personale, sul quale si fonda la nuova Ucraina, è un bene altamente deperibile: una volta perso, ci vorrà almeno una generazione per ripristinarlo. 

Merkel

La cancelliera Merkel ha posto l’integrità politica e morale della nuova Ucraina sotto enorme pressione forzando il presidente Poroshenko ad osservare l’accordo di Minsk alla lettera, anche se il presidente Putin non lo fa. Peraltro la conseguenza positiva è il contenimento del conflitto armato, e tale buon risultato deve essere mantenuto. Il raggiungimento di un certo grado di stabilità politica e militare deve essere uno degli obiettivi di una strategia vincente. E’ la seconda parte della strategia vincente che manca. Gli alleati dell’Ucraina devono decidere e dichiarare che faranno “tutto ciò che è necessario” per consentire all’Ucraina non solo di sopravvivere, ma di introdurre lungimiranti riforme politico-economiche e prosperare, nonostante l’opposizione del presidente Putin. Questo approccio necessiterebbe di sostanziali maggiori finanziamenti di quelli disponibili nel budget europeo. I due rami di questa “strategia vincente” aggiornata - il mantenere il conflitto militare sotto controllo e l’erogare adeguati finanziamenti all’Ucraina per compiere riforme radicali - devono venire gestiti con cautela, in quanto potrebbero interferire tra loro. La strategia originale richiedeva agli alleati dell’Ucraina di dichiarare il loro impegno a fare “tutto ciò che è necessario” alla fine di giugno, in concomitanza all’estensione delle sanzioni contro la Russia. L’UE ha mancato quella scadenza. La prossima occasione si presenterà alla fine dell’anno e dovrebbe essere condizionata alla promessa di ridurre le sanzioni se la Russia rispetta gli obblighi secondo gli accordi di Minsk. L’offerta di una significativa ricompensa materiale alla Russia per rispettare gli accordi di Minsk, nonché l’uscita salva faccia dal conflitto con l’Ucraina accresceranno le possibilità di successo. Negli ultimi mesi, la prospettiva che l’accordo di Minsk possa tenere è visibilmente migliorata. La debolezza dei prezzi del petrolio e l’ulteriore ribasso del rublo hanno ulteriormente posto pressione sull’economia russa. Ma il fattore decisivo è stato il declino nella produzione russa di petrolio, che è costantemente calata anno dopo anno e, per la prima volta, sia la quantità che la qualità della produzione petrolifera è calata quest’anno nei mesi di giugno e luglio. 

Effetto delle sanzioni

Questo significa che le sanzioni stanno avendo effetto e che la mancanza di parti di ricambio porta ad un accelerato esaurimento delle esistenti aree petrolifere. Putin potrebbe risarcire i suoi compari per le loro perdite finanziarie, permettendo loro di prendersi le proprietà degli oligarchi meno affidabili; ma l’unica via per arrestare il generale declino dell’industria petrolifera è riuscire a far rimuovere alcune delle sanzioni dall’occidente. Questa considerazione ha ora maggior peso della minaccia costituita dalla futura prosperità ucraina. Il fatto che il periodo di massima tensione sia passato senza un attacco militare di larga scala indica che Putin ha deciso di utilizzare mezzi più sofisticati per destabilizzare la nuova Ucraina. E’ perciò ancora più essenziale che gli alleati dell’Ucraina adottino la strategia vincente modificata che ho qui delineato. Il cambiamento nell’atteggiamento di Putin dà loro un più ampio margine di manovra. Gli alleati possono fornire un immediato sostegno finanziario all’Ucraina, così da alleviarne la pressione economica e politica, senza provocare contromosse da parte della Russia. E devono altresì preparare il terreno per una dichiarazione entro la fine dell’anno che prometta di fare il necessario per assicurare il successo della nuova Ucraina. Ciò significa che devono cominciare a stabilire un piano di lavori per un nuovo Meccanismo di Assistenza Macro finanziaria ora, in quanto ci vorranno parecchi mesi per completare il processo, che non può cominciare senza la previa approvazione del Ministro delle Finanze tedesco. Ci sono dei positivi segni che la cancelliera Merkel si sta muovendo nella giusta direzione. Lei si è spinta ben oltre i canoni dell’opinione pubblica tedesca e del mondo industriale e finanziario quando ha usato la sua posizione di potere nel forgiare l’unanimità europea sull’imposizione di sanzioni alla Russia. L’opinione pubblica tedesca si riallineò con lei solo dopo che l’aereo malese precipitò in Ucraina. Decise di assumersi un rischio politico non caratteristico con il fine di mantenere la Grecia in zona euro. Dovette fronteggiare un’intensa opposizione interna, ma ciò non le impedì di compiere un altro coraggioso passo annunciando che la Germania avrebbe accolto e gestito non meno di 800.000 migranti nel 2015. Facendo questo, la Germania ha dato un positivo esempio da seguire da parte degli altri stati membri; ha anche implicitamente abbandonato il Regolamento di Dublino, che impone ai richiedenti asilo di essere registrati e di rimanere nel paese di ingresso, causando pertanto attrito tra i paesi di “arrivo” e “destinazione”. 

Migranti

Questo ha comportato un sostanziale cambiamento nell’atteggiamento pubblico verso i richiedenti asilo. C’è stata un’effusione di compassione che, scaturita in Germania, si è diffusa nel resto d’Europa. Se questa tendenza si rafforzasse, potrebbe portare a una positiva risoluzione della crisi dei migranti. La cancelliera Merkel ha correttamente osservato che la crisi dei migranti avrebbe potuto distruggere l’UE, in primo luogo decretando il fallimento degli accordi di Schengen, che sanciscono la libera circolazione all’interno dell’unione, ed in fase successiva danneggiando il mercato comune. Una continuazione idonea delle sue recenti assunzioni di rischi sarebbe l’abbinamento di fermezza nei confronti della Russia con maggiore fiducia e sostegno all’Ucraina. Gli USA sono già maggiormente dediti alla nuova Ucraina che la maggior parte dei governi europei; il presidente Obama potrebbe avere un ruolo molto importante nel persuadere la cancelliera Merkel a muoversi in tale direzione. Con il loro sostegno abbinato, la nuova strategia vincente per l’Ucraina ha una realistica possibilità di successo. E il successo dell’Ucraina dovrebbe fornire l’impulso all’UE a trovare una soluzione positiva agli altri problemi che deve affrontare. La coraggiosa iniziativa della cancelliera Merkel nei confronti dei richiedenti asilo potrebbe avere degli effetti di lunga gittata. Ha sfidato il partito tedesco opposto all’euro, ma tale partito era già diviso sull’opposizione all’immigrazione ed è probabile che possa sciogliersi, vista l’enorme compassione pubblica per i richiedenti asilo. A sua volta, questo potrebbe incoraggiare il presidente Hollande a sfidare il Fronte Nazionale in Francia, partito diviso dall’ostilità tra il suo fondatore e la figlia; e potrebbe ispirare il primo ministro Cameron a placare con successo l’agitazione anti-immigratoria dello UKIP. Lo scenario politico europeo potrebbe trasformarsi. C’è il pericolo che la preoccupazione europea per la crisi dei migranti possa ancora una volta distogliere l’attenzione da quella che, a mio parere, è una questione ancora più importante: il destino della nuova Ucraina. Questo costituirebbe un tragico errore. Come ho spiegato qui, la nuova Ucraina è la più importante delle risorse che l’Europa ha, la sua perdita comporterebbe un danno irreparabile: potrebbe crearsi uno stato fallito di più di 40 milioni di abitanti, che diventerebbe un’altra fonte di rifugiati politici. Invece, aiutando la nuova Ucraina, l’Unione Europea potrebbe salvare se stessa. Facendo “tutto quello che è necessario” per aiutare la nuova Ucraina non solo a sopravvivere ma a prosperare, l’UE raggiungerebbe due obiettivi: si tutelerebbe dalla Russia di Putin e ritroverebbe lo spirito di cooperazione e solidarietà che alimentava i sogni e gli ideali dei popoli europei quando l’unione fu costituita. La cancelliera Merkel ha già riacceso quello spirito nei confronti dei migranti. Salvare la nuova Ucraina davvero trasformerebbe il paesaggio politico europeo.


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Le lettere di Soros e il “manovratore” della crisi ucraina



di Giampaolo Rossi, 2 luglio 2015

TRE LETTERE HACKERATE
Si chiamano CyberBerkut e sono un gruppo di “hacker” ucraini filo-russi. Negli ultimi tempi ne hanno combinate di tutti i colori: sono stati loro a rendere pubblica su You Tube la famosa telefonata tra Victoria Nuland (responsabile per l’Eurasia della Casa Bianca) e l’ambasciatore americano a Kiev; e sempre loro hanno hackerato siti Nato, violato la mail dell’ambasciata Usa e di molti ministeri ucraini, bloccato telefonini di esponenti del governo di Kiev, danneggiato sistemi informatici.

Un mese fa sono penetrati nel server  del Presidente ucraino Poroshenko e hanno tirato fuori tre documenti firmati da George Soros, il multimiliardario finanziere e filantropo espressione della tecnocrazia illuminata.

Sono tre file importanti che fanno capire chi tiene le fila della strategia occidentalista a Kiev:

  1. una lettera, datata dicembre 2014, indirizzata a Poroshenko e al Primo Ministro Yatsenyuk
  2. un documento, datato marzo 2015, nel quale Soros (che si firma ironicamente: “autoproclamato difensore della nuova Ucraina”) delinea la “strategia globale a breve e medio termine”
  3. un documento non datato di analisi militare.

Nella lettera a Poroshenko, Soros racconta delle pressioni da lui fatte sull’Unione Europea (Juncker e Tusk) e sul Fmi (Lagarde) per concedere ulteriori aiuti all’Ucraina “che ha bisogno di un pacchetto finanziario più grande dei 15 miliardi di dollari attualmente previsto per mantenere il tenore di vita a un livello tollerabile”; ma perché il prestito arrivi occorrono segnali più sostanziosi “nell’intraprendere riforme radicali”. Per fortuna i tre ministri della “nuova Ucraina” (cioè vale a dire i tre tecnocrati stranieri che Soros e Washington hanno messo al governo di Kiev) sono pronti a metterle in campo.

In attesa della decisione del Consiglio d’Europa d’impegnarsi con il FMI, Sorospreannuncia che interverrà personalmente sul ministro del Tesoro americano Jack Law affinché la Fed attui un accordo di currency swap di tre mesi con la Banca Nazionale Ucraina.

(sui tre ministri stranieri e su altre verità interessanti della crisi Ucraina che i media non vi raccontano, vi invito a perdere quattro dei vostri minuti per questo docu-video realizzato per Il Giornale.it; un viaggio senza ritorno dalle vostre certezze).

UN’ANALISI DELIRANTE
Gli altri due documenti chiariscono chi sta alimentando il rischio di una guerra dell’Occidente contro la Russia.
Nel documento di strategia, Soros analizza lo scenario compelssivo e spiega come intende intervenire.
Secondo il finanziere, a Putin non interesserebbe una vittoria militare che gli consegnerebbe solo una parte dell’Ucraina, ma preferirebbe il crollo finanziario (con conseguente caos politico) che destabilizzi tutta l’Ucraina.
Lo scenario che Soros dipinge è delirante: se l’Ucraina crolla, Putin diventerebbe un pericolo per l’intera Europa. Quindi occorre fare tutto il possibile per aiutare la “nuova Ucraina” (cioè la sua) attraverso una doppia strategia: militare (in carico agli Stati Uniti) ed economica (in carico all’Europa).

Da un punto di vista militare gli Usa devono:

  • dare all’Ucraina “assistenza militare letale (…) per resistere alla forza schiacciante di Russia”.
  • rifornire l’Ucraina di armi difensive di sofisticazione pari per contrastare quelle avversarie; “nel linguaggio del poker l’America deve andare al vedo, ma senza rilanciare”
  • addestrare personale ucraino  in paesi esteri (per esempio in Romania), in modo da dissimulare l’attività Nato in Ucraina.

Da un punto di vista economico l’Europa deve:

  • mantenere e rafforzare le sanzioni occidentali contro Mosca (sanzioni che, ricordiamo, secondo l’Istat nei soli primi quattro mesi del 2015 sono costati alle imprese italiane due miliardi di euro)
  • ripristinare “una minima stabilità monetaria e il funzionamento del sistema bancario” preservando l’integrità e l’autonomia della National Bank of Ukraine
  • firmare un accordo quadro  “per destinare 1 miliardo di euro all’anno all’Ucraina da parte della Commissione Europea.

In altre parole gli Usa dovrebbe impegnarsi militarmente in Ucraina più di quanto s’impegnano contro l’Isis; e l’Europa dovrebbe fare economicamente per Kiev quello che non fa per Atene.

LA FONDAZIONE PER LA RINASCITA INTERNAZIONALE
L’interesse di Soros per l’Ucraina non è cosa recente. Furono i suoi soldi (sotto forma di Fondazioni umanitarie e controllo sui media) a finanziare la rivoluzione arancione del 2004 che spinse al potere il suo amico banchiere Juščenko.

L’ingerenza di Soros sugli eventi ucraini è ammessa da lui stesso; in questa intervista alla Cnn del 2014 conferma di aver “creato una Fondazione in Ucraina prima che il paese diventasse indipendente dalla Russia”. La Fondazione “è tuttora attiva; e ha svolto un ruolo importante negli eventi attuali”.
La Fondazione di cui parla Soros è la International Renaissance Foundation, da lui stesso definita “ramo ucraino della Fondazione Soros”, citata nei documenti pubblicati come finanziatore unico del Consiglio Nazionale delle Riforme (NRC) organismo governativo composto da Parlamento, Presidente e società civile e che ora sarà inserita nel Project Management Office l’ente che dovrà gestire i progetti economici ucraini e le attività di riforme statali.

Appare sempre più chiaro che il conflitto in atto tra Occidente e Russia, è voluto e alimentato da circoli finanziari di cui Soros è il referente principale. Liquidare tutto questo come “complottismo” è solo un modo stupido per non ammettere il deficit democratico e il controllo sempre maggiore che una tecnocrazia illegittima esercita sulla sovranità popolare e sui destini delle nazioni; è questo il vero pericolo per l’Europa.



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SOROS: “L’UCRAINA E’ OGGI CIO’ CHE DEVE DIVENTARE DOMANI L’UNIONE EUROPEA”

DI OLIVIER RENAULT

metatv.org

Alla conferenza della sicurezza di Monaco del mese di febbraio 2015, George Soros ha fatto delle rivelazioni su ciò che devono diventare i Paesi della zona euro. A fine febbraio in Ucraina é stata proposta una legge per vietare agli abitanti di criticare o di emettere dichiarazioni contrarie alla politica condotta dal paese. L’Ucraina sembra diventare un terreno di prova per i Paesi che costituiscono l’Unione Europea. L’avvenire della UE con il TTIP (il Partnenariato transatlantico del commercio e dell’investimento), che deve passare di forza senza un referendum popolare sotto la presidenza lettone del Consiglio dell’Unione europea nel 2015, sarà simile a ciò che l’Ucraina è oggi.



Puniti con 3 anni di prigione.

In Ucraina gli abitanti che giudicano la politica del governo di Kiev inumana, suicida, nazista o semplicemente non conforme ai diritti fondamentali, sono minacciati di morte da gruppi che li mettono all’indice e sono passibili di 3 anni di prigione. Da parte di Kiev dunque la democrazia non esiste e non deve esistere in questo nuovo Paese . Più che mai la volontà di secessione degli abitanti del Donbass si trova giustificata, tanto quanto la posizione di Mosca verso la Novorussia. Un membro del partito comunista francese, che ha tradotto alcune riflessioni del partito comunista ucraino che é vietato citare a Kiev, preoccupato dall’avere visto Poroshenko partecipare alla manifestazione di sostegno alla libertà d’espressione a Parigi, la marcia per Charlie, punta il dito su una situazione pericolosa. Leggiamo ciò che scrive: “il deputato del Fronte Popolare Konstantin Mateyshenko, ha deposto un progetto di legge al Parlamento ucraino (Verkhovna Rada) che condanna chiunque critichi il governo. La legge n°2225 propone di modificare il Codice Penale ucraino riguardo gli atti deliberati per sabotare l’autorità dello stato e del governo“. Nell’articolo del comunista francese si legge, “La libertà d’espressione imprigionata. Gli atti illeciti, socialmente pericolosi, che portano danno all’Ucraina come Stato sovrano, l’abuso, la calunnia o altre azioni mirate a sabotare l’autorità dei poteri pubblici, i governi, le associazioni dei cittadini, o qualsiasi elemento strutturale dell’amministrazione pubblica (i suoi organi competenti), devono essere puniti con lavoro coatto per un massimo di due anni e da due mesi a tre anni di detenzione. Alcuni organi di stampa si sono opposti a questa legge ed hanno denunciato la volontà di ridurre la libertà d’espressione. Un’ironia per un governo ritenuto esprimere i valori occidentali ed europei. Tanto più che il presidente ucraino, Petro Poroshenko, era venuto a Parigi per sostenere la libertà d’espressione”.

La fonte é il partito comunista ucraino: “I comunisti (KPU) denunciano la volontà di schiacciare ogni forma di opposizione e di legittimare la repressione politica”. Petro Simonenko, primo segretario del Partito Comunista d’Ucraina (KPU) non é sorpreso da questa legge. “Quando un regime politico porta attacchi senza precedenti contro i diritti dei cittadini, contro i salari, scatena una guerra contro il proprio popolo, ciò causa un’opposizione attiva da parte della popolazione. I deputati del partito al potere (Fronte Popolare) hanno dunque  introdotto un progetto di legge che prevede una punizione per i cittadini che criticano il governo a tutti i livelli. Criticare il governo o il parlamento ci manda in prigione. Denunciare l’inefficacia dei funzionari ci manda in prigione. Lottare contro la corruzione del potere, che mina la propria stessa credibilità, ci manda in prigione. Non vi piacciono le gang e le atrocità naziste nel paese e criticate un’*associazione di cittadini*? Siete passibili di detenzione” dichiara Petro Simonenko. “Infatti, sono convinto” dichiara il leader comunista “che il progetto di legge N°2225 miri a distruggere ogni opposizione, esso viola i diritti civili fondamentali, specialmente Europei”.

“Il progetto di legge N°2225 é una strada diretta verso la dittatura. E’ l’inizio della persecuzione dei giudici che rifiuteranno di piegarsi alle ingiunzioni del potere. L’ultimo esempio viene dai giudici del tribunale amministrativo del distretto di Kiev, che hanno rifiutato la proibizione del partito comunista. Ma l’Europa e gli Stati Uniti volgono deliberatamente gli occhi altrove, per loro esistono due pesi e due misure”.

La televisione russa mostra come esempio il caso di un’insegnante universitaria della città di Leopoli, che fu Lemberg sotto l’Impero Austriaco, minacciata di morte dai suoi stessi studenti. L’insegnante si era soltanto mostrata critica verso la guerra in Ucraina. “Le autorità hanno incitato gli studenti dell’università a radunarsi contro la donna e a perseguitarla. L’insegnante deve nascondersi dai suoi studenti

(Message over 64 KB, truncated)


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[Un intervento dell\'ex presidente montenegrino e premier jugoslavo Bulatović sulla eredità politica di Milošević, e polemiche attorno al 30.mo anniversario dell\'VIII. Comitato Centrale della Lega dei Comunisti della Serbia, sul quale si è tenuta anche una iniziativa-dibattito a Belgrado il 22.9.2017 al Press Centar UNS, con interventi di P. Škundić, Z. Andjelković Baki, A. Rastović e R. Radinović, il cui video è visionabile all\'indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=ZCmA2m7rkRE ]


Pitanje Miloševićevog nasledja

1) Godišnjica Osme sednice ЦКСК Србије
2) M. Bulatović: Да ли је вријеме за изјашњавање о Милошевићевом наслеђу?


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Isto pogledaj: 
30 godina od 8. CK SKS (Press centar UNS / Udruzenje Sloboda, 22.9.2017.)

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http://www.sloboda.org.rs/reagovanje8sednica.html

Реаговање Удружења „Слобода“ на дводневну емисију РТС о Осмој седници ЦКСК Србије  

ПЕРФИДНЕ ОБМАНЕ И ЛАЖИ ЖУТЕ ТЕЛЕВИЗИЈЕ

Како се перфидно манипулише, изврћу историјске чињенице, покушава безочно обманути јавност на штету Србије и српског народа, показала је РТС у дводневној емисији 3.и 4.октобра, посвећеној чувеној Осмој седници ЦК СК Србије.  
Кристално је јасно да је емисија припремана и рађена са очитом намером да се сатанизује и оцрни Слободан Милошевић и свенародна подршка политици која је раскрстила и рекла ДОСТА, старој политици разбијања, понижавања и издавања Србије.  
Тако је више од две трећине емисије посвећено члановима поражене струје Ивана Стамболића и њиховој наводној истини. Очита је намера стварних аутора ове злонамерне и тенденциозне пашквиле, директора Драгана Бујошевића и главног уредника Ненада Стефановића. Зато није ни мало чудно да су им фаворити и савезници: Азем Власи, који бесрамно устврди да тада Србе и Црногорце на Космету нико није малтретирао; Дража Марковић, Живан Берисављевић, Борис Мужевић... тадашњи велики демократе и пророци.  
Време је најбољи показатељ а историја учитељица живота.  
Поражена струја са Осме седнице, која се преко ЖУТЕ странке Петооктобарским пучем, диригованим и финансираним од оних који су бомбама убијали и разарали Србију, а који су је од тада зајахали уништавајући и пљачкајући Српску државу и народ, покушава да српској јавности, као кукавичје јаје, наметне лажну и искривљену слику новије српске историје и стварности.  
Очито да то они чине, како многи у Србији тврде, обимно користећи “пронатовску РТС“, у којој имају велико и пресудно упориште. Добро зна српска јавност истину о Осмој седници и догађајима од пре тридесет година. Уосталом први пут до тада седницу је преносила Телевизија Београд.  
Овом смишљеном и преваранском пашквилом уредништво РТС је директно оптужило Србију и српски народ за распад Југославије, налазећи главне и блиске савезнике међу албанским сепаратистима и војвођанским аутономашима, који данас бесрамно цртају заставе Каталоније широм Војводине.  
Jош увек је доста живих судионика и новинара који су пратили ову историјску седницу, али, њихова аутентична сведочења не занимају Националну Телевизију... За њих је кључни сведок и арбитар, а уствари стварни аутор, нико други до њихов главни уредник Ненад Стефановић. То је еклатантан пример злоупотребе и приватизације Јавног сервиса свих грађана Србије.  
Осма седница није била, како тврдите, никаква „борба за власт“, “обрачун другова“, или „обрачун две струје у врху Државе и Партије“, наводни „обрачун између „демократске и ауторитарне Србије“...  
Осма седница је била сублимирани напор да се одговори на вишегодишњу кризу. Кључни проблем, као и данас, било је стање на Космету, где су Албанци насиљем над Србима и Црногорцима драматично мењали демографску структуру становништва, тежећи насилном отцепљењу и стварању албанске државе на српској територији. Косово и Метохија су били врх леденог брега, чији су појавни облици сепаратизма ескалирали до те мере да су се морали решавали брзо и ефикасно због животне угрожености српског народа. То је истина и никакве манипулације и лажи жуте пронатовске елите то не могу променити. То не може променити ни такозвани Јавни сервис грађана Србије, са чијом се злонамерном уређивачком политиком, ни ми, као и Александар Вучић, председник Републике Србије, ни у чему не слажемо. Уверени смо да је то мишљење и већине грађана Србије.  
Овом перфидном преваром, препуном лажи и манипулација, кројењем и прекрајањем изјава појединих учесника Осме седнице, РТС повампирује катастрофалну ДОС-овску политику, подржавајући терористе и сепаратисте, осуђујући актуелну политику Председника и Владе Србије окренуту помирењу у региону. Уредништво Радио телевизије Србије је овим показало и доказало чији је јавни сервис.  
И на крају: Осма, нити било која седница не ствара лидера, нити вођу. Лидера и вођу може створити само народ. 

[Udruzenje Sloboda, 7.10.2017.]


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Да ли је вријеме за изјашњавање о Милошевићевом наслеђу?

Пише: Момир Булатовић 

Улога Слободана Милошевића је била вишеструко значајна и немогуће ју је и даље третирати прећуткивањем.


Позив Александра Вучића, предсједника Републике Србије, на широки дијалог око Косова и Метохије са циљем да се утврди највиши могући степен националног јединства о том животно важном питању, заслужио је пажњу и реакције многих актера политичког живота. Не само у Србији. Разумије се да су ствари тек на почетку и да ће бити нужно наставак пропратити са највећом пажњом.

Власт има последњу реч о Косову

Позив на дијалог са првог мјеста у државној управи увијек заслужује похвалу, а нарочито када се ради о сложеном, а важном питању као што су одлуке о државној политици према Космету, као саставном дијелу територије и услову очувања државног јединства Србије. Посебно ако је намјера позивара да заиста саслуша све аргументе и уколико посједује способност да их, заједно са најширом јавношћу, оцијени по значају. Дијалог би тада постигао пуни смисао будући да би одлуке, које свакако морају донијети изабрани представници државе, имале веће шансе да буду озбиљно промишљене и усклађене са виталним државним интересима. Али, важно је имати у виду – било дијалога, или не, био он плодотворан или јалов, одлуке ће увијек припадати актуелном државном врху. И слава и срамота.

Кључне ријечи позива биле су реалност (која мора бити уважена) и митови (којих се, коначно, треба ослободити). То допунско објашњење није појаснило, већ је додатно повећало недоумице. Јер, већ се то видјело, реалност није једнозначна и за све актере иста. За неке су митови реалност, а реалност је за друге митска. Ипак, у том очекиваном колоплету истина и заблуда, стварности и привида, појављују се питања о којима се најрадије ћути. Иако се односе на несумњиву и прилично болну реалност, нераскидиво везану уз тему расправе.

Једно од њих је оцјена политике коју је према КиМ спроводио и персонификовао Слободан Милошевић. Од измјена Устава Србије и повратка КиМ у јединствени државни поредак, до оружане борбе против терористичке ОВК и НАТО агресора. Да ли је он био ратни злочинац, или борац за очување своје државе? До када може да траје завјера ћутања о чињеници да је, супротно законима ове државе, Слободан Милошевић био изручен Хашком трибуналу, да би тамо био свирепо уморен?

Да ли је 5. октобар 2000. године био почетак новог демократског „прољећа“ или се радило о наставку агресије коју је извршио НАТО? Коначно, од каквог је значаја чињеница да је Зоран Ђинђић, премијер Србије и дугогодишњи миљеник Запада, убијен у времену када је показао пуну одлучност да брани Косово и Метохију као нераздвојни дио Србије?

Питање Милошевићевог наслеђа

Неки одговори су већ дати, иако тек у назнакама. Након превише времена, државни врх Србије се придружио обиљежавању успомене на херојство војника са Кошара. Уз обећање да ће им убрзо бити посвећено трајно и достојно обиљежје. Коначно! Јер су такви хероји све то и још много више заслужили. Али ако су они хероји (што је несумњиво), зар такви нису и њихови команданти генерали Лазаревић и Павковић? И њихов врховни командант – Слободан Милошевић! Зар није тачно да је тзв. Ослободилачка војска Косова (ОВК) била на листи терористичких организација Стејт департмента САД у време када је СР Југославија почела борбу против ње?

Да ли је већ заборављено признање наших ондашњих противника, дато још 2005. године изјавом Строуба Талбота, замјеника државног секретара у Клинтоновој администрацији и главног америчког преговарача током рата?

„Док су нације широм региона тежиле да реформишу своју привреду, ублаже етничке тензије и успоставе грађанско друштво, Београд као да је уживао у континуираном кретању у супротном правцу. Није нимало чудо што су се Југославија и НАТО нашли у сукобу. Најбоље објашњење за рат који је НАТО започео јесте отпор Југославије ширим трендовима политичких и економских реформи, а не тежак положај косовских Албанаца.“

Улога Слободана Милошевића је, дакле, била вишеструко значајна и немогуће ју је и даље третирати прећуткивањем. Претходни предсједници Србије, Борис Тадић и Томислав Николић, ипак су се били опредијелили да о њој не говоре. Разумије се, то је више рекло о њима и њиховим способностима, него о самом Слободану Милошевићу. На реду је Александар Вучић. Готово да је прозвао сам себе.




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(english / deutsch / italiano)

3 ottobre 1990–2017: l\'Anschluss della DDR

1) Interview with the GDR’s Margot Honecker (2015)
2) Germania, Merkel in imbarazzo. Cresce la nostalgia per la Ddr (AffariItaliani.it, 2016)
3) FLASHBACK: Erich Honecker beim chilenischen Botschafter (1992)


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Interview with the GDR’s Margot Honecker — ‘The past was brought back’

By Workers World staff posted on November 16, 2015

Concerning the counterrevolution in 1989 in the German Democratic Republic (GDR), the return of capitalist disorder after its demise, holding a scientific world outlook, and the struggle of the Greek people against the dictatorship of the monopolies. An interview with Margot Honecker.

Interview: Antonis Polychronakis

Margot Honecker, born in 1927, former minister of education of the German Democratic Republic and widow of longtime Socialist Unity Party (SED) Secretary General and GDR State Chairperson Erich Honecker (1912-1994), had not commented publicly for a long time from her self-chosen place of exile near Santiago de Chile. In October, however, the Athenian and Macedonian News Agency (ANA-MPA) published the following interview in highly abbreviated form (the long version, published here, was reserved for subscribers). The German daily newspaper Junge Welt published the complete interview exclusively in the German language, and thanks the Greek colleagues for their kind permission to print. 

Workers World thanks both Junge Welt and the Greek journalists for permission to publish this interview, which contains much information about the history of the German Democratic Republic and its position on the front line of the class war between two social systems from 1945 to 1989. Translation from German by Greg Butterfield and John Catalinotto.

Antonis Polychronakis: How did the events of 1989 come about? How did you and your spouse personally experience them?

Margot Honecker: If you mean by “the events of 1989,” those of the fall of that year, and particularly the events in the GDR, which I describe as a counterrevolution, one would have to write books about it. And many indeed have already been written. That cannot be described adequately with a brief answer. Perhaps only this: There was an objective link between foreign and internal political factors. The arms race the United States in the Reagan era forced upon the Soviet Union reached its desired objective: that the Soviet Union armed itself to death. The consequent economic burden for the USSR led to serious social dislocations in the country, which meant that the leading power of the socialist camp could hardly do justice to its domestic and foreign policy responsibilities. The Soviet Union tried to regain mastery of its situation through reforms, and these were initially well intended. But soon the so-called reformers grabbed hold of the central foundations of politics and economics and steered a course toward economic disaster and the destabilization of society. The end result was the surrender of all Soviet achievements. It was not only that these changes were applauded in the West. Also, in some socialist countries neighboring the GDR, “reformers” were active and were supported by the West.

The GDR was involved in this global conflict. In the end, it was part of the socialist community. And in the 1980s, the GDR was also faced with the need to develop or correct its economic policies. There were shortcomings in supply, deficits in social life, which led to dissatisfaction. We have not always done our homework properly — partly from our own inability, partly we were blocked.

Obviously, we were unable to convince people and make them conscious of the actual social progress we made compared with a capitalist society dependent on exploitation, oppression and war. So many in the GDR believed they could join together the glittering world of commodities under capitalism and the social security of socialism. But, as Erich Honecker said in various speeches, capitalism and socialism are as hard to unite as fire and water.

How did we personally experience this? With concern for the future of all those people who had built with their labor this peaceful democratic republic, which had taken the difficult path, starting from the ruins of the fascist war and Nazi ideology. And personally, after his resignation in October, my husband was relieved of all his political functions. I resigned as national education minister even before the GDR Council of Ministers resigned in early November.

AP: How do you explain the “uprising” of the East Germans, as it is called in the West?

MH: It was not an “uprising.” There were demonstrations, but the workers were working on their jobs, the children went to school, social life continued. Most people who went into the streets in the fall of 1989 were expressing their dissatisfaction. They wanted to make changes and improvements. They wanted a better GDR. They were not demonstrating for its abolition. Not even the opposition wanted that. That there were also hostile forces among the opposition, which mainly gathered under the roof of the Church, cannot be denied. It is clear that the Federal Republic of Germany (FRG, West Germany–Junge Welt) was able to manipulate those who were discontented and finally to steer the movement for a better GDR. From the cry of “We are the people!” it became “We are one people!” In this way they found the lever they had been looking for since the beginning of the existence of the GDR, that of their declared intention to “liberate” the citizens in the East. Regarding this, we should remember: The Western powers have — working in conjunction with German capital and its pliant politicians — first split Germany and then baptized the German Federal Republic. That contradicted the sense of the provisions of international law making up the Potsdam Agreement of the four victorious powers in 1945, which required a unified democratic Germany.

We, that is, all the progressive forces of Germany, wanted the entire Germany to be a democratic, anti-fascist state. We never surrendered this goal, but were unable to reach it. The founding of the GDR was the result. Resurgent German imperialism fought by all means against it, and in 1989 it saw its opportunity to eliminate the GDR, the other Germany. For forty years it had failed to do this. It was only when the Soviet Union, which had allied with us, then dropped the GDR, that the Federal Republic was successful.

What ignited the fuse on the powder keg in 1989 was the increasing exodus of citizens of the German Democratic Republic to the Federal Republic of Germany. The West used all means available to fuel this. We had not managed to put plans to ease travel restrictions into place early enough. Even before 1989, GDR citizens had gone to the West, which reached out and recruited highly educated people. The motives for going to the West were different. Of course, the appeal of consumerism and free travel played a major role. West German propaganda never tired of claiming that those who left the GDR were voting with their feet against socialism. From 1990 until today, however, there are three million people who moved there from Eastern Germany, although now the same political conditions exist in the West as in the East. Why?

In the GDR there was no bloodshed, no civil war, no poverty or misery, all these reasons why today hundreds of thousands of people are leaving their homes in the Middle East (West Asia–WW) or in Africa to flee to Europe.

AP: In the West it was referred to as a “peaceful revolution,” but how could a “revolution” have been possible at all in a socialist state?

MH: A revolution, as I understand it, is a profound social upheaval aimed at the radical transformation of social relations and the liberation of the masses from exploitation and oppression. In this respect, overcoming the reactionary imperialist relations in Russia in 1917, or the creation of an anti-fascist democratic order in 1945 in the Soviet occupation zone in Germany, were revolutions. Capital was deprived of its power to continue to rule over the people. If a reversal is carried out of the social and production relations that had been overcome earlier, and that’s what happened, that cannot be considered a revolution. It is, on the contrary, a counterrevolution.

Let me remind you that the socialist GDR was a guarantee of peace in Europe. It never sent its sons and daughters to war. The Federal Republic of Germany, however, participates in bloody wars that the U.S. and NATO instigate throughout the world. French Socialist Jean Jaurès (1859-1914–JW) underlined this connection: “Capitalism carries war within itself like the clouds carry rain.” And not only that. Capitalism also carries the seeds of fascism in itself. We had eradicated the economic roots of war and fascism in the GDR. The west of the country remained capitalist. In 1990, the GDR was absorbed into this society, which has caused so much harm in German history. The past was brought back. No one can name that “revolution.” 

AP: In your view, what role did [former general secretary of the Communist Party of the Soviet Union–WW] Mikhail Gorbachev play in this development?

MH: A few years ago, Gorbachev said during a lecture in Ankara that he had begun in 1985 to overcome communism. You can believe that or not. It is clear that, with his policy, he gambled away recklessly what the peoples of the Soviet Union and the other socialist countries had created at great sacrifice. The world was not changed for the better by the disappearance of the Soviet Union. Bloody wars, violence and terrorism are on the agenda. The judgment of history about the work of Gorbachev will not be positive.

AP: On November 9, 1989, the “anti-fascist protective wall,” the Berlin Wall, as the border was called in the West, fell. This year the 25th anniversary of “German Unity” was celebrated. Was the wall’s construction in 1961 necessary or was it a mistake?

MH: The construction of the “wall” was necessary; otherwise, there would have been war. The situation in the world was tense. The U.S. acted aggressively. With the pretext that there was a threat from the East, they further upgraded their military. In the attack against Cuba in the Bay of Pigs [April 1961–WW], the United States had just suffered a defeat. Since the end of World War II, Berlin smouldered, an unresolved issue. There were constant provocations. In June 1961, Khrushchev and Kennedy met in Vienna to negotiate the cessation of nuclear weapons tests and the conclusion of a peace treaty with Germany and the resolution of the West Berlin question. It came to a confrontation. The tone between the great powers intensified. Military maneuvers were held. The threat of war was in the air. And in this situation the border closing had to be taken up.

This was no arbitrary measure by the GDR. This border was a result of World War II, which German imperialism had instigated. The course of the boundaries of the [occupation] zone had been decided in the summer of 1945 by the victorious powers. The formation of a separate West German state, the FRG, (on May 23, 1949–JW), however, completed the division of Germany, and the line of demarcation between the Western zones and the Soviet-occupied zone was a state border.

This was not simply a state border, however, let alone an internal German border, as it always was called in the West. It was the western border of the Warsaw Pact, the Eastern defense alliance, and the eastern border of NATO. Those were the two most powerful military blocs of the world, which were carrying out a Cold War.

The border ran through Berlin — through the city — with its four sectors assigned to the four victorious powers in 1945. But the border in Berlin was open. Therefore, Berlin remained a permanent object of dangerous confrontations among the victorious powers, to the detriment of Berlin and to the detriment of the GDR.

The Political Advisory Committee, which was the governing body of the Warsaw Treaty states, decided in the summer of 1961 to close the border in Berlin and the western state border after they decided a military confrontation could no longer be ruled out. I do not think that one can call the prevention of a possible third world war a mistake.

The creation of clear conditions on the front lines of NATO and the Warsaw Pact facilitated the then incipient détente. It led to the Conference on Security and Cooperation in Europe, whose final accord was signed in 1975 in Helsinki, also by the GDR. It was an attempt to create a system of collective security on the continent. However, as we see today, with the fall of the Soviet Union and stepping up of the eastward expansion of NATO by the United States, this security structure has been destroyed.

AP: Where did you and your spouse witness the opening of the border?

MH: From our apartment.

AP: In your opinion, was (the recently deceased former secretary of the SED Central Committee for Information Science and Media Politics–JW) Günter Schabowski’s announcement of the opening of the border an accident, or was it, as (former West Berlin mayor–JW) Walter Momper claimed during an interview with Berlin Mayor Erhard Krack, known about or planned in advance?

MH: That is beyond my knowledge.

AP: What do you say about those who died at the Berlin Wall?

Yes, people died at the Berlin Wall — refugees and GDR border guards. For every person who has a violent death, it is regrettable. Everyone who died while trying to cross the border illegally was one too many. It brought suffering to the families. The political leaders grieved the death of the young people not less than their relatives, because these youth were not conscious of their responsibility for their own lives or, seduced by Western agents, accepted the risk to cross the border illegally.

After 1990, border guards were put on trial, although they had acted according to the law of the GDR. Even the leaders were tried and imprisoned, including party and state officials who had suffered years in Nazi penitentiaries and concentration camps because they had fought fascism. They were sentenced by FRG justice, which had never removed the fascists from its ranks.

AP: What was good in the GDR, and what should the socialist government have done better in order to save the “first socialist state on German soil”?

MH: In this state, each person had a place. All children could attend school free of charge, they received vocational training or studied, and were guaranteed a job after training. Work was more than just a means to earn money. Men and women received equal pay for equal work and performance. Equality for women was not just on paper. Care for children and the elderly was the law. Medical care was free, cultural and leisure activities affordable. Social security was a matter of course. We knew no beggars or homelessness. There was a sense of solidarity. People felt responsible not only for themselves, but worked in various democratic bodies on the basis of common interests.

The GDR was not a paradise. There were defects that complicated daily life, shortcomings in supply, and deficiencies in everyday political life. There were decisions made at various levels in which the people concerned were not always included. However, compared with the conditions now prevailing in most capitalist countries, it was close to heaven. More and more people who experienced life in the GDR understand that. After 25 years, a generation has now grown up which has no living memory of the GDR, because they’re too young. This suits the FRG propaganda: Forget about it. The longer the GDR is history, the thicker the lies that are spread about it.

To return to your question. We would have done much better had we talked openly with the people about the serious issues, about the worsening situation. You need to include them in solving problems. But whether we could have saved the GDR under the circumstances prevailing at that time — that’s doubtful.

AP: Much is said about the Stasi. How do you explain its existence in a workers’ and peasants’ state?

MH: First of all: It was necessary. The first workers’ and peasants’ state on German soil was a thorn in the capitalists’ side. They fought it by every means. From the outset, the GDR was under attack. Sabotage, infiltration by agents who did not shy away from acts of terrorism, was the order of the day. All the intelligence services in the world were sitting in West Berlin. On Teufelsberg [A hill in West Berlin, site of a major National Security Agency surveillance station during the Cold War–WW], the Americans listened hundreds of kilometers into the East. 

The GDR maintained foreign intelligence and defense under the umbrella of the Ministry of State Security. That was a legitimate and legal institution, which exists in all other countries on earth. The “Stasi” was blown up into a monster after 1990, its employees denounced, lies spread about them and their institution, books printed, films produced and museums set up to spread horror stories about the terrors that the “Stasi” allegedly committed. 

Slowly citizens are recognizing that monitoring and spying by secret services today is far more intense and total than anything the small GDR could afford or want. As long as the GDR had to resist the attacks of hostile forces, state security was a necessity. There’s no longer a GDR, so you do not need a “Stasi” any more. I think intelligence services are currently not only more dangerous than they were then, but also unnecessary. They ought to be abolished worldwide.

AP: You are personally accused of militarizing schools in the GDR as minister of education by introducing civil defense lessons. Is that true? 

MH: It’s not surprising, however, that I’m not accused of having participated in an education system where all children between three and six years attended preschool and then primary school, where they were taught by well-trained educators in the spirit of humanism, peace and respect for other peoples. Yet because there were a few hours of civil defense classes, does that mean I militarized the whole education system?

The introduction of these classes sprang from a common opinion of the responsible ministers, myself included, that it would be useful to provide some basic knowledge before military service, in accordance with our legal obligation for 18 months of mandatory service for young men in high school. Maybe it was not our best idea, but hindsight is always easier.

AP: Do you remain loyal to Marxism-Leninism and still call yourself a communist, and, if so, why?

MH: I not only consider myself one — I am a communist. Loyalty is probably not the appropriate term.  Marxism-Leninism is an ideology, a method of investigation to understand the world, the laws according to which it moves, so you can orient yourself in the world. Some believe in a divine will, others in a predetermined fate. We communists are materialists. We follow a scientific outlook, which assumes that the society and everything that arises in it are the work of human beings. Exploitation and oppression are neither divinely ordained, nor are these evils acceptable. We have to fight for a humane, fair, peaceful world, and today that is more urgent than ever. We must refuse to allow that people perish from war, hunger and disease, and that natural resources and the livelihood of the people be depleted or destroyed by ruthless capitalist exploitation, solely for profit. If humanity is to have a future, the power of the banks and corporations must be broken. They will not give up their power voluntarily.

AP: Do you still maintain contact with your former comrades, such as the German Communist Party (DKP) or the Greek Communist Party (KKE), or with others?

MH: I am most closely associated with the German Communist Party and the Communist Party of Germany (KPD), as well as comrades from the Left Party. I have many contacts with citizens in Germany — people I have never met in person — who write to me today. Some visit me here in Santiago de Chile. Thanks to the Internet, I have connections in all directions and they inform me about everything that happens in the world. To live in the Andes in South America doesn’t mean to sit on the moon.

AP: How do you evaluate the current developments in Europe, especially in Greece, both the economic — keyword: tough austerity – and political — keyword: Syriza in power — situation?

MH: Objection: Syriza indeed took over the government, and won again, but it has no power. The power in Greece still belongs to domestic and increasingly to foreign capital.

This Europe is divided between those above and those below, between rich and poor, between wealthy and impoverished countries. The rivalries of the great powers for dominance and profits are increasing. From the beginning, this Europe has been a project of monopoly capital, an imperialist structure to consolidate its power. The policy of democratic and social degradation is enshrined in the EU treaties, dictated by the interests of multinational corporations. The strong states push the weak to the edge, into the abyss.

Among the left there was an idea that this Europe could be reformed. But the extortionate attitude of the European authorities towards Greece has demonstrated that this is an illusion. Those who dictate to the Greeks demand privatization according to the model of the GDR economy, by means of a trust agency and privatization. In the GDR, this instrument has done great evil. Factories were shut down and powerful enterprises returned to the corporations from which they had once been taken by referendum after the war and transferred to public ownership. The result was a massive deindustrialization of the GDR. Hundreds of thousands lost their jobs overnight. Pure capitalism was imposed on the GDR, the East. Also in West Germany, the rights won by the workers began to be dismantled, because the socialist state next door had disappeared. 

With concern, I watch the dictatorship of the monopolies growing steadily and aiming to raise German imperialism to the hegemonial power of the continent. Twice between 1914 and 1945 they tried to achieve this goal at gunpoint and failed. They have never given up their quest for world domination, and have always been and are ready to plunge into military adventures.

I’ve followed the development of Syriza with sympathy, as I join in sympathy with every protest against the dictatorship of the monopolies, any movement that tries to halt this capitalism using democratic rules.

But we must be realistic. The “International of the Powerful” still faces no strong power on the side of the downtrodden and oppressed. Consistent and effective activity by the anti-monopoly left is lacking in European countries, nor is there adequate international solidarity and common alliances.

In Greece, the Empire struck hard and smashed the illusion that this Europe could be reformed. Through these methods no other Europe can arise.

AP: Is socialism still an alternative in general and for Europe in particular?

MH: What else! If humanity does not want to sink into barbarism, it is the only alternative.

AP: How are you living now? You lost the lawsuit against the Federal Republic of Germany for your confiscated assets.

MH: “Confiscated assets” sounds like a big deal. It concerned our savings. We — like all citizens of the GDR — had savings in the bank. You may know that citizens of the GDR had their pensions reduced arbitrarily, and this injustice continues to this day. I receive a normal retirement pension, because even for me, the legal rules for all German citizens apply.

AP: Do you have a message for the Greek people suffering from the harsh measures of the so-called institutions?

MH: I think with feelings of solidarity, sympathy and respect for the people living there. I share some warm memories with Greece, even though I was never there. When I hear Greece, I think of Manolis Glezos, who took down the swastika flag from the Acropolis, as I fought in Germany against the same fascist enemy. I think of the Greeks who were given asylum in the GDR, especially the Greek children who found a home with us, when the fascist colonels staged a coup in 1967. I think of Mikis Theodorakis, whom hundreds of thousands of children from the GDR sent solidarity cards to in jail. His music, the music for the “Canto General” of the Chilean, Pablo Neruda, which rang in the GDR, also moved me.

Greece has survived many difficult trials in its history. I think it will survive this too. We say: those who fight may lose — but those who do not fight have already lost. And the Greeks know how to fight for their rights and for their home, as they have proven repeatedly in their history. The solidarity of many friends around the world is with them.

(Source: www.jungewelt.de/2015/11-11/059.php)


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Germania, Merkel in imbarazzo. Cresce la nostalgia per la Ddr

L\'INCHIESTA DI AFFARITALIANI.IT - A dividere la Repubblica Federale non è solo la politica sui migranti. C\'è dell\'altro. Un qualcosa che è intrinseco nella società teutonica, tanto da far arrossire molti politici da Berlino a Monaco di Baviera

Sabato, 30 gennaio 2016

Di Alberto Maggi (@AlbertoMaggi74)


Siamo proprio sicuri che la Germania di Angela Merkel, quella che vuole impartire lezioni a tutta Europa (Italia compresa), sia un paese forte e unito? Non proprio. E a dividere la Repubblica Federale non è solo la politica sui migranti, con il 40% dei tedeschi che vorrebbe le dimissioni della Cancelliera. C\'è dell\'altro. Un qualcosa che è intrinseco nella società teutonica, tanto da far arrossire molti politici da Berlino a Monaco di Baviera. Quest\'anno, a novembre, saranno passati ben 27 anni dalla caduta del Muro del Berlino, eppure basta andare sulla East Side Gallery (la galleria a cielo aperto del Muro) a Friedrichshain, vicino al Oberbaumbrücke, per poter acquistare un vero e proprio frullato (o gelato) originale made in Ddr. Sembra quasi uno scherzo, invece non lo è. E il tutto viene preparato seguendo alla lettera la ricetta originale dell\'Est. La macchina del ghiaccio è una Elke del 1982, anch\'essa originalissima.

Da qualche mese i turisti, ma soprattutto moltissimi ex cittadini della Germania Orientale, vengono quasi ogni giorno alla \'Ddr Softeis\' per gustare il sapore del passato. Un passato ufficialmente morto e sepolto, ma che in molti cittadini continua a vivere. Più forte di prima. L\'abbigliamento di chi lavora nella gelateria Ddr è tipico dei Pionieri, l\'organizzazione socialista dei giovani comunisti del vecchio regime tedesco-orientale. La musica sparata ad alto volume è rigorosamente dell\'Est (prima del 1990, ovviamente). Ci sono tantissimi altri esempi, nati tutti negli ultimi mesi, di come lo stato nello stato, ovvero la vecchia Germania Orientale nell\'attuale Germania di Angela, continui a vivere. Molto successo sta avendo anche il DDR-Hostel, un ostello per giovani dove tutto è come ai tempi della Ddr. C\'è perfino una stanza chiamati Stasi, l\'ex polizia segreta sulla quale tanti film sono stati girati.

Ciò che sta accadendo in Germania viene studiato a livello sociale e politico. Nessun partito, tantomeno la Linke, l\'estrema sinistra che ha inglobato i post-comunisti della Pds-Sed, vogliono il ritorno della divisione, del Muro e dei due stati. Eppure dilaga la Ostalgie, termine con il quale si indica la nostalgia per la Ddr, in modo forse superiore di quanto non accadesse dieci o quindici anni fa. E la riscoperta del passato non riguarda soltanto gli anziani o comunque chi realmente ha vissuto sotto il regime comunista, ma anche le nuove generazioni nate dopo il 1990. E\' il segno che qualcosa è andato storto. L\'idea che il capitalismo occidentale potesse in pochi lustri cancellare 40 anni di socialismo reale è una pia illusione. La Merkel evita di parlare di questo fenomeno. Per lei, cresciuta nella Ddr e protagonista della svolta con Kohl nel \'90 che porta all\'annesione alla Repubblica Federale, è un tabù imbarazzante e quindi un argomento da evitare assolutamente.

Ma chi vive in Germania, specie in Sassonia o in Turingia o nel Brandeburgo, così come a Berlino Est (ex), sa perfettamente che l\'Eldorado dell\'Ovest ricco e opulento era solo una favola. La Germania resta il paese locomotiva dell\'Europa ma al suo interno le divisioni, economiche e culturali, sono ancora enormi e per certi versi perfino aumentate negli ultimi anni. Alla base di quel 40% che vorrebbe le dimissioni della Merkel non c\'è solo la politica verso i migranti ma anche il fallimento, almeno parziale, di un processo di unificazione del paese che a quasi trent\'anni dalle immagini ormai sbiadite delle Trabant che varcavano i confini Est-Ovest è ancora in alto mare. Come dimostrano i frullati sulla East Side Gallery, le divise dei Pionieri e gli ostelli Ddr.


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... la ciliegina numero 1000 sarà quella della secessione del Veneto e di tutti gli altri? O quella dell\'Unione Europea che salta in aria? Nemesi storica: chi di secessione ferisce di secessione perisce ...

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_serbia_accusa_lunione_europea_di_ipocrisia_sullindipendenza_catalana/82_21644/

La Serbia accusa l\'Unione Europea di ipocrisia sull\'indipendenza catalana

«La domanda che ogni cittadino della Serbia ha per l\'Unione europea oggi è: come mai nel caso della Catalogna il referendum sull\'indipendenza non è valido, mentre nel caso del Kosovo il processo di secessione è stato autorizzato anche senza un referendum»

03/10/2017 – da teleSUR

Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha criticato l\'Unione Europea accusandola di «doppio standard e ipocrisia» per aver bocciato il referendum catalano riconoscendo nel contempo la dichiarazione di indipendenza del Kosovo dalla Serbia nel 2008. 
«La domanda che ogni cittadino della Serbia ha per l\'Unione europea oggi è: come mai nel caso della Catalogna il referendum sull\'indipendenza non è valido, mentre nel caso del Kosovo il processo di secessione è stato autorizzato anche senza un referendum», ha chiesto Vucic durante una conferenza stampa a Belgrado.
«Quindi, la Catalogna non può e il Kosovo può - non sarà mai data una risposta su questo dato ai serbi ... questo è il miglior esempio dei doppio standard e dell\'ipocrisia della politica mondiale».



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Il cortocircuito della Catalogna

La secessione catalana implica opportunità e rischi. Per valutare entrambi bisogna evitare gli schematismi, mettere da parte tanto la fascinazione romantica per le \"nazioni senza Stato\" quanto i richiami a elaborazioni teoriche derivanti da scenari ben diversi. 

Scrivo queste note mentre dalla Catalogna giungono le immagini degli scontri con decine di feriti dinanzi ai seggi referendari. Non è la condizione ottimale per un esercizio di razionalità, ma bisogna provarci nonostante tutto. L\'impressione che si è avuta infatti nelle ultime settimane è stata quella di una precipitazione degli eventi in loco, cui hanno corrisposto negli ambienti della sinistra antimperialista mere affermazioni di principio e declaratorie, di orientamento opposto, con poca analisi concreta della situazione concreta e nessuna voglia di soppesare le evidentissime contraddizioni che gli eventi catalani stanno palesando.

Ad esempio, quando Andrea Quaranta scrive (1) che \"la nuova Repubblica rappresenterebbe anche una straordinaria opportunità per riaprire il dibattito sulla natura dell’Unione Europea e per la costruzione di uno spazio politico continentale finalmente irriducibile alle esigenze del capitale finanziario e imperialista\", che cosa esprime oltre a un desiderio? C\'è una corrispondenza fattuale tra tale desiderio e la realtà dei fatti? Secondo Marco Santopadre (2)

\"il composito e variegato schieramento indipendentista catalano è maggioritariamente europeista, ma la forza delle correnti della sinistra radicale che contestano l’austerity e l’autoritarismo di Bruxelles e che in certi casi parteggiano apertamente per l’uscita dall’Eurozona sono consistenti, e il conflitto di questi giorni potrebbe rafforzarle. Tutti i sondaggi danno il partito finora maggioritario, il PDeCat di Luis Puigdemont e Artur Mas, che rappresenta gli interessi della piccola e di parte della media borghesia (l’alta borghesia catalana è contraria all’indipendenza), in forte discesa\".

Un accenno al tema della compatibilità o meno della costruzione statuale catalana con il quadro ordoliberista europeo era stato fatto anche da Sergio Scorza, che riferiva (3) sul Ministro degli Esteri (!) del governo autonomo catalano, Raül Romeva, invocante più UE e quindi meno sovranità (\"la UE si relaziona direttamente con le regioni per finanziare progetti di sviluppo dei territori, dall’altro, lo stato centrale spagnolo ne ostacola in tutti i modi l’attuazione\"). A partire da questo Scorza sviluppava un ragionamento a nostro avviso incongruente, poiché devolution e sussidiarietà sono pilastri del neoliberismo, e gongolare sulle contraddizioni delle (ex)sinistre (europeiste) non risolve certo le nostre, di contraddizioni. Le ragioni per simpatizzare con i catalani, da un punto di vista antiliberista, sarebbero eventualmente opposte a quelle espresse da Romeva.

Alcuni aspetti strutturali della questione erano stati meglio evidenziati da Vicenç Navarro (4) lo scorso luglio, quando nell\'ambito di una approfondita disamina della natura della classe dirigente catalana spiegava:

\"Per comprendere la Catalogna bisogna conoscere il partito CDC, fondato da Jordi Pujol e che è stato il pilastro del pujolismo, una ideologia nazionalista conservatrice che ha sempre considerato la Generalitat de Catalunya come una sua proprietà individuale, familiare e collettiva, con una influenza estesa attraverso politiche di tipo clientelare, con pratiche fortemente corrotte... È ciò che Pablo Iglesias ha definito correttamente come nazionalpatrimonialismo. Il suo vasto predominio nel governo è dovuto al suo chiaro aggancio nella struttura del potere economico, finanziario e mediatico del paese. Il suo dominio sui mezzi di informazione pubblici della Generalitat  è assoluto. E influenza anche quelli privati, in base a laute sovvenzioni (a titolo di esempio, nel 2015 la Generalitat de Catalunya ha concesso 810.719 euro a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui ne ha ricevuti 457.496, Ara 313.495)... Su TV3, i programmi di economia sono di orientamento ultraliberale, e vengono condotti da uno dei guru della CDC e di settori della ERC, l\'economista Sala i Martín, economista catalano di nazionalità statunitense, che nella UE appoggia il Partito Libertario, un partito di ultradestra che esercita oggi una grande influenza sul Partido Republicano in quel paese [una specie di Partito radicale nostrano, insomma, NdA]. È molto probabile che Ministro della Economia e delle Finanze di una Catalogna indipendente, governata da una coalizione guidata dal PDeCAT, sarà un tale personaggio, o qualcuno vicino al suo orientamento politico.\" 

La riflessione su condizione reale e atteggiamento dei mass-media nella e sulla Catalogna è una riflessione cruciale, in un\'epoca in cui il sistema informativo svolge una funzione strategica analoga a quella che in altre epoche era delle sfere militari. Vanno comprese le ragioni dell\'ampia copertura concessa dai media mainstream alla crisi di questi giorni, con una ostentazione di imparzialità – o forse anche qualcosa di più, visto che si parla, correttamente ma inusualmente, di \"repressione dello Stato spagnolo\" contro \"l\'esercizio della democrazia\" – che per alcune altre cause indipendentiste non si è mai vista. E andrebbe studiata la presenza di radio, portali internet e pubblicazioni catalane all\'interno della vasta rete delle sovvenzioni della Commissione Europea alle iniziative regionali nei paesi membri. 
Così come, per rimanere su terreni affini, andrebbero comprese le ragioni del finanziamento della Open Society Initiative for Europe di Soros al Centre d’Informació i Documentació Internacionals a Barcelona (5), o il motivo per cui già nel 2007 la Fiera del Libro di Francoforte ha deciso di rompere la consuetudine di invitare uno Stato internazionalmente riconosciuto come \"ospite d\'onore\", invitando invece come tale la Generalitat de Catalunya.

In effetti, la posizione delle cancellerie occidentali sulla eventuale secessione catalana non è cristallina. \"Sarà divertente capire come si schiererà realmente l\'Unione Europea\", dice giustamente Marco Rizzo. Le parole di Juncker sono un capolavoro di ambiguità: “Abbiamo sempre detto che rispetteremo la sentenza della corte costituzionale spagnola e del parlamento spagnolo. Ma è ovvio che se un giorno l’indipendenza della Catalogna vedrà la luce, rispetteremo questa scelta. Ma in quel caso la Catalogna non potrà diventare membro dell’UE il giorno successivo al voto”. (6) Le interpretazioni di tali parole divergono nettamente a seconda dei desiderata di chi commenta. Qualche analista sottolinea il fatto che, dovendo la UE rispettare le Costituzioni degli Stati membri, una Catalogna indipendente perderebbe immediatamente lo status di membro della Unione; però qualcun altro annuncia che di fronte a un uso della forza \"sproporzionato\", la Commissione Europea rivedrà velocemente il suo atteggiamento rispettoso nei confronti di Madrid (7). 

In realtà, tutti gli esiti appaiono possibili. Per la Unione Europea, la secessione della Catalogna potrebbe implicare la perdita di un \"pezzo\" (la Catalogna stessa) oppure potrebbe essere un passo in avanti nel progetto regionalista, di devolution ordoliberista che è stato perfettamente esposto nel libro \"Per l’Europa!\" di Guy Verhofstadt e Daniel Cohn-Bendit e così sintetizzato da Alessio Pisanò (8):

Gli Stati nazionali non servono più a niente, perciò è ora di voltare pagina e inaugurare la federazione europea, ovvero gli Stati Uniti d’Europa. (…). L’Europa federale è il cammino per proteggere la nostra sovranità e preservare il nostro modello sociale in un mondo dominato da imperi come Usa, Cina, India, Russia e Brasile (…) Ma cos’è in pratica la federazione europea? Il discorso è lungo, ma si può riassumere così: lo Stato nazionale (Roma, Berlino, Parigi e così via) viene scavalcato sia verso il basso, valorizzando ad esempio il ruolo degli enti locali e delle regioni, che verso l’alto, con la delega di tutta una serie di competenze a Bruxelles, come la politica estera, la difesa e, appunto, la politica economica. Una delle critiche che vengono mosse più spesso all’Euro, infatti, è di non avere uno Stato unitario dietro. Ecco che la federazione europea colmerebbe esattamente questa lacuna.

Dal nostro punto di vista, una volta che la secessione catalana si sarà realizzata, il minimo che dovrebbe succedere – anzi: il minimo che si dovrebbe esigere – è che si apra una battaglia frontale da parte della CUP e degli altri settori antiliberisti contro l\'attuale potere catalano, che la vera sinistra prenda il potere nel nuovo Stato e che l\'allontanamento della Catalogna dalla UE diventi in tal modo irreversibile. Solo così la risultante del processo indipendentista sarà un incremento di sovranità popolare e territoriale e, forse, l\'avvio della crisi esiziale della stessa UE.

In caso contrario si andrà viceversa verso una perdita netta di sovranità. Dal punto di vista di quei settori reazionari che scommettono sulla disgregazione degli Stati nazionali nel nostro continente per realizzare l\'\"Europa delle regioni\" a egemonia tedesca, la secessione della Catalogna dovrebbe aprire infatti ben altri scenari. Il lavorìo che questi ambienti portano avanti, da tanto tempo oramai, è stato da noi seguito ed investigato a fondo nell\'ultimo quarto di secolo (9) e riteniamo persino superfluo accennarvi qui, così come non abbiamo voluto richiamare la mera teoria sulla questione nazionale in generale.

La Spagna monarchica non è la Jugoslavia socialista, perciò i parallelismi che si possono tracciare ci forniscono degli spunti di riflessione ma hanno valore relativo. 
La lezione jugoslava ci ha insegnato da un lato la compatibilità del regionalismo e dell\'identitarismo con il progetto europeista, liberista e pan-germanico; dall\'altro ci ha dimostrato che la spregiudicatezza delle classi dirigenti che portano avanti questo progetto non ha limiti e da loro c\'è da aspettarsi di tutto. 
Quella lezione non ha però niente da dire a proposito della storia della Spagna e della funzione dei movimenti catalano e basco, che si sono sempre mossi su di un solco di progresso e sono stati in prima linea nelle lotte antifranchiste e repubblicane. Il fatto che Jordi Pujol già nel dicembre del 1990 abbia invitato Kucan a Barcellona per spingerlo alla secessione (10), o la solidarietà di Matteo Salvini o di altri ambienti reazionari verso la lotta dei catalani, non ci alienano la simpatia per la storia e le lotte attuali degli anticapitalisti catalani... purché queste ultime vadano fino in fondo. 

Ciò che conta sono gli esiti rispetto al processo strutturale di edificazione del regime ordoliberista europeo. Quali saranno tali esiti non sappiamo dirlo. 
Si è determinata una vertigine, la sensazione di un crinale stretto tra due piani inclinati e relative accelerazioni possibili, ciascuna senza ritorno. Tale sensazione sicuramente non è solo nostra, di militanti internazionalisti e intellettuali che tengono alla libertà ed alla fratellanza tra i popoli, ma siamo convinti che esista anche nella controparte, nella borghesia europea più influente. Anche la classe dirigente europeista vive oggi, crediamo, una simile vertigine: il giocattolino può finalmente ritorcersi contro chi l\'ha creato, proprio come nella favola dell\'apprendista stregone. 

Dopo un quarto di secolo di atteggiamenti ed azioni eversive – nel senso del sovversivismo delle classi dirigenti – si è determinato un evidente cortocircuito e qualcuno, per forza, ci resterà fulminato.


Andrea Martocchia
(segretario, Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS)


NOTE:

(1) Su Contropiano del 30 settembre 2017

(4) Su Investig\'Action del 12 luglio 2017

(5) Fonte: La Vanguardia, 16 agosto 2016 

(6) Sconcertante il balletto delle smentite e delle interpretazioni:

(7) Si ascolti David Carretta su Radio Radicale del 21 settembre 2017
https://www.radioradicale.it/scheda/520455/lunione-europea-e-la-situazione-in-catalogna-collegamento-con-david-carretta
Dalla Commissione Europea è stato più volte \"velenosamente\" ribadito che si tratta di una questione interna allo Stato spagnolo. 
Si noti per inciso che l’amministrazione statunitense non ha condannato il referendum affermando che “lavorerà con l’entità o il governo che ne usciranno” 
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2017/09/28/unione-europea-catalogna-096030
ed anche le dichiarazioni di Trump sono state contraddittorie ( https://youtu.be/0xDEaxybI-M?t=4m14s ).

(8) Fonte: Se l’Europa diventa federale (di Alessio Pisanò | 9 ottobre 2012)

(9) Come Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia, e soggetti collegati, dagli anni Novanta praticamente non abbiamo fatto altro che parlare di questi temi. Una sintesi della questione della esistenza di una \"internazionale reazionaria\" euro-regionalista si trova alla nostra pagina internet 
Si vedano anche le numerose preziose analisi sul tema su German Foreign Policy:

(10) Fonte: Lucio Caracciolo in LIMES del 3/09/1994:



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Unter Separatisten

28.09.2017

BERLIN/MADRID/BARCELONA
 
(Eigener Bericht) - Der katalanische Separatismus ist über Jahre hin von deutschen Stellen begünstigt und gefördert worden. Dies zeigen Aktivitäten im Europaparlament, ein Großereignis der deutschen Kulturpolitik und Äußerungen deutscher Regierungsberater. Im Jahr 2007 hat die Frankfurter Buchmesse katalanischen Separatisten, die damals Aufwind hatten, eine internationale Bühne verschafft, indem sie erstmals nicht einen Staat, sondern eine Teilregion eines Staates zum \"Ehrengast\" ernannte: Spaniens Autonome Region Katalonien. Katalanischen Separatisten bietet darüber hinaus schon seit vielen Jahren die Fraktion \"The Greens/European Free Alliance im Europaparlament eine Bühne, in der Bündnis 90/Die Grünen beträchtlichen Einfluss haben. Der European Free Alliance gehören neben katalanischen Separatisten aus Spanien und Frankreich auch deutschsprachige Separatisten aus Norditalien (Südtirol) und Vertreter der ungarischsprachigen Minderheit Rumäniens an, deren Anhänger einen NS-Kollaborateur gerühmt und für den Anschluss an Ungarn plädiert haben. Madrid solle einem neuen katalanischen Staat \"entgegenkommen\", hieß es 2014 bei der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP). Aktuell sind in Berlin jedoch skeptische Stimmen zu hören; die Krise in Spanien droht sich zu einem weiteren Konfliktherd in der krisengeschüttelten EU zu entwickeln und gefährdet damit die kontinentale Basis der deutschen Weltpolitik.
Unitat Catalana, Unser Land, Bayernpartei...
Politisch-ideologische Rückendeckung erhält der katalanische Separatismus seit 1999 von einer Fraktion im Europaparlament, in der Bündnis 90/Die Grünen starken Einfluss ausüben. Der Fraktion The Greens/European Free Alliance gehören Abgeordnete grüner Parteien, aber auch Abgeordnete von Mitgliedsparteien der European Free Alliance (EFA) an; bei letzteren handelt es sich um Parteien von Sprachminderheiten aus EU-Staaten. Eine der beiden Fraktionsvorsitzenden von The Greens/EFA ist die deutsche Grüne Ska Keller. In der EFA sind etwa katalanische Vereinigungen aktiv, darunter nicht nur eine Organisation aus der spanischen Autonomen Region Katalonien, sondern auch die Unitat Catalana aus Perpignan (Frankreich) sowie Parteien aus dem spanischen Valencia und von den Balearen. Die EFA ist damit pankatalanisch orientiert. Der gemeinsame Nenner all ihrer sonstigen Mitglieder ist allein der Bezug auf Sprach- bzw. Ethno-Minderheiten; zu ihren Mitgliedern gehören dabei neben sich als links einstufenden Parteien auch konservative und rechte Organisationen. EFA-Mitglieder sind zum Beispiel die Bayernpartei, die schlesische Autonomiebewegung Ruch Autonomii Slaska, diverse Deutschtums-Organisationen - etwa Unser Land aus dem Alsace (Frankreich) - und die konservative belgische Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA), die langfristig den Austritt des niederländischsprachigen Landesteils (Flandern) aus dem belgischen Staat anstrebt.
Anschlusspläne
Die Bereitschaft von Bündnis 90/Die Grünen, dem Ethno-Verband EFA mit der Aufnahme in die gemeinsame Fraktion eine wichtige politische Bühne zu verschaffen, wird auch dadurch nicht beeinträchtigt, dass der EFA Organisationen wie Erdélyi Magyar Neppart oder die Süd-Tiroler Freiheit angehören. Erdélyi Magyar Neppart (Ungarische Volkspartei Transsilvaniens) ist eine Partei der ungarischsprachigen Minderheit Rumäniens, die offiziell für die Autonomie des Minderheitengebiets plädiert. Anhänger der Partei treten sogar für einen Anschluss an Ungarn ein und haben den ungarischen NS-Kollaborateur József Nyirő gerühmt, der für die faschistischen \"Pfeilkreuzler\" tätig war, 1941 Joseph Goebbels huldigte und 1942 in einer Rede forderte: \"Aus dem Weg mit den Brunnenvergiftern, mit denjenigen, die die ungarische Seele destruieren, unsern Geist infizieren, die die ungarische Kraftentfaltung verhindern\" (german-foreign-policy.com berichtete [1]). Die Süd-Tiroler Freiheit wiederum fordert die Abspaltung von Teilen Norditaliens (Bolzano-Alto Adige) und entweder die Gründung eines eigenen Staates Südtirol oder aber - vorzugsweise - den Anschluss an Österreich. Die Süd-Tiroler Freiheit steht in dirkter Tradition zu den sogenannten Südtiroler Freiheitskämpfern, die seit den 1950er Jahren in Italien immer wieder Sprengstoffanschläge verübten, um den Anschluss von Bolzano-Alto Adige an Österreich zu erzwingen.[2]
Europa der Völker
Indem die EFA zahlreiche offen separatistische Parteien organisiert - neben der Süd-Tiroler Freiheit etwa die Esquerra Republicana de Catalunya und die Scottish National Party -, legt sie die Lunte an eine ganze Reihe von EU-Staaten, darunter nicht nur Spanien, sondern etwa auch Großbritannien, Italien und Frankreich. Wie Europa aussähe, sollten die separatistischen Kräfte, die die EFA fördert, Erfolg haben, zeigt eine Karte, die die EFA lange Jahre online verbreitete und die heute noch auf der Internetpräsenz der EFA-Jugendorganisation zu sehen ist. german-foreign-policy.com dokumentiert einen Auszug (siehe rechts).[3]
Ehrengast
Einen kräftigen Aufschwung hat dem katalanischen Separatismus vor ziemlich genau zehn Jahren die Frankfurter Buchmesse verschafft: Im Oktober 2007 konnte damals zum ersten Mal nicht ein Land, sondern mit Katalonien ein Teil eines Staates auf dem international renommierten Großevent als \"Ehrengast\" auftreten. Dies hat nicht nur weithin für Aufmerksamkeit, sondern in Katalonien selbst für heftigen Unmut gesorgt - unter spanischsprachigen Einwohnern der Region; diese wiesen empört darauf hin, dass diejenigen Schriftsteller aus der Region, die nicht in katalanischer, sondern in spanischer Sprache publizierten, in Frankfurt keine Berücksichtigung fänden. Damit werde die Vielfalt Kataloniens auf eine katalanische Ethnokultur reduziert, hieß es. Damals rechtfertigte der Vorsitzende der EFA-Mitgliedspartei Esquerra Republicana de Catalunya, Josep-Lluís Carod-Rovira, diese Praxis mit der Aussage, wenn \"die deutsche Kultur zu einer Buchmesse eingeladen\" wäre, würde man \"auch keine deutschen Autoren zulassen, die auf Türkisch schreiben\" (german-foreign-policy.com berichtete [4]). Gleichzeitig wurden auf der Frankfurter Veranstaltung Landkarten verbreitet, auf denen nicht nur das spanische Valencia und die Balearen, sondern auch Andorra und Teile Südfrankreichs als \"katalanisch\" markiert waren. Dies entspricht vollständig der pankatalanischen Orientierung der EFA.
\"Katalonien entgegenkommen\"
Zeitweise haben auch Berliner Regierungsberater die territoriale Integrität Spaniens offen in Frage gestellt. Die EU könne \"an einen Punkt geraten, an dem zu überlegen wäre, ob eine ausgehandelte Separation nicht einem Zustand permanenter Instabilität vorzuziehen sei\", hieß es 2013 in einem Papier der Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP).[5] 2014 plädierte die Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) in einer Kurzanalyse dafür, Madrid solle \"auf eine Übereinkunft hinarbeiten\", um \"dem neuen Staat\" - gemeint war Katalonien - \"entgegenzukommen\".[6] Das Plädoyer für die Abspaltung Kataloniens entspricht alten Vorstellungen deutscher Strategen, denen zufolge es für Deutschland nur vorteilhaft sein könne, separatistische Kräfte in anderen Staaten zu fördern - denn damit würden auch Konkurrenten der Bundesrepublik, etwa Frankreich, erheblich geschwächt.
Sorge um die Machtbasis
Zuletzt sind allerdings eher besorgte Stimmen zu hören gewesen. Der katalanische Separatismus, der immer wieder Rückendeckung in Deutschland fand, stürzt den spanischen Staat aktuell in eine tiefe politische Krise. Diese kommt zur ökonomischen Krise hinzu, die ungebrochen weiterschwelt und auf lange Sicht - ähnlich wie die Krisen in Griechenland und Italien - eine Gefahr für den Euro und die EU ist. Damit droht sich der katalanische Sezessionskonflikt zu einem weiteren Brandherd in der krisengeschüttelten EU zu entwickeln, der den Staatenbund empfindlich schwächen könnte - zu Lasten der deutschen Weltpolitik, die in ihrer aktuellen Konzeption auf eine kontinentale Basis, die EU, angewiesen ist.

[1] S. dazu Ein positives Ungarn-Bild.
[2] S. dazu Der Zentralstaat als Minusgeschäft und Krisenprofiteure.
[3] S. dazu Europa der Völker und Völker ohne Grenzen.
[4] S. dazu Sprachenkampf.
[5] Kai-Olaf Lang: Katalonien auf dem Weg in die Unabhängigkeit? Der Schlüssel liegt in Madrid. SWP-Aktuell 50, August 2013.
[6] Cale Salih: Catalonia\'s Separatist Swell. DGAPkompakt No 12, October 2014. S. dazu Ein inoffizielles Plebiszit.



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(italiano / english / castellano)

La vertigine catalana

segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico

1) George Soros finanzia l’indipendentismo catalano / George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana
2) A proposito del referendum in Catalogna (George Gastaud, PRCF)
3) Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»
4) L’Unione Europea contro la Catalogna: bene censura e repressione (M. Santopadre)
5) Indipendenza della Catalogna e lotte di classe: intervista a Quim Arrufat (Cup)


ALTRI LINK:

Sostegno del PCE alle mobilitazioni in difesa delle libertà democratiche e del diritto all’autodeterminazione (Partido Comunista de España, 20/09/2017)
... Rajoy, con l’aiuto di Ciudadanos sta cercando di dinamitare la convivenza dei cittadini attraverso la creazione di uno stato di emergenza con conseguenze imprevedibili, proprio quando Unidos Podemos propone una via di buon senso per una soluzione concordata alla crisi istituzionale che ha portato lo scontro tra il Governo centrale e quello catalano. Di fronte a questa nuova dimostrazione di autoritarismo, con arresti e interventi che si verificano in Catalogna, il PCE ribadisce che la soluzione per ripristinare la normalità democratica e evitare la rottura della convivenza pacifica è un accordo tra le amministrazioni per consentire al popolo catalano di votare pacificamente e in completa sicurezza, per decidere sulle differenti forme di organizzarsi come nazione e allo stesso tempo decidere come garantire i diritti sociali e lavorativi che i governi di Rajoy e Puigdemont / Màs hanno rubato dal 2010. Di conseguenza, il PCE sostiene le mobilizazioni che, in difesa delle libertà democratiche e in difesa del diritto di autodeterminazione, sono convocate in questo senso...
Catalogna, Rizzo (PC): \"Motore della rivolta è la classe borghese catalana. E l\'Unione Europea sarà il metro\" (26 settembre 2017 ore 13:10, Andrea Barcariol)
... Sarà divertente capire come si schiererà realmente l\'Unione Europea. Sarà il metro con cui comprenderemo meglio la situazione rispetto allo scacchiere internazionale. Queste spinte indipendentiste sono forti e non credo che la questione finirà qui, il tema è molto complesso.

Catalogna: Trump si schiera contro l’indipendenza (PTV News 27.09.17 - Allarme a Basilea)


FLASHBACKS:

CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA (di Lucio CARACCIOLO, da LIMES DEL 3/09/1994)
... Non c’è troppo entusiasmo a Zagabria e Lubiana, la sera del 25 giugno 1991, quando si festeggia la dichiarazione di indipendenza. Sloveni e croati restano quasi isolati internazionalmente. Ad incoraggiarli, un fronte alquanto eterogeneo: da Alpe Adria alla Dc italiana, da Le Pen ai terroristi baschi e agli autonomisti catalani – il cui presidente Jordi Pujol già nel dicembre del 1990 aveva invitato Kucan a Barcellona per spingerlo alla secessione (124)...

EUROPA: UNIONE E DISGREGAZIONE (DOSSIER, 1997)
... Bisogna infatti tracciare una linea di demarcazione tra l\'intellettualismo borghese, che porta avanti valori romantici, passatisti e reazionari che si esauriscono nella esaltazione delle \"differenze\", dall\'internazionalismo ed antiimperialismo marxista, che riconosce i diritti di tutti perche\' vuole l\'unione tra eguali anziche\' il dominio del piu\' forte...

CRISIS PROFITEERS (GFP 2012/11/27)
... Germany has recently been supporting Catalonia\'s secessionist efforts, which are oriented on the notion that Catalonia - the richest region of the country - would not have entered the crisis, if it would not have to share its wealth, via the central government\'s redistribution with Spain\'s poorer areas... While Catalan separatism is grabbing attention throughout Europe, South Tyrolean secessionist efforts are also making bigger waves. Once more, the German austerity dictate to counter the Euro crisis is the direct cause. Rome is obliged to execute drastic budget cuts, as demanded by Berlin, which effect the financial margin of maneuver for the Bolzano Alto Adige (\"South Tyrol\") province. The cancellation of resources earmarked for South Tyrol has provoked protests...

¿Qué pasa en Catalunya?: lo que no se dice en los medios, ni en Catalunya ni en España (VICENÇ NAVARRO, 12 Jul 2017)
... Para entender Catalunya, hay que conocer a dicho partido, CDC, fundado por Jordi Pujol y que ha sido el eje del pujolismo, una ideología nacionalista conservadora que siempre ha considerado la Generalitat de Catalunya como su propiedad individual, familiar y colectiva, extendiendo su influencia a través de unas políticas de tipo clientelar, con prácticas intensamente corruptas... Es lo que Pablo Iglesias ha definido acertadamente como nacionalpatrimonialismo. Su largo dominio en el gobierno se debe a su claro encaje en la estructura de poder económico, financiero y mediático del país. Su dominio sobre los medios públicos de información de la Generalitat es casi absoluto. E influencia también en gran manera a los privados a base de subvenciones amplias (a modo de ejemplo, en 2015 la Generalitat de Catalunya otorgó 810.719 euros a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui recibió 457.496; y el diario Ara, 313.495 euros)... En TV3, sus programas económicos son de orientación ultraliberal, los cuales son conducidos por uno de los gurús económicos de CDC y sectores de ERC, el economista Sala i Martín, economista catalán, de nacionalidad estadounidense, que apoya en EEUU al Partido Libertario, un partido de ultraderecha que tiene gran influencia hoy en el Partido Republicano de aquel país. Es más que probable que el Ministro de Economía y Finanzas de la Catalunya independiente gobernada por una coalición liderada por el PDeCAT fuese tal personaje, o alguien próximo a él en su orientación política...

INTERPRETAZIONI DIVERGENTI DELLA QUESTIONE CATALANA (Rassegna JUGOINFO del 26.9.2017)
0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8771


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George Soros finanzia l’indipendentismo catalano

Rete Voltaire | 28 Settembre 2017
Traduzione: Rachele Marmetti (Il Cronista)

L’anno scorso La Vanguardia [quotidiano edito a Barcellona, ndt] ha rivelato che nel 2014 la fondazione Open Society Initiative for Europe di George Soros ha finanziato organizzazioni che militano per l’indipendenza della Catalogna.

Secondo documenti interni, la fondazione ha versato: 
  27.049 dollari al Consell de Diplomàcia Pública de Catalunya (Consiglio di Diplomazia Pubblica di Catalogna), organismo creato dalla Generalità di Catalogna insieme a diversi partner privati; 
  24.973 dollari al Centre d’Informació i Documentació Internacionals a Barcelona (CIDOB – Centro d’Informazione e Documentazione Internazionale di Barcellona, un think tank indipendentista.

Il CIDOB svolge il ruolo di “pre-ministero” degli Esteri per la Generalità di Catalogna. In ogni occasione sostiene lo stesso punto di vista di Hillary Clinton.

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George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana

La fundación del financiero colaboró con 27.000 dólares para diversas actividades del Diplocat y también con 24.949 para el CIDOB

QUICO SALLÉSBarcelona, 
16/08/2016 

La Fundación Open Society Initiative for Europe de George Sorosfinanció con 27.049 dólares actividades del Consell per la Diplomàcia Pública de Catalunya, el Diplocat, la agencia ‘paradiplomática’ catalana. Según los documentos que se han filtrado de las actividades del financiero, Soros aportó estos dólares para cofinanciar una jornada sobre la xenofobia y el euroescepticismo que se celebró en Barcelona en enero de 2014 ante las elecciones al Parlamento Europeo.

Fuentes de la dirección del Diplocat han admitido a La Vanguardia la financiación de este proyecto por parte de la fundación del famoso financiero. De hecho, no es la única aportación a agencias o think tanks catalanes a los que Soros ha ayudado económicamente. El CIDOB, think tank de prestigio internacional bajo el paraguas de diversas administraciones catalanas, también recibió 24.973 dólares para financiar una jornada sobre la integración.

El seminario internacional del Diplocat, titulado “Eleccions Europees 2014: l’augment de la xenofòbia i els moviments euroescèptics a Europa”, fue coordinado por Elisabet Moragas y se realizó a puerta cerrada y al que sólo se podía asistir por invitación.

Según las explicaciones del Diplocat, que preside Albert Royo, se realizó en forma de diálogo abierto entre los expertos académicos y representantes políticos, todos con experiencia sobre el tema del debate, junto con periodistas o representantes de medios de comunicación influyentes de diferentes países de la UE.

[FOTO: La explicación de la financiación de Soros al Diplocat (Quico Sallés)


=== 2 ===


di George Gastaud, segretario nazionale del Polo della Rinascita Comunista in Francia (PRCF),  Antoine Manessis, responsabile PRCF delle relazioni internazionali, e Annette Mateu-Casado, membro della segreteria politica del PRCF, difensora della cultura catalana.

da initiative-communiste.fr, 19 settembre 2017

Traduzione di Marx21.it

Poiché il diritto dei popoli alla propria autodeterminazione non è negoziabile agli occhi dei comunisti, il PRCF condanna il comportamento grossolanamente repressivo del potere di Madrid contro gli eventuali partecipanti al referendum catalano. Anche l\'attaccamento di Mariano Rajoy e del re Felipe alla “democrazia” è sospetto, perché appare in continuità con quella Spagna franchista, in cui il centralismo, certo non democratico, ma fascistaè stato in larga parte responsabile storicamente delle divisioni della Spagna attuale.

Tuttavia, dobbiamo anche interrogarci sull\' “indipendentismo” della grande borghesia catalana.Esso si iscrive completamente nella costruzione “euro-atlantica” che è la negazione stessa dell\'indipendenza dei popoli e, ancor più, del loro diritto inalienabile a costruire il socialismo. Come le odierne componenti dei governi regionali degli Stati esistenti (Spagna, Francia, Italia, Belgio, ex Jugoslavia, ex Cecoslovacchia...) possono essere più forti di fronte all\'Asse Bruxelles-Berlino-Washington (dunque di fronte all\'oligarchia euro-atlantica che mette i popoli in competizione tra loro), isolandosi le une dalle altre, piuttosto che unirsi alle altre nel rispetto delle diversità culturali? Come i proletari di ciascuna delle “grandi regioni” che coltivano l\'euro-separatismo possono essere più forti per lottare contro il capitale se, all\'interno di ogni “nuovo paese” separato dagli Stati esistenti e trasformato in una nuova micro-stella della bandiera europea, i lavoratori sono ulteriormente divisi secondo la lingua e la nazionalità?

Nella stessa Francia, forze reazionarie stanno lavorando, in diverse regioni limitrofe del paese, a smantellare la Repubblica una e indivisibile nata dalla Rivoluzione, a stringere la lingua francese tra l\'inglese transatlantico e la lingua regionale impugnata come arma di divisione. Sullo sfondo di questo separatismo regionalista che si presume opposto a “Parigi” e allo “Stato”, il potere “parigino” stesso si scatena contro il “giacobinismo” (una fase spiccatamente progressista della nostra storia in cui, sotto l\'autorità di Robespierre, l\'unità territoriale del paese si era coniugata con una diffusa autonomia comunale) e difende quello che esso definisce il “patto girondino”: Macron intende in questo modo minare l\'unità, sbarazzarsi delle conquiste nazionali del popolo (contratti collettivi di ramo, statuti, diplomi nazionali, sicurezza, servizi pubblici di Stato, pensioni), favorire le grandi regioni, le “regioni trasfrontaliere” e le Euro-metropoli distruttrici dei comuni e dei dipartimenti.

Per quanto riguarda la Francia, e pur difendendo molto chiaramente le lingue e le culture regionali in quanto patrimonio indivisibile della nazione, il PRCF chiama i lavoratori, da Lille a Perpignan e da Brest a Sarténe, a sconfiggere il Macron-MEDEF, l\'UE sovranazionale, il Patto transatlantico in gestazione, la NATO, tutti quelli che vogliono allo stesso tempo cancellare le conquiste sociali del CNR, l\'autonomia dei comuni della Francia, la sovranità del nostro paese e il diritto dei suoi lavoratori a costruire tutti insieme il socialismo, nella prospettiva del comunismo.

Nel rifiutare in ogni modo la violenza del potere di Madrid contro la popolazione che vive nella Generalità catalana, il PRCF appoggia le rivendicazioni dei comunisti e dei progressisti della Spagna che propongono l\'istituzione di una Spagna repubblicana e socialista, confederale, indipendente dall\'UE e dalla NATO, pienamente rispettosa delle sue nazionalità e in marcia verso il socialismo.


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Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»

22 settembre 2017

Nella mattinata di mercoledì la Guardia Civil spagnola ha fatto irruzione nei palazzi governativi catalani arrestando 14 membri della Generalitat de Catalunya, sequestrando il materiale referendario e facendo calare – in sostanza – la scure dell’impossibilità della celebrazione del referendum indipendentista convocato per il 1° ottobre. Mariano Rajoy, Primo Ministro Spagnolo, infatti, ha dichiarato alla stampa: «Il referendum non può essere celebrato, non è mai stato legale o legittimo, ora è solo una chimera impossibile. Lo Stato ha agito e continuerà a farlo, ogni illegalità avrà la sua risposta. La disobbedienza alla legge è l’opposto della democrazia. Siete ancora in tempo per evitare danni maggiori». Le organizzazioni politiche spagnole non sono mai riuscite ad amalgamare un consenso realmente cospicuo in Catalogna, tanto che alle scorse Elezioni Generali il Partito di Governo (il Partito Popolare) nella circoscrizione catalana è andato ben sotto la media nazionale (33%) attestandosi attorno al 13%.

L’azione repressiva da parte del governo centrale, con l’appoggio dell’UE, ha scatenato le proteste di massa in difesa del diritto democratico al referendum con anche uno sciopero degli scaricatori di porto che hanno impedito l’approdo di 16.000 agenti della Polizia Nazionale e Guardia Civile inviati dalle autorità statali centrali.

La situazione, in ogni caso, è decisamente complessa e l’analisi più completa del fenomeno e del “processo” è necessaria per una comprensione a 360°. È l’obiettivo del documento realizzato dal PCPE (Partito Comunista dei Popoli di Spagna) sull’attuale relazione tra la Catalogna e la Spagna e il “processo” (di autodeterminazione nda): chi lo porta avanti, verso dove va e se ha qualcosa di positivo per la classe operaia e il popolo lavoratore. Il PCPE sostiene il diritto di autodeterminazione della nazione Catalana e condanna la repressione dello Stato spagnolo contro il popolo catalano ma considera che la classe lavoratrice non otterrà alcuna soluzione alla sua penosa condizione dal referendum del 1° Ottobre sia se voterà SI che NO e che tale processo, nelle condizioni attuali, è destinato al fallimento senza riuscire ad indebolire né lo Stato né il regime del ’78. «Le seguenti riflessioni – si legge nel lungo scritto realizzato dall’organizzazione Comunisti Catalani affiliata al PCPE e reso pubblico il 6 settembre scorso – si inquadrano nella nostra campagna “Nostro cammino: l’indipendenza della classe operaia”, con cui vogliamo dare il nostro contributo affinché la classe operaia avanzi verso la sua propria indipendenza politica per conquistare un mondo fatto su sua misura».


Alcuni cenni storici e di base

Prima di addentrarsi nell’analisi del “processo”, il documento si sofferma su alcuni concetti e cenni storici per una migliore comprensione: «L’idea di una nazione spagnola coesa e immutabile creata da re cattolici è una grande menzogna. La Spagna feudale pre-capitalista, uguale a molti stati vicini, era un conglomerato di popoli con culture e lingue proprie. La nazione è una comunità umana stabile con una base ideologica, territoriale, economica e psicologica/culturale in comune, nasce dallo sviluppo capitalista, concretamente in Spagna nel XIX secolo. E’ la comparsa di una necessità materiale, ossia, un mercato nazionale per la borghesia, ciò che impulsa una confluenza linguistica e psicologica/culturale di un popolo. Con una volontà politica conseguente alla borghesia ascendente, si promosse un’unità di criteri mercantili, dazi che proteggessero questo mercato e puntellassero la dominazione borghese. Tutto questo impulsò la fusione di diversi popoli e culture nel consolidamento degli Stati-nazione

«Le nazioni non sono qualcosa di eterno o immutabile, ma sono un prodotto storico determinato, con una nascita, evoluzione e scomparsa in funzione dello sviluppo delle società e, fondamentalmente, dello sviluppo economico a partire dall’attività e la lotta delle classi, che muove il resto. […] Agli inizi del XIX secolo le remore del feudalismo erano ancora forti in gran parte del territorio e nella capitale, nei centri di potere. La borghesia centralista, molto legata a relazioni redditiere e poco produttive non apportava le stesse dinamiche rispetto ad una borghesia catalana più avanzata nel processo di industrializzazione. Le relazioni di produzione capitaliste più sviluppate entrarono dalla periferia e si svilupparono fondamentalmente in Catalogna e nel Paese Basco. Quando la borghesia spagnola cerca di creare un quadro nazionale unico in tutto lo Stato trova che ci sono mercati nazionali creati, con borghesie proprie, con interessi propri e con uno sviluppo nazionale molto avanzato. La creazione di uno Stato-nazione con un’unica lingua, cultura e quadro economico cozza frontalmente con l’esistenza di altri quadri nazionali consolidati.»

Questione nazionale catalana e la contraddizione con lo Stato-nazione spagnolo

In merito alla questione della ‘nazione’ catalana, Comunisti Catalani-PCPE scrive come: «Il processo di creazione della nazione catalana proviene da una borghesia che rispondeva solo ai suoi interessi di creare un mercato economico determinato. […] Al consolidarsi del capitalismo in Spagna, gli interessi della borghesia centrale cozzano per decenni con quelli delle borghesie periferiche. Dalla fine del XIX secolo, con l’apparizione del catalanismo politico, e durante tutto il XX secolo lo scontro nazionale è una caratteristica propria del tentativo di costruzione dello Stato-nazione spagnolo. Sotto lo scontro nazionale, c’è un sigillo di classe dello scontro di interessi tra le differenti borghesie. Questo conflitto si svolge in un quadro di unità e lotta, trascinando dietro di sé gli strati popolari che sinceramente e legittimamente cercavano di difendere il loro patrimonio culturale e la loro identità. In questa relazione di unità e lotta, le borghesie, da un lato, hanno lottato tra sé per difendere i rispettivi interessi: questioni commerciali e produttive (il corridoio del mediterraneo/centrale è l’ultimo esempio), di riparto del bilancio statale, del riparto dell’azionariato di grandi compagnie, ecc., ma dall’altro lato, entrambe le borghesie condividevano un interesse comune basato nelle loro condizioni di classe dominante e sfruttatrice della classe operaia. Entrambe le borghesie sono state molto unite quando si è trattato di schiacciare la maggioranza operaia e popolare. In nessun momento della sua storia, la borghesia catalana ha aspirato all’indipendenza. Durante tutto il XX secolo abbiamo molteplici esempi di collaborazione tra borghesie o tra i loro rappresentanti politici», facendo riferimento all’appoggio al franchismo, alla guerra civile, ai patti costituzionali e all’appoggio a leggi e governi della transizione.

Il “processo” è lontano dall’essere guidato dalla classe operaia

Il processo indipendentista catalano non è guidato dalla classe operaia catalana, ma da settori borghesi: «La radice del conflitto è il lucro o interesse economico, un interesse di classe che, più o meno legittimo, dobbiamo saper separare e analizzare. In caso contrario ci faranno passare interessi estranei come nostri e finiremo per partecipare in lotte nelle quali non abbiamo alcuna speranza di miglioramento dei nostri problemi reali come classe operaia.

Il processo indipendentista cresce su problematiche politiche: annullamento dello Statuto votato dai catalani, attacchi alla lingua e la cultura, bassi investimenti in certi settori, ecc. Ma il “processo” come lo intendiamo oggi, come processo indipendentista (non per il patto fiscale o altre iniziative) scoppia nel 2011-2012, nei momenti più duri della crisi economica, e con alcuni fattori che vanno molto al di là di queste problematiche reali.

L’elemento chiave per comprendere il processo indipendentista sono le conseguenze del naturale sviluppo del sistema capitalista. Le leggi economiche di questo sistema, basate nell’accumulazione di capitale, nella produzione conducono inesorabilmente alle seguenti conseguenze: concentrazione del capitale sempre più in meno mani, impoverimento relativo, e a volte assoluto, del resto della popolazione in cui non si concentra il capitale e crescita dei monopoli che dominano rami della produzione e anche paesi interi».

In questo sviluppo si forma quello che Comunisti Catalani-PCPE definisce blocco oligarchico-borghese a livello statale spagnolo con l’unità dei settori monopolistici: «La storica borghesia catalana ha concentrato il suo capitale durante tutto il XX secolo, creando importanti monopoli che hanno dominato sempre più il mercato, in principio nel resto dello Stato e dopo a livello internazionale. Parallelamente, la borghesia spagnola ha seguito un processo simile, compartendo zone di mercato con la borghesia catalana. Le leggi dell’economia operarono e alla fine del XX secolo e inizi del XXI, al calore dell’impulso economico e delle grandi privatizzazioni dei monopoli pubblici, si compì un processo di fusione di capitali nella forma di compartizione azionaria delle grandi compagnie. Questo processo si realizzò dall’integrazione dei monopoli spagnoli nel sistema capitalista-imperialista internazionale e dall’omologazione delle forme di dominazione con i paesi dell’Unione Europea. L’interrelazione di capitali oggi è profonda, e la maggioranza delle grandi oligarchie nate in uno e l’altro lato dell’Ebro condividono azioni delle principali Banche e compagnie dell’IBEX35. Questo ha creato una tal comunione di interessi tra le differenti borghesie dello Stato spagnolo che rende imprescindibile parlare di un blocco oligarchico-borghese spagnolo. […] Il blocco oligarchico-borghese non è né catalano, né basco, né madrileno, è un blocco di carattere spagnolo mentre la sua base di accumulazione e dominazione non è nazionale, ma nel quadro statale. Questo si riflette direttamente nell’ambito politico visto che la nazione catalana ha smesso di esser un progetto utile per la classe dominante in Catalogna. I suoi rappresentanti storici (CiU) sono stati spodestati. Questo è un elemento che differenzia la situazione nel XXI secolo, elemento che in nessun caso si invertirà. L’oligarchia in Catalogna non tornerà mai più a difendere, mantenere o promuovere la nazione catalana.

Il ruolo della piccola e media borghesia catalana

Lo sviluppo imperialistico spagnolo – nel quadro dell’UE- con il suo processo di concentrazione e accentramento, ha avuto il riflesso della reazione della piccola borghesia che di fronte alla caduta delle sue posizioni e condizioni dei suoi piccoli affari rispetto ai grandi monopoli ha assunto sempre maggior protagonismo cavalcando il malcontento diffuso e generando una proposta politica che si riflette nell’attuale “processo”: «L’elemento chiave che spiega l’impulso del processo indipendentista è stato il processo di proletarizzazione accelerato vissuto da ampi strati della piccola e media borghesia catalana nei momenti più duri della crisi economica. Inoltre, la scomparsa di un mercato nazionale catalano, profondamente inter-relazionato con quello della Spagna ha radicalizzato questi strati che vedono “il loro mondo” – o contesto di sussistenza – scomparire.

Pertanto, la proposta politica di questa classe è stata segnata da due elementi:

  1. Dal fatto che la grande borghesia si è fusa con quella del resto dello Stato e si è convertita in borghesia spagnola, perdendo il quadro nazionale e non rappresentando più gli interessi del territorio sul quale si sostenta il mercato della piccola e media borghesia.
  2. E soprattutto, la minaccia massiva di proletarizzazione l’ha portata a sollevare una proposta di scontro radicalizzato contro le conseguenze del capitalismo monopolista attuale, ma non contro il capitalismo come sistema, giacché desiderano un capitalismo che non tenda alla concentrazione di capitali, senza grandi corporazioni e basato nel regime di piccole proprietà come le loro.

Tutto questo ha portato la piccola borghesia a sviluppare una proposta politica con un certo grado di conflitto contro la classe oligarchica ma senza generare un movimento di rottura o indipendente da essa.»

L’impraticabilità del “processo”

Comunisti Catalani-PCPE, in sostanza, delinea l’impraticabilità del “processo” d’autodeterminazione catalano se non viene spodestata l’oligarchia-reggente a livello statale tramite un processo rivoluzionario.

«[…] Poco a poco si va visualizzando l’unico orizzonte realista per l’indipendentismo e tutti i difensori del diritto all’autodeterminazione, orizzonte che da tempo noi comunisti annunciamo: che non sarà possibile alcun processo di autodeterminazione e, pertanto, nemmeno di indipendenza, senza distruggere il potere statale dell’oligarchia. Non si può spodestare l’oligarchia dal potere in maniera pacifica, posto che è sempre disposta a utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per mantenere il suo regime di interessi». E gli eventi di questi giorni confermano pienamente questa tesi. E ancora: «Per rovesciare il potere dell’oligarchia si richiede, così come la storia dimostra, un processo rivoluzionario. E’ l’indipendentismo disposto a portare avanti un processo rivoluzionario? La risposta a questa domanda è profondamente no. L’indipendentismo oggi non ha né forza né capacità di resistenza per affrontare un conflitto reale con lo Stato. E questo non avviene per una condizione codarda intrinseca dei catalani, ma nelle condizioni di classe del “processo”. La piccola borghesia non è una classe rivoluzionaria e pertanto i movimenti politici che sviluppa non hanno nessuna caratteristica (ideologica, politica e organizzativa) rivoluzionaria. In definitiva, il processo indipendentista è destinato al fallimento a causa della classe sociale che lo fomenta, dirige e gli dà forma».

Il ruolo della classe operaia e il suo cammino

Di fronte a questo scenario, il compito dei comunisti è quello di delineare una posizione e percorso indipendente per la classe operaia sulla base dei suoi interessi e non alla coda dei vari settori della borghesia. «La classe operaia deve apprendere dalle sue esperienze, e pertanto deve organizzarsi per creare un movimento con orientamento nettamente operaio dove si difendono i suoi interessi al di sopra di quelli dei padroni […] Né lo spagnolismo difensore dello status quo né l’indipendentismo con proposte utopiche irrealizzabili, servono gli interessi della classe operaia, hanno entrambi un sigillo di classe estraneo ad essa».

Le une e le altre proposte sono irricevibili dai comunisti per cui «solo in un processo rivoluzionario nel quadro spagnolo, ossia statale, in cui la classe oligarchica sia definitivamente sostituita al potere dalla classe sfruttata, la classe operaia, ci saranno le condizioni materiali per dare un reale diritto all’autodeterminazione della Catalogna».

Dunque, il PCPE conclude il documento lanciando un appello alla classe operaia e i settori popolari.

  • A rafforzare la lotta operaia. Rafforzare il sindacalismo di classe e combattivo e le file del Partito Comunista. Lottare contro la penetrazione delle idee di altre classi sociali dentro la nostra classe come sono la socialdemocrazia e ogni tipo di nazionalismo.

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(français / english / castillano / srpskohrvatski / italiano.
Segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico)


Interpretazioni divergenti della questione catalana

0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone



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Links:

The Federal State - A Loss-Making Business (II – G.F.P. 17.10.2012)
... Cooperation with Catalonia as the \"Partner Nation\" in 2007, at the prestigious Frankfurt Book Fair, provided the separatists with an appreciable boost. German federal state Baden Wuerttemberg\'s special cooperation with Catalonia provides economic support for its secessionist efforts - and points to Europe\'s breakup into an economically successful core and poverty-stricken, hopeless marginalized zones, just as has crystallized under Euro zone pressure...

Farewell to Catalonia (JUGOINFO del 29 ago 2015)
An Unofficial Plebiscite (GFP 7.8.2015)
Risoluzione della Conferenza Nazionale del PCPC sulla questione nazionale (27/09/2014)
Auch zu lesen: Los von Madrid (Berliner Experten plädieren für Abspaltung Kataloniens – GFP 30.10.2014)

Peoples without Borders (G.F.P. 23.9.2015)
Just days before regional elections in Spain\'s Catalonia - elections declared a plebiscite on secession - a political partner of the German Green Party is calling for the rapid secession of that region from Spain. Ethnically defined \"peoples\" throughout Europe should have the \"right to self-determination,\" recognizing \"no borders,\" according to a declaration signed by the Spanish member organization of the \"European Free Alliance\" (EFA). The EFA unites separatist parties of various political orientations from numerous EU member countries... The EFA\'s map of Europe also depicts Germany merged with Austria and territories of neighboring countries to form a Greater Germany...

Il catalanismo e la Catalogna nella Spagna contemporanea. Un dialogo con Borja de Riquer (a cura di Andrea Geniola. In: Nazioni e Regioni. Studi e ricerche sulla comunità immaginata. 8/2016: 89-107)
... Attenendoci ai fatti, l’alta borghesia catalana è assolutamente contraria al processo di autodeterminazione e all’ipotesi indipendentista. Questa ha cercato di pianificare una cosiddetta terza via, soprattutto nella forma della richiesta di autonomia fiscale, ma senza essere ascoltata né dalle istituzioni dello Stato né dai partiti né dal grosso delle classi intellettuali spagnole. Ci troviamo dinnanzi a un fenomeno assolutamente nuovo, risultato dell’esaurimento del catalanismo di sinistra e di destra che avevano avuto un ruolo in questi decenni... non si tratta di un movimento anti-spagnolo bensì contro il regime attuale e quella che si considera essere una rottura del patto costituzionale delle autonomie con quote di autogoverno progressivamente maggiori. Si tratta inoltre di un movimento politicamente contro il PP e il PSOE, soprattutto questo per la sua involuzione nei confronti della realtà catalana. E per concludere si presenta come un movimento popolare civico e democratico. Non c’è un elemento essenzialista, sebbene ci possano essere settori o casi concreti in questo senso, che rivendica il fatto che in quanto nazione la Catalogna ha diritto all’autodeterminazione, bensì la richiesta di votare in quanto soggetti dotati di diritti civili e democratici universali...

¿Qué pasa en Catalunya?: lo que no se dice en los medios, ni en Catalunya ni en España (VICENÇ NAVARRO, 12 Jul 2017)
... En realidad, Catalunya ha estado gobernada 30 de 37 años por las derechas, es decir, 9 de 11 legislaturas, mostrando la gran hegemonía de las derechas... Para entender Catalunya, hay que conocer a dicho partido, CDC, fundado por Jordi Pujol y que ha sido el eje del pujolismo, una ideología nacionalista conservadora que siempre ha considerado la Generalitat de Catalunya como su propiedad individual, familiar y colectiva, extendiendo su influencia a través de unas políticas de tipo clientelar, con prácticas intensamente corruptas... Es lo que Pablo Iglesias ha definido acertadamente como nacionalpatrimonialismo. Su largo dominio en el gobierno se debe a su claro encaje en la estructura de poder económico, financiero y mediático del país. Su dominio sobre los medios públicos de información de la Generalitat es casi absoluto. E influencia también en gran manera a los privados a base de subvenciones amplias (a modo de ejemplo, en 2015 la Generalitat de Catalunya otorgó 810.719 euros a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui recibió 457.496; y el diario Ara, 313.495 euros)... En TV3, sus programas económicos son de orientación ultraliberal, los cuales son conducidos por uno de los gurús económicos de CDC y sectores de ERC, el economista Sala i Martín, economista catalán, de nacionalidad estadounidense, que apoya en EEUU al Partido Libertario, un partido de ultraderecha que tiene gran influencia hoy en el Partido Republicano de aquel país. Es más que probable que el Ministro de Economía y Finanzas de la Catalunya independiente gobernada por una coalición liderada por el PDeCAT fuese tal personaje, o alguien próximo a él en su orientación política...

Comunistes pel Sì: un appello per la Repubblica Catalana interroga le sinistre europee (Andrea Quaranta / Comunistes pel SÍ)
... Per Comunistes pel SÍ la Repubblica Catalana rappresenta un’opportunità sia per rompere i legami col vecchio regime che per avviare politiche di segno opposto al dogma liberista. In questo senso il manifesto chiama in causa implicitamente le sinistre europee e i comunisti in particolare, affermando che il miglior contributo internazionalista è il sostegno al referendum del 1 ottobre, all’autodeterminazione di Catalunya e alla nascita di una Repubblica al servizio delle classi popolari.
Il manifesto rappresenta inoltre un invito ad approfondire l’analisi dello scenario internazionale e svilupparne una visione non eclettica, così da definire da sinistra un altro modello di Europa. La riflessione su Catalunya implica cioè una riflessione sull’Unione europea, sulla natura antipopolare delle politiche della Troika e sul carattere imperialista del polo europeo...
Il testo originale del manifesto si trova alla pagina: https://comunistespelsi.com/manifest/

Catalogna e autodeterminazione (di Dante Barontini, 21 settembre 2017)
... Il groviglio catalano è sorto all’interno di almeno tre faglie decisionali diverse: l’ambito territoriale della Catalogna, quello della Spagna storica e lo spazio dell’Unione Europea. Abbiamo una “comunità indigena” unita da lingua e tradizioni culturali che persegue l’indipendenza da tempo immemorabile; uno Stato-nazione classico che non riconosce al suo interno altre nazionalità; un quasi-Stato sovranazionale che assume competenze chiave (le politiche di bilancio, in primo luogo) senza alcuna verifica “democratica” effettiva (il voto popolare sulle decisioni rilevanti)...

Le radici economiche dell’indipendentismo catalano (di Alessandro Bartoloni  23/09/2017)
... il processo di autodeterminazione del popolo catalano, ha radici economiche che ne permettono l’effettiva realizzazione. Tuttavia non bisogna pensare che questo processo sia un fatto meramente interno alla borghesia, con quella catalana che non riuscendo a prendere il pieno controllo del paese sembra tuttavia matura per assumersi la responsabilità della spoliazione della propria classe lavoratrice senza più dover fare i conti con Madrid. Quanto sta avvenendo, infatti, è la manifestazione di un conflitto molto più profondo: quello tra l’enorme sviluppo delle forze produttive avvenuto in una trentina d’anni, a partire dalla fine della dittatura militare, e la cornice entro cui ancora oggi si sviluppano i rapporti politici ed istituzionali, ingessati in quel compromesso tra forze democratiche e fascisti che ha guidato il passaggio alla monarchia costituzionale e garantito la pace sociale e l’ordine capitalistico.


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Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije

29/08/2017    SAŠA. F. 

Nakon terorističkog napada na La Rambli u Barceloni i atentata u Cambrilsu, portal Rambla Libre piše kako su oba čina pokazala neuspjeh integracije i nekonzistentnost identiteta koji se temelji na različitosti, što je samo po sebi proturječno.

Kako bi se izašlo iz ove teške situacije, koja ometa planove Carlesa Puigdemonta, lidera katalonskog pokreta za odcjepljenje, iz sjene je trebao izaći pokrovitelj kolektivnog samoubojstva Katalonije, George Soros, piše katalonski portal.

Prvo, svi mediji izravno ili neizravno povezani sa Sorosevim Otvorenim društvom su napisali niz članaka o tome ”kako je upravljanjem u kriznim situacijama i tijekom napada Katalonija pokazala da može biti neovisna”.

Prvi je bio The Wall Street Journal, a sada The Guardian, koji podržavaju Kataloniju i njezinu sposobnost da funkcionira kao samostalna država, posebno nakon onoga što je pokazala tijekom terorističkih napada.

To tvrdi Luka Stobart, profesor političke ekonomije, koji je napisao kolumnu naziva ”Odgovor Katalonije na terorizam pokazuje da je spremna za nezavisnost”.

Osim toga, mediji bliski Sorosu čak i na nacionalnoj razini u Španjolskoj, kao El Confidencial, umanjuju štetne ekonomske posljedice od hipotetskog razbijanja španjolskog jedinstva.

Novinar Juan Carlos Barba piše: ”Španjolska će gotovo sigurno pasti u kratku recesiju, ali će njen utjecaj biti ograničen. Katalonija će zbog sadašnjih političkih problema također pretrpjeti recesiju koja će, međutim, biti kratkog vijeka i nakon toga je čeka snažan ekonomski rast. Osim toga, ako se prijateljski raziđe sa Španjolskom, Kataloniju uopće ne bi trebala pogoditi recesija.”

Istovremeno, list La Vanguardia otkriva da su George Soros i njegovo  Otvoreno društvo za Europu službeno s 27 100 dolara financirali ”Diplomatsko vijeće Katalonije” (Diplocat), te s 24 973 dolara udrugu CIDOB (Catalunya i la cooperació da Desenvolupament). To su svote koje su službeno priznate.

Osim toga, regionalni direktor Otvorenog društva za Europu, Jordi Vaquer Fanés, koji ”radi na promicanju vrijednosti institucija otvorenog društva u zemljama Europske unije i Zapadnog Balkana”, bio je direktor CIDOB-a između 2008. i 2012. godine.

Sva ova tijela središnje vlasti nazivaju ”paradržavnim strukturama Katalonije”. Međutim, nije problem što su ona osnovana ili što Katalonija želi neovisnost, nego što se netko unaprijed pobrinuo da se puna neovisnost ove španjolske autonomne pokrajine nikada ne ostvari.

”Onaj koji izgleda kao dobročinitelj i učenik Karla Poppera, G. Soros, zapravo je jedan od najvećih zagovornika globalizacije, koji više i ne kriju da im je cilj uništiti nacije, granice i nametnuti svjetsku vladu. Čak su i Katalonci naivno upali u njegovu mrežu”, zaključuje Rambla Libre.



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Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi


di Marco Santopadre*

Nelle prossime settimane si terranno due appuntamenti elettorali su materie apparentemente simili ma in realtà di segno molto diverso. Il primo ottobre dovrebbe svolgersi in Catalogna (il condizionale è d’obbligo) un referendum per l’indipendenza dallo Stato Spagnolo, mentre il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si voterà per chiedere maggiore autonomia dal governo centrale italiano.
Come detto, ad uno sguardo superficiale le due consultazioni potrebbero sembrare equivalenti, ma le differenze sono notevoli.

I referendum in Lombardia e Veneto sono promossi e sostenuti dalla maggioranza dei partiti, dalla Lega fino al Pd, e mirano a ottenere una maggiore autonomia, soprattutto in campo fiscale, per le due regioni del nord Italia. Si tratta quindi di un proseguimento e di un approfondimento delle politiche, portate avanti prima dai governi di centrosinistra e poi da quelli di centrodestra nel corso del decennio scorso, che introdussero il cosiddetto ‘federalismo’. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: le imposte e i balzelli locali per i cittadini sono notevolmente aumentati, man mano che lo Stato cedeva competenze agli enti locali che a loro volta privati dei finanziamenti statali si vedevano obbligati ad aumentare la tassazione e a tagliare o esternalizzare importanti servizi. Col risultato che oggi i cittadini, i lavoratori, i pensionati pagano assai più cari servizi di qualità peggiore. Sul fronte dell’autogoverno, della possibilità cioè delle comunità locali di incidere maggiormente sulle decisioni di natura politica e territoriale, nulla è cambiato, anzi.

Di fatto i referendum indetti in Lombardia e in Veneto il 22 ottobre su iniziativa dei governatori Maroni e Zaia si inseriscono nel solco di quel ridisegno regressivo dell’assetto costituzionale e istituzionale tendente a facilitare una maggiore integrazione del nord del paese all’interno della struttura produttiva, economica e politica dell’Unione Europea. Nelle due regioni, come ha ricordato Sergio Cararo qualche giorno fa su Contropiano, si concentra quel 22% d’imprese che realizzano l’80% del valore aggiunto e delle esportazioni di tutto lo Stato. Sono questi i territori che a Bruxelles, Parigi e Berlino interessa integrare e cooptare nel nucleo duro dell’Unione Europea, mentre il resto del paese si fa sempre meno interessante perché poco appetibile.

Comunque si tratta di referendum di tipo consultivo per i quali non è previsto alcun quorum, e l’impatto del loro risultato potrebbe essere assai scarso. Di fatto una sorta di megaspot a favore dei due governatori e delle loro rispettive maggioranze, anche se poi le consultazioni sono sostenute dal Pd e dai suoi cespugli. Certo, in caso di vittoria del Sì e di forte partecipazione alle consultazioni, i promotori e i loro sponsor – il padronato medio-piccolo, le lobby finanziarie locali agganciate agli ambienti europei che contano – potrebbero rivendicare più voce in capitolo nei confronti del governo e rosicchiare qualche privilegio in più. Ad esempio, ottenendo di poter stringere accordi ‘autonomi’ con gli ambienti economici tedeschi, finanziamenti ad hoc per migliorare le infrastrutture, agevolazioni fiscali o incentivi alle imprese o agli enti locali.

I riscontri positivi per le popolazioni delle due regioni sarebbero insignificanti. Anzi, com’è successo dopo l’introduzione del cosiddetto ‘federalismo fiscale’, i processi di concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di ambienti sempre più ridotti e di tipo oligarchico potrebbe subire una ulteriore accelerazione.

Mentre i due referendum in Lombardia e Veneto sono puramente funzionali agli interessi del padronato locale e del meccanismo di gerarchizzazione del territorio europeo gestito in maniera spesso spericolata da una borghesia continentale sempre più sovranazionale, il quesito catalano del Primo ottobre ha risvolti assai più interessanti e di rottura.

La rivendicazione indipendentista catalana ha una storia pluricentenaria, in opposizione ad una costruzione nazionale spagnola di tipo autoritario e sciovinista che è ricorso alla dittatura per ben due volte nel ventesimo secolo (quelle di Miguel Primo de Rivera dal 1923 al 1930 e poi quella di Francisco Franco dal 1936 fino alla fine degli anni ‘70). Fu non solo per reprimere i movimenti dei lavoratori e i moti rivoluzionari che le classi dirigenti spagnole scelsero il terrore, ma anche contro le rivendicazioni indipendentiste dei baschi, dei catalani e delle altre nazionalità inglobate a forza in uno stato autoritario e feudale.

Dopo la morte di Franco all’interno del regime si affermò l’ala più modernista e liberale in economia (ma non per questo meno fascista) che era interessata a integrare la Spagna nell’allora Comunità Economica Europea e nella Nato. Così il regime non venne travolto ma semplicemente si autoriformò, cambiando pelle pur di continuare a garantire, con forme nuove, il dominio dell’oligarchia economica e politica.
Se il Movimento di Liberazione Basco, da posizioni socialiste rivoluzionarie, rifiutò e contestò a lungo l’autoriforma del regime accettata supinamente dalle opposizioni di sinistra spagnole, il movimento nazionalista catalano si integrò senza particolari scossoni all’interno del cosiddetto ‘Stato delle autonomie’. La borghesia catalana, ampiamente integrata sia a livello statale che internazionale, ha gestito il potere politico ed economico a livello locale in maniera pressoché ininterrotta dall’inizio degli anni ’80 fino ai nostri giorni. I partiti regionalisti e autonomisti catalani – in primis Convergència Democràtica de Catalunya – hanno a lungo relegato le rivendicazioni indipendentiste al livello simbolico, mirando ad aumentare il proprio potere e il proprio radicamento a livello locale in cambio del sostegno ai governi statali formati alternativamente dai due partiti nazionalisti spagnoli, il Partito Popolare e il Partito Socialista Operaio (sic!) Spagnolo.

Ma questo equilibrio si è rotto all’inizio del decennio. La gestione autoritaria e liberista della crisi economica da parte dei governi spagnoli – sotto dettatura Ue – e di quelli regionali ha provocato la politicizzazione di decine, forse centinaia di migliaia di catalani da sempre lontani dalla contesa tra il campo autonomista e quello nazionalista (spagnolo). In reazione ai licenziamenti di massa, degli sfratti con l’uso della forza pubblica e dei tagli ai salari e al welfare le piazze si sono riempite: scioperi, manifestazioni, picchetti e assemblee hanno scosso la Catalogna.

Nel frattempo un blando tentativo di riforma dello Statuto di Autonomia varato dopo l’autoriforma del regime franchista, promosso dagli autonomisti e da alcune forze federaliste di centro-sinistra, ha visto una reazione sproporzionata e violenta da parte dello Stato e delle sue istituzioni. Un testo già ampiamente mutilato dagli stessi promotori catalani è stato ulteriormente sfregiato dalle istituzioni statali, manifestando così l’impossibilità di una riforma graduale e negoziale dell’autonomia di Barcellona.

La confluenza dei due processi – lotta contro l’austerity e lotta per una maggiore autonomia – unita ad una crescente mobilitazione sociale e politica contro lo stato e i suoi apparati repressivi, oltre che contro la corruzione e l’autoritarismo repressivo del governo regionale ha causato una frattura di tipo storico all’interno dello scenario catalano, con l’indebolimento dell’egemonia di Convergència – nel frattempo trasformatasi in Partit Demòcrata Europeu Català – e il rafforzamento di un variegato fronte indipendentista sorretto dalla mobilitazione permanente dell’associazionismo nazionalista trasversale e dall’affermazione elettorale di varie forze di sinistra, tra le quali le Candidature di Unità Popolare (Cup), anticapitaliste oltre che indipendentiste.

La mobilitazione a sinistra e indipendentista ha di fatto condizionato i regionalisti catalani obbligandoli ad abbracciare rivendicazioni di tipo nazionalista, che hanno portato alla formazione di un governo il cui obiettivo dichiarato è quello di traghettare la Catalogna verso l’autodeterminazione attraverso un processo di ‘disconnessione’ politica ed istituzionale con Madrid e i suoi apparati. Il momento di rottura formale dovrebbe essere rappresentato dal referendum che il parlamento catalano si appresta a convocare per il prossimo 1 ottobre. Che il referendum si tenga veramente ed in forme ufficiali – per intenderci sulla falsariga di quelli realizzati in Scozia ed in Quebec – è tutto da vedere: i partiti nazionalisti spagnoli e gli apparati dello Stato non hanno alcuna intenzione di permettere la celebrazione del voto popolare, non riconoscono ai catalani l’esercizio del diritto all’autodeterminazione e stanno intraprendendo un boicottaggio che potrebbe arrivare all’intervento delle forze di sicurezza contro i promotori del referendum, alla sospensione dello statuto di autonomia di Barcellona e all’esclusione degli indipendentisti dalle istituzioni e dagli uffici pubblici, per non parlare dei ricatti sul fronte economico.

Ma le contraddizioni esistono anche nel fronte catalano: il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, ha già perso pezzi consistenti del suo schieramento politico e il sostegno di alcuni importanti dirigenti del suo stesso partito politico. Di fronte all’acuirsi dello scontro e all’avvicinarsi del momento della verità molti di coloro che, da posizioni catalaniste, hanno a lungo agitato la parola d’ordine dell’indipendenza scelgono di fare un passo indietro. In fondo gli spezzoni dominanti della borghesia catalana non hanno mai abbracciato pienamente la parola d’ordine della separazione da Madrid e la sua scelta sarà improntata ad un pragmatico bilancio costi/benefici. Se lo scontro con Madrid si facesse troppo duro settori consistenti e maggioritari di PDeCat potrebbero tirare i remi in barca, sospendendo la procedura di ‘disconnessione’ in cambio magari di un aumento dell’autonomia fiscale e amministrativa che poi è il succo delle rivendicazioni autonomiste della borghesia catalana. Una scelta che però non sarebbe né facile né indolore per il partito liberal-conservatore catalano, che a quel punto dovrebbe subire l’offensiva delle forze autenticamente indipendentiste e in particolare dei partiti di sinistra catalani, Erc e Cup.

Come detto, a Barcellona in queste settimane si gioca una partita molto interessante, dagli esiti non scontati e che avrebbe forti ripercussioni non solo sugli equilibri dello Stato Spagnolo ma su tutta l’Unione Europea. In Catalogna, nel fronte indipendentista, si scontrano due diverse tendenze politiche: una europeista, liberista, conservatrice sul piano sociale e affatto interessata a mettere in dubbio le attuali collocazioni internazionali, ed un’altra che insieme all’indipendenza chiede l’uscita dalla Nato e dall’Unione Europea, la rottura con le politiche liberiste e una forte rottura con gli attuali equilibri politici ed economici.

La Monarchia autoritaria spagnola perderebbe un pezzo consistente, e nascerebbe una Repubblica Catalana all’interno della quale i movimenti sociali e politici progressisti o esplicitamente antagonisti avrebbero un peso consistente in grado di contendere alle forze moderate la guida del processo di costruzione del nuovo stato, di mutare i rapporti di forza, di introdurre nel dibattito politico e nel processo decisionale degli elementi di rottura con la brutta china imposta dal processo di costruzione del polo imperialista europeo.

L’esito di questa dialettica è ovviamente tutt’altro che scontato, ma che la rottura di Barcellona con Madrid apra spazi consistenti alle rivendicazioni di classe è innegabile.
Per questo equiparare i referendum di Lombardia e Veneto con quello catalano è un grave errore da parte di forze che si richiamano al progresso e al cambiamento.

* Rete dei Comunisti

31 agosto 2017



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Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE sobre la situación en Catalunya de cara al referéndum del 1 de octubre


1.     El ejercicio del derecho a la libre autodeterminación de los pueblos es un requisito imprescindible para superar el fracaso histórico de la burguesía española en su objetivo de construir España como nación que reconozca la realidad de su carácter plurinacional, y que desarrolle el marco de convivencia necesario para sentar las bases materiales de una nación española que sea reconocida como patria por quienes vivimos en este Estado. La nación española que ha impuesto la burguesía, especialmente después del fin de su fase colonial en 1898, es incapaz de adquirir esta condición y se desarrolla como cárcel de pueblos oprimidos en la dictadura del capital. Este derecho a la libre autodeterminación no es tal si no incluye el derecho a la independencia.

2.     Mariano Rajoy representa, hoy, la continuidad del proyecto político de la vieja España, fracasada en su intento de unificar a los distintos pueblos y naciones. Intento de unificación que, siempre ignorando sus derechos, se ha realizado desde la imposición y la violencia. Esa es la misma incapacidad política que hoy pone en evidencia el Gobierno del PP, que no tiene ninguna vía política de superación del actual conflicto con el Govern de Generalitat, y que recurre a la utilización instrumental de los aparatos del Estado y a la intervención represiva de los cuerpos de policía. 

3.     El proceso que se desarrolla en Catalunya, a iniciativa de un amplio sector de su burguesía, tiene el objetivo de una mejor recolocación de esa clase social en la cadena imperialista. La burguesía catalana entra así, una vez más, en contradicción con la oligarquía española. Contradicción que tiene su base material en la existencia de un marco específico de acumulación capitalista en Catalunya, que el capitalismo español (pese a haberlo intentado) no ha conseguido nunca integrar en el marco general de la acumulación capitalista en España de forma unificada. No es, por tanto, un proceso de liberación nacional de base popular, si bien se apoya y utiliza los sentimientos nacionales históricamente arraigados en el pueblo, para obtener una amplia legitimación de masas a su particular estrategia. Estamos frente a un intento de proceso de recomposición capitalista, sobre la base de la continuidad de la propiedad privada y de la explotación de la clase obrera y los sectores populares por una clase social parasitaria.

4.     El SP del CC del PCPE entiende que, en una situación así, la posición del Partido de la clase obrera es la de clarificar los intereses en juego ante el pueblo trabajador y, también, la de aprovechar las contradicciones que se dan en el marco del bloque de fuerzas dominantes para incidir sobre ellas favoreciendo los intereses de la clase obrera y los sectores populares. Por ello, aun respondiendo esta situación que se da en Catalunya a un conflicto dentro del bloque de poder dominante, es necesario que la clase obrera intervenga en el mismo para debilitar a la clase dominante y favorecer el desarrollo de los intereses proletarios.

5.     Ante la convocatoria del referéndum del 1 de octubre, el PCPE, coincidiendo con las posiciones expresadas por el PC del Poble de Catalunya, hace un llamamiento a la clase obrera y a los sectores populares a participar en ese proceso, manifestando su voto nulo, como expresión contra un proyecto de la burguesía catalana que se inserta en la alianza imperialista de la UE y en la OTAN, y que quiere dar continuidad a la actual explotación de la clase obrera catalana bajo nuevas formas.

6.     El SP del CC del PCPE llama a combatir todas las formas de utilización violenta de los aparatos del Estado para reprimir los derechos de la clase obrera catalana por parte del Gobierno de Mariano Rajoy, a hacer una firme defensa del legítimo derecho de autodeterminación de los pueblos, y a fortalecer el bloque obrero y popular en torno a sus propios intereses de clase, que es un requisito imprescindible para impulsar el proceso que lleve al reconocimiento de Catalunya como nación. 

7.     El SP del CC del PCPE, como expresión de los acuerdos del X Congreso del Partido, reitera su propuesta de superación de la actual situación en base a su propuesta de República Socialista de carácter Confederal, como salida política de futuro a esta situación. Un proceso hegemonizado por la clase obrera, que liquidará no solo a la decrépita monarquía española sino, también, a las estructuras de dominación capitalista que someten a los pueblos y naciones del Estado a la opresión nacional, y a su clase obrera a unas miserables condiciones de vida bajo la dictadura del capital.


Secretariado Político del Comité Central del PCPE a 10 de Septiembre de 2017



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Septembre 19, 2017

A propos du référendum en Catalogne ibérique

Une réflexion de Georges Gastaud, secrétaire national du PRCF, d’Antoine Manessis, responsable PRCF aux relations internationales, et Annette Mateu-Casado, membre du secrétariat politique, défenseur de la culture catalane


Le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes n’étant pas négociable aux yeux des communistes, le PRCF condamne l’attitude grossièrement répressive du pouvoir de Madrid à l’encontre des éventuels participants au référendum catalan. D’autant que l’attachement de Mariano Rajoy et du roi Felipe à la « démocratie » est aussi suspect qu’est évidente leur commune filiation avec l’Espagne franquiste dont le centralisme, non pas démocratique, mais fasciste, est largement responsable historiquement des divisions de l’Espagne actuelle.

Il n’en faut pas moins s’interroger sur l’ « indépendantisme » de la grande bourgeoisie catalane. Il s’inscrit totalement dans la « construction » euro-atlantique qui est la négation même de l’indépendance des peuples et plus encore, de leur droit inaliénable à construire le socialisme. Comment des actuelles composantes régionales des Etats existants (Espagne, France, Italie, Belgique, ex-Yougoslavie, ex-Tchécoslovaquie…) seraient-elles plus fortes face à l’Axe Bruxelles-Berlin-Washington (donc face à l’oligarchie euro-atlantique qui met les peuples en coupe réglée) en s’isolant les unes des autres, plutôt qu’en s’unissant aux autres composantes dans le respect des diversités culturelles ? Comment les prolétaires de chacune de ces « grandes régions » cultivant l’euro-séparatisme seraient-ils plus forts pour lutter contre le capital si, à l’intérieur de chaque « nouveau pays » séparé des Etats existants et transformé en nouvelle micro-étoile du drapeau européen, les travailleurs sont divisés encore davantage selon la langue et selon la nationalité ?

D’autant qu’en France même, des forces réactionnaires travaillent, dans plusieurs régions limitrophes du pays, à démanteler la République une et indivisible issue de la Révolution, à prendre la langue française – élément unificateur majeur du pays – en étau entre le tout-anglais transatlantique et la langue régionale érigée en arme de division. A l’arrière-plan de ce séparatisme régionaliste soi-disant opposé à « Paris » et à l’ « Etat », le pouvoir « parisien » lui-même se déchaîne contre le « jacobinisme » (phase éminemment progressiste de notre histoire où, sous l’autorité de Robespierre, l’unité territoriale du pays s’est conjuguée avec la généralisation de l’autonomie communale) défend ce qu’il appelle un « pacte girondin » : Macron entend ainsi saper l’unité de la République, exploser les acquis nationaux du peuple (conventions collectives de branche, statuts, diplômes nationaux, Sécu, services publics d’Etat, retraites…), favoriser les grandes régions, les « régions transfrontalières » et les euro-métropoles destructrices des communes et des départements.

En ce qui concerne la France, et tout en défendant très clairement les langues et les cultures régionales en tant que patrimoine indivisible de la nation, le PRCF appelle les travailleurs, de Lille à Perpignan et de Brest à Sartène, à faire échec à Macron-MEDEF, à l’UE supranationale, au Pacte transatlantique en gestation, à l’OTAN, à tous ceux qui veulent à la fois araser les conquêtes sociales du CNR, l’autonomie des communes de France, la souveraineté de notre pays et le droit de ses travailleurs à construire tous ensemble, le socialisme dans la perspective du communisme.

Sans cautionner en quoi que ce soit la moindre violence du pouvoir de Madrid à l’encontre de la population vivant dans la Généralité catalane, le PRCF appuie la revendication des communistes et des progressistes d’Espagne qui proposent la mise en place d’une Espagne républicaine et socialiste, confédérale, indépendante de l’UE et de l’OTAN, pleinement respectueuse de ses nationalités et en marche vers le socialisme*. 


*nous signalons que nos camarades du Parti communiste des peuples d’Espagne appellent au vote blanc à ce référendum.



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Comunicato  solidarietà con il popolo catalano

Con l\'avvicinarsi del 1 ottobre, giorno scelto per la consultazione referendaria sull\'indipendenza della Catalogna, si vanno concretizzando violentemente le minacce del governo Rajoy nei confronti del composito movimento indipendentista.

In nome del \"diritto\" - evidentemente quello di neutralizzare la democrazia nel caso si manifesti in maniera contraria agli interessi del \"mondo di sopra\" -  sono scattate le manette per diversi membri e funzionari della Generalitat. E\' solo l\'ultimo episodio dopo il sequestro di materiale pro-referendum, l\'invio di un\'ordine di comparizione in tribunale per 712 sindaci accusati di favorire una consultazione illegale, l\'ordine di bloccare in ogni formato, cartaceo o digitale, la propaganda referendaria, il commissariamento dei conti del governo regionale catalano e l’invio a Barcellona di 10mila tra agenti di polizia e militari.

La “democrazia spagnola” di mostra per quello che è sempre stata: diretta erede dello stato franchista, dal quale non si è mai smarcata realmente, mantenendo il suo impianto nazionalista e autoritario e i suoi apparati repressivi e ideologici. Il passaggio dalla dittatura alla monarchia parlamentare fu gestito dal regime fascista per garantire il dominio dell\'oligarchia sotto altre forme dettate dalla necessità di integrare il paese nella Nato e nella Comunità Economica Europea.

Quella stessa Unione Europea che oggi volta le spalle alle richieste di libertà e di democrazia del popolo catalano, concedendo mano libera alla repressione di Madrid. Quel diritto all’autodeterminazione che l’Ue ha strumentalmente sponsorizzato quando si trattava di togliere di mezzo paesi non conformi da sfasciare e assorbire - il caso dell’ex Jugoslavia è eclatante - non sembra valere per Bruxelles all’interno dei propri confini. Al polo imperialista europeo non interessano né la democrazia né la libertà, soprattutto quando non sono in linea con i propri interessi strategici e se mettono a rischio la stabilità interna come nel caso della Catalogna. Una contraddizione non indifferente per quegli spezzoni liberali del movimento indipendentista catalano che si appellano proprio a Bruxelles ritenendo Ue una alternativa democratica all’autoritarismo spagnolo.

Nel momento in cui gli viene impedito di esprimersi democraticamente sul proprio futuro non possiamo che schierarci a fianco del popolo catalano. All\'interno del fronte indipendentista esistono componenti molto diverse per orientamento politico e ideologico; non potrebbe essere altrimenti visto che siamo di fronte a un vasto movimento popolare e non dell’espressione delle rivendicazioni di un solo partito o di una sola classe sociale. Ma è impossibile negare l\'importanza che la lotta per l\'emancipazione e la liberazione sociale, condotta da consistenti e radicati settori politici e sociali di sinistra e di classe, sta avendo nella concretizzazione del Referendum del 1 ottobre e in generale nel processo indipendentista.

Nell\'attuale contesto continentale, la rivendicazione d\'indipendenza del popolo catalano si pone in oggettiva rottura non solo con le classi dirigenti e l\'oligarchia spagnola ma anche con la stessa Unione Europea. Un processo di rottura politica e sociale in Catalogna rafforza oggi le ipotesi di opposizione e rottura dei popoli europei nei confronti dei propri governi e della gabbia dell\'Unione Europea, il che non può lasciarci indifferenti.

Nei prossimi giorni parteciperemo a diversi momenti di dibattito e di mobilitazione in solidarietà con la lotta del popolo catalano e il 1 ottobre saremo a Barcellona a fianco dei compagni e delle organizzazioni di classe che animano il movimento per l’emancipazione sociale e nazionale della Catalogna.


Rete dei Comunisti, 21/09/2017


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Sullo stesso tema si veda anche: Il giornalismo non è più un lavoro (di Alberto Negri, Il Sole24Ore, 8/8/2017)
... La professione giornalistica, ma ovviamente non solo quella, è diventata sempre più “volontariato”. Possono fare questo lavoro coloro che non campano di giornalismo, come professori, esperti vari, già pagati dalle istituzioni, da società pubbliche o private, dal mondo del business, oppure figli di papà mantenuti dalla famiglia. Ma non è gente che va sul terreno e afferra la vita vera. Parlano a vanvera di popoli che non conoscono e posti che non hanno mai visto...




L’informazione è povera, i giornalisti anche. I risultati si vedono


di Federico Rucco, 15 settembre 2017

“La situazione dell’editoria è devastante, ormai il 65% degli iscritti è precario o disoccupato. Otto su dieci hanno un reddito intorno ai 10 mila euro, quindi sotto la soglia di povertà”. A sottolinearlo è stato il presidente nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Nicola Marini, nel corso del suo intervento alla 10/a edizione di ‘Media Memoriae’. Disaggregando ulteriormente il dato, emerge che il 40% degli oltre 35mila giornalisti attivi in Italia, per lo più sotto i 35 anni, produce annualmente un reddito inferiore ai 5.000 euro.

Secondo i dati elaborati dal Rapporto dell’Agcom presentato lo scorso marzo, negli ultimi quindici anni sono andate crescendo soprattutto le fasce di reddito piu’ basse della professione, a testimonianza del fatto che sempre piu’ giornalisti esercitano la professione in modo parziale e precario.

sancire questo pessimo stato delle cose, è stato l’accordo siglato nel 2014 tra il sindacato dei giornalisti (Fnsi) con l’associazione degli editori (Fieg) e l’istituto previdenziale dei giornalisti (Inpgi). Con il meccanismo dell’equo compenso si è prodotta una situazione vergognosa. Ltariffe minime stabilite sono 20,80 euro a pezzo per i quotidiani con una media di 12 articoli al mese, 6,25 euro per le agenzie (con un minimo di 40 segnalazioni/informazioni al mese) e le testate web aumentati del 30% con foto e del 50% con un video. Se la produzione giornalistica è superiore, si procede per scaglioni e, paradossalmente, i pezzi successivi vengono retribuiti in misura ancora inferiore.

I dati ci dicono che in Italia quattro giornalisti freelance su dieci nel 2014 hanno praticamente lavorato gratis . In questa condizione si trovano 16.830 giornalisti «autonomi» sui 40.534 iscritti alla gestione separata dell’Inpgi, vale a dire il 41,5% degli iscritti.

Il rapporto del Lsdi presentato tre anni fa alla federazione della stampa, parlava di «zero redditi». In una situazione ancora più rognosa si trovano anche i 23.704 freelance che nel 2014 avevano dichiarato redditi inferiori o pari ai 10 mila euro lordi all’anno. Nel 2014 è stato inoltre registrato un ulteriore calo della retribuzione media: da 10.941 a 10.935 euro lordi annui. Chi lavora con la partita Iva o con la ritenuta d’acconto in Italia guadagna mediamente il 17,9% di chi invece ha un contratto di lavoro dipendente, 5,6 volte di meno.

Da tempo la logica della “liberalizzazione” ha prodotto devastazioni in ogni settore. Se sul lavoro salariato si è abbattuto lo tsunami della ristrutturazione, delle delocalizzazioni e del blocco dei salari, in settori come l’informazione ha agito il medesimo meccanismo espellendone i settori stabilizzati (sia tra i giornalisti che tra i poligrafici) e ricorrendo sistematicamente al precariato, al lavoro a prestazione e deresponsabilizzando le aziende editoriali da ogni dovere contributivo e fiscale. 

La Fnsi, il sindacato di categoria, da anni viene sollecitato a vedere come sia profondamente mutato anche socialmente il mondo dell’informazione, ma chi ha posto il problema si è trovato di fronte un muro (e neanche troppo di gomma) di chi continua a pensare che le figure da tutelare siano ancora e solo quelle che operano in Rai o nella grandi testate. Nel caso della crisi aziendale al Sole 24 Ore si è scelto di sacrificare i precari e salvaguardare gli stabilizzati.

E’ evidente come la povertà diffusa tra gli operatori della comunicazione riproduca un abbassamento della qualità nel mondo dei media. Ormai lo spettacolo quotidiano su lanci di agenzia, cronache, gestione di servizi televisivi è disperante. Altro che stimoli alla concorrenza, giornalismo di inchiesta, verifica delle fonti, deontologia professionale. E’ una lotta per la sopravvivenza che mette quotidianamente in contraddizione le aspettative sul “lavoro più bello del mondo” e la giungla di miserie messa a disposizione dai grandi e piccoli monopoli sull’informazione. Le cose migliori (ma anche le peggiori) ormai si trovano sulla rete. I monopoli se ne sono accorti e ne temono le conseguenze (vedi il crollo di vendite dei giornali o la diminuzione di telespettatori sui canali in chiaro). Ma la qualità si scontra sempre più spesso con la povertà delle risorse e delle retribuzioni ed anche progetti innovativi sul piano informativo decollano e atterrano bruscamente e pesantemente in pochissimo tempo. Insomma chi ha il pane non ha i denti. Chi ha i denti deve stringerli, per trovare il varco su cui convergere per rovesciare il tavolo.



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