Informazione
Bassa Comasca, 26 gennaio 2018
La Digos della Questura di Milano e la Digos di Como hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione con finalità di terrorismo.
Terrorismo
L’operazione prende il nome di “Talis pater”. Il provvedimento è nei confronti di due egiziani di 51 e 23 anni, padre e figlio, residenti in Provincia di Como. Tramite un provvedimento del Ministro dell’Interno è stata rimpatriata, per motivi di sicurezza personale, la cittadina marocchina 45enne moglie e madre dei due.
Abitavano a Fenegrò
La famiglia viveva a Fenegrò. In manette è finito il padre, Sayed Fayek Shebl Ahmed, classe 1966, ex Mujahideen in Bosnia. Il figlio, Saged Sayed Fayek Shebl Ahmed, è andato in Siria dal 2014 dove si trova tuttora. Rimpatriata in Marocco la moglie e madre dei due, Imrane Halima.
Il padre mandò il figlio in Siria
Il padre, 53 anni, in Italia, a Milano, dal 1996, l’anno successivo è arrivato a Como. L’uomo era partito dalla Bosnia dove era stato un Mujahideen. Il figlio maggiore, 23 anni, si trova in Siria, su di lui attualmente c’è un mandato di cattura internazionale. E’ stato proprio il padre ad indottrinarlo al fondamentalismo, quando nel 2014 aveva visto che i figli stavano diventato troppo occidentali. Ha quindi deciso di mandarlo in Siria, sotto l’ala protettrice di un suo ex commilitone della guerra in Bosnia. A quel punto Saged Sayed Fayek Shebl Ahmed è entato a far parte di un gruppo filo Al Qaeda denominato Al Zenki, dove è diventato un foreign fighter.
Finse di collaborare con le Forze dell’ordine
Nel 2015 il padre è andato in Questura, fingendo di voler collaborare con le Forze dell’ordine e denunciando il figlio in Siria e sostenendo di essere preoccupato per la situazione. Il suo reale scopo era quello di provare a togliere i sospetti su di lui. Nel frattempo il giovane in Siria, per un periodo, ha cambiato gruppo, legandosi all’Isis con il gruppo Hajat Thair Ash Sham. Dopo questa esperienza è però tornato nel gruppo d’origine. Ora si trova in Siria dove si è sposato e ha un bambino di 3 anni. Le indagini delle Forze dell’ordine sono cominciate proprio nel 2015. Dopo aver messo sotto controllo padre e madre di Saged, hanno subito capito la verità. Attraverso alcune intercettazioni telefoniche si è scoperto che il ragazzo mandava alla famiglia dei video dove era protagonista di alcune esecuzioni. Il padre poi era solito mandare 200 euro mensili al figlio.
La madre e moglie
Classe 1972, di origine marocchina, verrà rimpatriata nel pomeriggio di oggi. Le indagini hanno fatto emergere che approvava il comportamento del marito e del figlio, per questo anche lei è stata considerata un pericolo per la sicurezza dello Stato. Non potrà tornare in Italia per i prossimi 10 anni.
Gli altri figli
Non sono stati considerati implicati nella vicenda gli altri due figli della coppia, un ragazzo di 20 e una ragazza di 18 anni (nata a Como e diventata cittadina italiana di recente). I due giovani hanno sempre discusso con la famiglia per il loro fondamentalismo.
13/06/2016
L\'episodio non è stato praticamente registrato dai media europei, ancora sotto choc per i fatti di Parigi. Rappresenta tuttavia l\'ennesimo attentato riconducibile al terrorismo islamista avvenuto nel paese balcanico a partire dal 2010.
Nel giugno di quell\'anno venne fatta esplodere una bomba fuori dalla stazione di polizia di Bugojno, in Bosnia centrale. Un poliziotto, Tarik Ljubuškić, morì, e sei suoi colleghi rimasero feriti.
L\'anno dopo, a Sarajevo, Mevlid Jašarević aprì il fuoco con un kalashnikov contro l\'Ambasciata degli Stati Uniti, ferendo un poliziotto. Infine l\'anno scorso, il 27 aprile, Nerdin Ibrić ha assalito con un fucile automatico i militari della stazione di polizia di Zvornik, nella parte del paese a maggioranza serba, gridando “Allah Akbar” e uccidendo l\'agente Dragan Đurić prima di venire ucciso a sua volta.
Balcani, serbatorio di foreign fighters
La tipologia degli attentati avvenuti in Bosnia è diversa dalle stragi perpetrate dall\'autoproclamatosi “stato islamico” nelle grandi capitali europee. Ad essere colpiti sono obiettivi stranieri, oppure rappresentanti delle locali forze di sicurezza, militari o poliziotti.
I civili non sono stati finora coinvolti, il che lascia presupporre una strategia diversa dei gruppi radicali nei Balcani. Sporadicamente, singoli individui escono allo scoperto. Il ruolo principale assegnato alla regione, però, sembrerebbe essere quello di base logistica, ad esempio per il trasferimento di uomini o armi, e di serbatoio di potenziali “foreign fighters”.
Secondo il professor Vlado Azinović, docente all\'Università di Sarajevo e recentemente co-autore, con Muhamed Jusić, della ricerca “Il richiamo della guerra in Siria: il contingente bosniaco dei combattenti stranieri”, sarebbero circa 250 i bosniaci che hanno lasciato il paese per andare a combattere nel Medio Oriente, tra il 2012 e la fine del 2015.
Non si tratta di una cifra rilevante in termini assoluti, se comparata ad esempio a quella dei “foreign fighters” provenienti dalla Francia, dal Belgio, dal Regno Unito o dalla Germania. In termini relativi però, cioè riportati alla grandezza della popolazione (circa 3.800.000), non si tratta di un dato insignificante.
Bosnia, dove è facile procurarsi armi
La Bosnia Erzegovina, inoltre, ha alcune specificità, sotto il profilo del rischio terrorismo che la distinguono dalla maggior parte degli altri paesi europei. La prima è la frammentazione delle diverse forze e agenzie di sicurezza, nel contesto della complicata struttura istituzionale definita dagli accordi di Dayton.
Uroš Pena, vice capo del Direttorato per il Coordinamento delle forze di polizia del paese, ha recentemente dichiarato ai media locali che “la condivisione delle informazioni è un grosso problema. Ogni agenzia si tiene strette le migliori informazioni di cui dispone [...] Non abbiamo neppure una chiara definizione delle giurisdizioni”.
Il secondo elemento di rischio, per la Bosnia Erzegovina, è la relativa facilità con cui, a vent\'anni dalla fine della guerra, è ancora facile procurarsi armi. Quando sono stati firmati gli accordi di pace, molti hanno preferito conservare le armi, ad ogni buon conto. Queste armi possono ora finire nelle mani sbagliate nei modi più diversi, vendute sul mercato nero anche solo per aggiustare temporaneamente il bilancio familiare.
Il fatto invece che poco meno della metà della popolazione della Bosnia Erzegovina sia di fede, cultura o tradizione musulmana, l\'aspetto in genere più sottolineato dai media europei che si sono occupati del fenomeno terrorista nel paese, non rappresenta di per sé un elemento di rischio.
La comunità islamica locale (Islamska Zajdenica, IZ) ha sempre denunciato con forza il terrorismo e la violenza, invitando i propri fedeli a tenersi distanti dai gruppi radicali che cercano di sovvertire le regole su cui da secoli si fonda l\'Islam in questa regione.
Alle origini dei mujaheddini in Bosnia
Questi gruppi, secondo il giornalista Esad Hećimović, autore di “Garibi - Mujaheddini in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1999”, hanno cominciato a manifestare la propria presenza nel paese a partire dal 1992, anno di inizio della guerra in Bosnia. Alcune centinaia di combattenti (un numero verisimile è quello di 800 combattenti, secondo Hećimović), provenienti da paesi arabi o dall\'Afghanistan, si unirono alla brigata “El mujahid” dell\'Armija BiH, Esercito della Bosnia Erzegovina, o a formazioni minori, combattendo dalla parte dei bosniaco musulmani.
Dopo la guerra, la loro influenza continuò in modi diversi, attraverso il lavoro di predicatori, l\'assistenza finanziaria o la creazione di un sistema alternativo di welfare.
Oggi, venti anni dopo la fine della guerra, è difficile valutare la diffusione e influenza dei gruppi radicali. Data la conformazione del paese, si tratta di una presenza localizzata soprattutto in villaggi isolati, in zone montuose o rurali, dove questi gruppi conducono una sorta di vita sociale e religiosa parallela. Non tutti sono naturalmente legati alle reti del terrorismo internazionale, né tutti credono nell\'uso della violenza per la lotta politica o religiosa.
La comunità islamica ha però cercato recentemente di ricondurre le 64 comunità ribelli censite all\'interno della propria giurisdizione. Il difficile percorso non ha però sortito grandi risultati. Al termine dei colloqui, solo 14, delle 38 che hanno partecipato al processo, hanno accettato di (ri)entrare a far parte della comunità ufficiale.
Andrea Oskari Rossini nel corso degli anni \'90 ha lavorato in diversi progetti di assistenza ai profughi dell\'ex Jugoslavia in Italia e poi in programmi di cooperazione comunitaria e decentrata nei Balcani. Giornalista professionista e documentarista, lavora con Osservatorio Balcani e Caucaso dal 2002.
Quest\'articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l\'Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso.
ATLANTIC INITIATIVE: http://www.atlanticinitiative.org
Quatorze ans après sa mort, l’ancien Président bosniaque fait un retour en force sur les écrans. Plusieurs films et séries documentaires turques reviennent sur le parcours du « père de l’indépendance » de la Bosnie-Herzégovine, présenté comme le « dernier rempart de l’islam dans les Balkans ». Une approche hagiographique qui, bien sûr, provoque de vives réactions en Republika Sprska...
https://www.courrierdesbalkans.fr/Bosnie-Herzegovine-Alija-Izetbegovic-dernier-rempart-de-l-islam
Les départs de combattants islamistes vers la Syrie ou l’Irak ont pris fin en 2016, affirment les autorités de Bosnie-Herzégovine. En revanche, les retours au pays ont augmenté....
https://www.courrierdesbalkans.fr/Bosnie-Herzegovine-condamnations-Syrie-Irak
Recensione di La porta d’ingresso dell’Islam, di Jean Toschi Marazzani Visconti, Editore Zambon 2016
http://www.linterferenza.info/esteri/la-porta-dingresso-della-jihad-made-in-usa/
Plus de 80 enfants originaires de Bosnie-Herzégovine se trouveraient actuellement sur les territoires contrôlés par les forces de l’organisation de l’État islamique. Certains d’entre eux auraient même été intégrés à des unités combattantes. C’est ce que révèle une étude de l’ONG Atlantic Initiative...
En Bosnie-Herzégovine, de plus en plus de femmes acceptent de devenir la deuxième femme d’hommes originaires de pays arabes. Des unions « basées sur l’amour et le respect », disent-elles, mais qui sont illégaux, autant aux yeux de la communauté islamique locale, qu’à ceux de la loi bosnienne...
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\"Krivica, dragi Brute, nije u našim zvijezdama,
već u nama samima, zato što smo robovi.\"
W: Shakespeare: Julije Cezar
Historija i njeni svjedoci
U dane kad se širi ksenofobija, a glasovi nacionalističke i rasističke desnice su u porastu u svim zemljama, treba se sjetiti napisa Prima Levija, autora knjiga \"Zar je to čovjek?\" (“Se questo è un uomo”\"), \"Sommersi e salvati\" - \"Potonuli i spašeni\", jer je stara istina da tko zaboravi učenje historije, osuđen je da ga ponovi. Izražavamo iskrenu nadu, da taj udes više neće zadesiti Evropu.
Primo Levi
Potonuli i spašeni - Zaključci
Iskustvo što ga nosimo mi, preživjeli nacističkih logora, postaje sve više tuđe novim generacijama na Zapadu, i ono će im postajati još više više strano i daleko, kako prolaze godine. Za mlade pedesetih i šezdesetih godina, bile su to stvari, koje su se izravno ticale njihovih otaca: o tome se raspravljalo u porodicama, a sjećanja su još čuvala svježinu onog, što su oćevi doživjeli i vidjeli. Za generacije osamdesetih, to su već stvari njihovih djedova: daleke, zamagljene, \"povijesne\". Oni su zaokupljeni svojim današnjim problemima, različitim i žurnim: nuklearnom opasnošću, nezaposlenošću, iscrpljivanjem sirovina, demografskom eksplozijom, tehnologijama, čije inovacije nailaze frenetičnom brzinom i traže da im se brzo adaptiraju. Konfiguracija svijeta je stubokom izmijenjena, Evropa nije više centar planete. Kolonijalni imperiji popustili su pritiscima naroda Azije i Afrike, žarko željnim nezavisnosti, pa su se raspali, ne bez tragedija i bez borbe između novih nacija. Njemačka /.../ je postala \"uvaženom\" zemljom, i realno drži u vlastitim rukama budućnost Evrope/.../Ideologije, koje su bile temeljem djelovanja pobjednika posljednjeg svjetskog rata, izgubile su jako mnogo od vlastite vjerodostojnosti i vlastitog sjaja. Tako se sada približava odrasloj dobi nova generacija skeptika, lišena ne ideala, već sigurnosti, štoviše nepovjerljiva prema otkrivenim velikim istinama; spremna da prihvati sitne istine, koje se mijenjaju iz mjeseca u mjesec na uskomešanom valu kulturnih moda, bilo da su te mode odnekuda pilotirane, ili da nastaju divlje. Zato nama postaje sve teže razgovarati s novim generacijama. Imamo osjećaj da je to naša dužnost, ali istovremeno ona nosi i rizik. Riskiramo da zvučimo anahrono, da nas se ne sluša. A mora nas se čuti: mi se moramo uzdići iznad naših pojedinačnih iskustava i da ona ne smiju biti samo pojedinačna; bili smo svi mi kolektivno svjedoci fundamentalnog i neočekivanog događaja, fundamentalnog baš zato, što je bio neočekivan, jer ga nitko nije predvidio. Dogodio se u Evropi, odigrao se protiv svih predviđanja, nevjerojatno. Dogodilo se da jedan cijeli civilizirani narod, koji je tek izišao iz grozničavog procvata Weimara, slijedi jednog histriona (glumca ovdje pežorativno -prev.) čija figura danas izaziva smijeh. A ipak su se Adolfu Hitleru pokoravali i pjevali mu hosana sve do konačne katastrofe. Pošto se dogodilo jednom, znači da se može dogoditi opet; to je opasnost na koju smo dužni upozoriti.
Može se dogoditi i to svugdje. Ne podrazumijevam pod tim, niti to želim reći da će se neizostavno dogoditi, kako sam već rekao; malo je vjerojatno da se realiziraju iznova, simultano, svi oni činioci, koji su izazvali nacističko ludilo, ali već se šunjaju neki upozoravajući znaci. \"Korisno\" i \"nekorisno\" nasilje je tu, pred našim očima. Ono gmiže, u nepredvidivim ili izdvojenim epizodama, ili kao bezakonje, koje provodi sama država, u onim zemljama, koje se običavaju nazivati prvim i drugim svijetom, a to znači u parlamentarnim demokracijama kao i u zemljama komunističkog kruga. U tako zvanom trećem svijetu nasilje je endemsko i dobija oblik epidemije. Ono samo iščekuje novog histriona, (a kandidati svakako ne manjkaju) da organizira i legalizira nasilje, da ga proglasi neophodnim i da njime zarazi svijet. Za malo zemalja može se jamčiti da u budućnosti neće doživjeti plimu nasilja, plimu koju rađa želja za vlašću, netrpeljivost, slabost vlada, ekonomski razlozi, religiozni ili politički fanatizam, rasna netrpeljivost. Treba dakle da izoštrimo našu osjetljivost, da sumnjamo u proroke, i riječi političkih zavodnika, svih onih što govore i pišu \"lijepe riječi\", koje nisu zasnovane na poštenim razlozima.
Bilo je opsceno rečeno da je sukob nužan, da ljudski rod ne može bez rata. Kazali su također, da su lokalni sukobi, nasilje na cesti, nasilje u fabrici kao i nasilje na stadionima jednaki, općenito uzevši, ratu i da nas to nasilje čuva kao \"malo zlo\", neka vrsta epilepsije, od velikog zla. Netko je također primijetio, da nikad u Evropi nije prošlo više od četrdeset godina bez ratova te da bi jedan toliko dugi mir predstavljao historijsku anomaliju.
To su varljivi i sumnjivi argumenti. Sotona nije neophodan, nema potrebe za ratovima i za nasiljem ni u kom slučaju. To se mišljenje, ovisno o događajima, vremenom pojačava, umjesto da bude prigušeno. Doista, mnogi znaci potiču na razmišljanje o genealogiji današnjeg nasilja, koje se grana i izrasta upravo iz onog, što je dominiralo u Hitlerovoj Njemačkoj. Zacijelo, nasilja nije manjkalo ni u dalekoj, ni u bliskoj prošlosti, niti ga je nedostajalo ni u besmislenom masakru Prvog svjetskog rata, iako su nadživjeli, makar u obrisima, tragovi međusobnog uvažavanja zaraćenih strana, tragovi humanosti u odnosu na zarobljenike i na goloruke civile te bar namjera, da se uvažavaju dogovori: vjernik bi kazao, da je još postojao \"izvjestan strah božji\". Protivnik nije bio smatran niti za demona niti za crva. Nakon nacističkog Gott mit uns sve se promijenilo. Na Goeringovea teroristička bombardiranja saveznici su odgovorili \"tepih\" bombardiranjem. Razaranje cijelog jednnog naroda i čitave jedne kulture pokazalo se mogućim, čak poželjnim samim po sebi ili kao sredstvo vladanja. Iskorištavanje robovske radne snage Hitler je naučio u Staljinovoj školi. A u Sovjetski Savez se ta praksa vratila umnožena po završetku rata. Bijeg mozgova iz Njemačke i iz Italije, zajedno sa strahom da ih nacistički naučenjaci ne prestignu, rodio je nuklearne bombe.
Preživjeli i očajni Jevreji, bježeći iz Evrope, nakon golemog brodoloma, stvorili su u srcu arapskog svijeta otok zapadne civilizacije, jednu moćnu palingenezu (preporod prastarog -prev.) jevrejstva, a ova je postala povod za obnovljenu mržnju. Nakon poraza naoizgled šutljiva nacistička dijaspora podučila je umijeću progona i vještinu torture vlastodršce bar desetak zemalja, što izlaze na Sredozemno more, ili na Atlanski ocean ili Pacifik. Mnogi suvremeni tirani drže u ladici \"Mein Kampf\" Adolfa Hitlera, a ova bi pisanija, možda, uz poneku ispravku, ili uz poneku zamjenu imena, još mogla pristajati svojim krojem.
Primjer Hitlera je pokazao do koje je mjere razoran rat, koji se vodi u industrijskoj eri, budući da i bez upotrebe nuklearnog oružja posljednjih godina, zlosretni poduhvat vijetnamskog rata, rat za Falkland, rat između Irana i Iiraka, događaji u Kambođi kao i oni u Afganistanu to nesumnjivo potvrđuju. No ipak sam rigorozno nastojao dokazati (nažalost ne u matematskom smislu) da bar koji put, bar djelimično, historijske krivnje bivaju kažnjene: moćnici Trećeg Reicha su svršili na vješalima ili kao samoubojice, Njemačka je kao zemlja doživjela biblijski \"pokolj prvorođenih\", koji je desetkovao cijelu jednu generaciju, kao i podjelu na dva dijela i to je značilo svršetak vjekovne germanske nadmenosti. Nije nipošto apsurdno pretpostaviti, da se nacizam od samog početka nije pokazao nemilosrdno surov, da ne bi došlo do saveza njegovih protivnika ili da bi se taj savez raspao prije kraja rata. Svjetski rat, koji su željeli nacisti i Japanci bio je samoubilački rat: sve bi ratove trebalo držati za takve.
No stereotipima koje sam pregledao /.../ htio bih dodati još jedan. Mladi nas pitaju, tim češće i tim intenzivnije kako vrijeme odmiče, od kakvog su materijala bili napravljeni naši \"krvopije\". Izraz se odnosi na naše bivše čuvare, na esesovce, i po mom mišljenju, to nije umjesan izraz: on aludira na nakazne pojedince, loše rođene, sadiste, pogođene nekom urođenom greškom. Naprotiv, bili su od istog materijala kao i mi, prosječna ljudska stvorenja, prosječno inteligentni, prosječno opaki, osim izuzetaka, nisu bili čudovišta, imali su naša lica, no bili su zlu naučeni. Bili su najvećim dijelom članovi nacističke partije i njeni poslenici, grubi, ali revni, poneki fanatično uvjereni u nacistički nauk, drugi indiferentni ili u strahu od kazni,
ili su željeli napraviti karijeru ili su bili pretjerano poslušni. Svi su prošli kroz zastrašujuće opaki nauk, koji im je davala i nametala škola, kakvu je htio Hitler i njegovi suradnici, a taj je nauk još bio upotpunjen esesovskim Drillom. Tu specijalnu vojnu organizaciju mnogi su odabrali zbog prestiža, koji im je ona jamčila, zbog njene svemoći ili pak iz banalnih novčanih razloga, kako bi se izbavili od porodičnih poteškoća. Neki, ali istini za volju, vrlo mali broj njih, pokajali su se i zatražili su da ih premjeste na front, ili su vrlo oprezno pomogli zatvorenicima ili su izabrali samoubojstvo. No neka bude sasvim jasno, da su odgovorni u manjoj ili u većoj mjeri bili svi, ali mora biti isto tako jasno, da iza njihove odgovornosti stoji ogromna većina Nijemaca, koji su od samog početka prihvatili, iz mentalne lijenosti, iz kratkovidnog proračuna, iz gluposti, ili iz nacionalne bahatosti, \"lijepe riječi\" Hitlera, i da su ga slijedili sve dok ga je pratila sreća, dok je bio njen favorit zbog pomanjkanja ikakvih skrupula i da su zajedno s njim bili povučeni u propast. Teško su ih pogodile smrti bliskih, bijeda i grižnja savjesti, a ne treba smetnuti s uma, da su bili rehabilitirani malo godina poslije svega, zbog jedne bezočne političke igre.
Primo Levi
Walter Barberis
Ono što Levi dijeli sa svim drugim zatvorenicima logora, je neizlječivost tog iskustva. Nije bilo u tom pogledu polemike i neslaganja s drugim piscem i analizatorom logora, porjeklom iz Strasburga, Jeanom Ameryjem: s njiim će ga povezati i isti kraj. Riječi koji je njegov drug po robovanju kazao, odnose se i na Prima Levija:\"Ko je bio mučen, biti će zauvijek mučen...Tko je podnio te patnje, neće se više nikad snaći u svijetu, Sramna grozota uništenja ličnosti ne može se ukloniti\". Neprirodnost i nepristojnost te mjere prezira i ugnjetavanja, krivnja onog koji je u bilo kojem vremenu zamislio zločine protiv čovječnosti leži u tome, što za žrtve, čak i one koje su izbjegle smrt, nema više života, već ih čeka spora smrt, često beskonačna.. Neizlječiva tjeskoba zbog onog što je preživio bila je jako prisutna kod Levija. Ispod naslova knjige \"Potonuli i preživjeli\" on je stavio ovu baladu starog mornara iz Codridgea.
Since then, at an uncertain hour,
Thet agony returns:
And till my glasly tale is told,
This heart withinm me burns.
Biografija Prima Levija:
Primo Levi rođen je u centru Torina 1919, u kući u kojoj će živjeti sve do smrti. Otac mu je bio inženjer elektrotehnike, dok se on bavio kemijom i radio kao stručnjak u tvornici sve do 1975, kad odlazi u penziju i isključivo se posvećuje literaturi. Autor je nekoliko knjiga o boravku u Auschwitzu i o svemu što se odnosilo na mučenje i na uništenja čovječje duše. Nakon 8 septembra 1943 pridružio se partizanima u Val d\'Aosti. Potkazan, uhvaćen je od fašista iz Salòa na spavanju, sa još dvojicom drugova. Kao Jevrejin, upućen je u talijanski logor Campo Formio, koji preuzimaju nacisti i šalju ga u Auschwitz u februaru 1944. Ostaje sasvim slučajno živ: odolio je smrti od gladi iscrpljenosti, jer mu je na gradilištu kemijske tvornice u kojoj je radio, neki talijanski zidar potajno ostavljao hranu, a potom, kad su nacisti ostali gotovo bez kvalificirane radne snage, radi kao kemičar u laboratoriju iste tvornice. Upravo pred oslobođenje logora od Crvene Armije, u januaru 1945, kad su esesovci nastojali evakuirati i pobiti preživjele logoraše, Levi se razbolio te ga šalju u neku vrstu logorske bolnice.
Po povratku kući piše pjesme i objavljuje dvije knjige Zar je to čovjek? i Povratak. Cijelog života radi svoj posao, razmišlja i piše o preživljenom. Njegove knjige doživljavaju znatnu popularnost tek desetak godina nakon Drugog svjetskog rata. Nalazi se u bolnici upravo kad je njegova knjiga Periodički sistem bila prevedena na engleski i francuski jezik.
Početkom 1987 sudjeluje u polemici o tako zvanom \"historijskom revizionizmu\", koji nastoji dati drugačiju dimenziju nacističkoj krivici. Vrativši se kući iz bolnice završio je život samoubojstvom, kao i književnici, što su pisali o nacizmu, Amery i Zweig.
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A New York la rassegna su Jasenovac, il campo di concentramento del regime ustascia. Dura la Croazia: «Dati falsi, i fini sono propagandistici»
27 gennaio 2018
BELGRADO I rapporti tra i due Paesi sono da sempre nervosi e difficili. E può bastare anche una mostra - dedicata però a un tema molto delicato e doloroso - per eccitare gli animi.
È quanto sta accadendo tra Belgrado e Zagabria per una rassegna sul campo di concentramento di Jasenovac, all’interno del quale durante il regime ustascia furono uccise in maniera brutale decine di migliaia di persone, in particolare serbi, rom ed ebrei, ma anche antifascisti, croati compresi. Proprio il campo è il tema di “Jasenovac – Il diritto a non dimenticare”, esposizione sponsorizzata dalla Serbia nell’ambito della Giornata della Memoria, aperta l’altra sera nel quartier generale delle Nazioni Unite a New York.
La mostra, si legge in una nota del ministero degli Esteri serbo in cui vengono riportate le parole del suo titolare, Ivica Dačić, è pensata per portare «per la prima volta» all’Onu la storia di un genocidio di cui si rese colpevole lo Stato-fantoccio filonazista retto da Ante Pavelić. Ed è una mostra che racconta un capitolo terribile della Seconda guerra mondiale.
Ma l’idea ha trovato «una resistenza molto forte, in particolare da parte di uno Stato», ha disapprovato la nota. Stato che risponde al nome di Croazia. Lo ha confermato lo stesso ministero degli Esteri di Zagabria, con un comunicato diffuso attraverso l’agenzia Hina in cui si accusa la Serbia di «manipolazioni» e di avere diffuso «dati falsi» attraverso un’iniziativa che perseguirebbe nient’altro che «fini propagandistici». La mostra, ha continuato Zagabria - sottolineando anche il suo «profondo rispetto per tutte le vittime» del regime ustascia, in particolare quelle di Jasenovac - «non contribuisce alla riconciliazione, alla costruzione di rapporti di fiducia».
Ma cosa ha fatto indispettire la Croazia, negli anni passati al centro di polemiche, anche interne, per la presunta inazione delle autorità verso derive revisionistiche nel Paese? La nota non lo specifica nel dettaglio, lasciando spazio alle speculazioni più diverse. I media serbi hanno così suggerito che la Croazia potrebbe essersi risentita per non essere stata coinvolta nell’organizzazione dell’evento. Oppure per l’esposizione di una foto del controverso cardinale Stepinac; o per possibili esagerazioni sul numero delle vittime, contenute in vecchi film che sarebbero stati proiettati a New York. A inasprire le polemiche è stato anche un passo del discorso tenuto da Dačić all\'Onu. Il ministro ha infatti invitato il premier croato, Andrej Plenković, ad andare personalmente «a Jasenovac». E a «inchinarsi» lì, in memoria delle vittime. E lo stesso Plenković dovrebbe anche «chiaramente definire», ha rincarato Dačić, «chi sono le vittime e la loro entità, se sono 50mila, 100mila o 700mila».
Secondo quanto informa lo United States Holocaust Memorial Museum, le «stime attuali» dicono che a Jasenovac sono morti tra «i 77mila e i 99mila» prigionieri. Dati del memoriale di Jasenovac indicano invece la cifra di 83.145 vittime al momento identificate, tra cui 20mila bambini e minori; 47.600 furono i serbi, 16.200 i rom, 13.100 gli ebrei, 4.200 i croati. Ma in passato sono circolate, in Croazia e in Serbia, anche cifre di molto inferiori e superiori, a seconda degli schieramenti. Sorpreso dalle polemiche è il professor Gideon Greif, direttore della mostra, frutto del lavoro di esperti di sette Paesi. E apprezzato studioso dell’Olocausto. Greif al Piccolo assicura che nell’esposizione all’Onu «non siamo entrati sul punto controverso e così delicato» del numero delle vittime, né sul caso Stepinac. «Abbiamo cercato di evitare ogni discussione, di essere moderati», spiega, anticipando che la mostra, in una versione ampliata, farà presto tappa in Israele. E lì le cifre ci saranno, quelle che «pensiamo siano giuste».
«Intendo sottolineare – aggiunge lo studioso – che non vogliamo inventare o distorcere nulla. E non abbiamo niente contro la Croazia, i croati o il governo croato: questa è storia, non politica». E «riguardo al numero delle vittime, a Stepinac, non abbiamo cattive intenzioni, non vogliamo dare la colpa a nessuno, solo raccontare cosa è successo, la storia è la storia». E la mostra, chiosa, è stata organizzata solo «in memoria degli innocenti torturati, umiliati, uccisi. Non per il governo serbo o per quello croato».
Hrvati hteli da se zabrani izložba o Jasenovcu u UN!
Prema našim informacijama, zvanični Zagreb je diplomatskim kanalima tražio da UN zabrane izložbu u svojim prostorijama, pa su se sa takvim zahtevom obratili i Guteresu. Kako saznajemo, po njima je bila sporna fotografija Alojzija Stepinca i njegova strašna misija u pokatoličavanju Srba, kao i isticanje broja nastradalih o kojem se govori u filmu koji je deo postavke.
Posle ovog manevra Zagreba, kojem očigledno smeta da svet čuje istinu o zverstvima u Jasenovcu, usledila je brza reakcija našeg šefa diplomatije Ivice Dačića. On je od generalnog sekretara UN zatražio i dobio zvanično odobrenje da izložba može da se organizuje.
\"Jasenovac - pravo na nezaborav\" je najveća i najmonumentalnija izložba o Jasenovcu koja će prvi put biti postavljena u UN sa sedam tona opreme i eksponata koji će na multimedijalni način Srbiju predstaviti kroz srpsko-jevrejski projekat povodom obeležavanja međunarodnog dana Holokausta.
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Specijalni gosti na otvaranju izložbe biće preživeli - deca logoraši Jasenovca i Jastrebarskog - iz Srbije Jelena Buhač Radojčić, Smilja Tišma, Gojko Rončević Mraović, a iz Njujorka Eva Kostabel Dojč i David Alkalaj koji su preživeli Rab, Pag i Jasenovac i koji će se ovom prilikom videti prvi put.
Takođe, prvi put će biti predstavljeni novootkriveni dokumenti o ovom logoru i žrtvama najstrašnijeg stratišta u Nezavisnoj Državi Hrvatskoj.
Kako navode iz MSP, izložba predstavlja skroman doprinos očuvanju univerzalnih vrednosti čovečanstva i globalnih napora UN u cilju sprečavanja pojave revizije i rehabilitacije neonacističkih i neofašističkih ideologija isključivosti i svih oblika diskriminacije i fanatizma.
POČASNI GOST
POČASNI gost izložbe biće Rouzi Stivenson Gudnajt, potpredsednica Vikimedije i potomak čuvenog Davida Albale, koji je izdejstvovao prvo priznanje Balforove deklaracije. Prva vlada koja je odobrila Balforovu deklaraciju (podrška jevrejskim težnjama za stvaranje \"nacionalnog doma\" u Palestini) bila je Vlada Srbije u egzilu 1917, za vreme Prvog svetskog rata, a primerak tog dokumenta biće prikazan na izložbi.
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Partija “Komunisti Srbije” prenosi tekst članka koji je objavljen na portalu N1 22.01.2018.godine i u potpunosti podržava stavove koje je u njemu izneo selektor rukometne reprezentacije Srbije Jovica Cvetković.
Selektor rukometne reprezentacije Srbije Jovica Cvetković oglasio se povodom burnih reakcija javnosti na njegovu raniju izjavu da “očekuje punu podršku braće Hrvata u meču sa Francuskom” i objasnio zbog čega je to rekao.
Cvetković je u najavi meča sa Francuzima, između ostalog, rekao i da bi bio sretan ukoliko njegovi igrači dobiju svjetske šampione i pomognu Hrvatima da odu u polufinale.
“Vidim da je moja izjava izazvala burne reakcije, ali znam šta sam rekao bez trunke kajanja. Četrdeset godina smo živeli kao braća, pomešane krvi, zajednički slava, Božića i Bajrama. Bilo nam je lepo. Izrekao sam istinu koja ne sme da se kaže”, rekao je Cvetković, a potom nastavio u istom tonu:
“Hoćemo li ćutati i pokazati da smo mrtvi, samo toga nismo svesni, čekamo da nam jave? Hoćemo li našoj deci narednih 40 godina ostaviti pogrome, oluje, klanje ili pak pokazati da postojimo dajući im delić našeg srećnog detinjstva kada nismo znali za razlike među ljudima? Hoćemo li ih ostaviti u getima malih državica ili otvoriti širinu naše prošlosti kada su nam svi putevi u svetu bili otvoreni? Da li ćemo se zadovoljavati što ovakvi mali, ništavni, slepi, predstavljamo klozet Evrope?”.
Iskusni stručnjak je istakao i da bi najbolje za sve na ovim prostorima bilo ukoliko bi naučili da praštaju.
“Ne, ne bi trebalo zaboravljati, ali treba praštati zbog budućnosti koja za našu decu na ovim prostorima zavisi samo od naše svesti. Baš me briga za sve one politike koje nas dele, kao i za sve “velikosrbe”, “velikohrvate”, “velikobošnjake, “velikoalbance”, koji našoj i svojoj deci kopaju grobove”,zaključio je Cvetković.
Piše: Merima Čustović / Objavljeno: 11.03.2016.
Nismo imali nikakvu politiku nakon raspada Jugoslavije. Nastao je grabež. Ti bivši rukovodioci prebacili su se u nacionalističke stranke, bivši komunisti postali su nacionalisti. Gangsteri su došli na vlast i opljačkali su vlastite narode. Na vlasti je politička mafija, koja je organizirana po principu “ti meni, ja tebi”.
Na filmskoj sceni bivše Jugoslavije Lordan Zafranović (70) slovi za jedno od najboljih rediteljskih imena i najiskrenijih stvaralaca. Do sada je napravio osamdesetak ostvarenja, a u većini njih je reditelj i scenarist.. Teme bira po strahu, šta bi se moglo desiti, a što bi trebalo biti upozorenje za gledaoce. U vrijeme Jugoslavije stvarao je filmove koji su progovarali o zlu zbog čega je često imao problema. Zbog dokumentarnog filma “Krv i pepeo Jasenovca”, bivši hrvatski predsjednik Franjo Tuđman proglasio ga je neprijateljem hrvatskog naroda. O dolasku nacionalizma upozoravao je kroz “Okupaciju u 26 slika”, a zbog serijala o Titu i prijetnji HDZ-ove uprave na HRT-u, morao je bježati iz zemlje, što je rezultiralo s nekoliko godina “izbjeglištva” u Pragu i Parizu. U Pragu se Zafranović bavio pedagoškim radom na FAMU kao profesor režije. Trenutno u Češkoj u produkciji češke televizije priprema “Moć ljubavi”, novi film s ratnim backgroundom, koji će govoriti o dvojici braće Bosanaca.
– Film “Moć ljubavi” dug je prema vlastitoj sudbini, jer sam i ja jedna vrsta emigranta. Braću po kojoj snimam film, upoznao sam, bili su mesari. Film je iskušenje bratske ljubavi u odnosu na ljubav prema ženi. Sada tražimo pjevačicu i plesačicu čudesnog glasa, koja čudesno pleše, a u koju se zaljube ova dva brata – povjerio nam je reditelj.
U planu imate i film “Sarajevska princeza”, koji je potresna priča iz okupirane bh. prijestonice, ali i sasvim drugačiji film “Karuzo”?
– “Sarajevska princeza” je prioritet. Već sam napravio nacrt budućeg scenarija po istoimenoj knjizi Ediba Ede Jaganjca. Bit će vrlo emocionalan film o nesreći koja je zadesila Sarajevo, o dobroti ljudskog bića, doktora koji pokušava da spasi mali život, a s druge strane, istaknut ću tu bešćutnost međunarodnih činioca koji su u to vrijeme bili u Sarajevu. “Karuzo” je dosta velik film i rekonstrukcija je vremena u Splitu uoči Drugog svjetskog rata. Čekamo rezultate HAVC-a da bismo počeli realizaciju sa tri produkcije, dakle, pored hrvatske, još s češkom i francuskom.
Hoće li u “Karuzu”, kako ste najavljivali, igrati slavni Deni de Vito?
– Poznavao sam Karuza, bio sam dječak od 10-11 godina kada je on još bio živ i frapantno liči na De Vita. Našao sam producenta u Francuskoj koji je stupio u kontakt s njim. U principu, on je pristao. Čeka rezultate finansiranja, jer bi se finansirao vlastitom produkcijom koju ima u Njujorku. Dakle, dali bismo mu određene zemlje, Ameriku sigurno, gdje će distribuirati film da bi igrao u njemu. Naravno da bi to bila jedna od najboljih varijanti, jer bi distribucija filma bila u cijelom svijetu, a De Vito je veliki glumac, doprinio bi cijeloj priči.
Ratom ćete se baviti u dva nova filma. Činjenica je da je rat sve poremetio pa narodi bivše Jugoslavije nikako da se oporave i krenu naprijed. Imaju li danas svoje identitete narodi nekada združene zemlje?
– Pokušavam se vratiti u jednu od tih zemalja, u Hrvatsku, od 2000. godine, kada su došli na vlast socijalisti, misleći da su meni nekako bliski. No, nacionalizam i mržnja koja je pumpana devedesetih, i danas su prisutni. U to vrijeme tajno sam dolazio da posjetim majku i svoje i morao sam se skrivati, jer je bilo opasno, bio sam na određenim listama za likvidaciju. Danas ima elemenata neke demokratske situacije, po kojoj čovjek može po strani da živi, ali je nacionalizam izražen. Ukoliko nisi u nekoj partiji, klapi, krugu koji se već godinama vrti, onda nemaš šanse da uspiješ. Krug je tu zatvoren i, uvijek kada sam ja u pitanju, pojavi se sumnja na čijoj sam strani. Zaboravljaju da ima ljudi koji nemaju nikakvu stranu i da idu svojim nekim putem, da prave neke svoje vlastite svjetove. Ulazak u tu nacionalističku vrstu ludnice ponovo s ovim godinama i mojim iskustvom, skoro je nemoguć. Kada me pitate zašto sam u Pragu, zato što ne mogu tamo.
Nastao je grabež
Jeste li zadovoljni izborom nove predsjednice Kolinde Grabar-Kitarović i ulaskom Hrvatske u Evropsku uniju?
– Ma, kakvi! Prijem Hrvatske u EU svi smo pozdravili, ali je ta zemlja na periferiji Evrope i ostavljena je po strani. Sve skupa se odvija na nekom nacionalnom planu, dovoljno je da kažeš da si Hrvat i to je kraj svega i početak svega. Ne vjerujem da se bez nekih korjenitih promjena u toj strukturi, koje bi trebale da vode tu državu, može desiti nešto bolje u narednih dvadesetak godina.
Kako biste ocijenili političke garniture vlasti u zemljama bivše Jugoslavije? Mislite li da narodi tih zemalja imaju šansi za bolju budućnost?
– Nismo imali nikakvu politiku nakon raspada Jugoslavije. Nastao je grabež. Ti bivši rukovodioci prebacili su se u nacionalističke stranke, bivši komunisti postali su nacionalisti. Gangsteri su došli na vlast i opljačkali su vlastite narode. Na vlasti je politička mafija, koja je organizirana po principu “ti meni, ja tebi”. Ako pogledate samo Tuđmana, njegov mali unuk nije imao ni 20 godina kada je dobio banku da je vodi. Drugi sin mu je postao veliki producent, a kćerka je vodila dvije-tri velike firme. Kako preko noći stvoriti 100 bogatih familija ako one ne pljačkaju? Nemoguće je, bogatstva se stvaraju stoljećima. Nažalost, nemamo političke elite i dok se ne formiraju autoriteti koji svojim djelom garantiraju da će biti bolje za narod, da će se boriti za socijalno poboljšanje, do tada nema ništa. Do tada će sve plivati u nacionalnosti.
Titova Jugoslavija vrhunac civilizacije naših naroda
Napravili ste veoma zanimljiv serijal o Titu. Rekli ste da je historijska činjenica da je on napravio autentičnu zemlju i narode. Jeste li jugonostalgični?
– Za čovjeka koji je prošao ta dva sistema, dakle sistem u kojem je Tito svojim autoritetom držao državu na okupu i sistem kapitalističkog raspada Jugoslavije, ne može se kazati da je jugonostalgičan. Sve civilizacije, kada su na samom vrhuncu, padaju, pretvaraju se u prah i više ih nema, nasljeđuje ih nešto drugo.
Titova Jugoslavija bila je vrhunac civilizacije tih nesretnih naroda i smatram da nikada više u svojoj historiji neće biti na tom nivou, s tim ugledom, s takvom snagom, s tim socijalnim situacijama, u kojima su bili besplatni školovanje, bolnice, ljetovališta, kada je cvjetala umjetnost…
Kritični ste prema stanju umjetnosti, stanju duha. Kako stvari mijenjati?
– Nemam formulu za to. Jedina je formula da se u svojim djelima sami pokušate ustrajno boriti protiv zla i da ga na neki način prikazujete, da upozoravate stalno na njega, da to treba, jednostavno, iskorijeniti. Jučer smo slavili Aušvic.
To je poraz ljudskosti, tu se pokazuje da su ljudi, zapravo, najgore zvijeri. To je ponižavajući odnos prema nama. Taj užas se desio faktički jučer, a ponovio se faktički jutros u Srebrenici. Još vlada strah i jedan mali poticaj negdje sa strane i može ponovo da pukne na isti način.
(Avaz)
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Questa mattina, a Gorizia, un municipio di un Comune italiano, nella Repubblica nata dalla Resistenza, è stato violato dalla presenza delle bandiere fuorilegge e golpiste della RSI, sventolate in nome di un malinteso senso di \"amor patrio\" dai nostalgici di quella parte d\'Italia che, tradendo il legittimo governo in carica, scelsero di dare vita ad una repubblica golpista alleata con gli invasori nazisti; alleanza che contribuì a far proseguire ancora per quasi due anni la scellerata guerra scatenata dai nazifascisti, causando in tal modo la morte di altri milioni di persone: nei combattimenti, sotto le bombe, nei lager nazisti, ma non solo. I militi della Decima Mas (commemorata oggi a Gorizia da nostalgici, nazionalisti e fascisti) collaborarono nelle azioni di rappresaglia a fianco dei nazisti massacrando altri italiani, propri connazionali, \"colpevoli\" di volere un\'Italia libera e non fascista. Oggi ce li presentano come difensori della patria e dell\'italianità, ma noi sappiamo bene che gli italiani che combattevano nelle formazioni al fianco del Reich di Hitler combattevano contro la loro stessa patria.
Oggi abbiamo sentito dichiarare da più parti che è giusto commemorare chiunque abbia lottato ed è morto per le proprie idee: a quando una commemorazione solenne anche per Adolf Hitler? Oppure, per fare un paragone coi giorni nostri, dovremmo rendere onori anche ai kamikaze sedicenti dell\'Isis che in nome delle loro idee provocano stragi nel mondo?
Manifestazioni come quella di stamattina a Gorizia non solo sono inaccettabili politicamente ed umanamente, ma va aggiungo che l\'esposizione di vessilli e simboli fascisti costituisce violazione di legge.
Non dobbiamo permettere ai fascisti di tornare nelle piazze a seminare odio! L\'antifascismo oggi è necessario più che mai per fermare questa avanzata reazionaria che ci sta minacciando.
Claudia Cernigoi, 20 gennaio 2018
Scandaloso il servizio della Rai regionale del Friuli Venezia Giulia di ieri alle 14 (1).
Si parlava della manifestazione goriziana dell’associazione dei reduci della banda neofascista repubblichina “X Mas” e dei loro giovani eredi di Casa Pound. I quali sono stati ricevuti in pompa magna dall’amministrazione comunale, uno dei “fari” di quella riconquista progressiva dei municipi delle città friulgiuliane da parte di coalizioni di centrodestra. Infarcite, queste ultime – e talvolta guidate direttamente – di esponenti del neofascismo, che sta trasformando le nostre strade in luoghi di pattugliamento per polizie varie e per squadristi in divisa (oggi ribattezzati “stewards”). Mentre un pluriprocessato e condannato, risorto per meriti altrui, punta nuovamente al cuore dello Stato per ri-farsi i suoi affari, i suoi sostenitori si dedicano alla caccia ai sempre più numerosi poveri ed emarginati, indigeni ed immigrati.
Fantastica la descrizione dell’evento, dedicato a commemorare i tempi gloriosi in cui “la X Mas si oppose all’avanzata del X Korpus jugoslavo verso Gorizia” (2). Ciò secondo i giornalisti Rai, notoriamente sottopagati e troppo occupati a riciclare in fotocopia le stesse “notizie” per giorni e giorni – ove scarseggino le gradite libagioni per “Telesagra” – per documentarsi minimamente. O così almeno speriamo. Altrimenti, se fossero pure coscienti di quello che dicono, sarebbe pure peggio.
Così si finisce per trasformare i torti in ragione, e commemorare positivamente chi – tra l’altro – rastrellava gli ebrei per mandarli nei forni creamatori, in Germania, ma anche in Italia (nella Risiera di San Sabba a Trieste). Come dire: mentre il Presidente della Repubblica nomina Senatrice a Vita Liliana Segre, bambina sopravvissuta ad Auschwitz, a Gorizia ed a Trieste si commemorano i suoi cacciatori e gli sterminatori della sua famiglia. Congratulazioni!
Cosa fosse la X Mas (e cosa abbia continuato ad essere nel dopoguerra, tra partecipazione alle stragi mafioso-politiche come Portella della Ginestra ed i golpe del suo capo, il principe Junio Valerio Borghese) lo hanno già scritto in tanti, e qui ci limitiamo a rimandare alla più recente sintesi di L.M. Puppini (3).
Quello che ci interessa qui sottolineare è l’acritica, e temiamo ormai inconsapevole acquisizione dei temi della propaganda nazionalfascista nelle menti degli stessi giornalisti di un servizio pubblico radiotelevisivo, ormai scaduto ai più bassi livelli del Grande Fratello renzusconiano. Infarcito di tanta propaganda, di intrattenimento di basso livello e di infima capacità di informazione. Tanto da non chiedere neanche alla storica Anna Di Gianantonio, presente tra i contestatori alla contromanifestazione indetta dall’ANPI di Gorizia, di dare una versione corretta degli eventi.
In sintesi:
1) la X Mas era una banda di predoni, stupratori ed assassini seriali. Una delle tante tristi gangs che accompagnavano i nazisti tedeschi occupatori nelle loro scorrerie, volte a ritardare con ogni tipo di violenza la vittoria del fronte dei cosiddetti “alleati” di allora, ufficialmente designati “Nazioni Unite” (ed il nome era, non certo casualmente, quello che poi sarebbe diventata l’organizzazione mondiale dell’ONU);
2) il territorio goriziano, insieme con tutto il Sudtirolo (e lì, ammettiamolo, qualche ragione i tedeschi pure ce l’avevano…), il Trentino, il Bellunese, il Friuli e la Venezia Giulia, fino all’annessa nel 1941 “Provincia di Lubiana”, non era già più Italia, per i tedeschi ed i loro alleati della Repubblica di Salò, essendo stato annesso al Terzo Reich germanico. Per cui chi avesse voluto difendere l’italianità di quelle terre aveva una sola possibilità: entrare nella Resistenza antifascista, che era alleata delle Nazioni Unite;
3) la X Mas qui non stava quindi a difendere l’italianità di queste terre, ma faceva da truppa di complemento degli occupanti nazisti, in ben poco augusta compagnia: tra franchisti spagnoli della “Division Azul” e cetnici monarchici jugoslavi, collaborazionisti sloveni (domobranci), croati (ustaše) e russi (cosacchi e caucasici) ed ogni altra morchia del pianeta. Dedicandosi prevalentemente ad angariare le popolazioni locali ed a dare la caccia ai partigiani (cioè la Resistenza, cioè le Nazioni Unite);
4) quella della difesa dell’italianità al confine orientale – rivendicazione per altro anche della maggioranza della resistenza friulana: e non solo degli osovani – è diventata, durante la successiva Guerra Fredda, una falsificazione ideologica per riciclare i fascisti in funzione anticomunista. Con quali danni, in termini di infiltrazione degli apparati dello Stato e di successivo stragismo nero/di Stato lo sappiamo tutti. Fino a stravolgere la memoria storica, riducendo la Resistenza jugoslava attiva dal 1941 – anche nel territorio del Regno sabaudo, che aveva inglobato più di mezzo milione di sloveni e croati – nello stereotipo negativo del “titino”, volgarizzando le questioni nazionali in un territorio mistilingue e nascondendo i crimini del nazionalismo italiano e del fascismo;
5) in ogni caso, la allora Provincia di Gorizia aveva una popolazione per la stragrande maggiornanza di lingua e cultura slovena; fenomeno che nel territorio a nord-ovest della città si trasformava in una totale assenza di italiani, se si eccettuavano il maresciallo dei carabinieri e qualche maestro e dipendente pubblico che avevano sostituito i precedenti titolari, fuggiti in Jugoslavia o confinati in altre (lontane) regioni italiane al fine di snazionalizzare la popolazione occupata nel 1918;
6) dalla Selva di Tarnova/Trnovski Gozd (territorio etnicamente sloveno) non erano in arrivo orde barbariche pronte a calare su Gorizia – tra l’altro, nel gennaio 1945, la Resistenza era ancora debole, e le armate delle Nazioni Unite ancora congelate sull’Appennino Tosco-Emiliano, nei Balcani ed ai confini dei Reich – ma c’era una delle più grandi zone libere della Resistenza jugoslava. Cioè di uno dei più grandi eserciti delle Nazioni Unite, una delle poche forze armate partigiane capaci di liberare il proprio territorio praticamente da sole. Che dovessero avanzare, faceva parte del progetto comune per liberare il pianeta dalla peste nazifascista;
7) infine: di fronte ai fascisti della X Mas non c’era solamente il IX Corpus (che poi sembra una cosa così truce a citarlo: mentre era meramente il Nono Corpo d’Armata dell’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia), ma c’era in prima fila la più grande divisione partigiana italiana allora in attività: la Divisione Garibaldi Natisone.
Ecco, i partigiani friulani della Natisone. L’Italia, per fortuna, furono e la difesero innanzitutto loro. Checché ne dica la Rai.
Gian Luigi Bettoli
NOTE:
(1) L’edizione del Tg Rai del Fvg, replicata alle 19.30, é consultabile a questo indirizzo: http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-4face55d-dac2-44da-bc83-f3df694e3f7b.html#p=0
(2) Citazione testuale.
(3) Laura Matelda Puppini, Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori,all’indirizzo: http://www.nonsolocarnia.info/storia-della-collaborazionista-x-mas-con-i-nazisti-occupanti-dopo-l8-settembre-1943-per-conoscere-e-non-ripetere-errori/
di Marco Barone, 9 aprile 2017
Un dibattito dove sono emerse delle dichiarazioni, come pubblicate dal Piccolo del 9 aprile 2017, di una gravità inaudita, di una interpretazione storica pazzesca.
«Noi non eravamo gli alleati degli alleati. Noi eravamo i perdenti». Il risultato? «La Costituzione italiana è nata senza il contributo delle province di Trieste e Gorizia. Non c’è stata nessuna Liberazione qui e quindi non c’è nessun 25 Aprile da festeggiare».
[FOTO: il ritaglio di giornale: https://4.bp.blogspot.com/-z-B_MaimahM/WOoNWd2TEtI/AAAAAAAATNk/ZwIrujrjyvwkad9ahgpPIeGIPksgvpzOACLcB/s1600/25%2Baprile.PNG ]
IL FRONTE VENETO SKINEADS E IL GRUPPO UNIONE DIFESA DI TRIESTE rendono omaggio ai loro \"eroi\" infoibati a Basovizza (25/4/17)
Di infoibati nello Šoht [\"foiba di Basovizza\"] ne risulta in realtà uno solo, il tranviere triestino Mario Fabian che lasciò l’impiego per arruolarsi volontario nell’Ispettorato Speciale di PS. Le persone che confessarono di avere arrestato Fabian e di averlo gettato nel pozzo della miniera furono processate e condannate nel 1949. Riassumiamo di seguito quanto emerge dal processo, come riferito dalla stampa (l\'Unità 28/6/50).
«Daniele Pettirosso ha raccontato come l’8 gennaio del 1945 in seguito ad un rastrellamento effettuato dai nazisti e da agenti della Collotti a S.. Antonio Moccò, egli venne arrestato e condotto all’Ispettorato di via Cologna. Quivi fu interrogato saltuariamente per ben diciassette giorni e fra i suoi aguzzini il Fabian fu quello la cui fisionomia gli restò impressa. Infatti fu proprio il Fabian che lo legò alla famosa “sedia elettrica” durante “l’interrogatorio” all’osteria di Moccò».
Ed ancora:
«L’imputata Hrvatič ha detto: -Avevo notato il Fabian fra gli agenti che parteciparono al rastrellamento del 10 gennaio 1945 nel paese di Moccò-, fatto confermato indirettamente dalle dichiarazioni della teste Vittoria Zerial, vicina di casa della famiglia Fabian: -Conoscevo il Fabian. Un giorno (…) mi disse di avere partecipato a un rastrellamento in quel di Moccò e se avesse comandato lui, avrebbe fatto arrestare anche il parroco del paese che aveva suonato le campane per dare l’allarme agli abitanti».
Del tutto coerenti, dunque, i neonazifascisti nostrani hanno reso onore al proprio eroe, il torturatore Mario Fabian.
Nella fossa infatti furono gettati i corpi dei militari germanici caduti nella battaglia di Opicina che durò dal 29 aprile al 3 maggio 1945 e nel corso della quale persero la vita da una parte 149 partigiani, 32 appartenenti al battaglione sovietico, 8 abitanti del paese e 119 non identificati; i tedeschi persero 780 uomini e 3.500 furono i prigionieri. Fu dunque necessario dare urgente sepoltura a tutti questi morti: dei tedeschi 220 trovarono posto nel cimitero militare di Opicina, mentre gli altri 560 vennero sepolti d’urgenza nell’abisso 149. Dai registri cimiteriali risulta che nell’estate ’45 questi ultimi furono traslati al cimitero triestino di S. Anna e poi, in seguito ad un accordo tra i governi tedesco ed italiano ratificato nel 1957, inumati nel cimitero militare germanico di Costermano (VR)
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http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58486
Curiosa coincidenza. Il nascente governo di destra austriaco lancia, tramite i suoi componenti più nazionalisti, una proposta che ci stupisce più che preoccuparci: la concessione del passaporto austriaco agli altoatesini che abbiano optato per il gruppo etnico tedesco.
Dovremmo allora sapere che una proposta analoga, trasformatasi in legge un anno fa in un altro angolo d’Europa, ha innescato una reazione a catena che, proprio in questi giorni, sembra aver gettato le basi di un nuovo fronte Nato contro Russia nell’est europeo.
Pochi si stanno infatti accorgendo che la Romania (governo filo Nato), si sta orientando a un assorbimento di fatto della vicina Moldavia (governo filo occidentale, ma Presidenza della Repubblica filo russa e alla Russia legata da forti rapporti economici).
Tutto iniziò, per l’appunto, un anno fa, con la concessione del passaporto rumeno ai moldavi di “parte” rumena.
La Moldavia, per la cronaca, è un paese con una forte minoranza di lingua russa e una maggioranza di lingua moldava. Sul fatto che il moldavo sia una lingua e non solamente una variante dialettale del rumeno i linguisti sono disposti a battersi a duello.
Venendo ai giorni nostri, per tagliare corto, su evidente pressione di Bucarest, il governo moldavo ha recentemente deciso che sia il rumeno, non il moldavo, a rappresentare la lingua di Stato.
Se si somma questo provvedimento a quello di un anno fa, relativo alla possibilità di un passaporto rumeno per i moldavi (modello Austria per i sudtirolesi/altoatesini, per intenderci) il gioco è fatto.
Ne esce un combinato disposto o se preferite un effetto cumulativo che cambia i connotati della povera Moldavia.
Da paese in miseria che cerca però di tutelare la distensione tra le sue due anime (rumena e russa) a paese strategicamente oggetto dei desideri della Nato a causa della sua collocazione strategica nei pressi del Mar Nero, che potrebbe perdere la sua identità multietnica e venire risucchiata, quanto meno militarmente, sul fronte occidentale. In omaggio a quella che Yurii Colombo, su il Manifesto, definisce un’iniziativa “neo-coloniale” del governo rumeno.
Spaccatura in Moldavia, tra il Presidente Dodon socialsta e filorusso e governo di centrodestra e filo Nato.
Possibile preludio a un nuovo fronte di guerra fredda da brividi, che andrebbe a sommarsi con la guerra calda nel Donbass e con le tregue mai definitive nei Balcani (è di poche settimane fa la denuncia del Ministro degli esteri serbo Dacic contro i tentativi Nato di inglobare la Serbia nell’Alleanza a dispetto delle sue scelte di equidistanza).
Ulteriore particolare inquietante: l’assorbimento della Moldavia nella Romania e la sua eventuale scomparsa determinerebbero il probabile riconoscimento da parte dei russi della autoproclamata repubblichetta secessionista della Transnistria, di cui le moltitudini del pianeta hanno ben scarsa conoscenza.
Solo una cosa è certa: la Transnistria risulta essere un vero e proprio arsenale di armi, nucleari probabilmente comprese.
Come si può ben vedere si comincia coi passaporti e si può finire con le bombe atomiche. La politica estera italiana è bene che ci rifletta sopra, anche se al momento a Vienna si balla un valzer che potrebbe apparire innocuo.
Il nord Italia è stato per moltissimi anni sotto al giogo dell\'Impero austro-ungarico, non solo il \"Tirolo Storico\", ma anche il resto della Lombardia e del Veneto, nonché tutto il Friuli Venezia-Giulia. Gli attuali confini sono stati perlopiù definiti in seguito alla Prima Guerra Mondiale, con la quale l\'Italia si riproponeva di raggiungere due obiettivi: annettere tutte le regioni a maggioranza popolate da italiani e contenere gli austriaci al nord delle Alpi. Sebbene questo secondo obiettivo avesse un chiaro senso strategico di legittima difesa, entrava tuttavia in contraddizione con il primo, sia perché alcuni luoghi a maggioranza italiana erano rimasti aldilà dei nuovi confini, sia perché non vi era reciprocità. Infatti, con il nuovo confine alpino, regioni a maggioranza tedesca si ritrovarono in Italia.
Nonostante la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale e il crollo dell\'Impero austro-ungarico (il cui motto era \"indivisibilmente e inseparabilmente\"), l\'Austria non cessò mai di provare a estendere nuovamente il proprio dominio sui territori perduti.
Con la Seconda Guerra Mondiale si presentò l\'opportunità di riunire il Tirolo, ma Hitler per non far saltare l\'alleanza con Mussolini accantonò il progetto, limitandosi a siglare un\'intesa con cui si dava la possibilità di optare per la cittadinanza tedesca ai tirolesi del sud che ne avessero fatto richiesta (l\'idea era di usarli come coloni per il Reich). Questo sistema fu un vigore fino al 1943, quando con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, Mussolini di fatto cedette la provincia di Bolzano ai tedeschi. A quel punto moltissimi tirolesi del sud si arruolarono nell\'Esercito tedesco o nelle SS, di norma vennero impiegati in Italia per la repressione anti-partigiana.
Dopo esser stata sconfitta anche nella Seconda Guerra Mondiale, l\'Austria si separò dalla Germania e venne occupata dalle forze vincitrici fino al 1955, quando cioè venne siglato il Trattato di Stato Austriaco. Nonostante il patto sottoscritto, dall\'anno successivo nel Tirolo del sud iniziarono a operare dei gruppi secessionisti armati che godevano di sostegno e coperture in Austria. La lotta armata nel Tirolo del sud era un fenomeno variegato, c\'erano gruppi ultra-nazionalistici d\'estrema destra, ma anche movimenti (talvolta progressisti) che si battevano per temi pienamente condivisibili.
Negli ultimi tempi, in spregio allo spirito europeo, l\'Austria ha schierato le proprie forze armate lungo il confine italiano, di fatto disponendone a discrezione esclusiva.
Come se tutto ciò non bastasse, dall\'Austria ora arriva la proposta di dare la cittadinanza a italiani d\'etnia tedesca. Dopo il bagno di sangue dei Balcani, l\'imperialismo austriaco ancora spinge sulle contrapposizioni etniche: come allora, si vogliono espandere a sud e usano la strategia del \"dividi et impera\". Così facendo rischiano di accendere lo scontro etnico in Italia.
Le pulsioni imperialistiche austriache non sono mai cessate, vogliono rimpossessarsi di tutti i loro vecchi territori. D\'altronde, il nome ufficiale dell\'Austria è ancora Osterreich, che significa \"Impero orientale\".
Ormai l\'Austria ha calato la maschera, non cerca più di coprire le proprie mire, ma la prima vittima sarà proprio l\'indipendentismo del Tirolo del Sud, è ovvio che l\'Italia non può permettere un\'espansione imperialista a sud delle Alpi.
Si parla d\'indipendentismo quando una regione decide di essere indipendente e di andare da sola. Se invece un Paese attua delle ingerenze in un altro, al fine di staccarne una parte di cui poi intende appropriarsi, allora si tratta di \"espansionismo\" (che è una componente fondamentale dell\'imperialismo).
A prescindere dal concetto d\'integrità territoriale (a cui si può essere o meno interessati) e nella speranza che le mire di Vienna si limitino al Tirolo del sud, il problema più grave è che l\'imperialismo austriaco potrebbe portare la guerra in Italia. Alla luce del fatto che l\'Austria non ha mai accettato l\'esito della Prima Guerra Mondiale e che per un secolo ha cercato di stravolgerlo, non ci si può sentire per nulla tranquilli. L\'imperialismo austriaco è una minaccia alla pace, deve essere immediatamente fermato.
Alberto Fazolo
\"Eine eiserne ethnonationalistische Faust\"
Die Pläne der neuen Rechtsaußen-Regierung Österreichs, deutschsprachigen Italienern aus der italienischen Autonomen Provinz Bolzano-Alto Adige (\"Bozen-Südtirol\") die österreichische Staatsbürgerschaft zu verleihen, sind am heutigen Dienstag erstmals Gegenstand eines Gesprächs auf Regierungsebene. Wie berichtet wird, wird die österreichische Außenministerin Karin Kneissl (FPÖ) die Angelegenheit im Verlauf ihres Antrittsbesuchs bei ihrem italienischen Amtskollegen Angelino Alfano thematisieren. Rom hat bereits mit offener Ablehnung auf die entsprechende Passage im österreichischen Regierungsprogramm reagiert. \"Europa\" habe \"viele Mängel, aber es hat die Ära der Nationalismen hinter sich gelasssen\", erklärte etwa der italienische Präsident des Europaparlamentss, Antonio Tajani.[1] Das entspricht zwar nicht den Tatsachen, dafür aber der in der EU gängigen Ideologie. Benedetto della Vedova, Staatssekretär in Italiens Außenministerium, hat im Zusammenhang mit dem Wiener Vorstoß von einer \"eisernen ethnonationalistischen Faust\" gesprochen.[2] Heftige Auseinandersetzungen sind nicht auszuschließen.
Der Doppelpass
Tatsächlich hat die neue Regierung aus der Neuen Volkspartei und der völkisch-nationalistischen FPÖ sich in ihrem Programm nicht nur auf die \"aktive Wahrnehmung der Schutzfunktion für Südtirol\" geeinigt; eine Rolle als \"Schutzmacht\" für deutschsprachige Bürger Italiens macht Wien seit der Unterzeichnung des Pariser Abkommens im September 1946 durch die Außenminister Karl Gruber (Österreich) und Alcide De Gasperi (Italien) geltend. Der neue Koalitionsvertrag sieht darüber hinaus vor, \"den Angehörigen der Volksgruppen deutscher und ladinischer Muttersprache\" in der Provinz Bolzano-Alto Adige \"die Möglichkeit einzuräumen, zusätzlich zur italienischen Staatsbürgerschaft die österreichische Staatsbürgerschaft zu erwerben\".[3] Anspruch darauf hätten mutmaßlich alle Italiener, die sich in der sogenannten Sprachgruppenzugehörigkeitserklärung zur deutschen oder zur ladinischen Sprache bekannt haben; die Erklärung muss von allen erwachsenen Einwohnern der Provinz Bolzano-Alto Adige abgegeben werden, um den Proporzbestimmungen des Pariser Abkommens Rechnung tragen zu können. Aktuell ordnen sich 69,4 Prozent der gut 520.000 Provinzbewohner der deutschen, 4,5 Prozent der ladinischen Sprachgruppe zu.
Nord, Ost und Süd
Wien treibt den Vorstoß, der einer alten Forderung der FPÖ entspricht [4], systematisch voran. Am Sonntag haben führende Politiker aus Österreichs westlichen Bundesländern (Nord- und Osttirol, Vorarlberg, Salzburg) gemeinsam mit Vertretern der österreichischen Regierung und der Wirtschaft den Landeshauptmann der italienischen Provinz Bolzano-Alto Adige, Arno Kompatscher, zu umfangreichen Gesprächen in Wien empfangen. Kompatscher erklärte anschließend: \"Mit dem heutigen Treffen haben wir das starke Signal abgegeben, dass der Westen eng zusammenarbeitet und sich gemeinsam für große politische Agenden einsetzt\".[5] Südtirol ordnet sich damit verbal in das westliche Österreich ein. Parallel hat die Partei \"Süd-Tiroler Freiheit\" Ende der vergangenen Woche zahlreiche Gespräche in Wien geführt; unter anderem ist sie mit Infrastrukturminister Norbert Hofer (FPÖ) zusammengetroffen. Während es dabei offiziell - mit Blick auf Hofers Amt - vor allem um Verkehrsprojekte gehen sollte, nahm die Staatsbürgerschaftsfrage tatsächlich einen zentralen Platz in den Verhandlungen ein. Hofer habe der Süd-Tiroler Freiheit zugesichert, man sei entschlossen, die Südtirol-Vorgaben der Koalitionsvereinbarung nun auch zügig umzusetzen, hieß es nach der Zusammenkunft. Details werden bereits besprochen; so ist laut Hofer ein freiwilliger Wehrdienst italienischer Doppelstaatler in den österreichischen Streitkräften angedacht; eine Wehrpflicht soll allerdings ausgeschlossen sein.
Gesamttirol
Um Druck zu machen, hat die - italienische - Süd-Tiroler Freiheit nun einen ersten Entwurf für ein österreichisches Gesetz zur Verleihung der Staatsbürgerschaft an deutschsprachige Norditaliener vorgelegt. Das ist aus zweierlei Gründen bemerkenswert. Zum einen steht die Süd-Tiroler Freiheit, deren europaweite Dachorganisation \"European Free Alliance\" [6] im Europaparlament in einer Fraktion mit Bündnis 90/Die Grünen kooperiert, in direkter Tradition zu völkischen Attentätern, die mit Sprengstoffanschlägen sowie Schusswaffenüberfällen die Abspaltung Bolzano-Alto Adiges von Italien und seinen Anschluss an Österreich herbeizwingen wollten (german-foreign-policy.com berichtete [7]). Sie strebt ihrerseits die Sezession von Italien und die Angliederung Bolzano-Alto Adiges an Österreich an. Zum anderen steht einer der Autoren des Gesetzesentwurfs in derselben Tradition. Franz Watschinger, Rechtsanwalt einer bekannten Innsbrucker Kanzlei, war zumindest zeitweise Mitglied der Innsbrucker akademischen Burschenschaft Brixia. Die Brixia wiederum war tief in den Südtirol-Terrorismus der 1950er und 1960er Jahre involviert; ihr gehörte auch Franz\' Vater Rudolf Watschinger an, der wegen Anschlägen in Bolzano-Alto Adige verurteilt wurde und ein enger Mitarbeiter von Norbert Burger war, einem führenden Kopf der Südtiroler Terrorszene. Franz Watschinger zählte zu den Organisatoren des \"Gesamttiroler Freiheitskommerses\" von 1994, einer Veranstaltung, die maßgeblich von der Brixia getragen wurde und bei der Burschenschafter der äußersten Rechten forderten, das österreichische Bundesland Tirol mit \"Südtirol\" zu vereinigen.[8] Der von ihm mitverfasste Gesetzesentwurf ist laut Berichten der Süd-Tiroler Freiheit jetzt in Wien auf breite Zustimmung gestoßen. Laut dem Entwurf würden Einwohner Bolzano-Alto Adiges die österreichische Staatsbürgerschaft in Innsbruck beantragen - in der Hauptstadt des ersehnten \"Gesamttirol\".
Mit deutscher Unterstützung
Mit dem Vorstoß zur Verleihung der österreichischen Staatsbürgerschaft an bis zu 390.000 Italiener erreicht die einst von Bonn, heute von Berlin unterstützte Deutschtumspolitik in Norditalien einen neuen Höhepunkt. Völkische Vorfeldverbände der deutschen Außenpolitik haben deutschsprachige Organisationen in Bolzano-Alto Adige regelmäßig gefördert und sie politisch wie materiell unterstützt (german-foreign-policy.com berichtete [9]). Die bedeutendste Partei der Provinz, die Südtiroler Volkspartei, kooperiert seit je eng mit der deutschen CSU. Selbst die Südtirol-Attentäter der 1950er und 1960er Jahre unterhielten enge Beziehungen in die Bundesrepublik, ohne dass damals Bonn - ihren Straftaten entsprechend - repressiv gegen sie eingeschritten wäre. Recherchen von Experten zufolge waren zeitweise sogar hochrangige Politiker wie etwa Franz-Josef Strauß in Unterstützungsmaßnahmen zugunsten der Attentäter involviert.[10]
Warnungen
Die jüngste Südtirol-Offensive erfolgt zu einem Zeitpunkt, zu dem völkische Organisationen in weiten Teilen Europas in der Offensive sind - unter anderem in Spanien, Belgien und Rumänien. Befürworter einer österreichischen Staatsbürgerschaft für deutschsprachige Norditaliener weisen darauf hin, dass Italien seinerseits ein entsprechendes Gesetz verabschiedet hat und italienische Pässe etwa Bürgern Sloweniens und Kroatiens mit italienischer Abstammung ausstellt. Zugleich warnen Kritiker, verabschiede Österreich das von der ultrarechten Regierungskoalition geplante Gesetz, dann sei eine Lawine ähnlicher Schritte in diversen weiteren EU-Staaten nicht auszuschließen; die jeweiligen Konflikte könnten jederzeit gefährlich eskalieren. german-foreign-policy.com berichtet in Kürze.
[1] Austria, cittadinanza ai sudtirolesi: prima polemica del governo di centrodestra con l\'Europa. repubblica.it 17.12.2017.
[2] www.facebook.com/BenedettoDellaVedovaOfficial/posts/10155989376364600
[3] Zusammen. Für unser Österreich. Regierungsprogramm 2017-2022. Wien, Dezember 2017.
[4] S. dazu Das deutsche Blutsmodell (III).
[5] Österreichs Landeshauptleute treffen sich - Südtirol dabei. unsertirol24.com 14.01.2017.
[6] S. dazu Europa der Völker und Unter Separatisten.
[7] S. dazu Völker ohne Grenzen.
[8] Christoph Franceschini: Der Freiheitskrampf. salto.bz 27.05.2017.
[9] S. dazu Das deutsche Blutsmodell (III), Der Zentralstaat als Minusgeschäft und Wie es der Zufall will.
[10] S. dazu Doppelrezension: Südtirol-Terrorismus.
\"Im europäischen Geist\"
Österreichs Außenministerin Karin Kneissl (FPÖ) kündigt die Einrichtung einer interministeriellen Arbeitsgruppe an, die die Modalitäten zur Verleihung der österreichischen Staatsbürgerschaft an bis zu 390.000 Bürger Italiens regeln soll. Der Vorstoß zielt auf alle Einwohner der norditalienischen Provinz Bolzano-Alto Adige (Südtirol) ab, die Deutsch oder Ladinisch als Muttersprache sprechen (german-foreign-policy.com berichtete [1]). Wie Kneissl am Dienstag nach ihrem Antrittsbesuch bei ihrem italienischen Amtskollegen Angelino Alfano mitteilte, werden der Arbeitsgruppe Beamte des österreichischen Außen- wie des Innenministeriums sowie nichtbeamtete \"Experten\" angehören; man werde die Vorbereitungen \"immer im Austausch mit Italien\" vorantreiben - im \"europäischen Geist\".[2] Italiens Außenminister reagiert offiziell betont zurückhaltend. Man habe \"gegenseitig die Standpunkte dargelegt\", erklärte Alfano über das Gespräch mit Kneissl: Rom vertrete auch weiter \"die historische Position, wie sie immer war\". Dies bezieht sich darauf, dass die deutschsprachige Minderheit bereits jetzt weitreichende Sonderrechte genießt; Italien ist nicht bereit, drei Viertel der Einwohner Bolzano-Alto Adiges Österreich zu unterstellen. Er gehe davon aus, warnt Alfano, dass \"es keine unilateralen Schritte gibt\".[3]
Auslandsitaliener
Wiens aggressiver Vorstoß schließt an bestehende Vorbilder unter den großen Mitgliedsstaaten der EU an. Die Regierung Italiens etwa dürfe über den Vorstoß \"nicht beleidigt sein\" [4], äußerte Anfang Dezember der ehemalige Landeshauptmann von Bolzano-Alto Adige, Luis Durnwalder (Südtiroler Volkspartei): Rom verleihe zum Beispiel Bürgern Sloweniens und Kroatiens, wenn sie italienische Vorfahren hätten, ebenfalls den italienischen Pass. In der Tat schreibt das italienische Staatsbürgerschaftsrecht seinerseits ein ius sanguinis (\"Blutsrecht\") fest, dem zufolge Italiener ist, wer italienische Vorfahren hat, nicht jedoch - bzw. nur in Ausnahmefällen -, wer auf italienischem Territorium geboren worden ist.[5] Rom hat am 8. März 2006 ein Gesetz (\"Legge n. 124\") verabschiedet, das es ausdrücklich vorsieht, Menschen, die in Istrien, Fiume und Dalmatien - in Teilen Sloweniens und Kroatiens also - die italienische Staatsbürgerschaft zu geben, sofern ihre Vorfahren Italiener waren.[6] Das entspricht im Kern den aktuellen Plänen Österreichs.
Auslandsdeutsche
Vorreiter bei der Verleihung der eigenen Staatszugehörigkeit an Bürger der Nachbarstaaten ist allerdings Deutschland gewesen. Die Bundesrepublik hat bereits in den 1990er Jahren begonnen, Bürgern Polens, Tschechiens und anderer Staaten deutsche Papiere auszuhändigen, sofern sie eine deutsche Abstammung nachweisen können; Grundlage ist auch hier das völkische Blutsrecht (ius sanguinis). Zum Erlangen deutscher Papiere genügt in Polen ausweislich einschlägiger Unterlagen, die etwa auf der Website der deutschen Botschaft in Warschau abrufbar sind, ein sogenannter Volkslistenausweis, wie er von den NS-Okkupanten in der Zeit nach dem deutschen Überfall am 1. September 1939 an \"Blutsdeutsche\" ausgehändigt wurde. Die deutschen Behörden gehen bei der Verleihung der deutschen Staatsbürgerschaft an Bürger Polens ungewohnt großzügig vor. So erklärten bei der polnischen Volkszählung des Jahres 2011 gut 148.000 Menschen, \"deutsche Volkszugehörige\" zu sein. Zugleich bestätigten rund 239.300 Personen, neben der polnischen auch die deutsche Staatsangehörigkeit zu besitzen. Das Auswärtige Amt beziffert Polens \"deutsche Minderheit\" auf insgesamt 300.000 bis 350.000 Menschen - also auf weit mehr als das Doppelte derjenigen, die das für sich selbst in Anspruch nehmen.[7] Ähnlich verhält es sich in Tschechien. Während sich 2011 knapp 19.000 Bürger des Landes der deutschsprachigen Minderheit zurechneten, schätzte das Auswärtige Amt ihre Gesamtzahl auf rund 40.000. Damals hatten die deutschen Behörden bereits rund 20.780 Tschechen die deutsche Staatsangehörigkeit verliehen.[8]
Auslandsungarn
In noch größerem Stil nachgezogen hat mittlerweile Ungarn. Das Land gewährt auf Initiative von Ministerpräsident Viktor Orbán seit Anfang 2011 den Angehörigen der ungarischsprachigen Minderheiten in den Nachbarländern die ungarische Staatsbürgerschaft - wie im Fall Deutschlands und Italiens auf der Basis des völkischen ius sanguinis. Im Dezember 2017 wurde im Budapester Präsidentenpalast in Anwesenheit des ungarischen Staats- sowie des Ministerpräsidenten die millionste ungarische Staatsbürgerschaft an einen \"Auslandsungarn\" übertragen; es handelte sich um einen Bürger Serbiens. Die Budapester Praxis führt längst zu heftigen Auseinandersetzungen mit Rumänien, wo eine 1,5 Millionen Menschen starke ungarischsprachige Minderheit lebt; diese spitzt mittlerweile, verstärkt durch die Chance, die ungarische Staatsbürgerschaft zu erhalten und damit die Bindungen an den rumänischen Staat zu schwächen, ihre Autonomieforderungen zu.
Auslandsrumänen
Rumänien wiederum hat selbst begonnen, mit der Verleihung seiner Staatsbürgerschaft in einem seiner Nachbarstaaten zu wildern - in Moldawien. Laut offiziellen Angaben aus Bukarest haben von den rund 3,1 Millionen Moldawiern mittlerweile um die 300..000 die rumänische Staatsbürgerschaft erhalten - weil ihre Sprache als ein rumänischer Dialekt eingestuft und sie selbst von rumänischen Nationalisten als \"Rumänen\" bezeichnet werden.[9] In Rumänien ist die Forderung nach einem \"Anschluss\" Moldawiens populär; zu ihren bekanntesten Protagonisten gehört Ex-Staatspräsident Traian Băsescu.
Auslandskatalanen
Sogar katalanische Sezessionisten, die für die Abspaltung ihrer Region von Spanien und für die Gründung eines eigenen Staates kämpfen, haben bereits die katalanischsprachige Minderheit im Nachbarland Frankreich im Visier. Auf Demonstrationen in Barcelona hieß es im Herbst mit Blick auf die katalanischsprachige Minderheit in der Region um das südfranzösische Perpignan: \"Weder Frankreich noch Spanien, sondern ein Land Katalonien\".[10]
Territorialforderungen
In exemplarischer Weise hat Benedetto della Vedova, Staatssekretär in Italiens Außenministerium, nun vor der Vergabe der jeweiligen Staatsbürgerschaft an Sprachminderheiten eines Nachbarlandes gewarnt. Wie della Vedova schreibt, bedroht sie nicht nur \"das Zusammenleben in den Ländern\", die davon betroffen sind; sie droht zudem \"Territorialforderungen wiederauferstehen zu lassen\", auch in der EU. Della Vedova hat in diesem Kontext von einer \"eisernen ethnonationalistischen Faust\" gesprochen, mit der aktuell Österreich Italien bedrohe.[11] Seine Warnung wäre freilich glaubwürdiger, könnte Italien sich entschließen, selbst die entsprechenden Praktiken einzustellen. Am wirksamsten wäre es selbstverständlich, könnte die dominante Macht in der EU, Deutschland, sich dazu durchringen. Das allerdings kann als ausgeschlossen gelten: Berlin gibt seit je in Sachen völkischer Nationalismus den Ton an.
[1] S. dazu Die Ära der Nationalismen (I).
[2], [3] Kneissl: Keine Kritik aus Italien wegen Doppelpass-Plänen. kleinezeitung.at 16.01.2018.
[4] Durnwalder: \"Ich würde als Erster ansuchen\". unsertirol24.com 02.12.2017.
[5] Cittadinanza. interno.gov.it.
[6] Legge n. 124 del 0 Marzo 2006.
[7] Deutsche Minderheit in Polen. aussiedlerbeauftragter.de 02.05.2013.
[8] Deutsche Minderheit in anderen Staaten Mittelost- und Osteuropas. aussiedlerbeauftragter.de 02.05.2013.
[9] Karla Engelhard: Rumänische Pässe sind begehrt. deutschlandfunk.de 20.02.2014.
[10] S. dazu Die Macht in der Mitte.
[11] www.facebook.com/BenedettoDellaVedovaOfficial/posts/10155989376364600
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Torino 10/2/2018: Giorno del Ricordo, un bilancio
Si terrà il giorno sabato 10 febbraio 2018 a Torino, dalle ore 10 alle ore 17 presso la sala convegni del museo dell\'ex Carcere \"Le Nuove\", in Via Borsellino 3, il convegno nazionale: GIORNO DEL RICORDO, UN BILANCIO
Obiettivo dell\'iniziativa, organizzata dalla associazione Jugocoord Onlus e dalla rivista di storia critica Historia Magistra, è una analisi delle conseguenze della istituzione del \"Giorno del Ricordo\" (Legge n.92 del 2004) e delle sue celebrazioni sino ad oggi. Attraverso qualificate relazioni scientifiche saranno investigate le ricadute dell\'inserimento del \"Giorno del Ricordo\" nel calendario civile della Repubblica, che appaiono molto pesanti a livello politico, culturale e di autopercezione identitaria della Nazione, nonché a livello didattico-scientifico e financo per le casse dello Stato. Per converso, ad oggi il numero totale delle persone alla cui memoria sono stati attribuiti i riconoscimenti previsti dalla Legge è di appena 323, di cui \"infoibati\" in senso stretto una minima frazione, mentre la gran parte di queste figure sono appartenenti alle forze armate o personale politico dell\'Italia fascista, senza contare gli episodi che non hanno niente a che fare con la narrazione ufficiale delle \"più complesse vicende del confine orientale\" cui si riferisce la Legge. Tutto ciò considerato, il 2 aprile 2015 la stessa Segreteria Nazionale dell\'ANPI chiese di interrompere quantomeno l\'attribuzione di onorificenze e medaglie della Repubblica, mentre nel 2017 numerose personalità antifasciste in una Lettera Aperta al MIUR hanno invocato un drastico cambiamento di rotta rispetto alla modalità revisionista e rovescista con cui l\'argomento è trattato nelle scuole.
Al convegno sono previsti gli interventi di Bruno Segre, Angelo Del Boca, Angelo D\'Orsi, Alessandro \"Sandi\" Volk, Gabriella Manelli, Marco Barone, Nicola Lorenzin, Davide Conti, Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan. A seguire dibattito.
Hanno aderito finora [AGG. 19/1 ore 16:00]:
sezioni ANPI (Ass. Naz. Partigiani d\'Italia) Grugliasco (TO), Chivasso (TO), Montebelluna (VI – sez. A. Boschieri \"D\'Artagnan\")
ANPPIA (Ass. Naz. Perseguitati Politici Italiani Antifascisti) nazionale e sezione di Torino
AICVAS (Ass. Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna)
CIVG (Centro Iniziative Verità e Giustizia)
Centro Studi Italia-Cuba
Comitato di lotta antifascista antimperialista e per la memoria storica (Parma)
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Manca solo un documento. Per questo la giustizia tedesca non ha ancora deciso se arrestare Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, ex componenti del Cda della ThyssenKrupp Acciai Speciali, condannati a nove anni e otto mesi il primo e sei anni e dieci mesi il secondo per l’omicidio colposo di sette operai morti dopo il rogo del 6 dicembre 2007 a Torino.
L’Italia ha inviato quel documento in Germania, ma è andato perso. Questo è quanto il Fatto Quotidiano ha appreso dalla Procura generale di Essen(Renania settentrionale-Vestfalia), città in cui ha sede il colosso dell’acciaio ha la sua sede. “Non si può ancora decidere se eseguire in Germania la sentenza italiana contro Espenhahn e Priegnitz – risponde Anette Milk, procuratore e portavoce –. La procedura è in corso. Stiamo ancora aspettando un documento che è stato chiesto alle autorità italiane”. E questo è il problema: “Ci hanno informato che ci hanno già mandato i documenti mesi fa, ma sfortunatamente non sono mai arrivati ai nostri uffici”.
La Procura generale di Essen spiega che stanno cercando di risolvere e hanno richiesto una copia dell’atto mancante. Poi, una volta ricevuto, sarà possibile decidere se e come arrestare i due manager. In base agli accordi bilaterali, Espenhahn e Priegnitz potranno scontare la condanna nel loro Paese per una durata massima di cinque anni, come previsto dal codice penale tedesco per l’omicidio colposo. Dal ministero della Giustizia italiano, invece, dicono di non aver ricevuto ulteriori richieste. L’ultima risale all’8 maggio, quasi un anno dopo la condanna definitiva datata 13 maggio 2016. La Germania chiedeva chiarimenti sulla presenza dei due imputati al processo: se condannati in contumacia, il loro arresto sarebbe stato più difficile. Il dato, in realtà, era riportato nella sentenza che li indica come “presenti”. Da via Arenula hanno inoltrato la richiesta alla Procura generale di Torino, dove il sostituto pg Vittorio Corsi, poco prima del suo pensionamento, ha firmato un ultimo atto, spiegando che i due presero regolarmente parte al processo di primo grado e furono sottoposti all’esame dibattimentale il 4 novembre 2009, mentre per i due processi di appello non si sono mai presentati e sono stati rappresentati da avvocati di fiducia. Ma insomma, per l’Italia non erano contumaci.
La risposta è stata mandata via mail a Essen il 1° giugno scorso, con tanto di foto dei due imputati in aula: c’è anche l’avviso di ricezione della mail dall’account dell’indirizzo di Essen, dove evidentemente l’hanno persa.
A differenza dei manager italiani che sono entrati in carcere il giorno dopo il verdetto della Cassazione, i due tedeschi sono liberi (e dal curriculum su Linkedin risulta che Gerald Priegnitz è tuttora Cfo, direttore finanziario, della ThyssenKrupp Global Shared Services).
Il 12 ottobre scorso a Lussemburgo è intervenuto direttamente anche il ministro Orlando che, durante il Consiglio dell’Unione europea dedicato alla giustizia, ha chiesto all’omologo tedesco Heiko Maas un suo interessamento per l’esecuzione della condanna: “Alla luce dell’eccellente cooperazione giudiziaria tra Italia e Germania il ministero federale di giustizia ha offerto il suo supporto per migliorare la comunicazione tra le autorità giudiziarie tra i due Stati se necessario”, ha risposto al Fatto un portavoce di Maas.
È possibile che le autorità tedesche aspettassero soltanto l’esito dell’ultimo ricorso straordinario in Cassazione: il 19 ottobre scorso i giudici l’hanno respinto perché le condanne inflitte erano “conformi a legge e adeguatamente giustificate”. Un’ulteriore conferma della loro colpevolezza che solo la Germania fatica a riconoscere.
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21 ottobre 2017, VINCENZO FRENDA
Per arrivare a questa verità definitiva ci sono voluti 9 anni e 5 processi, eppure solo i condannati italiani stanno scontando le pene. I tedeschi no, perché la loro condanna non è stata ancora recepita dalla giustizia tedesca che potrebbe anche ricalcolarla riducendola, visto che in Germania per lo stesso reato sono previste pene più miti. Ma non basta. I due manager tedeschi insieme al dirigente Daniele Moroni hanno provato a chiedere un nuovo sconto alla giustizia italiana. Un ricorso alla cassazione per avere un ricalcolo della pena rispedito al mittente dalla corte suprema. Un tentativo andato fallito che ha però garantito ai condannati tedeschi altro tempo in libertà.
Il ministro della giustizia Orlando ha sollecitato più volte i tedeschi ad applicare la condanna come previsto dai trattati, finora invano. Un nuovo sfregio alla memoria delle vittime; Graziella Rondinò madre di Rosario, morto ad appena 26 anni non si dà pace: “Le pene sono basse, almeno che non ci siano sconti per gli assassini. Avrebbero dovuto dare loro l’ergastolo, prendere la chiave della cella e buttarla via. Ora speriamo che la Germania si sbrighi a rendere esecutiva la sentenza. Non vogliamo aspettare altri dieci anni”.
Tanti, troppi anni passati per avere giustizia e le pene forse non sono quelle che i parenti delle vittime si aspettavano, ma questo processo mantiene intatta la sua importanza, perché infligge le pene più severe mai date per un incidente sul lavoro e dà un segnale forte a quei capitani d’industria che finora hanno pensato di poter derogare sui diritti dei lavoratori e sostanzialmente sulla loro salute, in virtù di una impunità garantita dal denaro scrivendo, come per il caso della Thyssen di Torino, pagine nerissime nella storia industriale non solo italiana.
\"Questa è la realtà della Unione Europea, un sistema autoritario e truffaldino di diseguali\"
di Giorgio Cremaschi, 20/10/2017
Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 un terribile incendio distrusse lo stabilimento ThyssenKrupp di Torino condannando ad una morte orribile 7 operai.
Grazie al lavoro instancabile e minuzioso del procuratore Guariniello i colpevoli di quella strage furono individuati, incriminati, condannati. E, caso raro per gli omicidi sul lavoro, le sentenze, pur attenuate, hanno retto fino alla Corte di Cassazione. Che pochi giorni fa ha voluto anche sottolineare la gravità del non rispetto delle norme di sicurezza, che proprio per la sua dimensione assegna la responsabilità della strage ai manager aziendali. Di essi quelli italiani stanno già scontando la pena, ma i due principali responsabili - l\'amministratore delegato Harald Espenhahn (condannato a nove anni di reclusione) e il direttore generale Gerald Priegnitz (condannato a sei anni) - sono liberi in Germania.
Buffonate.
La verità è che il governo dovrebbe fare una campagna contro l\'impunità dei manager tedeschi e far valere con tutti i mezzi le regole di giustizia europee.
Che però come al solito valgono solo per i paesi deboli e con una classe politica asservita e mai, mai per la Germania. Questa è la realtà della Unione Europea, un sistema autoritario e truffaldino di diseguali, ove se sei manager tedesco sei automaticamente immune dalla giustizia di uno dei paesi che in Germania chiamano PIGS.
L’ex ad della ThyssenKrupp Acciai Speciali Harald Espenhahn e l’ex consigliere Gerald Priegnitz, condannati in via definitiva il 13 maggio 2016 per omicidio colposo plurimo al termine del processo per il rogo allo stabilimento di Torino in cui, tra il 5 e il 6 dicembre 2007, morirono sette operai, sono ancora liberi. A cinque mesi dalla polemica sulla traduzione della sentenza il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto al suo omologo tedesco che la Germania dia esecuzione al verdetto.
Per Espenhahn, condannato a nove anni di reclusione, e Priegnitz, condannato a sei anni, è stata chiesta l’estradizione in Italia, ma questa è stata dichiarata non ammissibile in quanto sono entrambi di cittadinanza tedesca. Nei primi mesi del 2017 l’Italia ha quindi chiesto all’autorità giudiziaria tedesca di riconoscere la sentenza ed eseguire in Germania la relativa pena a carico delle due persone coinvolte. Richiesta ora rinnovata da Orlando che a margine della riunione del Consiglio GAI in corso a Lussemburgo, ha incontrato il suo omologo tedesco Heiko Maas, che si è impegnato a svolgere nel più breve tempo possibile un approfondimento sulla questione, al fine di poter dare riscontro alla richiesta italiana. Al termine del colloquio, il Guardasigilli gli ha consegnato una lettera che riepiloga i principali passaggi della vicenda.
Gli imputati condannati invece stanno tutti scontando la pena. La sentenza della Cassazione (qui le motivazioni) è arrivata il 13 maggio 2016, un venerdì sera, e il sabato mattina gli italiani si erano consegnati alle forze dell’ordine per poi andare in carcere a Terni e a Torino. Lunedì 16 maggio, rientrati nei loro uffici, il sostituto procuratore generale Vittorio Corsi e il procuratore generale Francesco Saluzzo avevano emesso un mandato di arresto europeo per Espenhahn e Priegnitz e il 25 maggio erano state diramate le ricerche dei due condannati, localizzati in Germania.
Lì era stata consegnata la documentazione per l’arresto, ma il 4 agosto la procura generale di Hamm aveva comunicato al ministero della Giustizia il rifiuto della consegna: in base alle norme sul mandato di arresto europeo un’autorità giudiziaria può rifiutare di eseguire il mandato contro i suoi cittadini per eseguirla “conformemente al suo diritto interno”. In Germania, in base ai codici, Espenhahn e Priegnitz non sconteranno le pene stabilite dai giudici italiani, rispettivamente nove anni e otto mesi il primo e sei anni e tre mesi il secondo. La detenzione potrà durare fino a un massimo di cinque anni, pena massima prevista dal codice penale tedesco per l’omicidio colposo.
Chissà cosa avrà pensato Virginia quando, nella causa intentata contro la Germania da lei e dagli altri eredi delle vittime – rappresentati dagli avvocati Lucio Olivieri, Monica Oddis e Claudia Di Padova – la Farnesina si è costituita in difesa di Berlino. Il ministero non voleva “incorrere in una violazione del diritto internazionale”, perché l’Italia, ricorda ancora il vertice della diplomazia italiana, ha rinunciato a ogni pretesa nei confronti della Germania nel 1947, con il Trattato di Pace di Parigi. E poi c’è la sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Ma, forte della sentenza della Corte Costituzionale e di quella della Cassazione, il giudice Giovanna Bilò, del tribunale di Sulmona, il 2 novembre ha condannato in contumacia la Germania, “quale successore del Terzo Reich”, come “responsabile dell’uccisione” con “modalità efferate” dei 128 civili. In più, ha obbligato Berlino a corrispondere al Comune di Roccaraso 800mila euro di “danno non patrimoniale”.
Tra i motivi che frenano il governo italiano probabilmente c’è il timore che un domani Paesi come l’Etiopia, la Slovenia o la Grecia vengano a chiederci il conto per le stragi fasciste, a dispetto del falso mito degli “italiani brava gente”, di un esercito che al contrario di quello tedesco ha sempre rispettato e solidarizzato con le popolazioni invase. In quel caso i risarcimenti complessivamente ci costerebbero diverse centinaia di milioni di euro. “Su questo il nostro Paese è rimasto sempre in silenzio – dice Bernardo Cortese, professore di diritto dell’Unione europea all’università di Padova – Non è da escludere che ci sia anche questo, nella somma delle ragioni che portano il nostro ministero a non muoversi contro la Germania. Ci sono tante cose che spiegano le nostre reticenze. Ovviamente non siamo solo dalla parte delle vittime”.
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GUERRA NUCLEARE
IL GIORNO PRIMA
Da Hiroshima a oggi:
chi e come ci porta alla catastrofe
La lancetta dell’«Orologio dell’Apocalisse» – il segnatempo che sul Bollettino degli Scienziati Atomici statunitensi indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare – è stata spostata in avanti: da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2,5 minuti nel 2017. Tale fatto passa però inosservato o, comunque, non suscita particolari allarmi.
Sembra di vivere nel film The Day After (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’URSS e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche.
Questo libro ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione creato ad arte su questo tema di vitale importanza. Si è diffusa la sensazione che una guerra nucleare sia ormai inconcepibile e si è creata di conseguenza la pericolosa illusione che si possa convivere con la Bomba. Ossia con una potenza distruttiva che può cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita. Lo possiamo evitare, mobilitandoci per eliminare le armi nucleari dalla faccia della Terra. Finché siamo in tempo, il giorno prima.
L’autore, giornalista e saggista, collaboratore de il manifesto e di Pandora TV, è membro del Comitato No Guerra No Nato.
Con Zambon Editore ha pubblicato L’Arte della Guerra / Annali della strategia USA/NATO (1990-2016).
È stato direttore esecutivo per l’Italia della International Physicians for the Prevention of Nuclear War, associazione insignita nel 1985 del Premio Nobel per la Pace per aver «fornito preziosi servigi all\'umanità divulgando informazioni autorevoli e diffondendo la consapevolezza sulle catastrofiche conseguenze di un conflitto nucleare».
INDICE
1 La nascita della Bomba
1.1 Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
1.2 Gli effetti dell’esplosione nucleare su una città
1.3 Gli effetti della ricaduta radioattiva
1.4 L’inverno nucleare
2 La corsa agli armamenti nucleari
2.1 Il confronto nucleare USA-URSS
2.2 I missili balistici intercontinentali
2.3 La crisi dei missili a Cuba e l’ingresso della Cina tra le potenze nucleari
2.4 La pianificazione dell’attacco nucleare
2.5 Il Trattato sullo spazio esterno e il Trattato di non-proliferazione
2.6 I missili balistici a testate multiple indipendenti
2.7 La bomba N
2.8 I trattati sui missili anti-balistici e sulla limitazione delle armi strategiche
2.9 La Bomba segreta di Israele
2.10 L’ingresso di Sudafrica, India e Pakistan tra le potenze nucleari
3 La polveriera nucleare
3.1 Un milione di Hiroshima
3.2 La «valigetta nucleare»
3.3 I falsi allarmi di attacco nucleare
3.4 Gli incidenti con armi nucleari
3.5 L’inquinamento radioattivo dei test e degli impianti nucleari
3.6 Il legame tra nucleare militare e civile
3.7 Gli incidenti alle centrali nucleari
3.8 I movimenti antinucleari durante la guerra fredda
4 Le guerre del dopo guerra fredda
4.1 Il mondo al bivio
4.2 Golfo: la prima guerra del dopo guerra fredda
4.3 Le armi a uranio impoverito
4.4 Il riorientamento strategico degli Stati Uniti
4.5 Il riorientamento strategico della NATO
4.6 L’intervento NATO nella crisi balcanica e la guerra contro la Jugoslavia
4.7 Terreno di prova dei bombardieri da attacco nucleare e uso massiccio di armi a uranio impoverito
4.8 Il superamento dell’Articolo 5 e la conferma della leadership USA
4.9 Il «Nuovo Modello di Difesa» dell’Italia
4.10 L’espansione della NATO ad Est verso la Russia
5 La messinscena del disarmo
5.1 Le armi nucleari e lo «scudo anti-missili» nella ristrutturazione delle forze USA
5.2 I trattati START sulla riduzione delle armi strategiche
5.3 La messa al bando dei test nucleari e i test «subcritici»
5.4 Il Trattato di Mosca e il nuovo START
5.5 L’ingresso della Corea del Nord tra le potenze nucleari
5.6 Altri paesi in grado di fabbricare armi nucleari
5.7 Le armi chimiche e biologiche
6 La nuova offensiva USA/NATO
6.1 11 Settembre: maxi-attacco terroristico in mondovisione
6.2 11 Settembre: le falle della versione ufficiale
6.3 Afghanistan: l’inizio della «guerra globale al terrorismo»
6.4 La seconda guerra contro Iraq
6.5 La guerra contro la Libia
6.6 La guerra coperta contro la Siria e la formazione dell’ISIS
6.7 Il colpo di stato in Ucraina
6.8 Le guerre segrete dal volto umanitario
7 L’Europa sul fronte nucleare
7.1 L’Europa nel riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace
7.2 Italia: portaerei nucleare USA/NATO nel Mediterraneo
7.3 La B61-12, nuova bomba nucleare USA per l’Italia e l’Europa
7.4 L’escalation USA/NATO in Europa
7.5 Lo «scudo» USA sull’Europa
8 Gli scenari dell’Apocalisse
8.1 L’escalation qualitativa del confronto nucleare
8.2 La preparazione del first strike nucleare
8.3 Armi elettromagnetiche e laser e aerei robot spaziali per la guerra nucleare
8.4 La mortale minaccia del plutonio e il monito inascoltato di Fukushima
8.5 La minaccia del terrorismo nucleare
8.6 Le nanoarmi: potenziali detonatori della guerra nucleare
9 Il giorno prima finché siamo in tempo
9..1 La strategia dell’Impero Americano d’Occidente
9.2 Il sistema bellico planetario degli Stati Uniti d’America
9.3 L’ancoraggio dell’Italia alla macchina da guerra USA/NATO
9.4 Il disancoraggio dalla macchina da guerra USA/NATO, per un’Italia sovrana e neutrale, libera dalle armi nucleari
Italia in armi dal Baltico all’Africa
Manlio Dinucci, su Il Manifesto del 16.01.2018
Che cosa avverrebbe se caccia russi Sukhoi Su 35, schierati nell’aeroporto di Zurigo a una decina di minuti di volo da Milano, pattugliassero il confine con l’Italia con la motivazione di proteggere la Svizzera dall’aggressione italiana?
A Roma l’intero parlamento insorgerebbe, chiedendo immediate contromisure diplomatiche e militari.
Lo stesso parlamento, invece, sostanzialmente accetta e passa sotto silenzio la decisione Nato di schierare 8 caccia italiani Eurofighter Typhoon nella base di Amari in Estonia, a una decina di minuti di volo da San Pietroburgo, per pattugliare il confine con la Russia con la motivazione di proteggere i paesi baltici dalla «aggressione russa».
La fake news con la quale la Nato sotto comando degli Stati uniti giustifica la sempre più pericolosa escalation miitare contro la Russia in Europa. Per dislocare in Estonia gli 8 cacciabombardieri, con un personale di 250 uomini, si spendono (con denaro proveniente dalle casse pubbliche italiane) 12,5 milioni di euro da gennaio a settembre, cui si aggiungono le spese operative: un’ora di volo di un Eurofighter costa 40 mila euro, l’equivalente del salario lordo annuo di un lavoratore.
Questa è solo una delle 33 missioni militari internazionali in cui l’Italia è impegnata in 22 paesi.
A quelle condotte da tempo nei Balcani, in Libano e Afghanistan, si aggiungono le nuove missioni che – sottolinea la Deliberazione del governo – «si concentrano in un’area geografica, l’Africa, ritenuta di prioritario interesse strategico in relazione alle esigenze di sicurezza e difesa nazionali».
In Libia, gettata nel caos dalla guerra della Nato del 2011 con la partecipazione dell’Italia, l’Italia oggi «sostiene le autorità nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento del controllo e contrasto dell’immigrazione illegale».
L’operazione, con l’impiego di 400 uomini e 130 veicoli, comporta una spesa annua di 50 milioni di euro, compresa una indennità media di missione di 5 mila euro mensili corrisposta (oltre la paga) a ciascun partecipante alla missione. In Tunisia l’Italia partecipa alla Missione Nato di supporto alle «forze di sicurezza» governative, impegnate a reprimere le manifestazioni popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita.
In Niger l’Italia inizia nel 2018 la missione di supporto alle «forze di sicurezza» governative, «nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area», comprendente anche Mali, Burkina Faso, Benin, Mauritania, Ciad, Nigeria e Repubblica Centrafricana (dove l’Italia partecipa a una missione dell’Unione europea di «supporto»).
È una delle aree più ricche di materie prime strategiche – petrolio, gas naturale, uranio, coltan, oro, diamanti, manganese, fosfati e altre – sfruttate da multinazionali statunitensi ed europee, il cui oligopolio è però ora messo a rischio dalla crescente presenza economica cinese.
Da qui la «stabilizzazione» militare dell’area, cui partecipa l’Italia inviando in Niger 470 uomini e 130 mezzi terrestri, con una spesa annua di 50 milioni di euro. A tali impegni si aggiunge quello che l’Italia ha assunto il 10 gennaio: il comando della componente terrestre della Nato Response Force, rapidamente proiettabile in qualsiasi parte del mondo. Nel 2018 è agli ordini del Comando multinazionale di Solbiate Olona (Varese), di cui l’Italia è «la nazione guida». Ma – chiarisce il Ministero della difesa – tale comando è «alle dipendenze del Comandante Supremo delle Forze Alleate in Europa», sempre nominato dal presidente degli Stati uniti.
L’Italia è quindi sì «nazione guida», ma sempre subordinata alla catena di comando del Pentagono.
Tutti parlano del libro esplosivo su Trump, con rivelazioni sensazionali di come Donald si fa il ciuffo, di come lui e la moglie dormono in camere separate, di cosa si dice alle sue spalle nei corridoi della Casa Bianca, di cosa ha fatto suo figlio maggiore che, incontrando una avvocatessa russa alla Trump Tower di New York, ha tradito la patria e sovvertito l’esito delle elezioni presidenziali. Quasi nessuno, invece, parla di un libro dal contenuto veramente esplosivo, uscito poco prima a firma del presidente Donald Trump: «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti».
È un documento periodico redatto dai poteri forti delle diverse amministrazioni, anzitutto da quelli militari.
Rispetto al precedente, pubblicato dall’amministrazione Obama nel 2015, quello dell’amministrazione Trump contiene elementi di sostanziale continuità. Basilare il concetto che, per «mettere l’America al primo posto perché sia sicura, prospera e libera», occorre avere «la forza e la volontà di esercitare la leadership Usa nel mondo».
Lo stesso concetto espresso dall’amministrazione Obama (così come dalle precedenti): «Per garantire la sicurezza del suo popolo, l’America deve dirigere da una posizione di forza»..
Rispetto al documento strategico dell’amministazione Obama, che parlava di «aggressione russa all’Ucraina» e di «allerta per la modernizzazione militare della Cina e per la sua crescente presenza in Asia», quello dell’amministrazione Trump è molto più esplicito: «La Cina e la Russia sfidano la potenza, l’influenza e gli interessi dell’America, tentando di erodere la sua sicurezza e prosperità».
In tal modo gli autori del documento strategico scoprono le carte mostrando qual è la vera posta in gioco per gli Stati uniti: il rischio crescente di perdere la supremazia economica di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali, anzitutto Cina e Russia le quali stanno adottando misure per ridurre il predominio del dollaro che permette agli Usa di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale.
«Cina e Russia – sottolinea il documento strategico – vogliono formare un mondo antitetico ai valori e agli interessi Usa. La Cina cerca di prendere il posto degli Stati uniti nella regione del Pacifico, diffondendo il suo modello di economia a conduzione statale. La Russia cerca di riacquistare il suo status di grande potenza e stabilire sfere di influenza vicino ai suoi confini. Mira a indebolire l’influenza statunitense nel mondo e a dividerci dai nostri alleati e partner».
Da qui una vera e propria dichiarazione di guerra: «Competeremo con tutti gli strumenti della nostra potenza nazionale per assicurare che le regioni del mondo non siano dominate da una singola potenza», ossia per far sì che siano tutte dominate dagli Stati uniti. Fra «tutti gli strumenti» è compreso ovviamente quello militare, in cui gli Usa sono superiori.
Come sottolineava il documento strategico dell’amministrazione Obama, «possediamo una forza militare la cui potenza, tecnologia e portata geostrategica non ha eguali nella storia dell’umanità; abbiamo la Nato, la più forte alleanza del mondo».
La «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti», a firma Trump, coinvolge quindi l’Italia e gli altri paesi della Nato, chiamati a rafforzare il fianco orientale contro l’«aggressione russa», e a destinare almeno il 2% del pil alla spesa militare e il 20% di questa all’acquisizione di nuove forze e armi.
L’Europa va in guerra, ma non se ne parla nei dibattiti televisivi: questo non è un tema elettorale.
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Si è tenuto il giorno sabato 10 febbraio 2018 a Torino, presso il caffé Basaglia, in via Mantova 34 dalle ore 10 alle 17.30, il convegno nazionale: GIORNO DEL RICORDO, UN BILANCIO
Il leader del movimento civile serbo \"Libertà, democrazia, verità\" Oliver Ivanovic è stato ucciso in un agguato a Kosovska-Mitrovica. Lo ha riferito al giornale Blic l\'avvocato del politico...
Arrêté en janvier 2014 pour de supposés « crimes de guerre », le chef historique des Serbes du Nord du Kosovo, Oliver Ivanović, a pu aujourd’hui quitter la prison de Mitrovica Nord après la décision du tribunal de l’assigner en résidence surveillée. Sa condamnation en première instance a été annulée le 16 février par la Cour d’appel de Pristina...
http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/oliver-ivanovic-en-residence-surveillee.html
http://www.courrierdesbalkans..fr/le-fil-de-l-info/affaire-oliver-ivanovic-point-partiel-sur-la-situation..html
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/7872
http://www.blic.rs/Vesti/Ekonomija/247175/Ivanovic-Beograd-protiv-privatizacije-Trepce
Cinque colpi di arma da fuoco in pieno giorno, esplosi da un\'auto in corsa nel centro di Mitrovica nord, la metà serba della città simbolo della divisione tra serbi e albanesi in Kosovo. Così, nelle prime ore del mattino di martedì 16 gennaio, è stato ucciso Oliver Ivanović, uno dei leader politici più noti e discussi della comunità serbo-kosovara.
Al momento è ancora difficile fare supposizioni su mandanti e moventi dell\'omicidio, che fa ripiombare il Kosovo in un\'atmosfera di forte tensione a un mese dalle celebrazioni per il decennale della dichiarazione di indipendenza di Pristina da Belgrado, avvenuta il 17 febbraio 2008.
Di certo Ivanović paga il suo essere un personaggio scomodo, fuori dagli schemi, inviso a molti sia in campo albanese che in quello serbo. Leader dell\'Iniziativa civica \"Sloboda, demokratija, pravda - SDP\" (Libertà, democrazia, giustizia), Ivanović era entrato sulla scena politica kosovara dopo il conflitto armato del 1999-2000.
Dal 2001 al 2007 aveva rappresentato la minoranza serba al parlamento di Pristina, mentre dal 2008 al 2012 era stato segretario di stato del ministero serbo “per il Kosovo e la Metohija”.
Il leader politico serbo-kosovaro era noto per le sue posizioni sfaccettate: fermo sull\'inaccettabilità dell\'indipendenza del Kosovo, ma aperto al confronto alla ricerca di soluzioni pragmatiche per consentire la coabitazione e la collaborazione tra le comunità kosovare. Spesso cercato dai media internazionali, Ivanović era uno dei pochissimi politici serbo-kosovari a rivolgersi agli albanesi-kosovari nella loro lingua.
Negli ultimi anni aveva assunto posizioni sempre più critiche nei confronti di Belgrado, che accusava di voler controllare in modo autoritario la vita politica dei serbo-kosovari attraverso l\'imposizione dall\'alto della “Srpska Lista” (Lista serba), formazione legata al presidente Aleksandar Vučić.
Nel 2014 il colpo di scena: Ivanović viene accusato da una corte EULEX - la missione UE in Kosovo - di crimini di guerra contro la popolazione civile albanese nel biennio 1999-2000. Ivanović si dichiara innocente, ma in primo grado viene condannato a nove anni. A inizio 2017, però, la Corte di Appello di Pristina annulla il verdetto, ordinando una ripetizione del processo, ancora in corso.
In una recente intervista per il settimanale “Vreme”, Ivanović aveva espresso forti preoccupazioni per il clima di instabilità in Kosovo e la propria incolumità personale (lo scorso luglio, l\'automobile del politico era stata data alle fiamme), puntando il dito contro i gruppi malavitosi serbi che operano – secondo il leader di SDP in modo indisturbato – nel Kosovo settentrionale.
L\'uccisione di Ivanović ha avuto subito larga eco in Kosovo e nella regione. Tutti i leader politici, kosovari, serbi e internazionali hanno condannato con fermezza l\'omicidio, che rischia di cementare la situazione di stallo o addirittura di aprire nuovi e imprevedibili scenari di scontro.
La prima conseguenza diretta è stata la decisione di Belgrado di ritirare la propria delegazione a Bruxelles, impegnata nel tentativo di riaprire il difficile negoziato con la controparte kosovara, che negli ultimi anni ha fatto registrare rari e limitati passi in avanti.
I giorni dell\'entusiasmo per la firma degli Accordi di Bruxelles (aprile 2013), voluti e sponsorizzati dall\'UE, sembrano ormai lontani, e il punto centrale di quell\'intesa, la creazione di un\'Associazione delle Municipalità serbe in Kosovo - che dovrebbe garantire un alto grado di autonomia ai serbi del Kosovo - rimane lettera morta.
In questi anni le comunità serba e albanese hanno imparato faticosamente a coabitare, gli incidenti di violenza inter-etnica sono diminuiti, ma le speranze di un vero superamento delle ferite del conflitto e di un nuovo clima di convivenza restano frustrate.
Nel frattempo, il Kosovo continua a vivere una situazione politica, sociale ed economica estremamente difficile. L\'incapacità di raggiungere un accordo col vicino Montenegro sulla definizione dei confini condanna il paese – caso unico nei Balcani occidentali – a rimanere sulla “lista nera” di Schengen, povertà e corruzione restano endemici, lo sviluppo economico anemico.
Nelle ultime settimane, ripetuti tentativi del parlamento di Pristina di azzerare la nuova Corte Speciale - voluta dall\'UE per giudicare i presunti crimini di guerra della guerriglia albanese dell\'UÇK -, che potrebbe portare alla sbarra nomi importanti dell\'élite albanese-kosovara oggi al potere, presidente Hashim Thaçi e premier Ramush Haradinaj inclusi, ha provocato ferme reazioni sia da parte europea che statunitense. C\'è il rischio reale di guastare i rapporti tra Pristina e quelli che restano i principali garanti della fragile indipendenza kosovara..
Una situazione complessa, che l\'omicidio di Ivanović rende ancora più delicata.
Београдски Форум за свет равноправних најоштрије осуђује терористички акт убиства Оливера Ивановића, истакнутог српског политичара, 16. јануара 2018. године у Косовској Митровици, и изражава најдубље саучешће породици због овог ненадокнадивог губитка. Београдски форум се придружује захтевима јавности да истрага, у најкраћем року утврди ко су извршиоци и налогодавци овог гнусног злочина и да их приведе правди што је услов за отклањање дубоке забринутости и узнемирености грађана Србије, посебно српског народа на Косову и Метохији. У том погледу, очекује се да цивилно и безбедносно присуство УН – КФОР и УНМИК, као и ЕУЛЕКС, одговорно и ефикасно извршавају своје одговорности, у складу са резолуцијом Савета безбедности УН 1244 (1999).
БЕОГРАДСКИ ФОРУМ ЗА СВЕТ РАВНОПРАВНИХ
IN MEMORIAM
ОЛИВЕР ИВАНОВИЋ
Оливер Ивановић је био изузетно честит човек. Личност важна не само за своју породицу и пријатеље, већ и за ширу јавност и народ. Један од ретких, ако не и једини политичар, који је истински схватао да је немогуће да сви имају једнако мишљење или поглед на ствари, и прихватао ту чињеницу као неизбежну полазну основу. За њега су разлике у мишљењу биле разлог да се разговара. Никада није одбацивао људе са другачијим виђењима, идејама или плановима за будућност. Никада никога није вређао, ни оне који су му се супротстављали или одбацивали, нити оне који су му правили проблеме. Због тога је временом задобио поштовање и оних који су га волели али и оних који га нису волели, оних који су са њим делили неке или све вредности, али и оних чије су вредности биле другачије. У шали је знао да каже да на Косову и Метохији људе могу да воле или да их поштују, а да је он лично увек давао предност поштовању.
Увек са осмехом, био оно што јесте: Оливер, Србин са Косова и Метохије, који жели да помогне свом народу тако да то не иде на штету другог или других народа, и који жели да објасни и докаже припадницима другог народа да њихова срећа никако не може да се изгради на несрећи његовог, српског народа.
Одликовало га је потпуно разумевање, иначе, веома сложених прилика на Косову и Метохији, како садашњих тако и свих других околности из ближе и даље историје које су утрле пут данашњем стању ствари. Познавао је све локалне менталитете и системе вредности и све их је уважавао. Познавао је јавну сцену али и закулисне радње, знао је границе до којих иду легалне а преко којих почињу она друга дешавања и радње. И у свему је остао чист.
Много је знао, али никад није користио своја сазнања да нашкоди другима, да блати друге, па је чак из принципа одбијао да то што му је познато користи као уцену или превентиву да сачува и брани самог себе.
Говорио је или разумевао много језика, укључујући све локалне језике на Косову и Метохији, и то је користио да спаја људе. А резултат је био да је људе придобијао. Са сваким се поздрављао чврстим стиском руке, гледајући саговорника у очи и са осмехом. За њега је свако био човек, личност, а не представник ове или оне групе, нације или организације. За њега нико није био \"обичан\" човек, сви смо за њега били посебни и важни. Много је људи којима је помагао, много је оних који га по добру помињу.
Умео је да води чак и непријатне разговоре тако да никог не увреди, а да при томе свако има прилику да искаже своје мишљење. Никад није одбијао да говори и на скуповима за које је било унапред јасно да ће бити непријатељски интонирани према њему или према ономе што је био: Србин са Косова и Метохије, и ономе шта је представљао: српског политичара. На тим скуповима је углавном знао да изазове осмехе и климање глава у знак прихватања или, бар, разумевања за оно што је говорио.
Стоички је подносио своју наметнуту улогу такозваног алиби ратног злочинца са српске стране којом су одређени заговорници тзв. косовског конструкта хтели да релативизују кривицу и наметну је искључиво Србима. Његова ненаметљива и тиха победа огледала се у томе што су и сведоци тужилаштва говорили о њему са уважавањем.
Оливер Ивановић је био човек мост, који је целог века настојао да спаја људе, јер му је било јасно да изолованост не води никуд. Оливер Ивановић је био човек који је имао визију за будућност која није била заснована искључиво на подељености.
Злочинац који је извршио егзекуцију убио је човека, оца, мужа, брата, рођака, пријатеља, лидера, а можда и наду за будућност коју се Оливер трудио да оствари.
Оно што можемо да урадимо јесте да га памтимо као часног човека, благослов који су многи умели да цене, и да покушамо да следимо његову доброту, да останемо верни себи и да пружимо руку уз јасно очекивање да у разговору добијемо исто поштовање које смо спремни да пружимо.
Нека ти је лака земља Оливере, поносна сам што сам те познавала.
Бранка Митровић
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U decembru 2018. navršiće se sto godina od nastanka Jugoslavije. Da li će, tko i kako taj jubilej obilježiti? Zašto Jugoslavija nije bila vještačka tvorevina, šta su njeni najveći dometi, a šta slabosti i kakve je tragove iza sebe ostavila? O ovim i drugim pitanjima vezanim za zemlju koje više nema, govori istoričarka Radina Vučetić, docentkinja na Odeljenju za istoriju Filozofskog fakulteta u Beogradu, autorica knjiga Koka-kola socijalizam i Monopol na istinu.
„VREME\": Pred balkanske ratove Srbija i Crna Gora bile su nezavisne države, Makedonija i Kosovo u sastavu Turske, a Slovenija, Hrvatska i Bosna i Hercegovina u Austrougarskoj. Šta su tada ove zemlje predstavljale u globalnim okvirima i možemo li povući paralelu sa njihovim današnjim međunarodnim položajem?
RADINA VUČETIĆ: Same ili u okviru velikih carstava, na njihovim rubovima, ove države nisu bile važni činioci ni evropske, a kamoli svetske politike. Imale su status provincije – i bukvalno i u dubljem značenju. Tek sa Jugoslavijom, svakoj od njih rastao je značaj. Nastala je relativno velika država na Balkanu i u Evropi – veća od svih svojih suseda, sem od Italije i naročito ako govorimo o drugoj Jugoslaviji, zemlja za koju se znalo u celom svetu. Vidna na mapi, ona je bila još vidnija po svojim vrednostima u raznim oblastima. Gde su danas sve države nastale posle raspada te i takve Jugoslavije? Kako ja imam običaj da kažem, od jedne smislene nastao je veliki broj besmislenih država, ma kako to strašno zvučalo. Ali čak i one države koje su u Evropskoj uniji danas u svetskim okvirima malo znače i malo toga važnog predstavljaju, pa dolazi do situacija da i neko ko mora da se razume u politiku i Balkan, kao Serž Bramerc, može da izjavi da je Kolinda Grabar Kitarović predsednica Srbije. Ili, kada vas u inostranstvu pitaju odakle ste pa kažete iz Srbije, često usledi ono pitanje „da li je tamo hladno\", jer misle da je Srbija Sibir. Sve ove novonastale zemlje, nažalost, i dalje su svetu prepoznatljive prvenstveno kao poprišta krvavih ratova devedesetih ili, ako ćemo gledati s pozitivnije strane, po dobrim sportistima i sportskim reprezentacijama. A kada već spominjem sport, ako su nam tako jake pojedinačne državne reprezentacije, kakve bi tek bile reprezentacije Jugoslavije, da ta država još postoji?
Što za jugoslavenske narode predstavlja ideja ujedinjenja?
Ma iz kojih pozicija i ma s kakvim namerama razmišljamo o Jugoslaviji, neizbežan je zaključak da je ona, u oba svoja života, bila okvir za emancipaciju i modernizaciju svih jugoslovenskih naroda i da su se u okviru nje konstituisale buduće republike, danas države, kao i da su najveći uzleti svih pojedinačnih naroda ostvareni upravo u toj zemlji. Kako kaže Mari Žanin Čalić, Jugoslavija je bila najozbiljniji modernistički poduhvat na ovim prostorima, a sve što se dešavalo od kraja osamdesetih i što se dešava i danas, u svojoj suštini je antimodernističko i vraća nas čitav vek unazad. Taj povratak u uske nacionalne zabrane, sve je to neki mračni 19. vek i u totalnoj je suprotnosti svemu onome što smo imali u obe Jugoslavije. Stepenicama za penjanje mi smo, uz nesporna penjanja, na kraju sišli takoreći na dno – zapravo, niz njih smo se sunovratili. Svi narodi koji su činili Jugoslaviju upravo su u njoj doživeli svoj istorijski i civilizacijski maksimum. S druge strane, ako pratimo poglede na Jugoslaviju iz novih država nastalih po njenom slomu, u njima se uglavnom negira sve pozitivno što je ujedinjenje donelo i uglavnom se stvaranje Jugoslavije pominje kao nekakvo „rešenje iz nužde\", međuprostor do novih samostalnih država. Zajednički život, svejedno da li viđen kao potreba ili kao nužda, bio je opterećen mnogim suprotnostima od kojih je najveći problem bio konstantno nerešavanje nacionalnog pitanja i pitanja (ne)ravnopravnosti država koje su se ujedinjavale u Kraljevinu Jugoslaviju i kasnije činile socijalističku Jugoslaviju. Stalni sukob centralističkog i federalističkog koncepta i suštinska nemogućnost pravog dijaloga ostavili su ova pitanja nerešenim u obe Jugoslavije. Paralelno sa ekonomskim i kulturnim uzletima još od prvog, Vidovdanskog ustava, Jugoslavijom je praktično dominirao centralističko-unitaristički koncept i na njemu se stalno sve lomilo dok se, na kraju, nije i slomilo. Međutim, ako se uporede značajna emancipacija svih naroda i njihov izlazak na međunarodnu scenu sa stalnim sukobima unutar nje, postavlja se pitanje da li je kolaps te države bio neminovan. Mislim da nije. Antagonizama je uvek bilo, ali tamo gde postoje prilike da se kroz zajedničke uspehe postižu i pojedinačni, da s napretkom celine napreduju i njeni delovi – što je u Jugoslaviji postojalo – antagonizmi i ne moraju da predstavljaju neku veću prepreku uspesima. Podižući sebe, ekonomski i kulturno, Jugoslavija je podizala i sve svoje delove i tako je postavljala, u mnogo čemu, temelje u svim oblastima u danas samostalnim, iz nje nastalim, državama.. Mnogo toga srpskog, hrvatskog, bošnjačkog, slovenačkog, makedonskog, crnogorskog, albanskog, čak i u materijalnom smislu, jugoslovensko je. I famozna „sukcesija\" to potvrđuje. Posvađana deca dele ono što su im ostavili roditelji kojih su se odrekli. Investirajući u sebe – figurativno ali i bukvalno – Jugoslavija je investirala i u Srbiju, Hrvatsku, Sloveniju, Crnu Goru, Bosnu i Hercegovinu, Makedoniju. Tragovi toga postoje i ostaju. Sve u svemu, ideja ujedinjenja nije bila samo državotvorna ideja. Bila je mnogo više od toga, te je otuda ostavila mnogo toga što živi i što će živeti ne samo na sentimentalnom i emotivnom planu.
Koliko je stvaranje obje Jugoslavije plod autentične želje njenih naroda, a koliko posljedica sklopa međunarodnih odnosa, to jest smije li se o Jugoslaviji govoriti kao o vještačkoj tvorevini?
Nikako se ni o prvoj, ni o drugoj Jugoslaviji ne može govoriti kao o veštačkim tvorevinama. Stvari nikad nisu toliko jednostavne, a upravo je teza o Jugoslaviji kao veštačkoj tvorevini služila da se negira ono što je bila realnost – a to je želja naroda za ujedinjenjem. Ta teza u potpunosti briše sve ono što je postojalo kao vidljivo od druge polovine 19. veka i čiji tragovi sežu mnogo dalje u prošlost. Tragovi želje za ujedinjenjem mogu se videti ne samo u političkim idejama nego i u svakodnevici, u kulturnom životu, što je, za Srbiju, istraživala moja koleginica Dubravka Stojanović. Ona je ukazala na prve pozorišne susrete Zagreba i Beograda još 1841; oni se intenziviraju od šezdesetih godina 19. veka, a početkom 20. veka se održavaju i Prva jugoslovenska izložba, Prvi kongres južnoslovenske omladine, Prvi kongres južnoslovenskih pisaca, letuje se u Abaciji i Fjumi (Rijeka), a u leto 1910, kao sada za Novu godinu, u posetu Beogradu dolazi grupa Slovenaca. Nije se, dakle, ta Jugoslavija 1918. desila slučajno, stihijski i kao plod svetske politike, nego kao rezultat težnji ljudi sa ovih prostora. Ali, mi smo skloni teorijama zavere, ne samo kada je nastanak Jugoslavije u pitanju nego i njen raspad, prebacujući odgovornost na nekog drugog, a ne tragajući za suštinskim problemima koji su postojali u obe Jugoslavije i koji su vodili njenom raspadu. Činjenica je da je jugoslovenska ideja zahvatala političke i intelektualne krugove u skoro svim nacionalnim sredinama. Zato se nikako ne može govoriti o „versajskoj Jugoslaviji\", ili o Jugoslaviji kao veštačkoj tvorevini, mada je međunarodni faktor takođe igrao određenu, ali nikako presudnu ulogu u njenom stvaranju.
Nijedna ulica u Beogradu ne nosi ime kralja Aleksandra Karađorđevića. Za razliku od Nikolaja II, on nema ni spomenik u glavnom gradu Srbije. Da li je u tome određenu ulogu odigrala i činjenica da se nalazio na čelu prve Jugoslavije, to jest njegova politika integralnog jugoslavenstva?
U Beogradu postoje samo biste Aleksandra Karađorđevića na ulazu u Arhiv Jugoslavije i u holu Doma Vojske Srbije. Pitanje zašto nema spomenika kralju Aleksandru zaista je interesantno i važno i na njega postoji više mogućih odgovora. Jedan od njih je da su godine posle ubistva kralja Aleksandra bile turbulentne godine velikih tenzija i da je to period udaljavanja od Francuske i liberalnih demokratija. I odustajanje od integralnog jugoslovenstva moglo je da bude jedan od razloga... Posle ubistva, kralj Aleksandar je nesumnjivo ostao prisutan u javnosti, ali se ta javnost menjala i nije više bilo političke opcije koja bi stala iza njegove politike. S druge strane, treba imati u vidu da je, ako govorimo o ubijenim vladarima, makar kod nas potrebno da prođe neko vreme da bi ti spomenici bili podignuti. Knez Mihailo je ubijen 1868, a spomenik mu je podignut 1882, dakle 14 godina kasnije. Isto je i sa Zoranom Đinđićem, koji je ubijen 2003, a priča o spomeniku se aktuelizuje tek sada. Kod spomenika je, pored toga kome se podiže, važno i ko ga podiže, tako da se nadam da spomenik Zoranu Đinđiću ipak neće biti podignut u ovim okolnostima. Nadam se i da će Mrđan Bajić i Biljana Srbljanović, koje izuzetno cenim, ipak još promisliti o tome šta sve podizanje jednog takvog spomenika nosi sa sobom i da li im je potrebno da učestvuju u pranju biografije Aleksandra Vučića. Nesporno je da je podizanje spomenika Zoranu Đinđiću opšte dobro s istorijskim dimenzijama, a svemu spornom oko toga, od estetike do politike, meru će odrediti javnost i vreme. Što se pak tiče spomenika kralju Aleksandru Karađorđeviću u našem dobu, izgleda da on tek danas nije nikom potreban, jer ideologija jugoslovenstva i svega onog što je predstavljao očigledno za nas nema nikakvog značaja, pred naletom raznih ruskih careva i horista – ili azerbejdžanskih diktatora. Ima tu i šireg i dubljeg „našeg\", čak do bizarnosti.
Koliko je Tito preuzeo i nastavio dijelove Aleksandrove vanjske politike kada je riječ o Balkanu i Evropi u prvim godinama nakon Drugog svjetskog rata?
Ja ipak ne bih poredila Aleksandrovu i Titovu spoljnu politiku: svet posle 1945. u hladnoratovskim okolnostima bio je sasvim drugačiji. Možda ima neke sličnosti u svesti o važnosti regionalnih kontakata i saveza koji bi predstavljali branu od mnogo jačih neprijatelja. Za kralja Aleksandra je to bila Mala Antanta, a za Tita ideja o Balkanskom paktu. Ipak, radi se o potpuno drugačijim situacijama i istorijskim trenucima, a ono što donekle povezuje spoljnu politiku Aleksandra i Tita svakako je opšte mesto da je politika veština mogućeg i da su se oni, ni manje ni više od evropskih i svetskih vođa, toga i držali.
Aleksandar i Tito bili su vrhovni komandanti, ratni pobjednici, šefovi tek formirane, odnosno obnovljene Jugoslavije. Mogu li se uporediti po političkom i ličnom stilu?
Takve paralele su nezahvalne jer imamo monarha i predsednika socijalističke republike i dve, u mnogo čemu, različite države. Zanimljivo je, međutim, pratiti stil i kult ličnosti obojice, jer su i jedan i drugi bili snažne ličnosti i neprikosnoveni vladari u svojim državama do smrti. U ta dva različita sistema postojala je slična forma, ali potpuno različita suština. Za „najvećeg sina našeg naroda\" nije proglašavan samo Tito nego i kralj Aleksandar. Nisu samo u socijalističkoj Jugoslaviji ulice ili različite institucije nazivane po Titu, nego za vreme kraljevine i po kralju Aleksandru. I smrti oba vladara (Tita i kralja Aleksandra) takođe su bile povodi za jačanje njihovog kulta. Titov kult ličnosti se često prikazuje kroz njegov rođendan, proslavljan kao Dan mladosti, a i u Kraljevini Jugoslaviji bio je izrazito jak kult rođendana i kralja Aleksandra i prestolonaslednika Petra Karađorđevića. Takvih primera je zaista mnogo, i ta forma koju je komunista Tito preuzeo od jednog kralja služila je da omogući lakše preuzimanje vlasti i lakšu legitimaciju novog poretka. Ali mi to, u nekom začetku, imamo i danas, tu idolatriju čiji je predmet prvi čovek u državi bilo da se radi o kralju, predsedniku socijalističke ili premijeru ili predsedniku nazovi demokratske države. Dakle, potpuno je nebitno da li govorimo o nacionalnoj ili višenacionalnoj državi, monarhiji ili republici, komunizmu ili postkomunizmu, jednopartijskoj ili višepartijskoj diktaturi – mi kao da ne možemo bez kulta ličnosti, odnosno bez vođe. To je samo pokazatelj jednog suštinski patrijarhalnog i konzervativnog društva, bez ikakve političke kulture, društva koje traži svog Hrista spasitelja, najčešće kada ni o religiji niti o hrišćanstvu ne zna ništa.
Što su bile Titove „crvene linije\" u vanjskoj politici i kakvo mjesto u istoriji zauzima njegovo „ne\" Staljinu?
Tito je razlazom sa Sovjetskim Savezom napravio najznačajniji potez u istoriji socijalističke Jugoslavije. Reći „ne\" Staljinu i Sovjetskom Savezu bila je neverovatna hrabrost i, ispostaviće se, Titova najmudrija odluka. To je jedan fascinantan politički čin koji je opredelio živote ljudi u Jugoslaviji posle 1948, sve do njenog raspada. Jugoslavija je tako ostala zemlja sa socijalističkom ideologijom, ali sa zavidnim slobodama koje ne mogu da se porede sa onim u Istočnom bloku. Drugo, Tito je umeo da proceni hladnoratovsku situaciju i da od Zapada izvuče najveću moguću korist, a u želji da očuva neutralnost Jugoslavije on se istovremeno okrenuo zemljama Trećeg sveta i postao jedan od lidera nesvrstanih, uspevši da sebe uzdigne u političku figuru svetskog formata. Danas se Tito negira na milion načina, ali njegova uloga u svetskoj politici je zaista bila izuzetna. Prolazila sam kroz arhivsku građu mnogih ključnih događaja, od sukoba na Bliskom istoku do invazije Čehoslovačke – imate situaciju da američki predsednici i svetski lideri pišu Titu i pitaju ga za mišljenje, traže da posreduje. Otuda me čudi, naročito od nekih ljudi sa političkim ambicijama, kada lako (dis)kvalifikuju Tita, bez razumevanja njegovog stvarnog značaja u svetskim okvirima koji mu danas priznaje i vodeća svetska istoriografija. Naravno da je njegovo „ne\" Staljinu imalo, uz deklarativne, i svoje prikrivene protivnike do današnjih dana. Duhovita je, u tom smislu, dosetka da su neka politička previranja, pa i Osma sednica, bila i „revanš\" za 1948, a možda je to i više od dosetke. Što se „crvenih linija\" tiče, one uvek postoje, ali mudri i uspešni političari umeju da prepoznaju trenutak i istorijsku potrebu da pomere i te linije. Mesec, dva ili tri, možda čak i samo dan pre Titovog „ne\" Staljinu, podrška Moskvi bila je najčvršća „crvena linija\", a nestala je takoreći u trenu. I De Gol je francusku „crvenu liniju\" – da je Alžir francuski i da će to večno biti – izbrisao preko noći, bolno ali uspešno. Apsolutizacija „crvenih linija\" u politici, kao uostalom i u životu, lepo i principijelno zvuči, ali često donosi štetu. To je i Tito, ni prvi ni poslednji u politici, savršeno umeo da prepozna.
Predsjednik Aleksandar Vučić izjavio je dok je bio premijer da je Srbija imala više diplomatskih posjeta, pritom i značajnijih, nego što je Titova Jugoslavija u svojih najboljih pet godina. Pohvalio se kasnije i da je za tri godine uradio koliko i Tito u Jugoslaviji, a sada najavljuje da će 2018. posjetiti petnaest afričkih država. Mogu li se današnji predsjednici samostalnih država na tlu Jugoslavije po bilo čemu usporediti sa Titom?
Niti jedan predsednik bilo koje od samostalnih država na tlu Jugoslavije ni po čemu se ne može porediti sa Titom. Međutim, iz mnogobrojnih postupaka deluje da bi Aleksandar Vučić jako želeo da on bude odgovor na onu dilemu s kraja osamdesetih – „Srbija se sada pita ko će nama da zameni Tita\". U poslednje vreme intenzivno pratim želju našeg predsednika da korača Titovim putem kada je spoljna politika u pitanju. Međutim, on ne razume da ovo vreme nije vreme Hladnog rata, niti da Srbija nije Jugoslavija. Zanimljivo je kako čovek koji je ponikao iz stranke koja je htela da glogovim kocem probada Tita i izbacuje njegov grob iz Kuće cveća, odjednom želi da bude novi Tito. To se vidi iz mnogih njegovih poteza, s tim što mislim da on, za razliku od Tita, nevešto balansira između Rusije i Zapada. Jedan od tih poteza je svakako i afrička turneja. S druge strane, ta njegova stalna prebrojavanja koliko se puta s nekim rukovao, koliko puta je negde bio zaista su smešna jer te brojke same po sebi ne znače ništa.. Broje se rezultati diplomatskih poseta, a ne one same. Koliko li se puta Tito rukovao sa Staljinom, ali se broji samo kad mu je „zavrnuo\" ruku. Što se Afrike tiče, to mi je posebno zanimljivo jer se trenutno bavim Titom i Afrikom; baš razmišljam zašto 15 zemalja, kad Aleksandar Vučić u svemu želi da nadmaši Tita, a Tito je, koliko se sećam, ukupno posetio 16 afričkih zemalja. Da je bar rešio da obiđe 17, to bi mi već bilo jasno, pošto bi to zaista bilo „prvi put u istoriji\". S druge strane, Titovo najduže političko putovanje je bilo 1961, kada je „Galebom\", na „putu mira\" koji je trajao 72 dana, posetio sedam afričkih zemalja. U tom smislu, 15 je svakako više od sedam, samo Vučiću fale i „Galeb\" i neki novi Dobrica Ćosić na tom „Galebu\", ali i Danilo Kiš da nam to opiše, pa da uživamo.
Inače, kako tumačite da je po prošlogodišnjem istraživanju Demostata, Tito „najpopularniji lider u Srbiji\"?
Pa i ne iznenađuje me. To je delom vezano za jugonostalgiju i titostalgiju, ali ne govori toliko o našem odnosu prema prošlosti, koliko o našem odnosu prema sadašnjosti. Ništa ne ulepšava prošlost efektnije od loše sadašnjosti. To, delimično, ima veze i s tim da mi, jednostavno, volimo lidere, vođe i jake autoritarne ličnosti, a s druge strane, ipak postoji svest o tome šta je bila zemlja koju je Tito vodio i koliki je bio njen međunarodni značaj. Postoji, na kraju krajeva, i svest o tome kako se živelo, a živelo se – ako govorimo o životu običnih ljudi koji treba da preguraju mesec od svoje plate, odu sa decom na more, imaju zagarantovano zdravstveno osiguranje i adekvatnu zdravstvenu negu – sigurno bolje nego što se živi danas. Kako izgleda živeti danas u bilo kojoj bivšoj jugoslovenskoj republici? Ogromna nezaposlenost, niske plate, velika beda i siromaštvo, poluuspela ili neuspela tranzicija, skandalozne privatizacije, namešteni tenderi, otvorene pljačke, korupcija, odsustvo pravne države... U tom smislu, naravno da sećanja i na Jugoslaviju i na Tita bude pomešane emocije, pa tako Tito istovremeno uspeva da bude i ozloglašeni komunistički diktator i najpopularniji lider u Srbiji. Mesta na listama popularnih u bilo čemu, pa i u politici, nisu uvek objektivan prikaz vrednosne skale, ali su uvek snažan otisak „kolektivizacije\" subjektivnog, ponajčešće mešavine trenutnog stanja, ukusa i emocija.
Kad smo kod kolektivnog sjećanja i života u bivšoj Jugoslaviji, šta su to bila njena najveća dostignuća?
Odakle god da se krene, rezultati su u poređenju sa današnjim zaista impresivni. Ako gledamo spoljnu politiku socijalističke Jugoslavije, jedna relativno mala zemlja imala je međunarodni ugled koji je daleko prevazilazio njenu veličinu. Analiziramo li dalje umetnost, arhitekturu, obrazovanje, nauku, zdravstvo, univerzitet, ekonomiju, izgradnju infrastrukture, videćemo da su tada moćne firme poput Energoprojekta ili Ingre gradile po celom svetu. Svuda je napravljen neverovatan skok koji je neuporediv ne samo sa uslovima naših života danas nego i sa životom u Kraljevini Jugoslaviji, a ona se, za razliku od socijalističke Jugoslavije, po pravilu glorifikuje, idealizuje i romantizuje. Dobijanje stanova od firmi, mogućnost školovanja, neverovatan rast broja pismenih, dobijanje prava glasa za žene i njihova emancipacija, urbanizacija, industrijalizacija – sve se to postizalo neverovatno krupnim koracima u SFRJ. Zahvaljujući sukobu sa Sovjetskim Savezom, i sama Partija se menjala, demokratizovala, kao i celo društvo. Imali smo neku formu nestranačke, odnosno jednopartijske socijalističke demokratije, sve do početka sedamdesetih, kada se ponovo vraća tvrdi kurs i kada, zapravo, Jugoslavija gubi šansu da kraj komunizma dočeka kao lider, a ne kao gubitnik tranzicije. Naravno, u kolektivnom sećanju nisu ostale samo pozitivne stvari – sećanja neminovno diktiraju, menjaju i preusmeravaju kako način na koji se ta zemlja raspala tako i mnogobrojne probleme koji su bili deo jugoslovenske stvarnosti. Jugoslavija je imala svoja dva lica – politički je to bila zemlja između Istoka i Zapada, to jest i na Istoku i na Zapadu. Na temu svakodnevice i sloboda, bila je to zemlja holivudskih i hladnoratovskih filmova, ali i zabrane filmova Crnog talasa; zemlja avangardnih predstava na BITEF-u, ali i zemlja skidanja pozorišnih predstava sa repertoara jugoslovenskih pozorišta, poput predstave Kad su cvetale tikve Dragoslava Mihailovića ili dramâ Aleksandra Popovića; zemlja koja pokazuje slobodu „Plejbojem\" na kioscima, ali i rigidnost zabranama „Studenta\", „Praxisa\", „Naših dana\"; zemlja samoposluga po američkom modelu u kojima je moguće kupiti stranu robu, ali i zemlja bonova za brašno, šećer i ulje i restrikcija struje. Na kraju krajeva, bila je to zemlja bratstva i jedinstva, sa krvavim bratoubilačkim ratom na njenom kraju. Ipak, za sagledavanje te socijalističke Jugoslavije, mora se, pre svega, imati u vidu širi istorijski kontekst – to je bila socijalistička zemlja u hladnoratovskom okruženju. Kao takva, zahvaljujući otpadništvu od Sovjetskog Saveza i otklonu od Istočnog bloka, a nalazeći se izvan „gvozdene zavese\", uspela je da ostvari neverovatan civilizacijski uspon i da za Istok bude izlog Zapada. Jugoslaviju sa svim njenim i pozitivnim i negativnim nasleđem mi danas brišemo iz sećanja. Ako se bilo koji period sopstvene istorije potpuno odbacuje, to predstavlja veliki luksuz, naročito za male države i male narode. Mada se često čuje da nas prošlost određuje, mi našoj prošlosti pristupamo selektivno, zbog dnevnih potreba, po merama dnevnih interesa. Loše posledice perioda komunizma uglavnom su planetarno poznate, ali je zaista mnogo pokazatelja i „dobrih ostataka\" jugoslovenskog socijalizma. Međutim, kod nas kao da je sve što je valjalo ukinuto ili planski potisnuto u zaborav, dok smo zadržali mnoge negativne strane komunizma – autoritaran način mišljenja, jednoumlje, partijsku kontrolu svih oblasti života, valjda srećni što se to više ne zove komunizam, nego demokratija. Menjajući termine – „moralno-politička podobnost\" je danas „stranačka pripadnost\", nedodirljiva „vlast radničke klase\" je nedodirljiva „vlast stranke\"... Suštinski, u negativnostima malo šta smo promenili, a nešto od toga „unapredili\".
Kako ocjenjujete aktualnu kulturu i umjetnost u odnosu na onu iz Jugoslavije, pogotovo one druge?
Malo je nezahvalna pozicija da ja kao istoričarka ocenjujem aktuelnu kulturnu i umetničku scenu – to pre mogu kao građanka. Ali činjenica je da je naša kultura sve više parohijalna i sve manje vidljiva – da ne kažem nevidljiva – u međunarodnim okvirima. Ako se osvrnemo i na Kraljevinu Jugoslaviju i na socijalističku Jugoslaviju, mi smo bili deo evropskih i svetskih kulturnih trendova. Naši su nadrealisti, uglavnom levičari, bili autentični i deo svetskog nadrealističkog pokreta; o njihovim dometima govori i deo stalne postavke Muzeja savremene umetnosti. Meštrović je takođe jugoslovenski autor koji je daleko prevazišao jugoslovenske okvire. I jugoslovenski socijalistički modernizam je bio nešto što je služilo za ponos zemlji i prevazilazilo uske, lokalne okvire. Uz to, pošto se bavim i kulturnom diplomatijom, fascinantno je koliko je socijalistička Jugoslavija shvatala značaj kulturne diplomatije i slala ljude iz samog vrha jugoslovenske umetnosti da je predstavljaju u svetu – bilo da se radilo o likovnim umetnicima, autorima Crnog talasa, koji su pritom oštro kritikovali sistem, ili o pozorišnim umetnicima i muzičarima. Zemlji su „smetali\" na unutrašnjem planu Živojin Pavlović, Dušan Makavejev, Aleksandar Petrović, Želimir Žilnik, ali su joj i te kako koristili njihovi međunarodni uspesi. Tamo gde nema ostrašćenosti, a gde ima političke mudrosti, gol se slavi i kada ga postigne neko za koga ne navijamo. Naša država to danas ne ume. To ne znači da nema vrhunskih umetnika, ali nemamo kulturnu politiku i političku toleranciju. Kao građanka, bila sam poražena našim paviljonom na ovogodišnjem Bijenalu u Veneciji. U tom smislu, imam utisak da se sve više zatvaramo i da nam je svet, pa i kada govorimo o aktuelnoj kulturi i umetnosti, sve dalji.
Socijalistička Jugoslavija ostavila je značajnu spomeničku i arhitektonsku zaostavštinu. Kako vam izgledaju „Beograd na vodi\" i najnoviji trend podizanja spomenika – od Borislava Pekića, Nikole Tesle pa do Zorana Đinđića?
Za vreme socijalizma podizani su moderni spomenici – dovoljno je da se osvrnemo na spomenike Bogdana Bogdanovića, Vojina Bakića, Dušana Džamonje i, uopšte, na umetnost socijalističkog modernizma. Time smo se ponosili onda, a trebalo bi i sada. Pogled na spomenike i memorijale vezane za Narodnooslobodilačku borbu i pogled na spomenike caru Nikolaju, Nikoli Tesli, fontane i šedrvane od jeftinog mermera gde im mesto nije, na te šarene sijalice kojima su osvetljene najznačajnije državne institucije – Skupština izgleda kao neki tematski hotel u Las Vegasu – zaista daju vrlo preciznu sliku i o socijalističkoj Jugoslaviji i o današnjoj Srbiji. Od nekadašnjeg socijalističkog modernizma došli smo do nekog naprednjačkog socrealizma. Spomenici kao da se podižu samo za one s gipsanim lavovima u dvorištima. Dovoljno je pogledati Novi Beograd, koji je bio čudo modernističke arhitekture i koji se danas u svetu izučava na arhitektonskim fakultetima gde sada između modernih blokova niču crkve, kopije Ravanice i Gračanice, što sebi ne bi trebalo da dozvoli ni najudaljenija i nejnerazvijenija provincija, a kamoli Beograd. U modernim svetskim metropolama ima i katedrala i džamija iz daleke prošlosti, građenih u ondašnjem stilu, ali se nove katedrale i džamije grade u duhu arhitektonskih dometa graditeljstva novog doba. Beograd je danas, s tom količinom jeftinog mermera, lošeg betona, šarenih sijalica, umesto u neku novu modernizaciju, ušao u skopljeizaciju... Mnogo će nam vremena biti potrebno, kad se jednom ovo završi, da ga vratimo u neke evropske i svetske tokove.
Često se ističe nedemokratski, autoritarni karakter Jugoslavije, pogotovo one druge. Koliki je on, u kontekstu svog vremena, zaista bio?
O tome bih govorila na primeru cenzure u socijalističkoj Jugoslaviji, kojom sam se bavila u knjizi Monopol na istinu, a cenzura je, eto, vrlo zgodna za poređenje sa današnjim trenutkom i za promišljanje autoritarizma.. Danas je pogled na cenzuru u socijalističkoj Jugoslaviji gotovo po pravilu revizionistički i Jugoslavija se posmatra isključivo kao represivna zemlja u kojoj nije bilo nikakvih sloboda, a zanemaruju se činjenice koje ukazuju da je, na mnoge teme, tu bilo neverovatnih sloboda za jedno socijalističko društvo, naročito kada se govori o šezdesetim godinama i o umetnosti, medijima, nauci. Vi ste tada imali kritiku postojećeg sistema u štampi, sa univerziteta, u filmovima, na pozorišnim scenama, tribinama... U javnosti je to vreme oštrih debata neistomišljenika, poput tribina u Filozofskom društvu Srbije, ali i u partijskoj „Borbi\"; imate ozbiljne kritičke tekstove u „Studentu\", „Praxisu\", „Vidicima\"; imate Korčulansku letnju školu i Crni talas... Svuda se bespoštedno kritikuje jugoslovenski sistem. I to ne površinski, već dubinski. Kada je počela da se pojačava cenzura, krajem šezdesetih i početkom sedamdesetih godina, to je već bio znak da vlast gubi legitimitet – tada se beleži i veći broj zabrana i sudskih presuda protiv medija i umetnika. Upravo pojačavanje cenzure, u bilo kom vremenu i sistemu, najviše svedoči da vlast nije sigurna u sebe, a cenzura krajem šezdesetih i početkom sedamdesetih pokazuje da svaka vlast, u onom slučaju Partija, sama sebi zadaje najveći udarac gušeći slobode, medije i stvaralaštvo. Cenzurisanjem umetnika i različitih neistomišljenika – i to u zemlji koja je od sukoba sa Staljinom imala visok stepen umetničkih i mnogih drugih sloboda i bila otvorena za modernizam i avangardu – Partija je pokazala da u njoj nije bilo snage ni sposobnosti, a izgleda ni volje za nužne promene. Pošto sam se bavila cenzurom u socijalizmu i živela u Miloševićevo vreme, ne mogu se oteti utisku da je sadašnja cenzura, još u sadejstvu sa autocenzurom, mnogo opasnija i perfidnija. I u vreme socijalizma i u vreme Miloševića postojao je prostor za polemiku, a danas se disonantni tonovi gotovo i ne čuju. U jezivim devedesetim, delovali su Radio B92, Studio B, „Utisak nedelje\", „Vreme\", „Naša borba\", opozicioni listovi... Toga danas nema, ukinute su emisije u kojima je moguće kritikovati vlast, mnogi novinari i autori su se povukli ili su otpušteni. Došli smo u situaciju da je naša medijska slika jedan strašan hibrid rijalitija „Veliki brat\" i Orvelovog Velikog brata iz 1984. Jedan po jedan nestaju i poslednji slobodni mediji, tako da je krajnje vreme da se počnemo otvoreno boriti za različite slobode koje nam pripadaju. Od kada cenzura postoji, a postoji u raznim formama takoreći oduvek, najgora je bila tamo gde se u centrima moći najglasnije govorilo da cenzure nema, evo, baš kao kod nas.
Što očekujete, kako će biti obilježena stogodišnjica Jugoslavije?
To je jedan važan jubilej, trenutak u kome treba da se ozbiljno bavimo Jugoslavijom – i Kraljevinom Jugoslavijom i socijalističkom Jugoslavijom – ali i raspadom Jugoslavije. Poslednja knjiga o istoriji Jugoslavije naših istoričara je ona Branka Petranovića iz 1988, dok je ta Jugoslavija još postojala. Naša istoriografija 30 godina kasnije nije našla za shodno da se bavi tom zemljom, kao ni njenim raspadom. Ulazimo u 2018. a da se ništa od konferencija ne najavljuje, ništa od velikih događaja, ne samo u Srbiji nego, koliko čujem, ni u Sarajevu, ni u Zagrebu. Jedino za šta znam jeste da se u Muzeju Jugoslavije planira izložba o stvaranju Jugoslavije. Ako se sve svede na medije, s obzirom na to kakvi su, plašim se da će to biti još jedna prilika za sve moguće revizionističke poglede na Jugoslaviju, na tvrdnje da je bila tamnica naroda, totalitarna država, da je Tito bio diktator, a da su nam se ratovi, eto tako, u pasivu, desili. Zato se plašim da će obeležavanje stogodišnjice proteći više u nekritičkom i revizionističkom sagledavanju te države i jugoslovenske ideje, umesto u njihovom dubinskom promišljanju, utemeljenom na ozbiljnim istraživanjima. Mislim da bi mnogi voleli da zaborave i na taj datum i na tu godišnjicu i na tu zemlju, jer je godinama stvarana slika da smo svi na području bivše Jugoslavije žrtve jugoslovenske ideje, mada je sve očiglednije da smo žrtve što smo tu ideju ubili.
Socijalističku Jugoslaviju obilježio je istinski antifašizam. Zbog čega smo u Srbiji svjedoci istorijskog revizionizma?
Taj revizionizam i negiranje antifašizma koji mi danas živimo tamne su mrlje u novijoj srpskoj istoriji i jedan potpuno anticivilizacijski čin. Strašne su posledice tih rehabilitacija po društvo jer time rehabilitujemo fašizam i pljujemo po našoj antifašističkoj tradiciji, a samim tim i po onome što je bila najpozitivnija tekovina Jugoslavije. Teško je odgovoriti šta to diktira, ali moram da kažem da veliku odgovornost za to snosi i moja struka, kao i sudstvo, pa smo u situaciji da su sudije danas ti koji pišu istoriju Drugog svetskog rata i perioda neposredno posle tog rata. Došli smo do svojevrsnog paradoksa – dok se ceo svet koji je bio na pravoj strani u Drugom svetskom ratu diči svojim antifašizmom, mi se njega stidimo i glorifikujemo drugu stranu. To je do te mere bolesno i suštinski je pokazatelj naše autodestrukcije. Takođe, mi time stavljamo svetu do znanja da zapravo nismo za Evropsku uniju, jer je temelj na kome ona počiva antifašizam. Ali to je sve samo deo te naše nove politike sedenja ne na dve, nego na 22 stolice. Mi i dalje hoćemo i Kosovo i EU, i Rusiju i Zapad, i antifašizam i četnike, i antikomunizam i Titovu mudru spoljnu politiku. E pa, to ne može. Takva politika je duboko šizofrena i predstavlja problem za formiranje identiteta i pojedinca i države i naroda. Staru izreku „Dobro jutro,čaršijo,na sve četiri strane\", kojom su se označavali smutljivci, nepouzdani, prevrtljivi, mi danas uzdižemo u dobitnu političku filozofiju i praksu.
Bratstvo i jedinstvo, isto kao i integralno jugoslavenstvo, završilo je neuspjehom. Zašto?
Zato što je mnogo više bilo u parolama nego u suštini; zato što su oba sistema – jedan kroz politiku integralnog jugoslovenstva, drugi kroz politiku „bratstva i jedinstva\" – mislila da se zbližavanje može odvijati deklarativno i nametanjem, a ne kroz dijalog i dugoročne i promišljene politike popuštanja, umesto zatezanja. I prva i druga Jugoslavija srušene su pod teretom međunacionalnih sukoba, mada pod različitim međunarodnim okolnostima: jedna je srušena u Drugom svetskom ratu, druga kada je pao komunizam, ali ne zbog pada komunizma jer je taj pad nije ni dotakao. Međunacionalni sukobi se po pravilu skrivaju iza interesa, brane se interesima, a epilog je, skoro uvek, kao u slučaju obe Jugoslavije, da mali i malodobitni interesi ponište velike i dobitne.
Kada se na kraju ispod svega podvuče crta, u čemu je značaj zajedničke države jugoslavenskih naroda? Iako više ne postoji, da li vam se čini da njen duh („živi, živi duh slavenski, živjeće vjeko’vma...\") i dalje opstaje na različite načine?
Iako se SFRJ raspala pre više od četvrtine veka, taj identitet još postoji, makar kod onih koji su rođeni u toj zemlji. Ali i kod onih mlađih, kod kojih nema svesti o Jugoslaviji, zajedničkom identitetu, i kod kojih nema ni pozitivnih, ni negativnih emocija o toj zemlji, ipak postoji svest o zajedničkom kulturnom prostoru. Kod mladih, doduše, postoji i određena konfuzija jer čuju mnogo protivrečnih priča o Jugoslaviji, a nemaju iskustvo života u toj zemlji, niti znanja o njoj. Međutim, izgleda da je interesovanje mladih za Jugoslaviju, zemlju njihovih roditelja, zemlju o kojoj slušaju toliko toga, sve veće, što vidim i kod svojih studenata: oni su s jedne strane zadojeni stereotipima o „mračnom dobu komunizma\", a s druge strane sve više od svojih roditelja slušaju o dobrim stranama života u toj zemlji. Iracionalno je to zatvaranje u male nacionalne okvire, kada se skoro cela Evropa ujedinila i kada se brišu granice. Po svoj logici, svest o zajedničkom prostoru i međusobnoj isprepletanosti moraće da nađe neki svoj put i neku svoju materijalizaciju. Mi smo upućeni jedni na druge i nema budućnosti nijedne od bivših jugoslovenskih republika bez saradnje. Kulturna i intelektualna scena je tu najživlja, tu živi taj „duh (jugo)slovenski\". Uzmimo samo pozorište kao primer, ono je baš dobra slika nepokidanih veza. Jer, šta je naša pozorišna scena danas? To su sjajne predstave Olivera Frljića, Dina Mustafića, Andraša Urbana, Aleksandra Popovskog, Jagoša Markovića, prerano preminulog Tomaža Pandura, Tomija Janežiča... Eto, od prvih zagrebačko-beogradskih pozorišnih susreta 1841. do danas ipak postoji neki kontinuitet, i Jugoslavija nam živi u pozorištu, kao što je jedna od retkih institucija koja je zadržala prefiks jugoslovenski, Jugoslovensko dramsko pozorište. Da se opet poslužim pozorišnim jezikom i sećanjem na jednu sjajnu predstavu Slobodana Unkovskog – mislim da to nisu samo Pozorišne iluzije, nego postjugoslovenska jugoslovenska realnost. U kulturi i umetnosti sve je vidljivo, ali verujem da se ovakve stvari ne događaju samo u kulturi i umetnosti, da ih ima, verovatno, i u ekonomiji, i na starim jugoslovenskim i na novim postjugoslovenskim principima.
Konačno, kakav je vaš lični odnos prema Jugoslaviji?
Možda je na to najbolji odgovor činjenica da kad god krenem u neku od novih država nastalih od Jugoslavije, ja zaboravim da ponesem pasoš. Za mene je Jugoslavija deo mog identiteta. Skoro polovinu života provela sam u toj zemlji. Letovala sam u Dubrovniku, sa ekskurzije u slovenačko selo Brežice bežala sam sa drugaricama u Zagreb, da tražimo mesta koja u svojim pesmama pominje Džoni Štulić, imala sam prvog dečka u Sarajevu, pratila muzičku scenu u Zagrebu i Rijeci, išla u sarajevsku Kinoteku i scenu „Obala\"... Mogla bih ovakve stvari da nabrajam do sutra. Dakle, kao što se svako seća detinjstva i mladosti sa puno sete, tako se i ja sećam te Jugoslavije, socijalnog, egzistencijalnog i kulturnog okvira mog detinjstva i moje mladosti, i smatram da su nam multikulturalizam i bogatstvo te zemlje davali širinu pogleda ne samo na nju nego i na svet. Imam još jednu asocijaciju na Jugoslaviju. Kad mi se postavi pitanje o Jugoslaviji, uvek se prvo setim naslova knjige Rejmona Karvera O čemu govorimo kad govorimo o ljubavi. To su divne, jednostavne priče o malim ljudima, u kojima ima i lepote, i težine, i drame, i sreće, i nesreće, neke od ljubavnih priča su pune tuge, neke ljubavi i brakovi su pred raspadom... Eto, meni je Jugoslavija Karverova O čemu govorimo kada govorimo o ljubavi.
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