Informazione


Qualcuno anche in Italia si sta un po' tardivamente accorgendo che il pregevole Cimitero Monumentale Partigiano di Mostar è in rovina, in virtù di 25 anni di vandalismi e abbandono e misericordiose processioni di molte decine di migliaia di italiani "brava gente" transitati per venerare la Signora di Medjugorije e/o per partecipare, con le armi o senza armi,  a "missioni di pace" e "solidarietà" verso la popolazione colpita dalla guerra (serbi esclusi, beninteso: fuggirono tutti da Mostar subito, nel 1992, per non tornare a subire quello che era già stato 70 anni prima). 
Noi avevamo segnalato il problema dieci anni fa: https://www.cnj.it/valori.htm#mostar[a cura di Italo Slavo]


ENGLISH ORIG.: Partisans’ Necropolis in Bosnia’s Mostar Left to Rot (Sven Milekic, BIRN, 15.6.2017)
The monumental Partisans’ Cemetery in the Bosnian town of Mostar, where Yugoslav anti-fascist WWII fighters were buried, has been abandoned to decay, a victim of changing attitudes to history in the 1990s...

NA SRPSKOHRVATSKOM: Partizansko groblje u Mostaru ostavljeno zubu vremena (Sven Milekić, BIRN, 15.6.2017)
Dok Partizansko groblje u Mostaru, gdje su sahranjeni antifašistički borci iz Drugog svjetskog rata, propada, ono je postalo i žrtva promjene stavova koja se desila tokom 1990-ih...



Mostar: in rovina la necropoli dei partigiani


Il cimitero monumentale dei partigiani di Mostar, dove sono seppelliti combattenti jugoslavi antifascisti della Seconda guerra mondiale, è abbandonato alla decadenza, vittima del revisionismo storico degli anni '90

03/07/2017 -  Sven Milekić

(Pubblicato originariamente da Balkan Insight  il 15 giugno 2017)

"Il cimitero dei partigiani? Sì, i comunisti vengono qui per la loro commemorazione annuale in... ho dimenticato il mese. Turisti? Alcuni, non molti, ma alcuni sì", dice un cameriere in un bar nel centro della città bosniaca meridionale di Mostar, di fronte all'imponente monumento ai partigiani antifascisti caduti nella Seconda guerra mondiale.

"I comunisti" sarebbero le associazioni antifasciste che commemorano la Liberazione di Mostar del 14 febbraio 1945, giorno in cui le forze partigiane entrarono in città dopo il ritiro di quelle tedesche e naziste. Le commemorazioni si svolgono anche in altre date significative.

Nascosto nella vegetazione, invisibile dalla strada, il cimitero è stato abbandonato a se stesso. Può capitare solo di vedere qualche turista nelle sue vicinanze, armato di mappe e applicazioni di navigazione.

La massiccia costruzione, con il suo percorso cerimoniale pavimentato di oltre 300 metri a salire oltre 20 metri sulla collina, venne costruita nel 1965 dal famoso architetto serbo Bogdan Bogdanović, noto per i suoi numerosi monumenti ai partigiani e alle vittime del fascismo (il più conosciuto è il "Fiore" dedicato alle vittime del campo di concentramento fascista croato a Jasenovac).

Bogdanović concepì il memoriale come luogo di riposo per 560 partigiani di Mostar, ognuno con la propria lapide con incisi luogo e anno di nascita e di morte.

Esperti scalpellini dell'isola croata di Korčula hanno costruito il monumento nell'arco di diversi anni, usando oltre 12.000 pezzi di calcare scolpito, macerie della Seconda guerra mondiale e tradizionali tegole in pietra riciclate dalle case di Mostar.

Un sentiero serpeggiante e due scale conducono ad una grande piattaforma inferiore che si affaccia su Mostar. Una scala dietro il muro conduce ad una piattaforma superiore più piccola con una fontana e l'elemento architettonico centrale: una "meridiana cosmologica".

"La necropoli partigiana era Mostar in miniatura, una replica della città sulla Neretva [il fiume che attraversa Mostar]", ha scritto Bogdanović nel suo saggio "La città dei morti di Mostar", pubblicato nel 1997.

Tuttavia, i conflitti degli anni '90 fra croati e bosgnacchi e l'esercito popolare jugoslavo [SIC] hanno completamente cambiato la percezione del monumento e dell'eredità antifascista dell'ex Jugoslavia in generale.

Oltre a non essere correttamente contrassegnato, il monumento è stato lasciato in balia di vandali ed è ora coperto di svastiche e simboli fascisti degli ustascia croati della Seconda guerra mondiale, che rispondono ai "nemici" ideologici – i comunisti – con i loro graffiti.

Se la maggior parte dei simboli nazisti è stata ricoperta da un altro strato di spray, probabilmente da gruppi antifascisti, i graffiti non sono stati rimossi.

Il sito è anche coperto di bottiglie di vetro e di plastica e di ogni tipo di immondizia, mentre la vegetazione sovrasta ormai questo monumento in parte distrutto. Alcune lapidi sono divelte e danneggiate, mentre le fontane non funzionano più.

Esplosivi dopo il tramonto

Dragan Markovina è uno storico nato a Mostar, che vive in Croazia dalla guerra degli anni '90. Nel 2014 ha pubblicato "Tra rosso e nero: Spalato e Mostar nella cultura della memoria", libro che ripercorre il passaggio da un orientamento antifascista e socialista alla sottovalutazione, quando non glorificazione, dei reati commessi dal movimento fascista ustascia croato della Seconda guerra mondiale.

Markovina ricorda come il primo atto di distruzione del monumento sia stato portato avanti con esplosivi nella notte fra il 13 e il 14 febbraio 1992, prima dell'ultima commemorazione e prima dello scoppio della guerra in Bosnia Erzegovina.

"Alcuni esplosivi furono detonati, danneggiando alcune lapidi... probabilmente per mandare un messaggio a chi programmava di essere presente alla commemorazione il giorno successivo", racconta a BIRN.

Il messaggio fu ricevuto: la paura prevalse e solo 50 persone si presentarono alla commemorazione.

"Possiamo dire che, simbolicamente, il cimitero fu la prima cosa bombardata a Mostar", dice Markovina.

La Chiesa cattolica cita spesso il crimine di guerra commesso durante la liberazione di Mostar il 14 febbraio 1945, quando le forze partigiane uccisero sette sacerdoti della chiesa francescana locale. I loro corpi non furono mai trovati e nessuno è stato condannato per le loro uccisioni. [SIC: come se i francescani non fossero direttamente coinvolti nei crimini dell'NDH! ndIS]

Tuttavia, secondo Markovina, è una "leggenda" che siano principalmente i discendenti dei membri del movimento ustascia croato sconfitto a vandalizzare il cimitero.

Lo storico sottolinea che molte persone si unirono al movimento partigiano anti-fascista a Mostar: 6.000 abitanti sui 18.000 del tempo, di cui oltre 750 furono uccisi durante la guerra. In città, il movimento antifascista era molto più forte di quello ustascia, sottolinea.

Silenzio a Mostar

Alle domande di BIRN, le persone di Mostar hanno evitato di rispondere, dichiarandosi non interessate. Il vicino campus universitario e lo stadio centrale del calcio attirano molti giovani che passano quindi dal cimitero, anche se sembrano non notarlo o non prestarci attenzione.

Markovina afferma che l'intera cultura della memoria è cambiata sopprimendo la memoria del cimitero, che la generazione più giovane vede come un monumento all'antifascismo, ma anche al comunismo. Nella città etnicamente divisa, questo revisionismo storico proviene prevalentemente dal lato croato, aggiunge.

La parte occidentale della città, controllata dalla popolazione croata, ha cambiato completamente i nomi di strade, piazze e parchi negli anni '90, sostituendo i nomi di personaggi storici dai tempi socialisti e combattenti antifascisti con quelli di re croati medievali, ma anche di ufficiali ustascia, come Mile Budak.

"Ora c'è una generazione completamente nuova, con una relazione completamente diversa rispetto agli eventi della Seconda guerra mondiale. La maggior parte di questi giovani è arrivata a Mostar durante l'infanzia o è nata durante o dopo la guerra degli anni '90, mentre i loro genitori venivano da altrove. È per questo che gran parte di queste persone non ha una connessione intima con Mostar prima della guerra degli anni '90", spiega Markovina.

"Una delle cose più tragiche è che il dipartimento di storia dell'arte è letteralmente a 100 metri dal cimitero...[e] i professori non hanno mai parlato loro del patrimonio mondiale che possono vedere dalla loro finestra", racconta amaramente.

Anche se l'Associazione antifascisti e combattenti della Guerra di Liberazione Popolare di Mostar ha richiesto nel 2006 che il sito diventasse un monumento nazionale protetto dallo stato, il cimitero è stato comunque lasciato decadere. Markovina spiega che la protezione statale impedisce solo la rimozione fisica del monumento.

Minacce di rimozione

Il leader dell'Associazione antifascista, Sead Djulić, accusa le istituzioni federali di aver trascurato il sito: in particolare, la ministra della Cultura e dello Sport Zora Dujmović non starebbe facendo del proprio meglio per proteggere il cimitero.

"Una volta ci ha scritto che è impossibile proteggere il cimitero dei partigiani a Mostar perché non è in centro, come se non vivessimo a Mostar e non sapessimo dove si trova. Si trova nel centro della città, il che rende la sua dichiarazione ridicola", commenta Djulić a BIRN.

Djulić, la cui associazione organizza la commemorazione annuale del 14 febbraio, conferma l'esistenza di piani per demolire il cimitero e costruire una sorta di palcoscenico estivo per concerti e altri eventi. Il Comune e il ministero, dice, non vedono bene il cimitero semplicemente perché rappresenta l'antifascismo e considerano gli anti-fascisti solo dei comunisti, anche se "molti non erano comunisti", aggiunge.

"Il cimitero dei Partigiani dà [loro] fastidio perché...è un cimitero antifascista, perché è il cimitero dell'esercito vittorioso nella Seconda guerra mondiale e la politica dominante di Mostar si è posta sul lato dei perdenti in quella guerra...glorificando gli ustascia e l'ideologia di Pavelić [leader ustascia, ndr]. Ecco perché devono distruggere questo monumento", afferma.

"La sua demolizione serve a 'ripulire' la storia e dipingere criminali di guerra come eroi, santi e semplici esserei umani", aggiunge, concludendo che l'UNESCO e le istituzioni europee per il patrimonio culturale dovrebbero reagire, soprattutto dato che "l'Europa sottolinea il suo anti-fascismo" [SIC: come se l'"Europa" non fosse direttamente responsabile della situazione, ndIS].

Abbandonato da tutti

Bogdanović è morto nel 2010, non prima di aver visto la distruzione di Mostar e del suo caratteristico Ponte Vecchio, nonché il maltrattamento del suo cimitero.

In epoca jugoslava Bogdanović vedeva il memoriale come un modo simbolico per "la Mostar morta" di guardare negli occhi "la Mostar viva" per cui si era sacrificata, ma era divenuto pessimista dopo la guerra degli anni Novanta.

"E tutto ciò che resta della mia promessa originale è che l'ex città dei morti e l'ex città dei vivi continuano a guardarsi... ma con occhi vuoti, neri e bruciati", ha scritto Bogdanović in "La città dei morti di Mostar".

Malgrado le poche prospettive per il rilancio del cimitero dei partigiani nel prossimo futuro, Markovina ritiene ancora che possa svolgere un ruolo positivo nella città profondamente divisa.

"Il cimitero può essere un simbolo di riconciliazione. Il Vecchio Ponte non può esserlo più, perché è stato brutalmente distrutto da un esercito e ora se ne sono quasi completamente - dal punto di vista simbolico - appropriati i bosgnacchi della Città Vecchia", spiega.

"Invece il cimitero è stato abbandonato da tutti... e persone di tutte le nazionalità sono morte e vi sono state sepolte insieme".





OTTOBRE / 2: 

Appelli e campagne

1) Appello-petizione per un approccio obiettivo ed aperto al contraddittorio sulla Rivoluzione Russa all'avvicinarsi del centenario della Rivoluzione d'Ottobre del 1917 (Annie Lacroix-Riz, Georges Gastaud, Jean Salem)

2) Appello per la costruzione di una grande mobilitazione per il Centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Vogliamo manifestare a Roma il 7 novembre (FGC)


Vedi anche:

L'Ottobre sta arrivando. Campagna politica per il centenario dell’Ottobre

Coordinamento per le iniziative sul Centenario dalla Rivoluzione d’Ottobre

La rivoluzione d'Ottobre e i diritti dei lavoratori (di Américo Nunes | omilitante.pcp.pt, traduzione da marx21.it, maggio 2017)

Alla nostra pagina https://www.cnj.it/INIZIATIVE/1917.htm , frequentemente aggiornata, è riportata una rassegna di documenti fondamentali assieme al calendario delle iniziative promosse nel centenario della Rivoluzione d'Ottobre


=== 1 ===


www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - urss e rivoluzione di ottobre - 21-03-17 - n. 625

Appello-petizione per un approccio obiettivo ed aperto al contraddittorio sulla Rivoluzione Russa all'avvicinarsi del centenario della Rivoluzione d'Ottobre del 1917

Annie Lacroix-Riz, Georges Gastaud, Jean Salem | initiative-communiste.fr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

08/03/2017

Basta occhiali "bianchi" sull'Ottobre 1917, basta "Libri neri" anticomunisti a ripetizione.

E se dibattessimo in modo sereno a proposito dell'Ottobre 1917 e di ciò che ne è seguito?

Un appello di storici, intellettuali e militanti del movimento operaio. 8 marzo 1917, centesimo anniversario dell'inizio della rivoluzione russa.

L'appello è lanciato da Annie Lacroix-Riz, professore emerito di storia contemporanea all'Università Parigi VII, da Georges Gastaud, filosofo figlio di resistenti e da Jean Salem, filosofo, professore all'Università Parigi I Pantheon Sorbonne.

Avvincinandoci al centenario del 7 novembre 1917, si prepara prima di tutto, da parte di certi ambienti politico-mediatici messi sull'avviso da certi altri universitari, a presentare una versione rozzamente manichea, ferocemente tinta di anticomunismo, antibolscevismo ed antisovietismo.

Non solamente l'Ottobre non è stato che un "putsch" bolscevico che interrompeva l'amabile corso della democrazia iniziato dalla rivoluzione russa di febbraio, non solamente i bolscevichi non ebbero giocato alcun ruolo importante nel febbraio 1917, non solamente l'immensa sollevazione proletaria e contadina che preparerà, caratterizzerà e seguirà il 7 novembre 1917 non ha comportato caratteri autenticamente democratici, popolari e socialisti, non solamente ciò che ne è seguito si è rivelato interamente catastrofico per la Russia e per l'umanità, ma tutto questo processo storico si sarebbe sviluppato - così come l'ulteriore costruzione dell'URSS - dentro un contesto puramente russo e chimicamente puro, quasi esente dai furiosi interventi imperialisti, dalla sanguinaria ed esacerbata difesa dei propri privilegi da parte delle classi che ne venivano spossessate, dalla brutale repressione della rivoluzione operaia in Germania, dall'ascesa del fascismo, del nazismo, del franchismo e del militarismo, dal Giappone imperiale all'Europa occidentale (Ungheria, Italia, Spagna…).

I firmatari di questo appello sono atterriti dal vedere dei professionisti del campo storico unirsi all'aria viziata della nostra epoca anticomunista, "postmoderna" e grandemente antiprogressista, senza eccessivi scrupoli metodologici nel formare il dossier iperbolicamente contrario a carico dell'Ottobre russo. Quei medesimi che evocavano con commiserazione l'eccessiva ingenuità storiografica di ieri e che denunciavano i "partiti presi" propri della congiuntura politica che seguì Stalingrato, l'8 maggio 1945 (*) e l'ascesa di un possente partito comunista in Francia, non si interrogano neanche un secondo sulla configurazione politica attuale, nella quale schierano la loro sedicente critica riflessione storica: offensiva neoliberista mondiale, annessione alla sfera euroatlantica dei paesi ex socialisti, dominazione di Berlino sulla "costruzione europea", forza del Front National e spostamento a destra della società francese, annullamento delle conquiste sociali  del CNR legate all'attività dei ministri comunisti del 1945-1947, risorgimento degli imperi capitalisti rivaleggianti per l'egemonia mondiale, spinta esponenziale, europea, o persino mondiale, dei diversi tipi di estremismo di destra e di integralismo religioso, degrado dei rapporti di forza planetari tra capitale e lavoro, demonizzazione della Federazione Russa che la NATO pressa alle sue frontiere da Vilnius a Kiev, proliferazione delle guerre neocoloniali travestite da "diritti di ingerenza umanitaria" (Africa e vicino Oriente) criminalizzazione delle organizzazioni comuniste nei paesi ex socialisti (Polonia, Repubblica Ceca, Bulgaria…), negazionismo caratterizzato dal rifiuto delle autorità giapponesi di riconoscere i genocidi commessi in Corea e in Cina, quando non addirittura il tributo d'onore puro e semplice ai gruppi neonazisti che proliferano nel risveglio dei poteri fascisti appoggiati dalla UE e dalla NATO (Ucraina, Ungheria, ex repubbliche sovietiche del Baltico)…

Questo tentativo pseudo-storico di "cestinare" l'Ottobre 1917 nella memoria collettiva prende oggettivamente piede in un paesaggio storiografico dominato dalla reazione:

crescente indulgenza verso il colonialismo francese (vedi gli "aspetti positivi della colonizzazione" - sic - che gli ambienti sarkozysti pretendono di iscrivere nei programmi scolastici), denigrazione della Rivoluzione Francese, specialmente della sua fase giacobina e robespierrista, tendenza a riabilitare Vichy e a denigrare la Resistenza patriottica (specialmente negando il ruolo eminente che giocarono i comunisti), 

- tendenza a rapportarsi in modo canagliesco con la storia nazionale, ora svalutando la multisecolare costruzione di uno Stato-nazione in favore di una euro-storiografia politicamente corretta, ora pretendendo di resuscitare un "romanzo nazionale" spurgato della lotta tra le classi e dell'apporto dei comunisti al Fronte Popolare, alla Resistenza, alle riforme progressiste della Liberazione, al rifiuto delle guerre coloniali, alla difesa delle libertà, della pace, della sovranità nazionale, dell'eguaglianza tra uomo e donna, e al progresso sociale,

- equiparazione odiosa perpetrata all'interno dei programmi e dei manuali di storia degli scolari sotto la categoria dell'"ascesa dei totalitarismi" tra il terzo reich e la Patria di Stalingrado (1).

Insomma è come se certi ambienti che si sono accaparrati l'editoria, i media e una buona parte dell'Università fossero meno ansiosi di illuminare sotto una prospettiva dialettica, dinamica ed eventualmente sottoposta al contraddittorio i Dieci Giorni che sconvolsero il mondo (come cioè abbia potuto un semplice "putsch" bolscevico mobilitare milioni di proletari e di contadini, spazzar via gli eserciti bianchi sostenuti da diciotto corpi di spedizione stranieri,  suscitare una straordinaria fioritura culturale, sollevare l'entusiasmo del movimento operaio e dei popoli dominati, sconfiggere poi l'invincibile "Wermacht", mettere al centro della problematica geopolitica mondiale per sette decenni la contraddizione socialismo/capitalismo, la decolonizzazione e l'eguaglianza dei generi?) anziché dare retrospettivamente lezioni al popolo ed in particolare ai giovani, per tenerli sempre lontani dalle lotte operaie e rivoluzionarie…

Oscurando a volontà l'Ottobre 1917, le sue cause, i suoi sviluppi e ciò che ne è seguito, non si finisce forse per impallidire ed arrossire di fronte al terribile bilancio della restaurazione mondiale del capitalismo, il quale, sotto il nome di "mondializzazione liberale" è riuscito a liquidare la multiforme esperienza della Rivoluzione bolscevica? Peraltro, i sondaggi d'opinione attestano che, avendo successivamente sperimentato entrambi i due sistemi antagonisti, i popoli dell'ex campo socialista e più ancora fortemente quelli dell'ex-URSS, continuano ad onorare Lenin e tutto ciò che ha permesso di costruire una società alternativa in fatto di conquiste sociali, di pace civile, di diritto al lavoro, di accesso alle cure sanitarie ed all'istruzione, di rispetto delle minoranze, di sviluppo delle lingue e delle culture nazionali, di scoperte scientifiche, ecc. Dei veri democratici non dovrebbero forse ascoltare le parole e le opinioni dei popoli, invece di cestinarle sotto il termine dispregiativo di "Ostalgie"? E' così imbarazzante che i popoli che hanno testato l'uno dopo l'altro entrambi i sistemi sociali e che pertanto non hanno affatto dimenticato i freni del "socialismo reale" negli anni 70 e 80, affermino oramai, dopo aver testato la restaurazione del capitalismo, l'"integrazione europea" sovranazionale e neoliberista, della sanguinaria destabilizzazione di interi paesi (Jugoslavia, Ucraina, ecc. ), dell'ascesa dell'estremismo di destra, della pressione militare esercitata dalla NATO alle frontiere con la Russia, che il socialismo era alla fine senza dubbio migliore, suoi difetti compresi, dell'esplosione delle mafie e delle diseguaglianze che gli sono succedute sotto la denominazione fortemente discutibile di "democrazia liberale"?

E' per questo che, sebbene i firmatari di quest'appello non abbiano necessariamente tutti il medesimo approccio alla storia russo-sovietica, essi si fanno un punto d'onore nel dire con forza che la Rivoluzione d'Ottobre del 1917 deve cessare di esser letta attraverso le lenti "bianche", "termidoriane", controrivoluzionarie se non addirittura fasciste di quelli che meno studiano il movimento comunista, le lotte delle classi soggiogate e le rivoluzioni popolari - tra cui sempre di più la Rivoluzione Francese e la Comune di Parigi - di quelli che le combattono strenuamente senza nemmeno avere l'onestà intellettuale di mostrare il loro orientamento di parte.

Non chiediamo qui un'agiografia della Rivoluzione Russa, ma di permettere alle giovani generazioni di avvicinarsi allo studio del passato dialetticamente, di misurare la complessità a partire dalle dinamiche delle classi e dei rapporti di forza internazionali relativi alle epoche, tenendo conto di tutti gli aspetti; e soprattutto ci si deve approvare a questo studio senza i paraocchi anticomunisti, senza pregiudizi antisovietici, e alla fine, senza posizioni di principio controrivoluzionarie.

Contro coloro che stanno già cercando di anticipare la prossima commemorazione dell'Ottobre 1917 sulla base di un manifesto pregiudizio antibolscevico, riapriamo il dibattito in contraddittorio, tornando ai fatti ed ai processi storici ed alla loro ricontestualizzazione. In una parola, evitiamo di fare di questo centenario dell'Ottobre una forma di revanscismo postumo per i  "bianchi" e per tutti coloro che, nella nostra epoca, sognano un mondo definitivamente venduto al capitalismo, all'integrazione euroatlantica, alla regressione sociale, alle guerre imperialiste ed alla fascistizzazione politica.

Vedi elenco firmatari

Note: 

1) Ricordiamo che nel 1966, durante la sua visita di Stato a Mosca, il generale De Gaulle ha lealmente ricordato il ruolo preminente e centrale che la "Russia sovietica" ha giocato nella liberazione del nostro Paese.

2) N.d.t.: nell'originale il termine "kärchériser", neologismo derivato dalla nota marca di aspirapolvere Karcher (famoso anche perché utilizzato in Francia anche dall'ex presidente Sarkhozy a proposito della necessità di "liberarsi" del proletariato e del sottoproletariato delle periferie in tumulto)  è stato reso in italiano col termine "cestinare".



=== 2 ===


Appello per la costruzione di una grande mobilitazione per il Centenario della Rivoluzione d’Ottobre

Il prossimo 7 novembre cadrà il centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Da quella rivoluzione nacque il primo Stato socialista della storia dell’umanità, governato dai lavoratori e dal loro partito. Per quasi un secolo i lavoratori e i popoli oppressi di tutto il mondo hanno guardato all’Unione Sovietica sapendo che essa incarnava le loro migliori speranze e aspirazioni. In vista di questa ricorrenza, il Fronte della Gioventù Comunista fa appello a tutta la gioventù, ai lavoratori, ai comunisti per costruire a Roma una grande mobilitazione nazionale, operaia e comunista, in occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre.


Riteniamo che sia assolutamente attuale e necessario l’impegno della gioventù comunista nella costruzione di una mobilitazione per i cento anni della Rivoluzione d’Ottobre, e ci assumiamo per questo la responsabilità di lanciare questo appello. La nostra scelta non è guidata da nostalgia per il passato, ma dalla convinzione che quelle idee debbano animare le lotte di una nuova generazione condannata a un futuro di precarietà e sfruttamento. Siamo convinti che non solo non esista nessuna contraddizione fra questa decisione e la nostra giovane età, ma che appunto questa sia pienamente coerente con la mobilitazione che vogliamo costruire.

Certo, la nostra generazione è nata dopo la caduta del Muro di Berlino. Siamo i giovani a cui è stato raccontato che questo sistema sarebbe stato l’ultimo orizzonte dell’umanità, che nessun altro mondo è possibile. Ma siamo anche la generazione su cui oggi, più di tutte, si abbatte uno spaventoso attacco condotto dai padroni a livello continentale, che mira a polverizzare tutti i diritti conquistati nella lotta dalle generazioni che ci hanno preceduto. Un attacco divenuto più aggressivo con l’inizio della crisi del capitalismo, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti: disoccupazione, privatizzazioni selvagge di sanità, istruzione e beni statali, mentre un’intera generazione si vede negare il diritto al lavoro, allo studio, a una casa o alla salute, nel nome degli interessi di un pugno di persone. In Italia la disoccupazione giovanile è arrivata al 40%, mentre quella generale si attesta attorno al 12%. In tutto il mondo, 8 persone possiedono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone, la metà più povera del pianeta.

L’attacco ideologico che oggi mira a criminalizzare e revisionare la storia del movimento operaio non potrà mai negare questa verità: per anni il socialismo reale, pur con tutte le sue contraddizioni, ha rappresentato un’alternativa credibile alla barbarie di questo sistema. Nei paesi socialisti esistevano piena occupazione, sanità e istruzione totalmente gratuite. Un giovane nato in un paese socialista aveva la sicurezza che in futuro avrebbe avuto un lavoro, una casa, diritti e dignità; in URSS esistevano libero accesso alla cultura, allo sport, diritti per le donne con oltre 20 mesi di maternità retribuita e un’uguaglianza sostanziale e non solo formale fra uomo e donna. Tutto questo non esiste nel capitalismo.

Essere comunisti oggi significa lottare nel solco di quelle idee, le idee di Marx e di Engels, di Lenin e di Stalin, di Gramsci e di centinaia di rivoluzionari in tutto il mondo. La storia del movimento operaio e comunista è una storia gloriosa, fatta di lotte, vittorie e conquiste ottenute con il sangue e il sacrificio di migliaia di lavoratori e giovani che hanno lottato per idee di libertà, giustizia e uguaglianza. Nel solco di questa storia hanno lottato i partigiani per la libertà contro la tirannia fascista, i lavoratori in Italia e in tutto il mondo, i popoli amanti della pace e in lotta contro l’imperialismo e l’oppressione coloniale.

Oggi noi ci sentiamo eredi di questa storia, delle sue vittorie e delle sue sconfitte. Essere rivoluzionari oggi vuol dire lottare per il potere ai lavoratori, dinanzi alla dittatura dei grandi monopoli bancari e industriali; per il potere popolare contro l’Unione Europea delle banche e della finanza. Significa lottare per la pace, mentre lo scontro fra potenze imperialiste scatena nuove guerre e conflitti nell’interesse dei monopoli, contro i popoli e i lavoratori. Significa lottare per un futuro dignitoso, contro l’ingiustizia dello sfruttamento e l’arricchimento di un pugno di parassiti a scapito della stragrande maggioranza della popolazione. Tutto questo è oggi di profonda attualità. È attuale essere comunisti, lavorare per ricostruire un grande partito comunista forgiando nel fuoco della lotta quotidiana i futuri quadri rivoluzionari di questo partito.

Con queste idee vogliamo manifestare a Roma il 7 novembre. Costruire una grande mobilitazione nazionale, che vada oltre la mera celebrazione e le rievocazioni nostalgiche senza rinnegare la lezione e l’attualità della strategia rivoluzionaria che ha condotto i bolscevichi di Lenin alla vittoria. Una mobilitazione combattiva, animata dalla coscienza di chi lotta assumendo su di sé una storia gloriosa, capace di legare quelle idee alla lotta del nostro tempo, con lo sguardo rivolto al futuro. Una manifestazione che, a 100 anni dalla prima rivoluzione proletaria, sappia urlare che la lotta non è finita, che i lavoratori hanno ancora un mondo da guadagnare e nulla da perdere se non le loro catene.





(english / italiano)

Ucraina: due casi misteriosi, ma non troppo

1) Rocchelli: assassinato perché documentava la aggressione del regime europeista ucraino contro la popolazione civile del Donbass
– Links
– Omicidio Rocchelli, arrestato a Bologna un italo-ucraino di 28 anni
– Che hanno da dire il governo e l'opinione pubblica? 
2) Volo MH17: il regime europeista ucraino lo ha fatto abbattere ed ha cercato di addossare la colpa alla Russia per aggravare la crisi
– Links
– 2016: tentato omicidio capo pool di investigatori su disastro boeing nel Donbass
– 2017: Il “misterioso” silenzio occidentale sul Boeing malese abbattuto in Ucraina nel 2014


=== 1: ROCCHELLI ===

Si vedano anche i link:

DOSSIER UCRAINA: L'ASSASSINIO ROCCHELLI-MIRONOV

PER ANDREA ROCCHELLI E ANDREJ MIRONOV, TRE ANNI DOPO

L'arresto di Vitaly Markiv: chi è il killer di Andrea Rocchelli

Vitaliy Markiv "Marcus"
https://www.facebook.com/Marcus.Sweet

The official position of the National Guard of Ukraine
https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1480929468595625&id=775012539187325&hc_location=ufi

DISINFORMAZIONE STRATEGICA SULL'ARRESTO DI MARKIV:

Fonte: pagina FB "Fort Rus", 4/7/2017
https://www.facebook.com/fortrus%20/videos/1377930202276476/
Da quando a Bologna è stato arrestato un combattente dei battaglioni punitivi ucraini con l'accusa di aver partecipato all'omicidio del reporter italiano Andrea Rocchelli a Slaviansk nel 2014, sia in Ucraina che in Italia si è alzato un vero vespaio. Il regime di Kiev ha immediatamente deciso di sguinzagliare la nota macchina di propaganda “StopFake”, progetto finanziato dall'International Renaissance Foundation del miliardario George Soros è noto per le propria palese faziosità e per le becere e ridicole bufale che diffonde quotidianamente a livello globale. Purtroppo questo generatore di fake news ha il pieno sostegno di molti media mainstream e di diversi politici soprattutto in Italia per esempio appartenenti ai Radicali Italiani o al Partito Democratico, come nel caso del Deputato Davide Mattiello. Nella speranza che le pressioni politiche sia da dentro che da fuori l’Italia non possano influenzare i risultati dell'indagine in corso, vi abbiamo tradotto l'analisi del giornalista ucraino Anatolij Sharij su come l'Ucraina per tutti questi anni abbia provato a depistare l'indagine sulla morte del giornalista italiano Andrea Rocchelli...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=SyV825OLsc4

Andrea Rocchelli, arrestato in Italia un Ucraino (StopFake, 1 luglio 2017)
La diramazione italiana del sito StopFake, che a livello internazionale è finanziato dall'International Renaissance Foundation del miliardario George Soros e in Italia è gestita dall'attivista europeista russofobo Mauro Voerzio, si premura di spargere dubbi ...

Uccise fotoreporter italiano in Ucraina Arrestato a Bologna miliziano anti-Putin (Il Giornale, 02/07/2017)
Il famigerato Fausto Biloslavo, ex militante di estrema destra convertitosi al giornalismo mainstream, usa l'arresto di Markiv per disseminare informazioni false e tendenziose sulla presunta presenza di "elementi del Gru, il servizio militare russo" e accusare la Russia stessa di essere colpevole dell'agguato!


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Omicidio Rocchelli, arrestato a Bologna un italo-ucraino di 28 anni

I Ros di Milano e i carabinieri di Pavia hanno arrestato il paramilitare ritenuto responsabile della morte del fotoreporter pavese

1 luglio 2017 – PAVIA. I Ros di Milano e i carabinieri di Pavia hanno arrestato un italo-ucraino di 28 anni ritenuto responsabile, in concorso con altri non ancora identificati, dell'omicidio del foto-reporter pavese  Andrea Rocchelli, dell'interprete russo Andrej Mironov e del ferimento del foto-reporter francese William Roguelon, avvenuto il 24 maggio 2014 a Sloviansk (Ucraina). Rocchelli era nel Donbass per documentare il conflitto tra forze regolari ucraine e milizie separatiste filo- russe dell'autoproclamata Repubblica Popolare del Donetsk.
L'uomo finito in manette è  Vitaliy Markiv, cittadino italiano di di madre ucraina: tornava in Italia per la prima volta dopo un'assenza di due anni e mezzo. Nel 2013 era andato in Ucraina per combattere con la guardia nazionale conrto le milizie filo-russe.
E' stato arrestato all'aeroporto di bologna mentre tornara con la kmoglie per andare a trovare la madre che in questi anni è rimasta in Italia a Tolentino nelle Marche
L'arresto è avvenuto ieri, 30 giugno, a Bologna, ma la notizia è stata resa nota solo oggi, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del Tribunale di Pavia su richiesta del pm.
In particolare il fotoreporter italiano stava lavorando per documentare le vittime civili del conflitto: era noto per i molti reportage realizzati sempre in zone di conflitto e sempre tesi a documentare le ripercussioni sulla popolazione. Era in Ucraina dall'inizio di maggio.
Le indagini, intraprese inizialmente dal Nucleo informativo dei carabinieri di Pavia e poi successivamente condotta dal Ros di Milano, e coordinata dal procuratore aggiunto Mario Venditti e dal sostituto procuratore Andrea Zanoncelli, accertavano la responsabilità dell'italo-ucraino.


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Che hanno da dire il governo e l'opinione pubblica sull'omicidio di Andrea Rocchelli?

2 Luglio 2017 – Vanno ringraziati i genitori di Andrea Rocchelli per la loro ostinazione e il lavoro della procura di Pavia che hanno permesso di aprire finalmente squarci di verità sull'assassinio del fotoreporter.
La notizia è di un rilievo eccezionale.
Ma dobbiamo constatare come non si sia registrata alcuna reazione da parte delle autorità del nostro governo di fronte a un fatto di una gravità inaudita che chiama direttamente in causa la giunta nazifascista ucraina, con cui il nostro paese intrattiene cordialissime relazioni e che asseconda (con le sanzioni alla Russia) nella sua guerra di aggressione nel Donbass, oltre che, con il suo silenzio, nella selvaggia persecuzione di chi dissente.
E neppure l'opinione pubblica democratica si è scomodata più di tanto, almeno come ha fatto in altre occasioni (ricordate la vicenda di Regeni?). Per Rocchelli nessuno striscione esposto dai municipi delle grandi città, nessuna iniziativa delle organizzazioni umanitarie, nessuna manifestazione di solidarietà.
E amareggia constatare, nonostante la dirompenza della notizia, come pure pochissime siano state le reazioni nelle reti sociali di fronte a una vicenda che così tanta ragione dà alla causa di chi dalla fine del 2013 si batte perché emerga finalmente la verità sui crimini di quello che rappresenta il primo regime nazista che si è impadronito del potere in Europa e su cui anche molte coscienze antifasciste preferiscono chiudere gli occhi.

Marx21.it


=== 2: VOLO MH17 ===

Si vedano anche i link:

DOSSIER UCRAINA: DUE CACCIA UCRAINI ABBATTONO AEREO DI LINEA AMSTERDAM - KUALA LUMPUR

Boeing: Non vogliono dirci la verità che hanno scoperto (Il Punto di Giulietto Chiesa, 30 agosto 2014)
“Le chiavi del mistero della «Ustica ucraina» sono saldamente nelle mani del governo di Kiev, che potrà decidere se tenerle per sé. I risultati delle indagini sui resti del Boeing della Malaysia Airlines abbattuto il 17 luglio sul quadrante sudorientale dello spazio aereo ucraino sono segreti e potranno rimanere tali a discrezione di alcuni paesi interessati, tra cui la stessa Ucraina.
La clamorosa rivelazione è rimasta sotto traccia per diverse settimane, nonostante ne avessero già parlato diverse insospettabili fonti ucraine, tra cui l’Agenzia Interfax-Ucraina e l’agenzia filogovernativa UNIAN. I grandi media occidentali non l’hanno ripresa.”...

Volo MH-17 abbattuto. Inchiesta Reuters su inganni, bugie, falsi (di Ennio Remondino, 22/11/2014)
Gli strani equivoci che nessuno in occidente sembra oggi interessato ad approfondire…

NOME E COGNOME DELL'AVIERE UCRAINO CHE HA ABBATTUTO IL VOLO MH17

“Support MH17 Truth”: OSCE Monitors Identify “Shrapnel and Machine Gun-Like Holes” indicating Shelling. No Evidence of a Missile Attack. Shot Down by a Military Aircraft (by Michel Chossudovsky, July 29, 2015)
This article was first published by GR on September 9, 2014. In the context of the July 29, 2015 United Nations Security Council Resolution vetoed by Russia, it should be emphasized that the evidence confirms that MH17 was not brought down by a surface to air missile... 
http://www.globalresearch.ca/support-mh17-truth-osce-monitors-identify-shrapnel-like-holes-indicating-shelling-no-firm-evidence-of-a-missile-attack/5394324

LA USTICA UCRAINA – UN ANNO DOPO (rassegna JUGOINFO 21.7.2015)

MH17. Presentazione della Relazione sull’abbattimento – In Diretta da Mosca (13/10/2015)
In diretta da Mosca la presentazione della relazione sull’abbattimento del volo MH17 della Malaysia airlines. il documento è stato preparato e viene presentato dal gruppo industriale russo Almaz-Antey, che opera nel campo degli armamenti. Atteso oggi anche la relazione ufficiale della commissione d’inchiesta internazionale, coordinata dai Paesi Bassi...

Lo strano caso dell'inchiesta olandese sull'abbattimento del Boeing malese (di Fabrizio Poggi, 14 Ottobre 2015)
... Le due inchieste concordano sul fatto che il missile andò incontro alla traiettoria dell'aereo ed esplose a una distanza di 20 metri dal lato sinistro della cabina di pilotaggio, provocandone il distacco dal resto della fusoliera. Qui finiscono le concordanze. Il rapporto olandese dice che il razzo partì dall'Ucraina orientale e, senza basarsi su modelli sperimentali, suppone che il punto di lancio fosse nell'area del borgo di Snežnoe, controllato dalle milizie popolari (...) Secondo “Almaz-Antej”, invece, la posizione del complesso di lancio era quella del villaggio di Zaroščenskoe, controllato all'epoca dalle truppe ucraine e si poteva sicuramente escludere, sulla base dei dati matematici della traiettoria, quella indicata dagli olandesi...

MH17: fu un missile BUK, lanciato da chi? (PTV News 14 ottobre 2015)
L’inchiesta olandese ha confermato quello che si sapeva fin dall’inizio. L’MH17 è stato abbattuto da un missile di tipo BUK. Ma gli olandesi non dicono chi ha lanciato il missile, in dotazione dell’esercito ucraino ma non di quello russo. I giornali italiani giocano sull’ambiguità tra “missile russo” e “missile di fabbricazione russa”. E puntano il dito contro Mosca...

Il Punto di Giulietto Chiesa – MH17: ecco il video del BUK ucraino (PTV 15/10/2015)
Il 16 luglio 2014, un giorno prima dell’abbattimento dell’MH17, c’era una batteria missilistica BUK dell’esercito ucraino nella zona dell’incidente. La si vede in una trasmissione della televisione ucraina, di cui vi facciamo vedere le immagini. Ma la commissione d’inchiesta olandese sembra ignorarlo. Il giorno dopo la pubblicazione dei risultati dell’inchiesta ufficiale, la tragedia continua a non avere dei responsabili. E si continua a puntare il dito contro Mosca...

Il disastro di Svatovo per cancellare le prove sul caso del Volo MH17? (8.11.2015)
https://aurorasito.wordpress.com/2015/11/08/il-disastro-di-svatovo-per-coprire-le-prove-sul-volo-mh17/
Il 2 novembre, la città di Svatovo, in Ucraina, veniva completamente distrutta dall’esplosione di un grande deposito di munizioni dell’esercito ucraino e dal conseguente incendio perdurato per tre giorni. Il 50% degli abitanti non voleva rientrare mentre gli sciacalli dominavano la città senza acqua, luce e gas. Delle cinque scuole, solo una era rimasta.
Il deposito di munizioni conservava anche razzi da 300mm dei sistemi MRL Smerch e missili terra-aria Buk; l’incendio potrebbe essere stato un tentativo di coprire un traffico di armi e munizioni, o anche un tentativo di cancellare le prove dell’abbattimento dell’MH17 sul Donbas, nel luglio 2014. Dopo tutto, è un fatto ben noto che i sistemi Buk ucraini furono schierati sul fronte, nel Donbas, e dato che l’indagine della catastrofe dell’MH17 era ancora in corso, le scorte di tali missili dovevano essere distrutte, per nascondere le prove che gli investigatori olandesi cercavano.
Il missile che abbatté l’MH17 aveva un numero di serie e lotto, con ogni probabilità l’Ucraina aveva altri missili dello stesso lotto. Pertanto distruggendoli si eliminerebbe una prova importante sull’implicazione dell’Ucraina nella distruzione del volo MH17 della Malaysian Airlines del luglio 2014.
Fonte: South Front
... An ammunition storage facility in Svatovo, a town in the still Ukraine-occupied part of Novorossia, blew up for unclear reasons. The facility was reported to have stored, among other things, ammunition for the 300mm Smerch MRLs, but there are also report the munitions stored there included Buk surface to air missiles. Therefore the fire might have been an effort to cover up illegal arms and ammunition sales, or even possibly an effort to cover up the MH17 shoot-down...

MH17 La spirale dei misteri (PTV news 8 giugno 2016)
VIDEO: https://youtu.be/-NeGIjq4Gt4?t=3m24s

Speciale PTV: Inchiesta sul volo MH17 (prima puntata)
http://www.pandoratv.it/?p=9531

Volo MH17: Indagini farsa pilotate dalla Nato (PTV news 28 Settembre 2016)

Volo MH17: La propaganda Nato non frena le accuse a Kiev (PTV news 29 Settembre 2016)

IL GRANDE INGANNO DEL BOEING (PandoraTV, 17/12/2016)
Giulietto Chiesa introduce l’inchiesta definitiva sul volo MH17 della Malaysia Airlines che precipitò sui territori della attuale Repubblica Popolare di Donetsk nell’estate del 2014. Un lavoro dettagliatissimo, che toglie ogni dubbio su cosa accadde il 17 luglio 2014 nei cieli europei e che Giulietto Chiesa arricchisce di un “dettaglio” rimasto inosservato...
Traduzione a cura di Geraldin. Con la collaborazione di Leni Remedios e Debora Blake
http://www.pandoratv.it/?p=13226

IL GRANDE INGANNO DEL BOEING (PandoraTV, 11.1.2017)
Giulietto Chiesa introduce l’inchiesta definitiva sul volo MH17 che precipitò sui territori della attuale Repubblica Popolare di Donetsk nell’estate del 2014. Un lavoro dettagliatissimo, che toglie ogni dubbio su cosa accadde il 17 luglio 2014 nei cieli europei e che Giulietto Chiesa arricchisce di un “dettaglio” rimasto inosservato.
Traduzione a cura di Geraldin. Con la collaborazione di Leni Remedios e Debora Blake
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=3APngzg_YIg
FONTI: Boeing: non vogliono dirci la verità che hanno scoperto (di Giulietto Chiesa e Pino Cabras, 30 agosto 2014)


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http://it.sputniknews.com/mondo/20160411/2452416/Ucraina.html

Giallo a Kiev: tentato omicidio capo pool di investigatori su disastro boeing nel Donbass

11.04.2016 – La Procura Generale ucraina ha segnalato il tentato omicidio del capo del pool di investigatori della tragedia del boeing della Malaysia Airlines nel Donbass; il presunto omicida è stato arrestato.
Oggi il procuratore capo militare dell'Ucraina Anatoly Matios condurrà una conferenza stampa "sull'arresto dell'attentatore che ha cercato di uccidere il capo del pool di investigatori della tragedia del boeing della Malaysia Airlines nel Donbass", segnala RIA Novosti.
Lo scorso 1° aprile, dopo i colloqui a Mosca con il capo della diplomazia serba, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov aveva detto che la Russia è ancora in attesa di chiarimenti sulle indagini riguardo lo schianto del boeing malese.
Il 3 marzo si è saputo che Washington non renderà pubbliche le informazioni sui dati che trasmetterà in Olanda sul disastro dell'aereo della "Malaysia Airlines".
In seguito il procuratore Fred Westerbeke, a capo dell'indagine internazionale sulle cause dello schianto del boeing nel Donbass, ha dichiarato che è imprevedibile la data di completamento delle indagini, ma ha promesso che entro l'estate verrà indicata la posizione esatta dello sparo e il tipo di missile che ha abbattuto l'aereo.

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Il “misterioso” silenzio occidentale sul Boeing malese abbattuto in Ucraina nel 2014

di Fabrizio Poggi, 3 luglio 2017

Il Ministero degli esteri della junta golpista di Kiev ha ritenuto doveroso porgere i propri sent.iti ringraziamenti alla UE, per aver prolungato di altri sei mesi, fino al 31 gennaio 2018, le sanzioni contro la Russia. “Speriamo che a settembre 2017 siano prolungate anche le sanzioni individuali per azioni che intaccano l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina”, è detto nella nota di Kiev.

Tra le diverse e variegate motivazioni addotte a suo tempo per l’adozione, da parte dell’amministrazione Obama – e, a seguito di quella, anche da parte UE – delle sanzioni contro la Russia, una, peraltro lasciata opportunamente nel dimenticatoio per evitare di incorrere nel vecchio adagio maoista secondo cui “i reazionari sono degli stupidi: sollevano una pietra per lasciarsela cadere sui piedi”, riguardava l’abbattimento del Boeing malese MH17, il 17 luglio 2014, nei cieli del Donbass. 

Da tempo si è detto che il silenzio caduto sopra il fatto, che costò la vita a quasi trecento persone, già di per sé la diceva lunga sulle accuse lanciate dai golpisti e dalle cancellerie occidentali, in primis contro le milizie popolari, additate come responsabili dirette dell’abbattimento e, per proprietà transitoria, contro Mosca, che avrebbe loro fornito il sistema terra-aria “Buk” atto alla bisogna, salvo poi riportarlo in territorio russo. A proposito del “improvviso silenzio USA sulla responsabilità russa”, alcuni media occidentali avevano da tempo notato come, se davvero Kiev e Washington non avessero avuto la “coda di paglia” e fossero state in possesso del pur minimo indizio contro le milizie del Donbass, non avrebbero mai cessato di accusarle, come invece hanno fatto da tempo.

Bene, ieri, il giorno stesso in cui Kiev rivolgeva i propri ringraziamenti a Bruxelles per le sanzioni, il sito Soveršenno sekretno ha pubblicato materiali secondo cui nell’abbattimento del Boeing malese potrebbero essere coinvolti velivoli dell’areonautica militare ucraina. A dire il vero, la versione non è nuova: dalla testimonianza dell’aviere ucraino che, oltre ad aver visto decollare un caccia e poi rientrare senza i missili di bordo, aveva sentito anche le parole criptiche del pilota sconvolto, ai dati dei sistemi radar russi, che indicavano come un Su-25 ucraino fosse in volo a una distanza di 3-5 km dal Boeing malese, ai numerosi “misteri” della cosiddetta commissione d’inchiesta olandese

Soveršenno sekretno pubblica ora il piano di volo tracciato e firmato il giorno precedente la tragedia, il 16 luglio 2014, dal capitano Vladislav Vološin, della 299° brigata dell’aviazione tattica ucraina, e controfirmato dal colonnello Gennadij Dubovik. Secondo il piano, il velivolo sarebbe decollato dalla base Čuguev, nella regione di Kharkov, in direzione sudest, secondo una traiettoria che andava a incrociare il Boeing civile malese. Nella pubblicazione sono riportate anche le conversazioni intercorse tra i militari ucraini. Soveršenno sekretno non sostiene che il Boeing sia stato abbattuto dal capitano Vološin, ma si limita a sollecitare uno studio più attento dei materiali, compreso l’ordine di volo 734, preparato dal colonnello Dubovik all’antivigilia dell’abbattimento del Boeing e in cui sono indicati i vari velivoli (Su-25M1 N°08, Su-27 N°36, MiG-29MY1 N°29) che sarebbero stati impegnati in combattimento il 17 luglio. Nulla di sconvolgente, dunque, come scrive lo stesso Soveršenno sekretno; ma, in ogni caso, sufficiente quantomeno a sconfessare quanto si era affrettato a sostenere, alle 8 di sera di quel 17 luglio, Interfax-Ukraina, secondo cui “Oggi l’aviazione delle forze ATO” – l’operazione antiterrorismo, come la junta definisce la guerra contro il Donbasss – “non si è assolutamente alzata in volo: né elicotteri, né aerei, né caccia”. Nella conversazione con la fonte di Soveršenno sekretno, il tenente-colonnello Baturin, al comando del reparto 4104, ha dichiarato che il 17 luglio 2014, aerei militari ucraini “erano in volo per eseguire l’ordine N°1 per la distruzione di obiettivi aerei nella zona di Snežnoe e Torez”. Soveršenno sekretno aveva già in precedenza pubblicato una copia dell’ordine delle Forze armate ucraine per la distruzione di ogni indizio e testimonianza sull’abbattimento del Boeing.

Forse anche per mettersi al sicuro da brutti scherzi che possono mettere a repentaglio “segreti” come quello sull’abbattimento del Boeing malese, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha annunciato ieri che l’Alleanza aumenterà il numero di aerei da guerra in grado di aggirare i moderni sistemi antimissile. Non solo, la NATO ha “intenzione di rafforzare anche i propri sistemi antimissile, compresi i vascelli con a bordo mezzi difesa aerea”.

Così che nessuno possa intervenire a turbare il silenzio sulle responsabilità del prossimo, non così improbabile, abbattimento.





OTTOBRE / 1: 

A-B-C della Rivoluzione d'Ottobre

1) Da febbraio a ottobre. Una cronistoria (di Guido Carpi)
2) Dopo la rivoluzione: i primi atti del potere sovietico (di Vladimiro Giacché)
3) La Rivoluzione d’Ottobre e i diritti delle donne (di Margarida Botelho)


Alla nostra pagina https://www.cnj.it/INIZIATIVE/1917.htm , frequentemente aggiornata, è riportata una rassegna di documenti fondamentali assieme al calendario delle iniziative promosse nel centenario della Rivoluzione d'Ottobre


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Da febbraio a ottobre. Una cronistoria

a cura di Guido Carpi

4 apr 2017

17 febbraio. Pietrogrado. Gli operai delle immense officine Putilov chiedono un aumento salariale del 50% e annunciano sciopero; la vertenza dilaga. Le motivazioni politiche sono inizialmente assai vaghe.

22 febbraio. In concomitanza con la partenza dello zar da Pietrogrado per il quartier generale, una delegazione operaia delle Putilov si reca dai deputati socialisti alla Duma Aleksandr Kerenskij e Nikolaj Čcheidze per ottenere una sponda politica.
23 febbraio. Giorno della festa della Donna secondo il calendario giuliano in vigore in Russia. Una marea di popolane si riversa nelle strade per chiedere pane, mentre scioperi e tafferugli dilagano per la città
24 febbraio. Lo sciopero è ormai totale, ma senza armi il movimento popolare non può avere la meglio.
25 febbraio. Dopo altre manifestazioni oceaniche, verso le 9 di sera lo zar ordina al comandante militare della città, generale Sergej Chabalov, di «far cessare i disordini» tramite l’uso della forza. I soldati, in grande maggioranza contadini in armi, si mostrano recalcitranti.
26 febbraio. Una compagnia del reggimento Pavlovskij fa fuoco sui gendarmi che stavano sparando sulla folla inerme.
27 febbraio. La rivolta coinvolge anche le altre guarnigioni dell’esercito. Nel frattempo, sotto la direzione del menscevico Čcheidze, inizia a coagularsi l’ossatura di un Consiglio (Soviet) dei deputati degli operai e dei soldati, rappresentativo delle realtà produttive e militari dell’intera capitale. Il neonato Soviet di Pietrogrado – o Petrosovèt – si ispira agli omonimi consigli sorti spontaneamente durante la rivoluzione del 1905, ma assume fin da subito un ruolo e un’autorità senza precedenti, date le condizioni di insurrezione generale e il conseguente vuoto di potere. La folla vittoriosa occupa il Palazzo di Tauride, sede della Duma, e il Comitato esecutivo del Petrosovèt vi si insedia.
1 marzo. Il Comitato esecutivo del Petrosovèt emana il cruciale Ordine № 1, che chiama le guarnigioni di Pietrogrado a far ritorno in caserma, e insieme istituisce comitati della truppa in ogni unità militare, decretando che, «quanto alle questioni politiche», i soldati debbano attenersi non più agli ordini dei superiori, ma alle disposizioni di tali comitati; i diritti politici e civili dei soldati sono equiparati a quelli di tutti i cittadini, i titoli per gli ufficiali sono aboliti.
2 marzo. Nicola II firma l’abdicazione in favore del fratello Michail, che rifiuta; la dinastia dei Romanov termina nell’indifferenza generale. A Pietrogrado nasce il primo governo provvisorio, definito nel corso di una riunione del Comitato provvisorio della Duma. I 12 ministri appartengono quasi tutti al Partito Costituzionale-Democratico (cadetti), più alcuni indipendenti del mondo delle professioni e degli affari; primo ministro diviene il presidente dell’Unione delle amministrazioni locali (zemstva) principe Georgij L’vov, ma il vero dominus del governo sarà per un mese e mezzo il leader cadetto e ministro degli esteri Pavel Miljukov. Unico ministro socialista è Kerenskij, alla giustizia.
4 marzo. A Mosca, alla temperatura di –10°, sulla Piazza rossa si tiene una parata\processione di grande effetto.
10 marzo. Viene firmato l’accordo fra Soviet e associazioni imprenditoriali sull’introduzione della giornata lavorativa di 8 ore.
15 marzo. il Soviet emette un appello Ai popoli del mondo, secondo cui «è giunta l’ora di iniziare una lotta decisa contro le ambizioni predatorie dei governi di tutti i Paesi; è giunta l’ora che i popoli prendano nelle proprie mani la soluzione della questione sulla guerra e sulla pace»; al «proletariato germanico», finora convinto di «difendere la cultura d’Europa dal dispotismo asiatico», si fa presente che «la Russia democratica non può essere una minaccia alla libertà e alla civiltà».
23 marzo. Sul Campo di Marte a Pietrogrado vengono celebrati i funerali delle vittime della rivoluzione.
Inizio aprile. Per tutto il Paese si riuniscono comitati contadini che iniziano a elaborare le proprie rivendicazioni e le proprie strategie sulla questione agraria.
3 aprile. Sera. Assieme a numerosi compagni, il leader bolscevico Vladimir Il’ič Lenin (Ul’janov) torna a Pietrogrado dopo avere attraversato la Germania (su un treno messo a disposizione dal governo tedesco), la Svezia e la Finlandia.
Dal 29 marzo al 4 aprile. Prima Conferenza panrussa dei Soviet, che ribadisce il sostegno condizionato al governo, istituisce un Soviet panrusso (di cui il Petrosovèt non è ormai che una sezione, seppure la più rilevante) ed elegge un Comitato esecutivo centrale (Ispolkòm) ancora saldamente in mano ai socialisti centristi: menscevichi e socialisti-rivoluzionari (o esèry).
4 aprile. Lenin espone ai delegati della Conferenza panrussa dei Soviet le proprie Tesi d’aprile, che definiscono la nuova strategia bolscevica: la rivoluzione è attualmente in un momento di passaggio dove si pone con forza il tema del potere, che deve passare dalla borghesia al proletariato; pur in minoranza nei soviet, i bolscevichi devono spiegare alle masse «la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet», poiché in un momento in cui già esistono i soviet come forma di democrazia popolare, tornare alla repubblica parlamentare borghese sarebbe un passo indietro: sull’esempio della Comune di Parigi, la «repubblica dei soviet dei deputati degli operai, dei salariati agricoli e dei contadini» dovrebbe sopprimere polizia, esercito e corpo dei funzionari, sostituendoli con milizie popolari e funzionari eletti e revocabili; confiscare tutte le grandi proprietà fondiarie, nazionalizzare tutte le terre e metterle a disposizione dei soviet locali dei contadini; fondere tutte le banche del paese in un’unica banca nazionale sotto il controllo dei soviet. «Il nostro compito immediato non è l’“instaurazione” del socialismo, ma, per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei soviet dei deputati operai».
18 aprile. Grande manifestazione a Pietrogrado per la giornata internazionale del Primo maggio, in nome della pace e della fratellanza fra i lavoratori. In serata però, il ministro degli Esteri Miljukov emette una nota alle potenze alleate, in cui si ribadisce la determinazione della Russia a proseguire la guerra «fino alla piena vittoria».
20-21 aprile. A Pietrogrado si tengono manifestazioni contrapposte: in centro il ceto medio manifesta a favore della prosecuzione della guerra, mentre dalle periferie e dalle caserme muovono cortei di operai e di soldati che manifestano per la pace. Si verificano scontri che spingono gli operai a organizzare i primi reparti di una propria Guardia rossa.
5 maggio. Esce dal governo l’ormai indifendibile Miljukov, entrano ministri socialisti, e il baricentro del potere si sposta su Kerenskij, nuovo ministro delle Guerra. Il Soviet accetta di partecipare al governo nella speranza di poter indire a breve una conferenza internazionale socialista che avvicini le trattative di pace, ma di congressi internazionali pacifisti non si parlerà più.
Maggio. Si svolge il I Congresso panrusso del Soviet dei deputati contadini: fra le masse rurali crescono tanto le spinte autonomiste quanto l’irritazione per la mancata redistribuzione delle terre.
14-22 aprile. Si riunisce la conferenza cittadina dei bolscevichi pietrogradesi (57 delegati di 12.000 membri), che approva le Tesi di Lenin a stragrande maggioranza.
23 aprile. Vengono legalizzati i già capillari comitati di fabbrica: all’inizio essi si accontentano di controllare assunzioni, licenziamenti e bilanci, senza entrare nel merito delle scelte produttive; ma iniziano presto a vedere nella diretta cogestione dell’impresa il proprio compito principale, per impedire ai padroni di far danni. Il 19 maggio il pieno controllo operaio diviene politica ufficiale del Partito bolscevico, che si avvia velocemente a diventare egemone nelle fabbriche.
Fine maggio. Alle elezioni dei municipi di quartiere a Pietrogrado trionfano esèry e menscevichi, ma i bolscevichi conquistano il quartiere di Vyborg (45% di operai sulla popolazione). Il predominio di esèry e menscevichi è generale anche nei capoluoghi di governatorato (57,2%) ma anche i bolscevichi ottengono un’importante affermazione di media (12,9%), con picchi nelle roccaforti operaie.
Fine maggio – inizio giugno. Si tiene il III congresso del Partito dl socialisti-rivoluzionari (esèry), vero e proprio “partito della nazione”, forte di più di 1 milione di iscritti, riuniti in 436 organizzazioni in tutti i governatorati, nelle flotte e su tutti i fronti della guerra. L’estrema divaricazione delle posizioni all’interno del partito non consente però di elaborare una linea condivisa e ne paralizza l’azione. Inizia a coagularsi un’opposizione interna di sinistra, guidata dall’ex terrorista Marija Spiridonova e decisa a battersi nel modo più energico possibile per la pace e la socializzazione delle terre.
3 al 24 giugno. I Congesso panrusso dei Soviet, tenutosi a Pietrogrado, in rappresentanza di 8 milioni di soldati, 5 milioni di operai, 4,2 milioni di contadini; i moderati godono di una larga maggioranza (285 esèry, 248 menscevichi e 105 bolscevichi, più decine di indipendenti o appartenenti a piccoli gruppi, dai socialisti popolari agli anarchici); eppure, l’azione del Congresso è bloccata dall’incertezza sulla linea politica da seguire.
1 luglio. A Pietrogrado le razioni alimentari vengono ridotte. Operai e soldati iniziano ad agitarsi. Assente Lenin, i bolscevichi decidono di aderire alle proteste e di promuovere una manifestazione «pacifica ma armata».
3 luglio. Delegazioni di soldati si dirigono alle fabbriche per chiamare gli operai alla grande manifestazione che avrebbe dovuto conferire tutto il potere al Soviet. Per tutta la città si moltiplicano sparatorie e tafferugli.
4 luglio. Nonostante Lenin abbia invitato alla «calma, prudenza, fermezza», verso mezzogiorno il Palazzo di Tauride, sede del Soviet, è circondato da una folla immensa che rifiuta di andarsene se il Soviet non assume i pieni poteri. Infine la manifestazione si scioglie da sola; mentre in città giungono truppe fedeli al governo, per le strade infuriano i combattimenti, i saccheggiatori spadroneggiano e anche i comuni cittadini devono ricorrere alle armi per proteggere le proprie case: alla fine, i morti negli scontri saranno circa 700. Lenin si dà alla macchia (finirà per riparare in Finlandia), mentre il partito bolscevico subisce repressioni e arresti, ed entra nella semi-illegalità.
6 luglio. Finisce infatti in modo inglorioso l’offensiva militare che si trascina da due settimane, i tedeschi avanzano su tutti i fronti e la dissoluzione dell’esercito russo entra nella fase irreversibile.
7 luglio. Kerenskij diviene primo ministro.
26 luglio – 3 agosto. In un’atmosfera di semilegalità, i bolscevichi tengono il proprio sesto congresso (il secondo dell’anno). Lev Trockij e il suo gruppo confluiscono nel partito bolscevico. Se pure in forma vaga e incerta, la prospettiva insurrezionale diventa la linea guida del programma bolscevico.
13 – 15 agosto. A Mosca, nel teatro Bol’šoj, lontano dalle sediziose masse pietrogradesi, si svolge la Conferenza di Stato (Gosudarstvennoe soveščanie), pletorica assise in cui 2.500 rappresentanti della politica, dell’economia e della società civile sono chiamati a dibattere sulle prospettive della democrazia russa. L’iniziativa però fallisce: masse popolari e ceti privilegiati non possono ormai trovare un terreno comune. Ormai più di Kerenskij, vero eroe dell’ala destra della Conferenza di Stato è il comandante in capo dell’esercito, il generale Lavr Kornilov, che richiama i delegati alla necessità di ristabilire legge e ordine nelle retrovie e disciplina al fronte. A latere delle sedute, industriali, finanzieri e politici si accordano con Kornilov e il suo entourage circa i finanziamenti dell’imminente colpo di Stato, con le necessarie coperture.
20 agosto. I bolscevichi trionfano alle elezioni municipali di Pietrogrado, col 33%, laddove alle elezioni di quartiere, in maggio, avevano ottenuto solo il 20%.
22 agosto. La battaglia di Riga si conclude disastrosamente, con l’occupazione della città-chiave del Baltico da parte dell’esercito germanico. Fra caduti, feriti, dispersi e prigionieri, i tedeschi hanno perso circa 4.500 uomini, i russi circa 25.000. La caduta di Riga apre ai tedeschi la strada verso il golfo di Finlandia e verso Pietrogrado.
27 agosto. Il generale Aleksandr Krymov, su ordine di Kornilov, muove su Pietrogrado con la sua divisione di cavalleria. Kerenskij, che inizialmente aveva trescato coi golpisti, capisce che questi – occupata la capitale – instaureranno una dittatura militare e per prima cosa esautoreranno lui: dichiara dunque Kornilov “ribelle” e si affida alla difesa della capitale nel frattempo approntata dal Soviet e dai reparti della Guardia rossa, organizzati in un Comitato militare rivoluzionario (Revkòm) egemonizzato dai bolscevichi. In un paio di giorni, la divisione golpista si sbanda, Krymov si spara e Kornilov viene esautorato e arrestato.
Agosto-settembre. A Helsingfors\Helsinki, nell’opuscolo Stato e rivoluzione (pubbl. fine 1917), Lenin dà una sistemazione organica alle riflessioni degli ultimi anni, e si concentra sul ruolo dello Stato, ossia sul carattere e sull’esercizio del potere nella fase di passaggio al socialismo: i comunisti preparano la sostituzione di un meccanismo di oppressione classista – quello borghese – con un altro meccanismo di coercizione organizzata, atto ad esercitare la dittatura del proletariato. La macchina dello Stato borghese va spezzata, le sue strutture – esercito, istituzioni politiche, burocrazia – vanno demolite e sostituite, sull’esempio dato dalla Comune di Parigi, da «qualcosa che non è più propriamente uno Stato», ma una sorta di comitato liquidatorio per l’estinzione di quest’ultimo. Lo Stato proletario attua una graduale soppressione di se stesso: l’esercito va rimpiazzato da milizie popolari, le istituzioni parlamentari borghesi vanno sostituite da una democrazia di base, organizzata dai lavoratori nei luoghi di produzione (i soviet), e in luogo della burocrazia che regola le infrastrutture deve subentrare il controllo operaio.
7 settembre. Prosegue lo smottamento delle masse verso i bolscevichi: a questi ultimi va la maggioranza del Soviet di Pietrogrado, da sempre architrave degli equilibri fra socialisti, e ora in netta opposizione nei confronti dell’Ispolkòm, ancora in mano ai moderati. Alla presidenza del Petrosovet sale Lev Trockij, che da questo momento svolgerà negli avvenimenti un ruolo chiave, non inferiore a quello dello stesso Lenin. Nel medesimo periodo, gli esèry di sinistra escono definitivamente dal partito-madre, indebolendo così la maggioranza moderata dell’Ispolkòm e del governo.
14 settembre. A un mese esatto dalla Conferenza di Mosca, al teatro Aleksandrinskij di Pietrogrado si apre la Conferenza democratica. La nuova assise non comprende i partiti “borghesi” e le organizzazioni padronali, ma affianca ai delegati del Soviet una nutrita schiera di rappresentanti delle cooperative, delle municipalità e degli zemstvo: la Conferenza ha infatti lo scopo di allargare la base di legittimazione di un Ispolkòm ormai screditato e traballante, nonché di decidere se il governo venturo dovesse essere nuovamente di coalizione coi partiti borghesi, oppure se fosse venuta l’ora di un esecutivo “omogeneo”, ossia composto dai partiti socialisti delle varie sfumature. Non stupisce dunque che alla fine, le votazioni incrociate della Conferenza portino a una risoluzione paradossale, che certifica l’impasse istituzionale: a favore di un governo di coalizione con la borghesia, ma – contro ogni logica – senza i cadetti, che della borghesia sono il referente politico! «La sinfonia patetica si è spezzata su un cialtronesco accordo di balalajka», commenta il 21 settembre il giornale della destra menscevica “Den'”.
20 settembre. La Conferenza democratica vara il nuovo, assai pasticciato governo e istituisce un Consiglio provvisorio della Repubblica russa (o “Preparlamento”): nelle intenzioni, esso avrebbe dovuto indirizzare l’azione di governo, ma viene subito ridimensionato a organo consultivo, ossia del tutto inutile.
7 ottobre. I bolscevichi escono dal Preparlamento, col che si chiude ogni spiraglio per una soluzione pacifica, “parlamentare” della crisi.
10 ottobre. Si riunisce in contumacia il Comitato centrale bolscevico, alla presenza di Lenin e Zinov’ev ancora latitanti. Si decide per l’insurrezione, malgrado alcuni obiettino che «l’insurrezione armata può anche portare alla vittoria, ma poi che si fa?»; al che i sostenitori dell’insurrezione – ricorda Trockij – ribattono: «E voi che proponete?» «Beh, agitazione, propaganda, compattare le masse, et cetera…» «Sì, ma poi che si fa?»
12 ottobre. Il Comitato esecutivo del Petrosovet inizia a mobilitare il Revkòm e la Guardia rossa, formalmente per tutelare l’ordine nella capitale. Il 18, le guarnigioni di Pietrogrado dichiarano che eseguiranno solo gli ordini operativi con la controfirma del Revkòm, col che il potere reale è già passato sostanzialmente ai bolscevichi, che nominano un commissario del Revkòm in ogni unità militare.
23 ottobre. Le guardie governative tentano di chiudere il giornale bolscevico, e il Revkòm coglie il casus belli atteso da giorni, impartendo il segnale di attacco.
24 ottobre. Piccoli drappelli della Guardia rossa agiscono in modo molecolare e chirurgico, disarmano le sentinelle governative, occupando stazioni, centrali elettriche, poste e telegrafi, da giorni sotto discreta sorveglianza; le operaie della Siemens organizzano il pronto soccorso mobile, con più di 200 infermiere. Dal punto di vista della preparazione tattica, l’Ottobre è un vero capolavoro.
25 ottobre. Alla mattina, ai governativi rimane solo il Palazzo d’Inverno, presidiato da due compagnie di allievi ufficiali, da 40 cavalieri di San Giorgio invalidi e dalle soldatesse «spaventate a morte» del battaglione femminile (circa 140 unità), trascinate al Palazzo col pretesto di una parata. Il Revkòm diffonde il proclama Ai cittadini della Russia, che annuncia la presa del potere. Una cannonata a salve dalla fortezza dall’incociatore “Avrora” – ormeggiato in pieno centro! – dà il segnale dell’assalto al Palazzo d’Inverno. Alle 22 e 45 si è aperto il 2° Congresso panrusso dei Soviet, dove i bolscevichi godono di una solida maggioranza assieme ai pur recalcitranti alleati esèry di sinistra.
26 ottobre. Il Congresso dei Soviet forma il primo governo sovietico: il Consiglio dei commissari del popolo, o Sovnarkòm, nonché il Comitato centrale esecutivo panrusso (Vcik), organo supremo del potere legislativo; fra i due organi non c’è una chiara divisione dei poteri. Alle 20 e 40 Lenin sale alla tribuna del Congresso e dà lettura del Decreto № 1 sulla pace: il governo operaio e contadino, forte dell’appoggio dei Soviet, propone a tutti i popoli belligeranti (e poi – ai loro governi!) l’immediato inizio di trattative per una pace giusta e democratica senza annessioni e senza indennità; per la prima volta nella storia, la legittimità dei possessi coloniali e la pratica della diplomazia segreta vengono ufficialmente rigettate, e il governo sovietico, nel proporre un armistizio, si rivolge in particolare agli «operai coscienti delle tre nazioni più progredite dell’umanità» – Francia, Inghilterra, Germania – affinché leghino la lotta per la pace a quella per il socialismo. Quando gli applausi si spengono, Lenin passa a illustrare il Decreto № 2 sulla terra, fondato sulla risoluzione del congresso contadino di primavera: la grande proprietà fondiaria è abolita senza indennizzo e la terra «è dichiarata proprietà di tutto il popolo e passa a tutti coloro che la lavorano»; hanno diritto al godimento della terra tutti i cittadini dello Stato russo (senza distinzione di sesso) che desiderano coltivarla con l’aiuto della loro famiglia o in cooperativa <…>. Il lavoro salariato non è ammesso».
Ciò che segue è altra storia.



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Proponiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, alcune pagine dell’introduzione di Vladimiro Giacché al volume Lenin, Economia della rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 2017, da oggi in libreria; sono state riprodotte le pagine 14-19, eliminando poche righe di testo, nonché alcune note e riferimenti testuali.

Dopo la rivoluzione: i primi atti del potere sovietico

di Vladimiro Giacché

Per creare il socialismo, voi dite, occorre la civiltà. Benissimo. Perché dunque da noi non avremmo potuto creare innanzi tutto quelle premesse della civiltà che sono la cacciata dei grandi proprietari fondiari e la cacciata dei capitalisti russi per poi cominciare la marcia verso il socialismo?
LENIN, Sulla nostra rivoluzione, 17 gennaio 1923

Quando Lenin, il 30 novembre 1917, licenziò per la stampa Stato e rivoluzione, accluse un poscritto in cui informava il lettore di non essere riuscito a scrivere l’ultima parte dell’opuscolo originariamente prevista. E aggiunse: «la seconda parte di questo opuscolo (L’esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917) dovrà certamente essere rinviata a molto più tardi; è più piacevole e più utile fare “l’esperienza di una rivoluzione” che non scrivere su di essa». 

L’esperienza in questione era iniziata il 25 ottobre 1917 (7 novembre secondo il calendario gregoriano, che dal marzo 1918 sarebbe stato adottato anche in Russia). La notizia era stata comunicata ai cittadini russi attraverso un appello, scritto dallo stesso Lenin, in cui si dava notizia dell’abbattimento del governo provvisorio guidato da Kerenskij e del passaggio del potere statale «nelle mani dell’organo del Soviet dei deputati operai e soldati di Pietrogrado, il Comitato militare rivoluzionario». L’appello proseguiva: «La causa per la quale il popolo ha lottato, l’immediata proposta di una pace democratica, l’abolizione della grande proprietà fondiaria, il controllo operaio della produzione, la creazione di un governo sovietico, questa causa è assicurata». 

Nei giorni successivi questo programma si sarebbe tradotto in decreti. Non si trattava di un programma estemporaneo. Al contrario, i suoi punti erano stati esposti in dettaglio dallo stesso Lenin in diversi scritti precedenti la Rivoluzione. Dal punto di vista politico, si trattava di rompere il dualismo di potere creato dalla Rivoluzione di febbraio tra governo provvisorio e consigli (soviet) degli operai e dei soldati, dando «tutto il potere ai soviet». Dal punto di vista economico, già nelle Tesi di aprile Lenin aveva affermato: «il nostro compito immediato non è l’“instaurazione” del socialismo, ma per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei soviet dei deputati operai». Nel mese di settembre, in La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, dopo aver descritto la situazione di collasso economico e militare del paese e denunciato l’incapacità del governo provvisorio di farvi fronte, aveva individuato in quel passaggio, nel «controllo veramente democratico, cioè “dal basso”, il controllo degli operai e dei contadini poveri sui capitalisti», e al tempo stesso nell’accentramento nelle mani dello «Stato democratico rivoluzionario» del potere economico, gli elementi chiave per evitare la catastrofe e procedere verso il socialismo. Di fatto Lenin individuava nel «capitalismo monopolistico di Stato», e in particolare nell’accentramento delle funzioni produttive e distributive nelle mani dello Stato che diversi paesi in guerra – a cominciare dalla Germania – avevano realizzato, un presupposto essenziale per il socialismo. A patto che il potere non fosse più nelle mani dei capitalisti e dei loro rappresentanti: «il capitalismo monopolistico di Stato, in uno Stato veramente democratico rivoluzionario, significa inevitabilmente e immancabilmente un passo, e anche più d’un passo, verso il socialismo!». 

Il 7 novembre stesso il potere fu formalmente consegnato dal comitato militare rivoluzionario nelle mani del II Congresso dei Soviet, che si riuniva proprio quel giorno. Nella stessa sede Lenin lesse un Rapporto sul potere dei Soviet di cui abbiamo un resoconto giornalistico. Il significato della Rivoluzione è ravvisato da Lenin nella creazione di un «governo sovietico […] senza nessuna partecipazione della borghesia. […] Il vecchio apparato statale sarà distrutto dalle radici e sarà creato un nuovo apparato di direzione: organizzazioni sovietiche». Nel suo Rapporto Lenin ribadisce che la Rivoluzione «deve come ultimorisultato condurre alla vittoria del socialismo»: in altri termini, la conquista del potere politico per Lenin non coincide immediatamente con l’instaurazione del socialismo. Quanto ai compiti immediati, è posta in prima linea «la necessità di porre subito fine alla guerra» […]. 

Il primo decreto approvato dal Congresso dei soviet è infatti quello sulla pace. In un testo recente dedicato al 1917 la sua presentazione è così sintetizzata: l’8 novembre «alle 20.40 Lenin sale alla tribuna del Congresso e dà lettura del Decreto N° 1 sulla pace: il governo operaio e contadino, forte dell’appoggio dei soviet, propone a tutti i popoli belligeranti (e poi – ai loro governi!) l’immediato inizio di trattative per una pace giusta e democratica senza annessioni e senza indennità; per la prima volta nella storia, la legittimità dei possessi coloniali e la pratica della diplomazia segreta vengono ufficialmente rigettate, e il governo sovietico, nel proporre un armistizio, si rivolge in particolare agli “operai coscienti delle tre nazioni più progredite dell’umanità” (Francia, Inghilterra, Germania) affinché leghino la lotta per la pace a quella per il socialismo». [1]

Sotto il profilo economico il decreto cruciale è però il secondo, il Decreto sulla terra, approvato dal Congresso dei soviet nella notte tra l’8 e il 9 novembre. Esso prevedeva l’abolizione immediata e senza alcun indennizzo della grande proprietà fondiaria e metteva a disposizione dei comitati contadini e dei soviet distrettuali tutti i possedimenti dei grandi proprietari fondiari e le terre dei conventi, delle chiese e della corona, con il compito di distribuirle ai contadini. Al decreto era annesso il Mandato contadino sulla terra, approvato nell’agosto 1917 da un congresso contadino e frutto di 242 risoluzioni di assemblee contadine, cui veniva così conferito valore di legge. Questo mandato, ispirato dai socialisti-rivoluzionari, era rimasto lettera morta durante il governo provvisorio, di cui pure i socialisti-rivoluzionari facevano parte. Adesso lo realizzavano i bolscevichi, pur non condividendone appieno i contenuti: esso infatti poneva l’accento più su una ripartizione egualitaria della terra che sulla necessità di creare grandi imprese agricole collettive in grado di aumentare la produttività del lavoro agricolo. Questi diversi punti di vista emersero nella discussione del Congresso dei soviet. Alle perplessità di una parte dei bolscevichi Lenin rispose così: «Si sentono qui voci le quali affermano che il mandato e il decreto stesso sono stati elaborati dai socialisti-rivoluzionari. Sia pure. [...] Come governo democratico non potremmo trascurare una decisione delle masse del popolo, anche se non fossimo d’accordo. […] Ci pronunciamo perciò contro qualsiasi emendamento di questo progetto di legge […]. La Russia è grande e le condizioni locali sono diverse. Abbiamo fiducia che i contadini sapranno risolvere meglio di noi, in senso giusto, la questione. La risolvano essi secondo il nostro programma o secondo quello dei socialisti-rivoluzionari: non è questo l’essenziale. L’essenziale è che i contadini abbiano la ferma convinzione che i grandi proprietari fondiari non esistono più nelle campagne, che i contadini risolvano essi stessi tutti i loro problemi, che essi stessi organizzino la loro vita». Ancora nel dicembre del 1917 Lenin ribadirà questo punto di vista: «Ci dicono che siamo contro la socializzazione della terra e che perciò non possiamo metterci d’accordo con i socialisti-rivoluzionari di sinistra. A questo rispondiamo: sì, noi siamo contro la socializzazione della terra come la vogliono i socialisti-rivoluzionari, ma ciò non ci impedisce una onesta alleanza con i socialisti-rivoluzionari di sinistra»: l’obiettivo fondamentale è infatti «la stretta alleanza degli operai e dei contadini». Ancora nel febbraio 1918 la Legge fondamentale sulla socializzazione della terra che sostituì il Decreto avrebbe espresso il prevalere di posizioni riconducibili ai socialisti-rivoluzionari di sinistra. 

Le conseguenze del decreto, dal punto di vista dell’entità della terra redistribuita, furono immense. Anche perché nell’attuazione pratica, demandata a livello locale, si andò oltre le stesse previsioni del mandato: di fatto, la parte del patrimonio agrario sottratta alla distribuzione fu molto inferiore a quella prevista. In media, in tutto il paese, la terra concessa in uso ai contadini passò dal 70 per cento al 96 per cento di tutta l’area coltivata, in Ucraina dal 56 per cento al 96 per cento, mentre in altre regioni arrivò quasi al 100 per cento. Passarono così ai contadini 150 milioni di ettari di terra in tutta la Russia; i contadini furono inoltre liberati da fitti nei confronti dei grandi proprietari fondiari del valore di 700 milioni di rubli all’anno e da un debito di 3 miliardi di rubli nei confronti della Banca dell’Agricoltura; il valore degli attrezzi espropriati si aggirò intorno a 300 milioni di rubli. Non meno importanti le conseguenze in termini di stratificazione sociale nelle campagne: il decreto ridusse la polarizzazione sociale, accrescendo il peso dei contadini medi.

Decisive e immediate furono infine le conseguenze politiche: con il decreto sulla terra la Rivoluzione si conquistò l’appoggio dei contadini, legittimando e incentivando un processo dal basso di esproprio delle grandi proprietà fondiarie già in corso, e accentuò la spaccatura all’interno dei socialisti-rivoluzionari tra la destra, ostile all’esperimento rivoluzionario, e la sinistra, che infatti nel mese di dicembre entrò a far parte del Consiglio dei commissari del popolo vedendosi attribuito tra l’altro proprio il Commissariato all’agricoltura. 

È interessante notare che nel 1924, in un discorso tenuto poche settimane dopo la morte di Lenin, uno dei principali dirigenti bolscevichi, Zinov’ev, individuò tra le principali innovazioni di Lenin alla teoria e prassi rivoluzionarie precisamente «il suo atteggiamento nei confronti dei contadini. Probabilmente fu questa la più grande scoperta di Vladimir Il’ič: l’unione della rivoluzione degli operai con la guerra contadina»; e ancora: «il problema del ruolo dei contadini […] è la questione di fondo del bolscevismo, del leninismo». [2] Convergente la testimonianza dello scrittore russo Maksim Gor’kij, il quale ricorda così i motivi del proprio dissidio con Lenin nell’anno della Rivoluzione, sin dalle Tesi di aprile: «pensai che sacrificasse ai contadini l’esercito sparuto ma eroico degli operai politicamente consapevoli e degli intellettuali sinceramente rivoluzionari. Quest’unica forza attiva sarebbe stata gettata, come una manciata di sale, nell’insipida palude delle campagne e si sarebbe dissolta senza mutare lo spirito, la vita, la storia del popolo russo». Per Gor’kij la politica di Lenin avrebbe insomma assecondato in misura eccessiva i contadini, non tenendo conto della necessità di «sottomettere gli istinti della campagna alla ragione organizzata della città». [3]

Con riferimento a queste prime mosse dei bolscevichi al potere, è utile riproporre il commento di Andrea Graziosi:

“Lenin si mosse con straordinaria risolutezza emanando decreti di forza impressionante, che riunivano il meglio delle tradizioni socialiste, democratiche e persino liberali. Quello sulla pace arrivò solo due ore dopo l’arresto del governo, seguito il giorno stesso da quello sulla terra. Entrambi furono approvati dal Congresso nazionale dei soviet, nella sua prima seduta, assicurando in qualche modo la legittimità del nuovo potere. Il 15 novembre un nuovo decreto proclamava l’uguaglianza e la sovranità dei popoli dell’ex impero, riconoscendone il diritto all’autodeterminazione e alla secessione. Esso fu presto seguito da altri provvedimenti che abolivano la pena di morte […] e introducevano il controllo operaio, nonché misure liberali in materia di previdenza sociale, istruzione ecc. L’impatto fu enorme, sia nel paese, dove queste misure, tanto desiderate, rafforzarono l’appoggio al governo di buona parte delle campagne, dell’esercito e delle minoranze nazionali, sia fuori di esso”. [4]

LEGGI IN FORMATO PDFhttp://www.marx21.it/documenti/giacche_lenin_introduzione.pdf

NOTE

1. G. Carpi, Russia 1917. Un anno rivoluzionario, Carocci, Roma 2017, p. 157.

2. Cit. in A. Nove, An Economic History of the Ussr 1917-1991, Penguin, London 19923, p. 29. Di «unione della “guerra dei contadini” con il movimento operaio», a proposito della Rivoluzione russa, parlò lo stesso Lenin in uno dei suoi ultimi scritti, ricordando che essa era stata ritenuta «una prospettiva possibile» anche da Marx nella Prussia del 1856 (Lenin, Opere complete, vol. XXXIII, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 438).

3. M. Gor’kij, Lenin (1931), a cura di I. Ambrogio, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 46.

4. A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, Il mulino, Bologna 2007, p. 93.



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La Rivoluzione d’Ottobre e i diritti delle donne

10 Giugno 2017

di Margarida Botelho

da “O Militante”, rivista teorica del Partito Comunista Portoghese

Traduzione di Marica Guazzora per Marx21.it

Fu l’Unione Sovietica il primo paese del mondo a mettere in pratica e a sviluppare come nessun altro i diritti  sociali fondamentali come l'uguaglianza dei diritti delle donne e degli uomini nella  famiglia nella vita e nel lavoro, i diritti e la protezione della maternità.  La Rivoluzione d’Ottobre dette un impulso straordinario al conseguimento dei diritti delle donne raggiungendo nel giro di pochi giorni i diritti che nel nostro paese abbiamo messo decenni a raggiungere, ed è servita di esempio e di incoraggiamento per la lotta delle donne in tutto il mondo. Il processo di costruzione del socialismo in URSS ha sempre mantenuto al centro delle sue preoccupazioni l'emancipazione femminile. La scomparsa dell'URSS ha portato a battute d'arresto brutali nelle condizioni di vita delle donne, non solo negli ex territori sovietici, ma a livello internazionale.

Questi fatti non sono ancora noti alla maggior parte delle donne. Fate una semplice esperimento: scrivete su  Google "diritti delle donne", e il primo testo che appare, da Wikipedia, omette qualsiasi riferimento all'URSS. E neppure al  fatto assolutamente indiscutibile che questa  è stata la prima società al mondo in cui tutti,  uomini o donne, analfabeti o laureati di qualsiasi nazionalità o condizione sociale, hanno ottenuto gli stessi diritti.

E ' partendo da questa realtà che questo articolo cerca di  contribuire a fornire  gli  elementi e gli strumenti necessari per la battaglia ideologica scatenata intorno al centenario della Rivoluzione d'Ottobre.

Il contesto

La realtà russa nell'ottobre del 1917 era molto complessa. Da un lato, l'arretratezza secolare del paese, l'incubo della guerra, le enormi disparità sul piano economico, sociale e culturale delle varie repubbliche che costituirono  l'Unione Sovietica. In alcune regioni c’erano rapporti semi-feudali, e il ruolo delle donne era di subordinazione, in particolare nelle regioni dell'Asia centrale, dove le donne facevano parte del "patrimonio" del marito.

D'altro lato, i diritti delle donne e dei bambini erano fin dall'inizio parte integrante  del programma della  rivoluzionari russa. (...) Nel progetto del Programma del Partito Operaio Socialdemocratico della Russia, scritto da Lenin, già erano contenute rivendicazioni quali, ad esempio, il suffragio universale, uguale diritto al lavoro, l'istruzione universale e gratuita. Nel marzo del 1917, dopo la rivoluzione di febbraio,  si tenne a Pietrogrado, il Primo Congresso delle Donne Lavoratrici  dove fu approvato un programma con i diritti e le misure relativi alla tutela della maternità e dell'infanzia, che hanno costituito la base del sistema sovietico in queste aree di intervento .2)

Le prime decisioni

L'esistenza di questo programma aiuta a capire come sia stato possibile avanzare così tanto e così rapidamente. "Il primo stato socialista del mondo, fin dai  primi giorni di esistenza, abolì tutte le leggi che discriminavano le donne nella famiglia e nella società. Nel 1919, dopo soli due anni, Lenin richiamò  l'attenzione che in questo breve periodo di tempo "il potere sovietico, in  uno dei paesi più arretrati d'Europa, ha fatto di più per la liberazione della donna e l'uguaglianza con il sesso" forte " di ciò che è stato fatto in 130 anni sommando tutte le repubbliche progressiste, istruite e “democratiche” nel mondo". 3)

In data 8 novembre 1917, il decreto della Pace e della Terra stabilì che l'uso della terra era concesso a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso.

In data 11 novembre, fu approvato il decreto che sancì otto ore di lavoro giornaliero, con pause per la refezione, un giorno fisso di riposo settimanale, il diritto alle ferie retribuite e il divieto di lavoro al di sotto dei 14 anni. Lo stesso giorno, fu anche approvato il decreto della Sicurezza Sociale, che forniva la protezione per le malattie,  per   la vecchiaia, il parto, la vedovanza, ecc.  Due giorni dopo, la prima ministro donna al mondo assunse la carica di Commissario del Popolo per la Sicurezza Sociale. Il suo nome era Alexandra Kollontai e qualche tempo dopo sarebbe diventata anche la prima ambasciatrice donna del mondo (nel 1922, in Svezia).

Il 31 dicembre fu approvato il decreto che introdusse il matrimonio civile - che divenne l’unico  riconosciuto dalla legge -  si legalizzò  il divorzio e si concluse la distinzione tra figli legittimi e illegittimi.

Nel mese di dicembre 1918, fu pubblicato il Codice del Lavoro. Abolì diverse discriminazioni(fine della restrizione alle professioni basate sul sesso, vietato il licenziamento delle donne in gravidanza e  stabilì, tra l’altro,  la parità di retribuzione a parità di lavoro) e fornì le condizioni di sostegno alle famiglie che volevano incoraggiare le donne a lavorare ed intervenire socialmente. (ostetriche, infermiere ecc.).

Le donne lavoratrici

Con la rivoluzione fu promossa  l'idea che l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro è  un elemento chiave per la loro emancipazione. In URSS il numero delle  donne lavoratrici è aumentato  nel corso degli anni. Nel 1975, le donne erano il 51% dei lavoratori, tre volte e mezzo in più rispetto al 1940. 4)

La specificità del lavoro delle donne fu protetto, prevedendo un'età di pensionamento anticipato rispetto agli uomini (55 per le donne, 60 per gli uomini), e anche  la riforma di alcuni settori (50 per le donne del settore industria , 45 a radiologia, ospedalieri  e alcune professioni del teatro) .5)

Prima della Rivoluzione d'Ottobre, il tasso di analfabetismo femminile era l’83%. Il salto fu enorme: nel 1986, le donne erano il 59% delle persone con   istruzione superiore e secondaria specializzata, circa il 50% degli ingegneri industriali e del settore agricolo, il 30% dei giudici, tre medici su quattro .6)

Sostegno alla maternità e all’infanzia

Quattro mesi di gravidanza e congedo di maternità, con stipendio pieno, con la possibilità di soggiornare fino a un anno a casa con il bambino con il lavoro salvaguardato, lavoro più leggero al termine della gravidanza, furono diritti  conquistati fin dal  1918.

Il benessere delle donne meritava costante ricerca. La contraccezione era gratuita. Il cosiddetto "parto indolore" - il metodo psico-profilattico – nacque in URSS, essendo stato introdotto nel mondo accademico sovietico nel 1949 da un gruppo di ostetrici e psichiatri. Fu divulgato nel resto del mondo a partire dal 1952, dopo che il famoso francese Lamaze fece uno stage in URSS e tornò a Parigi.

L'allattamento al seno fu accuratamente protetto. il Codice del Lavoro del 1918 prevedeva che durante il primo anno di vita del bambino, e per tutto il periodo dell’allattamento, la mamma avesse diritto a 30 minuti di tempo ogni tre ore per nutrire il piccolo.

Almeno dagli anni ’50 esistevano banche del latte materno in tutto il paese che garantivano alle donne che per qualsiasi ragione non potevano allattare i figli, il cibo più completo che i bimbi possano avere. Il carattere innovativo di questa misura è ben significativo se ricordiamo che la prima banca del latte umano in Portogallo è nata in via sperimentale nel 2009 e ha ancora una portata molto limitata.

Lo Stato sovietico sviluppò una rete di infrastrutture di supporto e protezione dei bambini, in particolare asili nido e giardini d’infanzia con orari adatti sia al lavoro in turni  che  al lavoro di carattere stagionale. Queste strutture esistevano sia nelle università che nella maggior parte delle aziende. Ma esistevano anche colonie estive, villaggi turistici infantili, case dei pionieri, ecc.

Una esperienza brillante: la legalizzazione dell’aborto in Urss 7)

Nel 1920 di fronte alla disastrose conseguenze dell’aborto clandestino (la metà delle donne soffriva di infezioni successive e ne moriva il 4%,  nonostante fin dal 1918 fosse introdotto un congedo di tre settimane con salario intero in caso di aborto spontaneo o indotto) il governo sovietico legalizzò l’aborto in ospedale pubblicando un decreto per “proteggere la salute delle donne e che il metodo repressivo in questo  campo non raggiunge questo obiettivo”. I risultati furono positivi e non ci furono morti o infezioni a seguito di aborti effettuati nei servizi pubblici, e a partire dal 1925 una diminuzione di mortalità infantile e un aumento del tasso di natalità.

Nel 1937 questa normativa cambiò radicalmente. Il Consiglio dei Commissari del CEC del Popolo dell ‘URSS dopo un’ampia discussione popolare del progetto di legge, durata quasi un anno, decise di proibire la pratica dell’aborto tranne che per quello terapeutico stabilendo una “critica sociale” alle donne che lo praticassero infrangendo la legge, anche con la prigione,  poiché la stessa legge  presupponeva che le mutate condizioni economiche e sociali potessero essere considerate come il culmine di tutta la lunga e tenace lotta contro l’aborto condotta fin dal 1920.

Partecipazione politica

Nel 1974 il 31% dei componenti del Soviet Supremo era costituito da donne, il 36% nei Soviet Supremi delle Repubbliche Federate e Autonome e il 47% nei Soviet locali.  8)

A dimostrazione che esiste una rapporto intimo tra ideologia e partecipazione e che i diritti non sono garantiti per sempre occorre registrare il fatto che nelle prime elezioni chiamate “libere”  dopo la sconfitta del socialismo nei paesi dell’ex URSS la presenza delle donne elette nei parlamenti nazionali fu compresa tra il 3,5 e il 20%. 9)

Le faccende domestiche

"Non soddisfatto dall’eguaglianza formale delle donne, il Partito lotta per liberare le donne da ogni responsabilità  domestica obsoleta, sostituendola con case comunali, mense pubbliche, lavanderie pubbliche, asili nido, ecc" - si legge nel programma politico del Partito Comunista Russo (bolscevico),  approvato nel suo 8 ° Congresso nel 1918.   10)

Non  si dispone di dati sistematici sul grado di raggiungimento di questi obiettivi, ma è noto che ci furono diverse agevolazioni a prezzi molto bassi in mense, lavanderie, laboratori, etc.

Nonostante i progressi, nel 1975  in un'edizione speciale della rivista "La vita sovietica, dedicata all'anno internazionale della donna” , fu presentato uno studio sociologico che dichiarava che" intervistato circa il 60% delle  lavoratrici  di diverse città, queste risposero  che facevano  i lavori di casa, senza l'aiuto dei loro mariti. " 11)

Nella Conferenza del Partito Comunista Portoghese su 'Emancipazione delle donne in Portogallo di Aprile', il testo finale considerava  a questo proposito che "non scompaiono improvvisamente i pregiudizi sulle donne, e la loro emancipazione  non si verifica automaticamente con i nuovi rapporti di produzione." 12)

Le donne e la guerra

La  drammatica dimensione della perdita di vite umane durante la Seconda guerra mondiale, che ha ucciso 20 milioni di sovietici, naturalmente ebbe conseguenze nella composizione demografica della società. Durante la guerra le donne presero i posti resi vacanti dagli uomini che andarono ai fronti di battaglia, e dopo la guerra il loro lavoro continuò ad essere essenziale per la produzione e lo sviluppo economico.

Ma le donne sovietiche parteciparono anche in prima persona alla guerra. Il servizio militare fu aperto alle donne nel 1939. Si stima che più di 800.000  donne parteciparono  direttamente ad azioni di battaglia e di guerriglia, e furono la metà dei medici distaccati al fronte. Sono famosi i reggimenti aerei  con esclusivamente tiratori di sesso femminile, in particolare, il 46esimo Reggimento  di bombardamento in picchiata, che cominciò ad operare nel 1941, e per  la cui efficacia guadagnò da parte dell'esercito nazista, l'epiteto di "Streghe della notte". Va notato a questo proposito che la prima volta che la Forza Aerea portoghese ha accettato una donna nel corso di aviatore pilota è stato nel 1988 e la prima donna pilota sui caccia americani  si è laureata nel 1994.

★★★

Pubblicizzare le conquiste delle donne nel contesto della Rivoluzione d'Ottobre non ha solo interesse storico. Conoscere i diritti ottenuti e la lotta condotta per confermare e approfondire, valutare gli aspetti chiave di questi successi, come ad esempio la preparazione delle forze di classe e la questione dello Stato, imparare dalle esperienze e dai limiti che si sono verificati, riflettere su per  quanto tempo certe mentalità si perpetuano nelle società, sono tutti elementi che dobbiamo prendere in considerazione e continuare ad approfondire. Perché anche per quanto riguarda l'emancipazione femminile, il socialismo è davvero una esigenza del presente e del futuro.

Note

(1) Risoluzione del Comitato Centrale del PCP  "Centenario della Rivoluzione d'Ottobre - il socialismo, la domanda di oggi e di domani", del  17 e 18 settembre 2016.
(2) Manuela Pires, "La rivoluzione  e i diritti delle donne  in 'Vertex', 137 / novembre-dicembre 2007, p. 54.
(3) "Emancipazione delle Donne in Portogallo di Aprile" - Conferenza del PCP 15 novembre 1986, pag. 12.
(4) "Donne: diritti pari all'uomo," intervista con Lydia Líkova, in "La vita sovietica", anno 1, n ° 6/7 - Ottobre / Novembre 1975, pp. 10-11.
(5) Idem.
(6) Álvaro Cunhal, intervento di chiusura in  "Emancipazione delle donne in Portogallo di Aprile" - Conferenza PCP, pag. 67.
(7) Titolo del  capitolo dedicato alla realtà in URSS nel "L'aborto - cause e soluzioni», Álvaro Cunhal, pp. 87-93. Tutte le informazioni e citazioni su questo punto sono di  questa fonte.
(8) La donna in Unione Sovietica: Alcuni dati, in "La vita sovietica", anno 1, n ° 1, maggio 1975, pag. 21.
(9) Conceição Morais nel Forum PCP sulla "Situazione delle donne alle soglie del XXI secolo", 23 gennaio, 1999, p. 94.
(10) Manuela Pires articolo citato.
(11) "Orizzonti famigliari," articolo di Anatoly Khártchev, in "La vita sovietica", anno 1, n ° 6/7 - Ottobre / Novembre 1975, pp. 22-23.
(12) "Emancipazione delle Donne in Portogallo di Aprile" -  Conferenza del PCP, pag. 13.
(13) Manuela Pires articolo citato , p. 66.

I soviet delle donne

"La nuova morale sovietica si affermò  a fatica nella vita, nella coscienza delle persone. In queste condizioni, i Soviet delle donne costituirono un potente e al tempo stesso penetrante  strumento, con l'aiuto del quale è stato possibile eliminare i costumi secolari in un tempo relativamente breve (10-15 anni circa).”

Uno degli abitanti di Ianguiiul (città Uzbekistan), contemporaneo di questi eventi, ci disse  che le  prime attiviste dei Soviet furono donne russe espressamente inviate dal Partito Comunista, per aiutare i loro compagni uzbeki, tagiki, kirghizi, turkmeni. Dirigevano i gruppi di alfabetizzazione, indirizzavano le donne  all'attività sociale, alla partecipare alla produzione, e svilupparono una grande attività per far  acquisire agli uomini  la consapevolezza della necessità di porre fine ai vecchi metodi,  per far loro  capire che le  donne dovevano avere gli stessi diritti degli uomini.

 "Nel nostro paese (...) le donne organizzarono dei corsi di cassiera. Quando iniziarono a lavorare nei negozi, molte persone si riunirono a vedere perché non credevano che le donne  potessero essere in grado di misurare e pesare con precisione una merce o di contare i soldi. Attualmente ci sono nelle nostre città centinaia di medici, insegnanti, ingegneri."

(Estratto da Tatiana Sinitsina storia, "La vita sovietica", anno 1, n ° 6/7 -. Ottobre / novembre 1975. 26 p).






Decodex : Michel Collon expose les médiamensonges du Monde

Source: Investig’Action
23 Jun 2017 – MICHEL COLLON / ERIC PAUPORTÉ

« N’écoutez pas Michel Collon ! Ne lisez pas Investig’Action ! » Lancé par Le Monde, le DECODEX prétend vous dire ce que vous devez lire et ce que vous devez boycotter !

Petit problème : pour donner un carton rouge à Michel Collon, Le Monde se base sur deux médiamensonges gros comme des camions ! Michel Collon le démontre ici et lance un défi à ces « journalistes » : oserez-vous débattre ?

Investig’Action dépose plainte contre Le Monde : défendez le droit à une info indépendante en finançant le procès, merci !



Decodex : Michel Collon expose les médiamensonges du Monde (Investig'Action - Michel Collon, 23 giu 2017)
Investig’Action dépose plainte contre Le Monde : défendez le droit à une info indépendante en finançant le procès, merci !

DONATION PONCTUELLE 
SOUTENEZ NOTRE PROCÈS CONTRE LES ATTAQUES DU MONDE ! 
Sur base de calomnies, Le Monde prétend empêcher les internautes de lire Michel Collon et Investig'Action. Nous avons déposé plainte. Défendez le droit à une info indépendante en finançant le procès, merci!




AMPIO SOSTEGNO DALL'ITALIA AL TERRORISMO IN VENEZUELA


Venezuela: quando per i media il terrorista è un "eroe"
(di Francesco Santoianni,  29 giu 2017)

VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=58Zw2aWq1og




[Ripetiamo l'invio di questo post poiché la versione precedente risultava in parte illeggibile a causa di un problema tecnico. Ce ne scusiamo con gli iscritti a JUGOINFO]

Rom e pogrom

1) Pogrom in Kosmet
– Sono nata in Kosovo e sono rom...

2) Pogrom a Roma
– “I media smettano di parlare di clan o faide tra rom”. Parla lo zio delle bambine uccise (di Graziano Halilovic)
– L’orrenda strage di Centocelle: finalmente la sinistra si mobilita (di Annamaria Rivera)
– Cambiare subito le politiche rivolte a Rom, Sinti e Caminanti. Appello per commissione d’inchiesta
– Rogo di Centocelle. La pista rom si arena sull’alibi. Le altre dove sono?

3) Torino. A un passo dal pogrom


=== 1: Pogrom in Kosmet ===

da FuoriBinario (Firenze) n.190, Maggio 2017, p.15

Sono nata in Kosovo e sono rom...

Sono nata in Kosovo e sono rom, ho frequentato la scuola per alcuni anni, poi ho conosciuto un giovane e mi sono sposata, avevo 15 anni. Sono nata in una famiglia cristiano-ortodossa, poi mi sono avvicinata alla religione musulmana che è la religione di mio marito. Tito, il presidente jugoslavo, è morto nel 1980, quando c'era Tito la vita per i rom in Jugoslavia era buona, c'erano giornali, radio e televisioni in lingua rom, si trovava lavoro, avevamo le case e frequentavamo le scuole. Dal 1982 la situazione generale è iniziata a peggiorare, io lavoravo all'ospedale, facevo le pulizie, aiutavo in cucina, ma mio marito aveva difficoltà a trovare lavoro, così ha deciso di partire per l'Italia per cercare lavoro ed è arrivato a Firenze, era il 1988, ogni tre o quattro mesi mio marito tornava a trovarci, abbiamo avuto quattro figli, un ragazzo e tre ragazze, io vivevo con i miei figli e con la madre ed un fratello di mio marito. Era un grande sacrificio stare per lungo tempo senza mio marito, ma i soldi che guadagnava in Italia servivano per la nostra famiglia in Kosovo, io continuavo a lavorare all'ospedale e in questi anni siamo riusciti a costruire una nuova grande casa ed è venuto a stare con noi anche un altro fratello di mio marito con la sua famiglia.
A marzo del 1999, una sera hanno fatto un appello al telegiornale delle 20: "Preparate un po' di bagagli, qualcosa per mangiare e cercate di nascondervi, se avete la possibilità di usare una cantina o salite in montagna." Noi siamo andati tutti da un nostro parente che aveva una grande cantina ed eravamo circa 70 persone. Sono iniziati i terribili bombardamenti (24 marzo 1999), quando suonava l'allarme noi si correva in questa cantina sotto la casa, i bambini piangevano a sentire questi grandi scoppi. Eravamo spesso senza luce e con il passare dei giorni era sempre più difficile trovare da mangiare. Poi gli albanesi dell'UCK sono venuti a casa col viso coperto e con le armi, hanno portato via tutto quello che poteva avere un valore e poi ci hanno costretto a scappare minacciando che avrebbero ucciso i bambini. Siamo riusciti a trovare dei posti su un autobus e ci siamo rifugiati in una cittadina serba, abbiamo trovato una casa in affitto. Ma dopo poco dovevo tornare a lavorare in ospedale così sono ritornata con i miei figli nella nostra casa a Pristina in Kosovo. Il 10 giugno del 1999, dopo 78 giorni, i bombardamenti si sono fermati e si pensava finalmente di avere un po' di pace, invece sono venuti di nuovo quelli dell'UCK, erano persone che conoscevamo bene, abitavano vicino a noi, prima si può dire che eravamo come amici, sono arrivati armati, hanno picchiato mia suocera, anche io sono stata ferita, volevano uccidere mio figlio ed hanno anche dato fuoco alla nostra casa così siamo stati costretti a scappare di nuovo, in quei giorni tante famiglie rom, serbe, ecc sono dovute scappare ed hanno perso le loro case.
Siamo scappati a Belgrado, abbiamo vissuto in una palestra, eravamo tante famiglie rom. Volevamo raggiungere l'Italia, ma ci volevano molti soldi, verso metà agosto si pensava di prendere un traghetto, ma proprio in quei giorni un traghetto carico di rom del Kosovo affondò vicino alle coste del Montenegro e morirono 115 persone, si salvò solo un giovane. Così noi si decise di aspettare ancora e cercare di trovare i soldi (migliaia di euro) per poter arrivare in Italia via terra. Finalmente nel mese di ottobre del 2001 siamo riusciti ad arrivare a Firenze.


(testimonianza raccolta da Paola Cecchi)


=== 2: Pogrom a Roma ===

Sulla strage di Centocelle si vedano anche:

Roma. Centocelle reagisce al rogo omicida (di Redazione Contropiano, 11 maggio 2017)
Ieri pomeriggio decine di persone si sono recate al parcheggio del centro commerciale Primavera dove è stato bruciato il camper e sono state uccise una ragazza e due bambine di una famiglia rom. Poco dopo un corteo si è composto su viale della Primavera aperto dallo striscione "Centocelle antirazzista". Per sabato prossimo alle 16.00 è stato convocato un corteo nel quartiere. 

Rogo di Centocelle. Tragedie Rom e dell’informazione (di Alberto Tarozzi, 3 giugno 2017)
... a Torino, sette anni fa, i rom musulmani chiedono l’apartheid nei pulmini che portano i bambini a scuola, per non mescolarsi ai rom ortodossi. In effetti, su quel pulmino, erano risse quotidiane. Poi a Roma, quel che nessuno ricorda, nel 2013, a Castel Romano, rom serbi di una piccola comunità che scappano per sfuggire alle aggressioni continue dei rom bosniaco musulmani, che sono la grande maggioranza...

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Roma. “I media smettano di parlare di clan o faide tra rom”. Parla lo zio delle bambine uccise


di Redazione Roma, 12 maggio 2017

Graziano Halilovic, lo zio delle bambine rom bruciate vive nel rogo del camper in cui dormivano a Centocelle, ha diffuso pubblicamente un comunicato che riproduciamo qui di seguito integralmente e consigliamo di leggere con grande attenzione:


Sono Graziano Halilovic, cugino di Romano Halilovic e zio di Francesca, Angelica ed Elisabeth,
Qualcuno, un mostro, ha bruciato vive tre bambine nel sonno, con una bottiglia incendiaria che ha trasformato in un rogo il camper di Romano, l’altra notte, a Centocelle, in un parcheggio pubblico, dove stazionavano senza disturbare nessuno.
Non sappiamo chi sia stato potrebbe essere stato chiunque: un rom, un gagiò, un giornalista per fare notizia, un razzista per odio, un italiano o uno straniero….
Un mostro, di certo, che ha commesso un crimine orribile, imperdonabile e disumano, che ha visto dei genitori assistere inermi alla morte dei figli bruciati dal fuoco.
Il punto è che non sappiamo chi sia stato e non possiamo usare la fragilità e il dolore del momento per individuare un colpevole prima che le indagini facciano il loro corso.
Confido che le forze dell’ordine svolgano le indagini senza farsi influenzare da pregiudizi razziali e riescano a dare un nome e un volto al colpevole.
Ma fino ad allora chiedo agli attivisti rom e non rom, alla società civile, a tutte le organizzazioni e ong dei diritti umani, ai politici italiani ed europei di intervenire sui media affinché nel rispetto del dolore della famiglia e nel rispetto delle vittime e della comunità rom, vengano diffidati ad utilizzare termini diffamatori, parlando di “clan” e di “faide tra rom”, associando così la comunità rom ancora una volta a termini che richiamano la criminalità organizzata, finché le indagini di chi ne ha la competenza non porteranno alla luce la verità.
Non sappiamo al momento se il colpevole sia un rom, un italiano, uno straniero, un giornalista o di quale ideologia politica sia. Fare delle illazioni a riguardo, cercando di coinvolgere un’intera comunità, è un gioco inutile e irrispettoso nei confronti dei rom che colpisce la famiglia delle vittime due volte: prima nella irrimediabile perdita e poi nella continua discriminazione.
Voglio ringraziare Papa Francesco, il Presidente della Repubblica Mattarella, il Pontificio Romano e il Vescovo Don Paolo LoJudice, la Comunità di Sant’Egidio, i cittadini di Centocelle e tutti coloro, politici e cittadini italiani, che hanno espresso solidarietà alla famiglia di Romano in questo momento di insuperabile dolore.
Questo è il momento della preghiera e del silenzio, e non della strumentalizzazione per fini diversi di quanto è accaduto: dobbiamo stare vicini a Romano, a Mela e ai loro figli superstiti, e rispettare il loro lutto.
Grazie

Graziano Halilovic


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L’orrenda strage di Centocelle: finalmente la sinistra si mobilita


di Annamaria Rivera*

Chiunque sia l’assassino che nella notte fra il 9 e il 10 maggio scorsi ha ridotto in cenere i poveri corpi di Francesca, Angelica ed Elisabeth, è indubbio che quest’atto atroce sia stato favorito dalla marginalità, dalla stigmatizzazione, dalla condizione di povertà estrema inflitte a una parte della diaspora rom: tali da costringere una famiglia di tredici persone a stiparsi in un camper parcheggiato in un’area della borgata romana di Centocelle.  

Non potrebbe essere più surreale il contrasto fra una tale condizione miserabile e il luogo in cui si è consumato il rogo delittuoso: il parcheggio di un grande centro commerciale, freddo e anonimo anche nella struttura, concepita come una sorta di tempio del consumismo. Eppure, allorché, dopo un lungo percorso, vi è approdato il folto corteo del 13 maggio scorso – che rivendicava verità e giustizia per le tre sventurate sorelle di quattro, otto e venti anni –  gli slogan e gli interventi al microfono si sono spenti d’un tratto, soverchiati da una commozione corale intensa e palpabile. 

In realtà, l’intero corteo si è caratterizzato non solo per radicalità e chiarezza politiche, ma anche per empatia e autentica indignazione. A conferirgli questo tono ha contribuito la presenza di una molteplicità di soggetti: dalle femministe di “Non una di meno” alla locale sezione dell’Anpi, dai partiti della sinistra ai centri sociali, dai rappresentanti di alcune associazioni rom al movimento per il diritto all’abitare, fino agli insegnanti e ai genitori dell’Istituto di via  Ferraironi, che comprende scuole primarie decisamente all’avanguardia quali la “Iqbal Masiq” e la “Romolo Balzani”. Il giorno prima ben settecento bambini, accompagnati dalle/dagli insegnanti, avevano raggiunto il luogo della strage a recare fiori e disegni. 

Nonostante il processo di gentrificazione, Centocelle conserva tracce di memoria e retaggi concreti della sua storia di borgata “rossa”: ricordo che, insieme al Quarticciolo e al Quadraro, la borgata fu focolaio decisivo della Resistenza romana – cosa pagata con deportazioni e fucilazioni– e, più tardi, fu anche nodo importante dei movimenti degli anni ’70. Di una tale storia è erede la rete di presidî democratici e antirazzisti presente nel quartiere. E’ anzitutto questa – mi sembra – ad aver permesso la riuscita del corteo e ad aver sventato il rischio che prevalesse, anche in un caso così tragico, l’ormai consueto sussulto di razzismo popolare: in realtà, spesso aizzato e organizzato da qualche Casa Pound o Forza Nuova, nondimeno fatto passare per “guerra tra poveri”. 

D’altra parte, nel corso degli anni recenti, la sinistra, anche quella detta alternativa, non si era certo contraddistinta per attivismo in favore dei diritti dei rom, se non in qualche occasione e soprattutto per merito dell’associazionismo antirazzista. Né valse a mobilitarla la morte atroce di quattro bambini nel 2011: anch’essi morti carbonizzati da un incendio, quella volta scoppiato nel campo-rom di Tor Fiscale, sull’Appia Nuova.  

Per dire di quali pregiudizi alberghino anche nelle nostre file, basta un piccolo esempio: tre giorni dopo l’orrendo attentato di Centocelle, su una testata online d’estrema sinistra qualcuno – evitando il più piccolo cenno alla strage – scriveva dei rom come di “un’etnia i cui usi e costumi non consentono l’integrazione nel tessuto civile”.  

A mia memoria, la mobilitazione di sinistra più ampia ed efficace risale al 2008. Allorché il ministro dell’interno Maroni predispose la schedatura di massa dei rom, con prelievo forzoso delle impronte digitali anche ai bambini: un provvedimento simile alle schedature razziste dei regimi nazifascisti, finalizzate a costruire archivi per l’individuazione, segregazione, concentramento, deportazione delle minoranze. Fu per merito di tale mobilitazione, oltre che per le condanne anche da parte d’istituzioni internazionali, che Maroni e il sindaco Alemanno furono costretti a fare qualche passo indietro.

Al di là di questa piccola vittoria, nulla è cambiato, a Roma e altrove, nella condizione dei rom in emergenza abitativa. Ricordo che, se in Italia la popolazione di rom e sinti conta al massimo 180mila persone – delle quali almeno 70mila sono di cittadinanza italiana – appena 28mila sono quelle che vivono in baraccopoli istituzionali o in insediamenti informali: cifra che corrisponde a uno scarso 0,05% della popolazione italiana. 

Sebbene così esiguo sia il numero dei casi che occorrerebbe risolvere con politiche abitative adeguate, si perpetuano la logica del famigerato Piano nomadi, la politica degli sgomberi forzati – talvolta violenti – dei campi “abusivi”, l’esclusione dall’edilizia residenziale pubblica, la repressione di attività informali, uniche possibili fonti di reddito. In realtà, i campi rappresentano il dispositivo con cui si compie, in modo estremo ed esemplare, il processo di allontanamento spaziale e simbolico dalla società e dalla civitas di persone reputate ed etichettate come altre, dunque indesiderabili per eccellenza. 

Per non dire che tuttora insoddisfatte restano le rivendicazioni contenute in una proposta di legge, a sua volta modellata su una d’iniziativa popolare: il riconoscimento quale minoranza storico-linguistica, in rispetto degli articoli 3 e 6 della Costituzione; l’incentivo e la tutela delle associazioni costituite da rom e sinti; il diritto di vivere dignitosamente e secondo il modo liberamente scelto, che sia la sedentarietà o l’itineranza. 

Su un numero così esiguo di persone si addensa il massimo non solo di stigmatizzazione, ma anche di valenza simbolica. Quest’ultima vale anche in un altro senso: la legge del 18 aprile 2017, n. 48, in materia di sicurezza urbana, con cui s’intende sorvegliare, criminalizzare e punire la marginalità, la povertà, ma anche la non-conformità sociale, colpirà, sì, in primo luogo i rom, ma pure chiunque si sottragga alla “norma” sociale. Non foss’altro che per questo, tutti/e noi dovremmo sentircene coinvolti/e.  


Versione ampliata dell’articolo pubblicato dal manifesto il 17 maggio 2017

(18 maggio 2017)

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Cambiare subito le politiche rivolte a Rom, Sinti e Caminanti. Appello per commissione d’inchiesta

Pubblicato il 19 mag 2017

Gentile Presidente della Camera dei deputati dott. Laura Boldrini,
alla luce dell’ennesima, orribile tragedia di cui sono rimaste vittime tre ragazze rom nella Capitale, i cui contorni si fanno purtroppo sempre più nebulosi, ci rivolgiamo a lei per chiedere alle istituzioni un drastico e fattivo cambiamento nelle politiche rivolte alla minoranza rom, sinti e caminanti.
 Gli esiti delle azioni intraprese, in primis a Roma, negli ultimi trent’anni con la creazione dei campi nomadi e le trame sorte intorno ad essi sono drammaticamente esemplificati non soltanto dalle verità emerse con la “Operazione Mondo di Mezzo” ma, a nostro avviso, anche dalla strage appena avvenuta.
 Il 25 luglio dello scorso anno l’on. Giovanna Martelli ha presentato in qualità di prima firmataria la proposta di istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare sull’allestimento, la gestione e la manutenzione dei campi nomadi nel territorio di Roma Capitale.
 Il testo, che riprende la denuncia sporta da Marco Pannella nei confronti del Comune per discriminazione razziale verso i Rom e i Sinti, sottolinea la necessità della massima attenzione da parte del Parlamento sul legame tra criminalità organizzata e violazioni dei diritti umani fondamentali. All’origine della inchiesta della Procura che ha messo in risalto questo preoccupante legame, un “sistema-campi” che a tutt’oggi è ancora in piedi, con l’odioso carico di segregazione e speculazione che porta con sé. 

 

Ora, non si può trascurare il fatto che la corruzione connessa all’esclusione sociale, col tempo, non può che sollecitare le peggiori pulsioni: un rischio che non si scongiurerà né col populismo né con la demagogia, che possono unicamente, semmai, affrettarne l’esplosione. Riteniamo inoltre che lo scandalo noto come “Mafia Capitale” sia, purtroppo, un pezzo di storia del nostro paese di cui non è sufficiente vergognarsi, che non può essere cancellato con la retorica o con la speranza in un cambiamento possibile.
 Al contrario, abbiamo l’obbligo di far emergere la verità su questo pezzo di storia, calendarizzando la proposta d’inchiesta parlamentare affinché le istituzioni stesse siano investite di questo compito.
 Un passo che, a nostro avviso, il Parlamento deve non solo ai cittadini rom né unicamente ai romani, ma a tutti gli italiani che hanno il diritto di conoscere tanto le responsabilità quanto i meccanismi che hanno reso possibile “Mafia Capitale”. Senza questo passo, è inutile parlare di superamento dei campi, che resteranno dove sono fino a quando le istituzioni non vorranno assumersi le proprie responsabilità.
 Per questo ci rivolgiamo a lei e le chiediamo di calendarizzare la proposta dell’on. Martelli, confidando nella sua sensibilità e volontà di opporsi al razzismo, alla speculazione e alla corruzione. Se la Camera si esprimerà sulla necessità di un’inchiesta romperà un silenzio assordante anzitutto su un fatto inaccettabile: i contribuenti hanno pagato per mantenere un sistema di segregazione razziale, rendendosi complici di una serie di reati.
 E su questo le istituzioni devono, pena una irrimediabile perdita di credibilità, indagare e cercare di fornire risposte.

 

Maurizio Acerbosegretario nazionale di Rifondazione Comunista
Samir Alijaattivista e mediatore culturale
Carmine Amorosoregista e scrittore
Laura Arcontipresidente di Amnistia Giustizia e Libertà
Nedzat Beganajmembro di Alleanza Romani e Nazione Rom
Federica Benguardatotesoriera di Amnistia Giustizia e Libertà
Marco Brazzoduropresidente di Cittadinanza e Minoranze
Gianni Carbottico-autore di “Dragan aveva ragione”
Francesca Daneseex assessora alle politiche sociali di Roma Capitale
Vincenzo Di Nannasegretario di Amnistia Giustizia e Libertà
Saska Jovanovic Fetahicoordinatrice Romni Onlus, presidente RoWNI 
Camillo Maffiaco-autore di “Dragan aveva ragione”
Moni Ovadiaattore e scrittore
Dijana Pavlovicattrice e attivista
Giuseppe Rippadirettore di Agenzia Radicale e Quaderni Radicali
Marcello Zuinisilegale rappresentante dell’Associazione Nazione Rom

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http://contropiano.org/altro/2017/06/14/rogo-centocelle-la-pista-rom-si-arena-sullalibi-le-092894

Rogo di Centocelle. La pista rom si arena sull’alibi. Le altre dove sono?

di F.R., 14 giugno 2017

Seif Seferovic è il giovane rom accusato del rogo del camper di Centocelle in cui morirono bruciate vive tre sorelle, di cui due bambine. Quasi subito si parlò di lui come l’autore dell’orribile omicidio. Lo stesso Seferovic lo apprese leggendo il giornale, ragione per cui si affrettò a chiedere informazioni in Procura tramite il suo avvocato Gianluca Nicolini rendendosi disponibile ad essere interrogato. Dalla sua aveva un alibi a prova di bomba: la notte del rogo di Centocelle stava dormendo in un autogrill lungo l’autostrada Roma-Civitavecchia ed era stato identificato proprio dalla polizia che poi lo aveva pure fermato. 

Per precauzione si era allontanato dal campo rom di Salviati dove viveva, (zona Tor Sapienza, periferia Est di Roma). L’idea molto probabilmente era quella di rifugiarsi all’estero. Poi però si fece trovare a Torino, dove aveva dato appuntamento alla sua compagna che però era stata pedinata dalla polizia, la quale ha arrestato Seferovic con l’accusa del rogo omicida di Centocelle.
Gli investigatori della Capitale restano convinti che sia stato Seferovic a lanciare la molotov omicida la notte del 10 maggio. 

Seferovic però si professa innocente e deve rispondere di omicidio plurimo, tentato omicidio (nel camper quella notte c’erano tutti e 13 i componenti della famiglia Halilovic), detenzione, porto e utilizzo d’arma da guerra e incendio doloso. Il 6 giugno c’è stato il primo accertamento tecnico irripetibile sulle impronte lasciate sui frammenti della bottiglia.  Seferovic è stato scarcerato e non ha dovuto partecipare di persona all’accertamento. Al momento è rimasto a Torino e, secondo il suo legale, è perfettamente reperibile.

Il provvedimento con cui il Gip di Torino ha convalidato il fermo di Seferovic ma non ha disposto alcuna misura cautelare potrebbe essere impugnato dalla Procura di Roma. I magistrati romani stanno infatti valutando l’ordinanza emessa dalla Procura torinese e non è escluso che possano impugnare il provvedimento davanti al Tribunale del riesame. Ma a otto giorni dall’accertamento tecnico ancora non se ne sa nulla.

Forse è venuto il momento di riporre la stessa domanda che ponemmo il giorno stesso del rogo omicida di Centocelle.

a) Gli investigatori sulla base delle dichiarazioni del padre delle bambine uccise indicarono subito la pista della “faida tra rom”, anzi la indicarono come l’unica pista investigativa. Alla luce di quanto emerso successivamente – incluso l’alibi di ferro di Seferovic rappresentato dai funzionari di polizia che lo hanno identificato e fermato in un luogo distante dal rogo di Centocelle – questa pista può essere ancora considerata l’unica da percorrere oppure si può cominciare a guardare alle indagini con una visione più ampia e non a senso unico?


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Torino. A un passo dal pogrom

di Patrizia Buffa, 9 giugno 2017

Porrajmos, il grande divoramento, lo sterminio degli zingari: una parola che non dovremmo mai dimenticare, ma che non abbiamo mai voluto ricordare.

Al grido di “vi uccidiamo”, “siete animali”, “vi cacceremo via”, due giorni fa, il 6 giugno, i comitati anti-rom hanno manifestato a ridosso del campo nomadi di Strada dell’Aeroporto a Torino. Improvvisamente e senza preavviso una colonna di persone, animate da isteria collettiva e odio razziale e munite di torce accese, è spuntata minacciosa dall’oscurità: rituali che, purtroppo, si ripetono sempre più frequentemente in una “ordinarietà” che li sta progressivamente svuotando della loro essenza criminosa. Nel cielo notturno le fiaccole erano puntate come dei riflettori. Poi sono state lanciate nel campo, provocando il panico generale.

Nessuno aveva preavvisato le famiglie del campo a proposito della manifestazione – racconta Vesna Baxtali Vuletic, presidente di Idea Rom Onlus – con il risultato che alcune donne erano sole al campo con i bambini. Nessun veicolo delle forze dell’ordine era presente all’ingresso del campo nomadi per presidiare eventuali situazioni di emergenza.”

Alcune frange del corteo si sono poi staccate, dirigendosi verso le abitazioni più isolate e costringendo molte persone alla fuga in mezzo ai rovi e in direzione del fiume. I bambini sono fuggiti a piedi lungo la tangenziale, tra le macchine che sfrecciavano ad altissima velocità. Molti di loro si sono persi e sono stati poi ritrovati dopo alcune ore, pieni di graffi causati, durante la fuga, dagli arbusti.

C’è una sola parola che restituisce efficacemente quanto accaduto: pogrom, metastasi di un sistemache criminalizza rom, migranti, senza casa, poveri, disoccupati e che esercita il potere in modosadico, al punto da modificare anche la percezione che i più deboli hanno di  e della realtà,riducendoli a un sentimento d’impotenza, di fragilità, di solitudine, la condizione dei “sottouomini”. 

Il razzismo e la xenofobia possono dare impulso aaccessi di violenza collettiva, a vere e proprie “liturgie” di massa scandite sulla dialettica amico/nemico, a scenari sinistri di cui, purtroppo, la nostra storia è costellata. Gli psicologi delle masse spesso hanno spiegato l’adesione a rituali xenofobi collettivi, riconducendoli alla ricerca di un rifugio di fronte al senso di smarrimento. “Il cerimoniale permette a un gruppo di comportarsi in un modo simbolicamente ordinato così da dare l’impressione di rivelare un universo ordinato; ogni particella acquista la sua identità mediante la semplice interdipendenza con le altre” (Erik Erikson).

Eppure varrebbe la pena interrogarsi non solo sul “perché” le cose accadono ma anche sul “come”.

Quel “come” non è riconducibile solo agli aspetti irrazionali. Sono i dispositivi politici, le strutture giuridiche e le macchine amministrative che fanno apparire accettabile, “ordinario”, se nonaddirittura socialmente giustificabile, il volto della persecuzione. È quanto si sta verificando col nuovo decreto Minniti – Orlando che rappresenta la “normalizzazione” di una politica che</

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(српски / italiano / français / english)

La ricolonizzazione della Costa d'Avorio

1) LA COSTA D’AVORIO È UN ESEMPIO EVIDENTE DELL’INGERENZA E DEL NEOCOLONIALISMO
Intervista a Michel Collon, 22.5.2017

2) КОЛОНИЗАЦИЈА АФРИКЕ – ПОД ВОЂСТВОМ АФРИКАНАЦА 
Peter Koenig i Russia-TV24, 18.5.2017


Á lire aussi:
Commission d’enquête Gbagbo (OLIVIER NDENKOP ET CARLOS SIÉLENOU / Le Journal de l’Afrique n°32 – 22 May 2017)
Puisqu’il est difficile de comprendre la Côte d’ivoire d’aujourd’hui et peut être de demain sans savoir comment Gbagbo est arrivé au pouvoir en 2000, comment il a gouverné ou plutôt comment il a été empêché de gouverner jusqu’en 2010, pourquoi et comment il a été débarqué pour être remplacé par Alassane Ouattara, Investig’Action a organisé une conférence sous forme de Commission d’enquête le 22 avril dernier à Paris. Michel Collon a donné la parole à 17 témoins privilégiés : conseillers, ministres, avocats de Gbagbo ou de ses proches, des journalistes et intellectuels indépendants… Cette édition du Journal de l’Afrique revient sur leurs témoignages et donne la parole à Michel Collon qui a décidé de faire éclater la vérité sur la Côte d’Ivoire en faisant parler les acteurs clé qu’on a toujours refusé d’écouter...
=== 1 ===

ORIG.: Michel Collon : « La Côte d’Ivoire est un exemple flagrant d’ingérence et de  néocolonialisme » (Olivier Ndenkop, 22.5.2017)


La Costa d’Avorio è un esempio evidente dell’ingerenza e del neocolonialismo

intervista a Michel Collon – da investigaction.net

Traduzione di Lorenzo Battisti per Marx21.it

Olivier A. Ndenkop / Michel Collon

In questa intervista esclusiva, il giornalista e scrittore belga torna sulla conferenza di Parigi che aveva per tema “Gbagbo contro la Françafrique”

Le journal de l’Afrique (JDA): dal 2011 la Françafrique (la presenza francese in Africa) ha imperversato in diversi paesi africani: Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Mali, Libia. Perché scegliere di organizzare una grande conferenza sul caso del Gbagbo?

Michel Collon (MN) : con le forze limitate della nostra squadra Investig’Action, è impossibile trattare tutti questi interventi come sarebbe necessario! Ho molto lavorato sull’aggressione contro la Libia, producendo un libro e un piccolo film, è stata veramente una guerra contro tutta l’Africa.

Ma la Costa d’Avorio è anch’essa un esempio evidente dell’ingerenza e del neocolonialismo. Imprigionare a L’Aia un presidente che ha solamente voluto difendere l’indipendenza del suo paese serve a intimidire tutti quelli che in Africa vorrebbero liberarsi della Françafrique. A mio parere, ne abbiamo parlato troppo poco, e il pubblico largo è rimasto con un’impressione confusa fabbricata dai media. Le tecniche di demonizzazione mediatica hanno funzionato bene. Quindi, verificare i fatti con i testimoni diretti mi sembrava indispensabile per sensibilizzare un pubblico più largo e cominciare a cambiare i rapporti di forza.

JDA : Qual è l’idea generale che si coglie dalle testimonianze raccolte?

MC:  i nostri 17 testimoni principali hanno portato una mole incredibile di fatti concreti, di rivelazioni e di analisi pertinenti. Io stesso ho imparato molto.

La Francia delle multinazionali ha calpestato il diritto internazionale, ha organizzato direttamente i brogli dei risultati delle elezioni (Ggabo aveva vinto, senza alcun dubbio), la corruzione dei politici, il furto di risorse di cacao e di altro, un vero e proprio colpo di stato con rapimento politico. Considerano l’Africa come una loro proprietà e pensano che il governo debba obbedire loro. D’altra parte, prima di Gbagbo, l’ordine del giorno dei consigli dei ministri era deciso a Parigi, e dice tutto!

I responsabili sono Sarkozy, Villepin, Alliot-Marie, Juppé e la loro politica è stata continuata da Hollande, Valls e Kouchner. Ma i veri comandanti sono una serie di multinazionali francesi e altre di cui abbiamo ascoltato le malefatte con precisione.

JDA : l’affare Gbagbo è molto seguito in Africa e oltre. Avete preso posizioni per una larga diffusione delle testimonianze raccolte?

MC: si, sebbene i nostri mezzi siano limitati come ho detto, noi abbiamo fatto attenzione a registrare nelle condizioni migliori. Con il comitato organizzatore, Investig’Action prepara un DVD. Penso che sarà uno strumento prezioso perché ciascuno possa far conoscere quello di cui i media non parlano mai.

JDA: Laurent Gbagbo e i suoi sostenitori sono perseguiti presso la Corte Penale Internazionale e in Costa d’Avorio. Nel mentre, Alassane Ouattara e Guillaume Soro non sembrano preoccupati. Come spiegare questa politica dei due pesi e due misure?

MC: Gli avvocati ci hanno mostrato chiaramente che i processi sono dei bidoni, che l’istruzione del Procuratore a carico, e che malgrado i suoi mezzi enormi, il dossier è vuoto. In realtà, hanno fatto allungare il processo per impedire il ritorno di Gbagbo alla vita politica.

JDA: Il Fondo Monetario Internazionale non smette di elogiare il regime di Ouattara che mostra un tasso di crescita elevato (8,6% nel 2016). Vuol dire che la partenza di Gbagbo è stata una cosa positiva per l’economia ivoriana?

MC: Delle cifre finte! L'ingegnere Ahoua Don Mello, ex ministro, ha mostrato che queste cifre sono false: la “crescita” proviene dal settore delle costruzioni, interamente finanziato dall’”aiuto allo sviluppo”, di cui beneficiano le multinazionali francesi delle costruzioni. Mentre i settori creatori di ricchezza sono crollati del 10% o addirittura del 22% per il petrolio.

JDA: La conferenza di Parigi si è tenuta alla vigilia del primo turno delle presidenziali. Una semplice coincidenza o una strategia?

MC: una coincidenza, ma cascava a fagiolo per mostrare la situazione internazionale. D’altra parte abbiamo chiesto agli 11 candidati quello che volevano fare riguardo questo processo, sull’imprigionamento di Gbagbo e in generale sulla Françafrique, specialmente sul Franco coloniale. Solo tre hanno risposto, con buone posizioni di Mélenchon e di Assalineau...

JDA: L’arrivo di Emmanuel Macron all’Eliseo può cambiare qualche cosa nella Françafrique?

MC: Ecco, è il terzo ad avere risposto. Ma non cambierà alcunché. Non ha risposto alle domande, ma ha inviato un testo di generalità e di bla bla sulla continuazione del bel partenariato tra la Francia e l’Africa. Come hanno fatto tutti i presidenti precedenti.

JDA: Tra i sostenitori di Macron, c’è Bernard Henry Levy. Visto il suo ruolo nel caso libico, non dobbiamo temere altre guerre imperialiste in Africa sotto Macron?

MC: Assolutamente. Macron è un guerrafondaio, allineato agli Stati Uniti, aggressivo verso i palestinesi, e pericoloso per l’Africa. Levy è un venditore di propaganda di guerra che viene inviato ovunque bisogna giustificare un’aggressione coloniale.

JDA: Cosa ne pensate dell’attuale mobilitazione contro il Franco Coloniale?

MC: Molto positiva. È molto importante che tutto il continente si unisca su alcuni obiettivi precisi. Il Franco coloniale è uno strumento centrale per mantenere l’attuale tutela, è giusto prendere di mira questa morsa che blocca i popoli.

JDA: Nel 2013, il Collettivo Investig’Action che voi avete creato e diretto dal 2004, ha lanciato il Journal de l’Afrique. Cosa vi ha spinto a creare questo mensile?

MC: Ero cosciente che non si voleva parlare dei problemi dell’Africa, sull’internet internazionale. E quando se ne parla, raramente si parla degli africani. Ho quindi ritenuto molto importante creare questo incontro mensile, sono molto contento che il testimone abbia potuto essere assicurato dal redattore capo della redazione di Investig’Action, Alex Anfruns, e da voi stessi. È una vera soddisfazione vedere che il JDA si sviluppa bene, contando sulle proprie forze e spero che possa ancora allargare la sua rete di autori, i suoi scambi di idee e il suo impatto. Ne avevo parlato con Hugo Chavez, posso dirvi che considerava l’America Latina e l’Africa come due sorelle che dovevano assolutamente battersi insieme.

JDA: Avete altri progetti per l’Africa?

MC: Ora che   Alex Afruns mi ha sostituito come redattore capo del sito, posso concentrarmi sulla scrittura dei miei libri e sullo sviluppo della nostra casa editoriale. Nel 2018 pubblicheremo un grande manuale strategico di tutta l’Africa, preparato dal celebre sociologo Said Bouamama. E vogliamo ripubblicare un altro libro molto importante, un vero “classico”, sulla storia del continente africano, spero di poterne dire di più a breve.

Ma vorrei sottolineare che la nostra piccola squadra non può niente senza il sostegno e la partecipazione dei suoi lettore. Nella battaglia delle informazioni, il rapporto di forza non potrà cambiare che se ognuno diventa un attore attivo.

Lista dei testimoni

Professeur BALOU-BI, ex prigioniero politico del regime di Ouattara,
Pr. Albert BOURGI, insegnante di diritto
Bernard GENET,  giurista e consigliere di relazioni internazionali
Robert CHARVIN, universitario
Henriette EKWE, giornalista e panafricanista
Bernard HOUDIN, portaparola per l’Europa di Laurent GBAGBO
Guy LABERTIT, ex delegato per l’Africa del Ps
Théophile KOUAMOUO,  giornalista
François MATTEI, giornalista
Clotilde OHOUOCHI, ex ministro in esilio
Maître Habiba TOURE, avvocato
Seed ZEHE, avvocato
Séri ZOKOU, avvocato
Aminata TRAORE, scrittore impegnato
Ahoua DON MELLO, ex ministro in esilio
Georges Peillon


=== 2 ===

L'articolo che segue – nel quale si traccia un parallelismo tra caso Milosevic e caso Gbagbo – è una sintesi dell'intervista apparsa in inglese:
Libya – Why Was Muammar Gaddafi Killed – May We Never Forget (By Peter Koenig and Russia-TV24 – Global Research, May 18, 2017)
http://www.globalresearch.ca/libya-why-was-muammar-gaddafi-killed-may-we-never-forget/5590628


Хашки суд и неолиберална финансијска олигархија  

КОЛОНИЗАЦИЈА АФРИКЕ – ПОД ВОЂСТВОМ АФРИКАНАЦА 

                            Попут Слободана Милошевића и бивши кандидат за председника Обале Слоноваче Лаурент Гбагбо веома је непријатан притвореник суда у Хагу, али би могао бити још непријатнији ако би био на слободи, изјавио је Петер Кениг, геополитички аналитича у интервјуу за ТВ Русија 24 а преноси Глобал Ресеарцх. 
           У изборима за председника Обале Слоновача 2010 године Гбагбо се кандидовао против дотадашњег председника Аласан Кватара. Званичници су објавили, међутим, да је изгубио трку, па је Гбагбо затражио да се поново преброје гласови.                                                                                                                  
                         Уместо тога Кватара – бивши службеник ММФ-а и симпатизер међународних неолоберланих финансијских институција – прогласио је своју победу. Петер Кениг наглашава у интервјуу да је Кватара био у служби западних корпорација и да је све чинио по савету ММФ-а. По Кенигу је ово типичан пример модерне неоколонизација, доказ да је она жива и да траје. „Називан то финансијским државним ударом, наметнутим од страних финансијских институција“, додаје Кениг. 
                      Након извесног времена Лаурет Гбагбо је оптужен за читав низ тешких кривичних дела – само зато што се супротставио светској финансијкој диктататури – за убиств, силовање и врло брзо пребаче у Међународндни кривични суд у Хагу, где је чекао 5 година да апочне суђење –које траје још од јануаара 2016. Маја 2017 године суђење му је продужено на захтев Тужиоца због потреба да се прибаве допуснке чињенице. По Кенигу је то обична судска фарса како би се обманула јавност д аповерује како у Хагу има правичан суд и правично суђење. 
                       Већ у првом саслушању 2014 Гбагбо је оглашен кривим за сва кривична дела која му се стављају на терет – све до кривичних дела против човечности. Кениг на то изјављуе:“Попут Слободана Милошевића, и он је непријатан притвореник, који може бити још непријатнији као слободан грађанин. Због тога ће вероватно остати у затвору – а једног дана ће починити „самоубство“ или ће преминути од „срчаног удара“ (алузија на убиство Слободана Милошевића). То је већ хашка класика.Јер тако Запад поступа са свим потенцијалним сведоцима његових (Западних) злочина. Крај приче!. Нико се неће бунити, јер „слобони свет“ већ чврсто верује ономе што му пласирају западни медији да су то особе нехумани тирани. Слично су западни медији пласирали и о Моамеру Гадафију у својим насловним странама када су саопштили – Смрт тиранина
                        У 2015 године, Кватара је „поново изабран“ малом маргином. Тако кажу западни медији. Тако настаје колонизација Африке под „афричким вођством“. Највећу подршку Кватари је пружила француска војска. 

    (Види – „Либија – зашто је убијен Моамер Гадафи – несмемо никада заборавити“




“Care italiane, cari italiani, cari connazionali,

leggendo nei siti on line di gran parte dei quotidiani italiani ed ascoltando i report radiofonici e televisivi emessi dalla Rai e da altre catene, abbiamo purtroppo registrato che rispetto ai fatti venezuelani, vige una informazione a senso unico che rilancia esclusivamente le posizioni e le interpretazioni di una delle parti che si confrontano.

Abbiamo anche letto e ascoltato spesso che l’attenzione prestata alla situazione venezuelana viene giustificata per la presenza in Venezuela di una “consistente comunità italiana o di origine italiana” in sofferenza e che sembrerebbe essere accomunata in modo unanime alle posizioni dell’opposizione.

Noi sottoscrittori di questa lettera, siamo membri di questa comunità. Ma interpretiamo in modo assai diverso l’origine e le cause della grave situazione che attraversa il paese dove viviamo da tanti anni e dove abbiamo costruito la nostra vita e formato le nostre famiglie. Siamo in questo paese perché vi siamo arrivati direttamente o perché siamo figli e nipoti di emigrati italiani che raggiunsero il Venezuela nel dopoguerra per emanciparsi dalla situazione di povertà o di mancanza di opportunità e di lavoro in Italia.

In tanti abbiamo condiviso e accompagnato il progetto di socialismo bolivariano proposto da Chavez e proseguito da Maduro, sia come militanti o elettori, sia partecipando direttamente il progetto di un Venezuela più giusto e solidale.

Ciò che era ed è per noi inaccettabile è che in un paese così bello e ricco di risorse e di potenzialità, decine di milioni di persone vivessero da oltre un secolo in una situazione di oggettiva apartheid, al di fuori da ogni opportunità di emancipazione sociale e quindi senza i diritti essenziali che sono quelli di una vita dignitosa, cioè quello delle reali condizioni di vita, di lavoro, di educazione, di servizi sanitari pubblici, di pensioni per tutti.

Questa situazione è durata in Venezuela per oltre 100 anni e bisogna chiedersi perché, soltanto all’inizio di questo secolo, con Hugo Chavez, per la prima volta nella storia di questo paese, questi problemi sono stati affrontati in modo deciso. E come mai, prima, questo non era accaduto. Chi oggi manifesta nelle strade dei quartieri ricchi delle città del nostro paese, gridando “libertà!” dove stava, cosa faceva, di cosa si occupava, prima che Chavez fosse eletto in libere elezioni democratiche ?

In questi anni, diverse agenzie dell’Onu e l’Onu stessa, hanno certificato che il Venezuela è stato tra i primi paesi al mondo nella lotta alla povertà, all’analfabetismo, alla mortalità infantile, raggiungendo risultati che non hanno confronti per la loro entità, rapidità e qualità.

Si citano la mancanza di prodotti di primo consumo e di farmaci, ma nessuno dice che è in atto una azione coordinata di accaparramento e di speculazione che ha fatto lievitare i prezzi e fatto crescere in modo esponenziale l’inflazione. Chi ha in mano il settore dell’importazione di questi prodotti ? Alcune grandi e medie imprese private per giunta sovvenzionate dallo Stato. La penuria di questi prodotti è in realtà l’effetto dell’inefficienza di questi gruppi privati nel migliore dei casi, o piuttosto dell’uso politico che essi stanno operando, analogamente a quanto avvenne in Cile, nel 1973 per abbattere il governo democratico di Allende.

E’ evidente che l’obiettivo principale di questa specie di rivolta dei ricchi (perché dovete sapere che le rivolte sono situate solo nei quartieri ricchi delle nostre città) sia rimettere in discussione tutte le conquiste sociali raggiunte in questi anni, svendere la nostra impresa petrolifera e le altre imprese nascenti che operano in settori strategici, come il gas, l’oro, il coltan, il torio scoperti recentemente e in grandi quantità nel bacino del cosiddetto arco minero: l’obiettivo di questi settori sociali è tornare al loro mitico passato, un passato feudale in cui una piccola elite godeva di tanti privilegi e comandava sul paese, mentre decine di milioni languivano nell’indigenza.

Noi non abbiamo una verità da trasmettervi; abbiamo però tante cose che possiamo raccontare e far conoscere agli italiani in Italia. Che possiamo dire ai vostri giornalisti e ai vostri media. A partire dal fatto che la comunità italiana non è, come oggi si vuol dare ad intendere, schierata con i violenti e con i vandali che distruggono le infrastrutture del paese o con i criminali che hanno progettato e che guidano le cosiddette proteste che non hanno proprio nulla di pacifico.

La comunità italiana in Venezuela è composta di circa 150 mila cittadini di passaporto e oltre 2 milioni di oriundi. Questi cittadini, che grazie alla Costituzione venezuelana approvata sotto il primo governo di Hugo Chavez possono avere o riacquisire la doppia cittadinanza, hanno vissuto e vivono insieme agli altri venezuelani i successi e le difficoltà di questi anni. Gran parte di loro hanno sostenuto e sostengono il processo di modernizzazione e democratizzazione del Venezuela. Molti di loro sono stati e sono sindaci, dirigenti sociali e politici, parlamentari della sinistra, imprenditori aderenti a “Clase media en positivo”, ad organizzazioni cristiane come Ecuvives ed hanno sostenuto e sostengono il processo bolivariano. Diversi di loro hanno partecipato alla stesura della Costituzione, che molto ha preso dalla Costituzione italiana. In gran parte hanno sostenuto Hugo Chavez e sostengono Maduro, opponendosi alle manifestazioni violente e vandaliche organizzate dai settori dell’ultra destra venezuelana.

Un’altra parte, limitata, come è limitata l’elite venezuelana, è sulle posizioni dell’opposizione. Grazie a sostegni finanziari esterni svolgono una continua campagna di diffamazione del Venezuela bolivariano in molti paesi, compresa l’Italia.

L’Ambasciata italiana censisce una ventina di associazioni italiane in Venezuela. Si tratta di associazioni costituite sulla base della provenienza regionale dei nostri emigrati, veneti, campani, pugliesi, abruzzesi, siciliane, ecc. che aggregano circa 7.000 soci e che intrattengono relazioni stabili con l’Italia e le proprie regioni. Solo alcune di queste associazioni, insieme a qualche giornale sovvenzionato con fondi pubblici italiani, hanno svolto in questi anni, in piena libertà, una campagna di informazione contro l’esperienza bolivariana; esse hanno costituito talvolta le uniche “fonti di informazione” privilegiate e accreditate da diversi organi di stampa italiani.

Ma questa non è “la comunità italiana” in Venezuela. Ne è solo una parte limitata, le cui opinioni vengono amplificate da alcuni organi di informazione. Il resto della comunità italiana e il resto del mondo degli oriundi italo-venezuelani si organizza e si mobilità in questo paese nello stesso modo in cui si mobilita e si organizza il resto del paese. Vi è chi è contro e chi è a favore del processo bolivariano.

Da questo punto di vista, non vi è alcun pericolo per la collettività italiana in Venezuela. Come in ogni paese latino americano, e come dovunque, si parteggia e si lotta con visioni politiche e sociali differenti.

Strumentalizzare la presenza italiana in Venezuela è un gioco sbagliato, pericoloso e che non ha alcun fondamento se non l’obiettivo di alimentare lo scontro e la menzogna.”

 

Caracas, Venezuela, 23 giugno 2017

Giulio Santosuosso - Caracas, 
Donatella Iacobelli - Caracas, 
Mario Cavani - Cumana, 
Cecilia Laya - Caracas, 
Angelo Iacobbi Por la Mar - Margarita, 
Michelangelo Tavaglione - Maracay, 
Giordano Bruno Venier - Caracas,
Mario Neri - Caracas,  
Isa Carascon - Caracas, 
Franca Giacobbe - Valencia, 
Alfredo Amoroso, Caracas
Evedia M. Ochoa - Caracas,
Beda Sanchez - Caracas, 
Antonio Mobilia - Caracas, 
Ennio Di Marcantonio V. - Caracas,   
Fulvio Merlo - Caracas,  
Pietro Altilio - Caracas, 
Luca Spadageo - Caracas, 
Celestino Stasi - Maracay, 
Luigino Bracci - Caracas, 
Sandra Emanuela Neri - Caracas,
Immacolata Diotaiuti - Caracas, 
Stella Coiro - Valencia, 
Nancy Guerra - Caracas, 
Marco Aurelio Venier - Caracas, 
Irving Francesco Sanchez - Caracas,  
Leo Zanelli - Caracas,  
Antonietta  Zanelli - Caracas, 
Damaris Alcala - Barcelona, 
Giovannina De Vita - Caracas, 
Domenico Mosuca - Caracas, 
Vittorio Altilio - Caracas, 
Marina Yanes - Caracas, 
Elio Gallo - Caracas,
Antonio Gerardo Di Santi - Caracas,  
Luisa Fabbro - Caracas, 
Vita Napoli - Caracas, 
Alfedo Tepedino - Caracas, 
Donato Jose Scudiero - Lecheria, 
Maria Bernieri - Valencia, 
Francesco Misticoni - Caracas,
Gimar Patricia - Valencia,  
Escudiero - Puerto La Cruz, 
Margy Rosina Escudiero - El Tigre,
Orietta Caponi - Caracas, 
Mario Gallo - Caracas, 
Mercedes de Cavani - Cumana, 
Maira Garcia - Caracas, 
Arcangelo Manganelli - Valencia, 
Franco Altilio - Caracas, 
Giuseppe Tramonte - Caracas, 
Antonieta Petroni - Guarico, 
Nelson Mendez - Puerto la Cruz, 
Ennio F. Di Marcantonio - Caracas, 
Monica Vistali - Caracas, 
Antonio Neri - Barcelona, 
Tramonte Andrea - Caracas, 
Biagio Scudiero - Lecheria, 
Giuliana Geremia - Valencia, 
Pasquale di Carlo - Maracay, 
Lira Millan - Caracas, 
Bruna Mijares - Caracas, 
Valeria D’Amico - Caracas, 
Maurizio Conforto - Barinas, 
Lucia Di Natale - Acarigua, 
Antonietta Rivoltella - Puerto la Cruz, 
Alessandro Carinelli - Caracas, 
Gianni Daverio - Morrocoy, 
Giacomo Altilio - Caracas,
Mayira Leandro - Puerto la Cruz, 
Marta Trappiello - Valencia, 
Vincenzo Gallo - Caracas, 
Alfonso Bruni - Caracas,
Claudio Manganelli - Valencia, 
Maria Eugenia Tepedino - Caracas, 
Luigi Puglia - Caracas, 
Mariaelena De Vita - Caracas, 
Rosanna Percepese - Caracas, 
Gabriela Merlo - Caracas,
Vincenzo Policcello - Barquisimeto, 
Ada Martínez – Maracay,
Barbara Meo Evoli – Caracas, 
Valeria D’Amico - Puerto la Cruz.

  

*. Colectivo de Italovenezolanos Bolivarianos
* V.O.I. – Venezolanos de Origen Italiana;
* CEIC – Colectivo Estudiantes de Origen Italiano
* Circulo   Bolivariano Antonio Gramsci



Per contatti: CBantoniogramsci @ hotmail.com

Sul sito Cambiailmondo, che ha pubblicato la lettera tra i primi – https://cambiailmondo.org/2017/06/23/lettera-dal-venezuela-alle-italiane-e-agli-italiani/ –, appare oggi 26 giugno 2017 la seguente Nota redazionale:

<< L’elenco dei firmatari della lettera è stato sospeso a causa di gravi minacce subite da alcuni di loro e dalle rispettive famiglie da parte di soggetti che evidentemente non tollerano il pluralismo di opinioni. Con molta probabilità questo tipo di squadrismo fascista è presente anche tra le fila di italo-venezuelani che sono venuti a conoscenza della lettera. Vi sono sufficienti ragioni per sollecitare il Governo italiano e le sue rappresentanza diplomatiche e quello del Venezuela a richiamare al rispetto del diritto alla libera espressione anche i nostri connazionali nel paese e, insieme, a garantire la loro incolumità. Sia la Costituzione italiana che quella venezuelana garantiscono la libertà di opinione. E i reati ad essa connessi, minacce, intimidazioni e quant’altro, sono punibili in entrambi i paesi. >>




1) È NATO il neonazismo in Europa (Manlio Dinucci, 13 giugno 2017)
2) FLASHBACKS: Democrazia NATO in Ucraina... ed altri link (Manlio Dinucci)


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Sullo stesso tema si veda anche:

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La Notizia di Manlio Dinucci : È NATO il neonazismo in Europa (PandoraTV, 13 giu 2017)
Il parlamento di Kiev ha votato un emendamento legislativo per l’adesione ufficiale dell’Ucraina alla Nato. Mossa pericolosissima: se l’Ucraina entrasse nella Nato gli altri 29 membri, in base all’Art. 5, dovrebbero andare in guerra contro la Russia. Il “merito” dell’iniziativa va al presidente del parlamento Andriy Parubiy, famigerato neonazista (ricevuto con tutti gli onori a Montecitorio dalla presidente Boldrini), uno dei capi del colpo di stato sotto regia Usa/Nato che ha trasformato l’Ucraina in «vivaio» del rinascente nazismo nel cuore dell’Europa...


L’arte della guerra 

È NATO il neonazismo in Europa

Manlio Dinucci
  
L’Ucraina, di fatto già nella Nato, vuole ora entrarvi ufficialmente. Il parlamento di Kiev, l’8 giugno, ha votato a maggioranza (276 contro 25) un emendamento legislativo che rende prioritario tale obiettivo. 

La sua ammissione nella Nato non sarebbe solo un atto formale. La Russia viene accusata dalla Nato di aver annesso illegalmente la Crimea e di condurre azioni militari contro l’Ucraina. Di conseguenza, se l’Ucraina entrasse ufficialmente nella Nato, gli altri 28 membri della Alleanza, in base all’Art. 5, dovrebbero «assistere la parte attaccata intraprendendo l’azione giudicata necessaria, compreso l’uso della forza armata». In altre parole, dovrebbero andare in guerra contro la Russia. 

Il merito di aver introdotto nella legislazione ucraina l’obiettivo di entrare nella Nato va al presidente del parlamento Andriy Parubiy. Cofondatore nel 1991 del Partito nazionalsociale ucraino, sul modello del Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler; capo delle formazioni paramilitari neonaziste, usate nel 2014 nel putsch di Piazza Maidan, sotto regia Usa/Nato, e nel massacro di Odessa; capo del Consiglio di difesa e sicurezza nazionale che, con il Battaglione Azov e altre unità neonaziste, attacca i civili ucraini di nazionalità russa nella parte orientale del paese ed effettua con apposite squadracce feroci pestaggi di militanti del Partito comunista, devastando le sue sedi e facendo roghi di libri in perfetto stile nazista, mentre lo stesso Partito sta per essere messo ufficialmente fuorilegge. 

Questo è Andriy Parubiy che, in veste di presidente del parlamento ucraino (carica conferitagli per i suoi meriti democratici nell’aprile 2016),  è stato ricevuto il 5 giugno a Montecitorio dalla presidente della Camera, Laura Boldrini. «L'Italia - ha sottolineato la presidente Boldrini - ha sempre condannato l'azione illegale avvenuta ai danni di una parte del territorio ucraino». Ha così avallato la versione Nato secondo cui sarebbe stata la Russia ad annettersi illegalmente la Crimea, ignorando il fatto che la scelta dei russi di Crimea di staccarsi dall’Ucraina e rientrare nella Russia è stata presa per impedire di essere attaccati, come i russi del Donbass, dai battaglioni neonazisti e le altre forze di Kiev. 

Il cordiale colloquio si è concluso con la firma di un memorandum d'intesa che «rafforza ulteriormente la cooperazione parlamentare tra le due assemblee, sia sul piano politico che su quello amministrativo». Si rafforza così la cooperazione tra la Repubblica italiana, nata dalla Resistenza contro il nazi-fascismo, e un regime che ha creato in Ucraina una situazione analoga a quella che portò all’avvento del fascismo negli anni Venti e del nazismo negli anni Trenta. 

Il battaglione Azov, la cui impronta nazista è rappresentata dall’emblema ricalcato da quello delle SS Das Reich, è stato incorporato nella Guardia nazionale, trasformato in unità militare regolare e promosso allo status di reggimento operazioni speciali. È stato quindi dotato di  mezzi corazzati e pezzi d’artiglieria. Con altre formazioni neonaziste, trasformate in unità regolari,  viene  addestrato da istruttori Usa della 173a divisione aviotrasportata, trasferiti da Vicenza in Ucraina, affiancati da altri della Nato. 

L’Ucraina di Kiev è così divenuta il «vivaio» del rinascente nazismo nel cuore dell’Europa. A Kiev confluiscono neonazisti da tutta Europa, Italia compresa. Dopo essere stati addestrati e messi alla prova in azioni militari contro i russi di Ucraina nel Donbass, vengono fatti rientrare nei loro paesi. Ormai la Nato deve ringiovanire i ranghi di Gladio. 

(il manifesto, 13 giugno 2017) 



=== 2: FLASHBACKS ===

Di Manlio Dinucci, sullo stesso tema, si vedano anche:

Heil mein Nato! L’Ucraina «vivaio» del rinascente nazismo in Europa (M. Dinucci, 5.1.2016 – testo e video)
TESTO: https://ilmanifesto.it/ucraina-heil-mein-nato/
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=UTuVZwvLlco

Manlio Dinucci sull'euro-NATO-nazismo ucraino (rassegna JUGOINFO 15 set 2015)
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8388

I neo-nazisti ucraini addestrati dagli Usa (Manlio Dinucci,  9.2.2015)
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8256

Come la Nato ha scavato sotto l’Ucraina (Manlio Dinucci, 25 febbraio 2014)
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/7904

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En français: Démocratie selon l’Otan en Ukraine (par Manlio Dinucci, 22 septembre 2015)
La presse occidentale tenta de faire passer le coup d’État en Ukraine pour une « révolution » populaire et spontanée. Mais avec le temps et l’accumulation de preuves, il fut admit que les événements avaient été provoqués et encadrés de manière à en finir avec la « dictature ». On devait donc admettre cette entorse au droit international comme un moyen malheureux permettant d’arriver à la démocratie. Un an et demi plus tard, Manlio Dinucci observe ce qu’est devenu le pays. Le bilan montre qu’il n’a jamais été question d’instaurer de régime démocratique ce qui pose à nouveau, rétrospectivement cette fois, deux questions. La première sur la légitimité des institutions actuelles, la seconde sur la nature et les ambitions de l’Otan qui organisa ce coup...
http://www.voltairenet.org/article188771.html

L’arte della guerra
 
Democrazia NATO in Ucraina 

Manlio Dinucci
  

«Storica» visita del segretario generale della Nato Stoltenberg, il 21/22 settembre, in Ucraina, dove partecipa (per la prima volta nella storia delle relazioni bilaterali) al Consiglio di sicurezza nazionale, firma un accordo per l’apertura di un’ambasciata della Nato a Kiev, tiene due conferenze stampa col presidente Poroshenko. 

Un decisivo passo avanti nell’integrazione dell’Ucraina nell’Alleanza. Iniziata nel 1991 quando, appena divenuta Stato indipendente in seguito alla disgregazione dell’Urss, l’Ucraina entra nel «Consiglio di cooperazione nordatlantica» e, nel 1994, nella «Partnership per la pace». Nel 1999, mentre la Nato demolisce con la guerra la Jugoslavia e ingloba i primi paesi dell’ex Patto di Varsavia  (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria), viene aperto a Kiev l’«Ufficio di collegamento Nato» e formato un battaglione polacco-ucraino per l’operazione Nato di «peacekeeping» in Kosovo. 

Nel 2002, il presidente Kuchma dichiara la disponibilità a entrare nella Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (organizzata e finanziata da Washington attraverso «Ong» specializzate e sostenuta dall’oligarca Poroshenko), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che l’adesione alla Nato non è nella sua agenda. 

Nel frattempo la Nato tesse una rete all’interno delle forze armate ucraine e addestra gruppi neonazisti (come prova una documentazione fotografica di militanti di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato). I neonazisti vengono usati come forza d’assalto nel putsch di Piazza Maidan che rovescia Yanukovych nel febbraio 2014, mentre il segretario generale della Nato intima alle forze armate ucraine di «restare neutrali». 

Subito dopo va alla presidenza Poroshenko, sotto la cui guida – dichiara la Nato – l’Ucraina sta divenendo «uno Stato sovrano e indipendente, fermamente impegnato per la democrazia e il diritto». 

Quanto sovrana e indipendente sia l’Ucraina lo dimostra l’assegnazione di incarichi ministeriali a cittadini stranieri scelti da Washington e Bruxelles: il ministero delle finanze è affidato a Natalie Jaresko, cittadina statunitense che ha lavorato al Dipartimento di Stato; quello del commercio e dello sviluppo economico al lituano Abromavicius, che ha lavorato per gruppi bancari europei; quello della sanità all’ex ministro georgiano Kvitashvili. L'ex presidente  georgiano Saakashvili, uomo di fiducia di Washington, viene nominato governatore della regione ucraina di Odessa. E, per completare il quadro, Kiev affida le proprie dogane a una compagnia privata britannica. 

Quanto l’Ucraina sia impegnata per la democrazia e il diritto, lo dimostra il fatto che i battaglioni neonazisti, rei di atrocità contro i civili di nazionalità russa nell’Ucraina orientale, sono stati inquadrati nella Guardia nazionale, addestrata da istruttori statunitensi e britannici. Lo dimostra la messa al bando del Partito comunista ucraino e della stessa ideologia comunista, in un clima persecutorio simile a quello dell’avvento del fascismo in Italia negli anni Venti. Per evitare testimoni scomodi, Kiev ha deciso il 17 settembre di impedire l'ingresso nel paese a decine di giornalisti stranieri, tra cui tre della Bbc, definiti «una minaccia alla sicurezza nazionale». 

L’Ucraina di Poroshenko – l’oligarca arricchitosi col saccheggio delle proprietà statali, del quale il premier Renzi loda la «saggia leadership» – contribuirà anche alla nostra «sicurezza nazionale» partecipando come partner all’esercitazione Nato Trident Juncture 2015 che si svolge in Italia.
 
(il manifesto, 22 settembre 2015)  




D’Alema: «A sinistra è vietata la rottura, per tutti noi è l’ultima chiamata» 

Il colloquio. L'ex premier: un fischio non mi spaventa, ma insieme a tanto impegno al Brancaccio c’era dell’estremismo. La sfida di governo è doverosa. I civici facciano una svolta, servono tutte le forze. Con Pisapia ingenerosi, ho detto a Vendola: non è una creatura del renzismo 

Daniela Preziosi 
Il Manifesto 
ROMA 20.6.2017, 8:59 

Per dirla come la direbbe un comunista italiano, non si può dire che Massimo D’Alema sia stato convinto dalla riunione dei ’civici’ di domenica scorsa al Brancaccio. 
«Da vecchio militante ho una certa esperienza di assemblee, in questa c’era un po’ di estremismo. A partire dall’introduzione di Tomaso Montanari», spiega a chi gli chiede un giudizio. 
C’è dell’ironia. Ma la questione è seria. 
D’Alema era in prima fila, a un passo dal palco, quando il combattivo giovane studioso ha elencato le colpe del vecchio centrosinistra. E, nel lungo elenco, ha scandito «la guerra illegale in Kosovo». D’Alema, che era il presidente del consiglio in quel marzo ’99, non ha mosso ciglio. 
Ma ora replica: «Vorrei spiegare a Montanari che di questo fui accusato da un gruppo di giuristi. Poi la Cassazione emise una sentenza che archiviò tutto riconoscendo la piena legittimità del mio agire». Perché, spiega, l’art.11 della Costituzione dice che «l’Italia ripudia la guerra» eccetera, «ma poi anche che consente alle limitazioni di sovranità necessarie agli obblighi derivanti dai trattati internazionali». La conclusione è tagliente: «L’accusa è decaduta, se lui la rilancia è una calunnia». 
Non che intenda passare alle carte bollate, l’ex presidente del consiglio. Ma «il mondo è complesso, prima di parlare meglio informarsi, non ci si aspetta da un illustre storico dell’arte una sortita inutile e dannosa. Non si fanno battute a caso, tanto più se si lavora ad unire la sinistra». 
Segue racconto dei suoi ritorni in Serbia, dei giovani che lo hanno ringraziato perché quella guerra fu l’inizio «del ritorno alla libertà». Ma questa sarebbe un’altra storia. 
(...) «Sono diventato buono, so che i giornalisti hanno nostalgia del D’Alema cattivo ma invece, vede, ho ascoltato quelle calunnie sul Kosovo e sono rimasto seduto. In altri tempi mi sarei alzato e me ne sarei andato. A proposito, andrò a piazza Santi Apostoli il primo luglio, lo considero un mio dovere di militante».

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https://alganews.wordpress.com/2017/06/20/dalema-e-i-suoi-ricordi-di-guerra/

D’ALEMA E I SUOI RICORDI DI GUERRA

di Alberto Tarozzi, 20.6.2017

D’Alema oggi, su il Manifesto, bacchetta Tomaso Montanari che l’altro giorno, al Brancaccio, aveva fatto riferimento alle sue responsabilità relativamente alla “guerra illegale in Kosovo”.

D’Alema sostiene che Montanari, critico d’arte, certe cose non le capisce e che meriterebbe una denuncia per calunnia che lui, bontà sua gli risparmierà. Esiste infatti una sentenza della Corte costituzionale che stabilisce che quella guerra non fu anticostituzionale. Anche se l’art.11 della Costituzione sostiene che l’Italia ripudia la guerra, poi consente, dice D’Alema “limitazioni di sovranità necessarie agli obblighi derivanti dai trattati internazionali” come, evidentemente, quelli legati alla nostra presenza nella Nato.

Ha ragione: il giovane e inesperto Montanari ignorava che per “limitazioni di sovranità” si potessero intendere i bombardamenti sulle popolazioni civili. Non è il solo, ma si è sbagliato.
A dire il vero Montanari è incorso pure in un’altra disattenzione minore, non passibile di calunnia, di cui però l’attento D’Alema non si è accorto: ha parlato di guerra in Kosovo. L’Italia, sotto la premiership di D’Alema fece da rampa di lancio per aerei che per molti giorni andarono a bombardare Belgrado, Novi Sad, Nis e molte altre città che dal Kosovo distano kilometri e kilometri.

Un’imprecisione di termini in cui molti sono soliti cadere. In fondo, se Montanari anziché di guerra illegale in Kosovo avesse parlato di bombardamenti della Nato, Italia compresa, sulla popolazione civile della Jugoslavia nessuno lo avrebbe potuto accusare di imprecisione e nessuno lo avrebbe potuto denunciare per calunnia. Un’altra volta ci dovrà stare più attento.

Peraltro, per quanto riguarda D’Alema, anche lui è uscito in un’affermazione che avrebbe richiesto qualche chiarimento politico in più, quando ha citato il suo ritorno in Serbia ai tempi in cui era Ministro degli Esteri del Governo Prodi tra il 2006 e il 2008.

Dice che i giovani lo hanno ringraziato perché quella guerra fu l’inizio “del ritorno alla libertà”.

Personalmente non nutro pregiudizi, quando si tratta di stabilire la verità dei fatti e i fatti di quegli anni li conosco discretamente, anche se può essermi sfuggito qualcosa. Per esempio non ho problemi a riconoscere che a Belgrado, D’Alema, come Ministro degli esteri del governo Prodi, fece un intervento che ricevette applausi. Solo che non riguardava tanto “il ritorno della libertà” in Jugoslavia grazie alle bombe della Nato. Piuttosto riguardava un progetto di possibile cooperazione economica tra Italia e Serbia che conteneva elementi di interesse per il governo locale.
Nessun problema a riconoscerlo, ma le due cose mi sembrano parecchio diverse.

Naturalmente, per Massimo D’Alema come per tutti, fino a prova contraria, vale la sua parola a proposito di quei giovani serbi che l’avrebbero ringraziato per le bombe. Però, ci faccia un piacere. Ci mostri un documento, una registrazione, uno straccio di attestazione che confermi questa sua affermazione. E che magari metta in risalto il numero e la rilevanza politica dei soggetti che si erano complimentati con lui. Altrimenti saremmo nostro malgrado portati a formulare cattivi pensieri sul suo conto. Magari che lui non sia quel modello di attendibilità che dichiara di essere.

Qui mi fermo: nessun processo alle intenzioni.
Ma nemmeno nessuna disponibilità a farmi prendere in giro dalle giravolte dialettiche del politico di turno, indipendentemente dal fattore generazionale.

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Sulle denunce penali a D'Alema ed altri per la aggressione alla RF di Jugoslavia si veda la documentazione alla nostra pagina:
https://www.cnj.it/24MARZO99/giudiziario.htm
Sulle implicazioni di quella aggressione, mirata a rovesciare la leadership politica democraticamente eletta ed a smembrare ulteriormente il paese a partire dalla secessione della provincia del Kosovo, si veda:
https://www.cnj.it/24MARZO99/index.htm



(italiano / english / deutsch / français)


Appel Montenegro

1) APPELLO / APPEL / APPEAL to the Peace Movement
2) Der jüngste NATO-Partner (GFP 13.06.2017)


Il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS aderisce ed invita tutti ad aderire e far conoscere l'Appello del Movimento per la Neutralità del Montenegro alle forze progressiste ed al governo di quel paese perché si agisca per il rispetto della volontà della grande maggioranza della popolazione montenegrina.

The National Coordination for Yugoslavia, no-profit organization based in Italy, endorses and invites all people to endorse and distribute the Appeal proposed by the Movement for the Neutrality of Montenegro to the progressive forces and the government of that country to respect the will of the great majority of the Montenegrin population.


Si vedano anche / see also:

La pulce Montenegro guida il plotone della nuova Nato (PTV news 06.06.2017)

MONTÉNÉGRO : DES IMITATEURS RUSSES PIÈGENT MILO ĐUKANOVIĆ ET DUŠKO MARKOVIĆ (par S. Janković, Radio Slobodna Evropa / CdB 5 juin 2017)
Le Premier ministre monténégrin Duško Marković et son prédécesseur Milo Đukanović ont cru parler au Président et au Premier ministre d’Ukraine. Il s’agissait en fait des imitateurs russes Lexus et Vovan. Milo Đukanović a notamment promis au faux Petro Porochenko de l’aider à implanter une usine de chocolats au Monténégro...

Allargamento della Nato: dall’Urss al Montenegro (di Fabrizio Poggi, 5/6/2017)
... si tiene a Washington la cerimonia ufficiale dell’ingresso del Montenegro nella Nato, quale 29° membro. Perché non ci siano dubbi su chi comandi, il segretario generale Jens Stoltenberg e il vice Segretario di stato USA Thomas Shannon accoglieranno la trasmissione del relativo documento ufficiale al Dipartimento di Stato da parte del primo ministro montenegrino Duško Markovič....

NATO 'Wants to Use Montenegro to Militarize Balkans' (17.05.2017)
The North Atlantic Alliance intends to use its newest member, Montenegro, to militarize the Balkan Peninsula, political activist and one of the leaders of the Resistance to Hopelessness movement Marko Milacic told Sputnik Serbia...


=== 1 ===

--- ITALIANO

Questo appello è stato proposto nell'ambito del contro-vertice NATO lo scorso 25 maggio a Bruxelles
da Marko Milacic, esponente del Movimento per la Neutralità del Montenegro

ITA.- APPELLO AL MOVIMENTO PER LA PACE A SOSTEGNO DEL MONTENEGRO

Il Montenegro sta affrontando una situazione pericolosa. Il parlamento ha recentemente preso la decisione, contro la volontà della maggioranza dei cittadini, di aderire alla NATO, benché l'84% della popolazione del Montenegro sia a favore di un referendum, in base a fonti governative.

Si dovrebbe comprendere che costringere il Montenegro a entrare nella NATO, da parte della stessa NATO e dei suoi partner, la cricca in stile mafioso al potere nel paese, può solamente destabilizzare la società, e – cosa ancor più importante – questo è proprio ciò che sta avvenendo adesso. Questa è una aggressione politica da parte della NATO contro il Montenegro. 

La decisione sull'entrata del Montenegro nella NATO non è valida, poiché non è sostenuta dal popolo del Montenegro. Essa è sostenuta da un regime antidemocratico che è rimasto sempre lo stesso per quasi tre decadi. 

Noi facciamo appello a tutte le forze progressiste presenti sia nei paesi NATO che nei paesi non aderenti alla NATO, affinché sostengano il popolo del Montenegro nella sua lotta contro questo processo illegittimo e illegale.

Noi facciamo appello al governo del Montenegro perché rispetti il volere del popolo.

***
Firmare e diffondere ampiamente questo Appello!

Inoltrate questa pagina con la vostra firma, precisando il vostro nome, indirizzo email, il nome eventuale della vostra organizzazione, a: milacici2007@...


--- ENGLISH

This appeal was proposed at the NATO Counter-summit on 25th May in Brussels 
by Marko Milacic, representative of the Movement for the Neutrality of Montenegro


ENG.- APPEAL TO THE PEACE MOVEMENT TO SUPPORT MONTENEGRO

Montenegro is facing a dangerous situation. The parliament recently took the decision, against the will of the majority of citizens, to join NATO, although 84% of the population of Montenegro, according to government sources, is in favour of a referendum. 

It should be understood that forcing Montenegro into NATO, by NATO and its partners, the mafia style clique in power in the country, can only destabilize the society, and more importantly that is happening right now. This is political aggression by NATO against Montenegro.

The decision about Montenegro entering NATO is not valid, because it is not backed by the people of Montenegro. It is backed by an undemocratic regime that hasn’t change for almost three decades.

We call on progressive forces in NATO and non-NATO member states to support the Montenegrin people in their struggle against this illegitimate and illegal process.

We call on the government of Montenegro to respect the will of the people.

***
Please sign and make this appeal widely known!
Please send this document back, mentioning your individual and/or organization name, country, e-mail address to milacici2007@...


--- FRANÇAIS

Appel présenté à Bruxelles, le 25 mai 2017, lors de la conférence du Contre-Sommet Otan

par Marko Milacic, responsable du Mouvement pour la Neutralité du Monténégro


FR - APPEL AU MOUVEMENT DE LA PAIX POUR SOUTENIR LE MONTENEGRO

Le Monténégro affronte une situation dangereuse. Récemment, le parlement monténégrin a pris la décision d'adhérer à l'OTAN, alors que la majorité des citoyens s'y opposent et que, selon les propres sources gouvernementales, 84% de la population est favorable à l'organisation d'un referendum.

Par cette adhésion imposée par l'OTAN et ses partenaires, la clique mafieuse actuellement au pouvoir au Monténégro ne fera que déstabiliser gravement la société, comme cela est en train de se produire actuellement. C'est une agression politique de l'OTAN envers le Monténégro.

Cette décision d'adhésion du Monténégro à l'OTAN n’est pas légitime, car elle n'est pas acceptée par sa population. Elle a été imposée par un régime anti-démocratique au pouvoir depuis près de trente ans.

Nous appelons les forces progressistes des pays membres et non-membres de l'Otan à soutenir le peuple monténégrin dans sa lutte contre ce processus illégal et illégitime.

Nous appelons le gouvernement du Monténégro à respecter la volonté du peuple. 

***

Signer et diffuser largement cet Appel !

Renvoyez cette page avec votre signature, en précisant votre nom, adresse mail, nom éventuel de votre organisation à milacici2007@...



=== 2 ===


Der jüngste NATO-Partner
 
13.06.2017

PODGORICA/BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Mit dem NATO-Beitritt Montenegros in der vergangenen Woche haben Deutschland und die anderen westlichen Mächte einen wichtigen Punktgewinn im Machtkampf gegen Russland in Südosteuropa erzielt. Montenegro ist am 5. Juni dem westlichen Militärpakt als 29. Mitglied in aller Form beigetreten. Die deutschen Bundesregierungen der vergangenen 15 Jahre hatten das kleine südosteuropäische Land stets bei der Abspaltung von Serbien und der Annäherung an die westlichen Bündnisse (EU und NATO) unterstützt. Ihrem wichtigsten montenegrinischen Kooperationspartner ist dabei immer wieder eine enge Verbindung zur Organisierten Kriminalität vorgeworfen worden. Russland hingegen hat sich seit der Jahrtausendwende insbesondere ökonomisch um Einfluss in Montenegro bemüht: Wirtschaftlich unterhielten Moskau und Podgorica lange Zeit enge Beziehungen. Jüngst veröffentlichten Dokumenten zufolge zielte Russland darauf ab, durch die Schaffung eines neutralen Staatengürtels in Südosteuropa den Druck, dem es durch die NATO-Osterweiterung ausgesetzt ist, ein wenig zu lindern.

Organisierte Kriminalität

Der Machtkampf zwischen dem Westen und Russland hat seit der Jahrtausendwende neben diversen anderen Ländern auch Montenegro geprägt. Die Schlüsselfigur in der montenegrinischen Politik der vergangenen 25 Jahre und der wichtigste Kooperationspartner des Westens ist dabei stets Milo Đukanović gewesen, der von 1991 bis 2016 abwechselnd als Premierminister und als Präsident des Landes amtierte. Bereits seit langer Zeit werden Vorwürfe gegen ihn erhoben, er sei in den 1990er Jahren in größerem Umfang in den Schmuggel mit Zigaretten involviert gewesen; Telefonprotokolle italienischer Ermittlungsbehörden hätten beispielsweise Gespräche zwischen ihm und italienischen Mafiabossen beinhaltet.[1] Die italienischen Behörden stellten allerdings die Ermittlungen gegen ihn im Jahr 2009 ein.[2] Journalisten der BBC und der Antikorruptionsinitiative "Organised Crime and Corruption Reporting Project" (OCCRP) fanden darüber hinaus im Jahr 2012 heraus, dass die Erste Bank Montenegros, die unter der Kontrolle der Familie Đukanović steht, einerseits Gelder der montenegrinischen Exekutive einlagerte, andererseits aber hauptsächlich von Đukanovićs persönlichem Umfeld - unter anderem von gesuchten Drogenschmugglern - für Kredite genutzt wurde.[3] Für die Bundesregierung, die eng mit Đukanović kooperiert, sind die immer wiederkehrenden Vorwürfe kein Problem: "Die [...] Sachverhalte", heißt es zur Begründung, hätten "bis heute nicht gerichtlich nachgewiesen werden" können; man müsse deshalb keine Konsequenzen aus ihnen ziehen.[4]

Deutsche Unterstützung

Um Montenegro fest in seine Einflusssphäre einzubinden, hat Deutschland zunächst den montenegrinischen Weg in die Eigenstaatlichkeit und zuletzt den NATO-Beitritt des Landes unterstützt. Als Đukanović zum ersten Mal als Präsident Montenegros amtierte (von 1998 bis 2002, damals war das Land noch eine jugoslawische Teilrepublik), führte Podgorica einseitig die Deutsche Mark als offizielle Währung ein. Auch der Umstellung auf den Euro in Deutschland schloss sich das südosteuropäische Land an. Wenig später unterstützte Berlin Podgorica, indem die staatliche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit (GIZ, damals noch: Deutsche Gesellschaft für Technische Zusammenarbeit, GTZ) von 2005 bis 2007 einen Berater in die montenegrinische Zentralbank entsandte. Seit 2008 reisten auch immer wieder Bundespolizisten zu Ausbildungsmaßnahmen ins Land. Darüber hinaus unterhielt die Bundeswehr von 2007 bis 2010 einen Berater im montenegrinischen Verteidigungsministerium.[5] Im Jahr 2008 bat die montenegrinische Regierung schließlich um Beitrittsverhandlungen mit der EU; seit 2010 ist Montenegro offizieller EU-Beitrittskandidat. Bei einem Besuch in Montenegro im Jahr 2013 erklärte der damalige Bundesentwicklungsminister Dirk Niebel, Deutschland sehe sich "als engagierter Partner im EU-Beitrittsprozess"; es wolle Montenegro "insbesondere in seinen Bemühungen zur Konsolidierung rechtstaatlicher Strukturen und zur Bekämpfung von Korruption und organisierter Kriminalität tatkräftig zur Seite stehen".[6]

"Fest in russischer Hand"

Während Deutschland sich vor allem auf politisch-administrativem Weg um Einfluss bemühte, boomte die montenegrinische Wirtschaft in den 2000er Jahren hauptsächlich dank russischer Investitionen.[7] Rund 30.000 russische Staatsbürger besaßen zu dieser Zeit laut Berichten Grundstücke oder Wohneigentum in Montenegro. Die vom Bundeskanzleramt finanzierte Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) resümierte im Jahr 2009, die Wirtschaft des Landes sei "fest in russischer Hand".[8] Bis heute hat Deutschland es nicht geschafft, starken wirtschaftlichen Einfluss auf Montenegro zu entwickeln. Allerdings geht die Regierung in Podgorica ihrerseits gegen den russischen Wirtschaftseinfluss vor. Die bedeutendste russische Investition stellte lange das Aluminiumkombinat Podgorica (KAP) dar, der größte Arbeitgeber des Landes, der im Dezember 2005 von der russischen Firma En+ übernommen worden war. Über das KAP konnte Moskau jahrelang dominierenden Einfluss auf die Wirtschaft des südosteuropäischen Landes ausüben. Doch die montenegrinischen Behörden erklärten den Konzern im Oktober 2013 für bankrott; die Regierung, die bereits vorher knapp 30 Prozent des Unternehmens innegehabt hatte, übernahm die vollständige Kontrolle - ein empfindlicher Schlag für Russlands Einflussarbeit in Südosteuropa.

Ein angeblicher Putschversuch

Schlagzeilen hat zuletzt eine ungewöhnliche, bis heute nicht aufgeklärte Etappe im Machtkampf zwischen dem Westen und Russland um Montenegro gemacht: Am 16. Oktober 2016, dem Tag der montenegrinischen Parlamentswahlen, erklärten die Behörden des Landes, einen Putschversuch verhindert zu haben. Ein montenegrinischer Sonderermittler warf in der Folge zwei russischen Staatsbürgern vor, einen Plan entworfen zu haben, das montenegrinische Parlament von Demonstranten stürmen zu lassen, um Đukanovićs Herrschaft zu beenden.[9] Nach den Putschvorwürfen boykottierte die Opposition die Kommunalwahl in Nikšić, der zweitgrößten Stadt des Landes, und rief dazu auf, auch dem nationalen Parlament die Mitarbeit zu verweigern: Sie bestreitet, dass es überhaupt einen Putschversuch gegeben hat, und hält das Vorgehen der Behörden für einen Versuch, ihre Politik zu diskreditieren.[10] Die Orientierung der Opposition läuft zentralen Interessen der deutschen Südosteuropapolitik zuwider: Sie verfolgt einen außenpolitisch klar von deutschen Vorgaben abweichenden Kurs; erst im Mai forderte die größte Oppositionsfraktion etwa, die diplomatische Anerkennung der serbischen Separatistenrepublik Kosovo zurückzunehmen.[11]

Wider die russische Balkanstrategie

Jüngst publizierte Dokumente, die angeblich vom makedonischen Geheimdienst stammen, werfen ein Schlaglicht auf die Ereignisse in Montenegro und darüber hinaus. Demnach sei es russische Strategie, auf dem Balkan einen Gürtel neutraler Staaten zu schaffen. Zu den "B-4-Staaten" sollen demnach Bosnien-Herzegowina, Serbien, Makedonien und Montenegro gehören.[12] Der jüngst unter maßgeblichem Druck Berlins forcierte Regierungswechsel in Makedonien gegen den auf außenpolitische Eigenständigkeit orientierten Premierminister Nikola Gruewski (german-foreign-policy.com berichtete [13]) steht dieser Strategie ebenso entgegen wie vor allem die Aufnahme Montenegros in die NATO in der vergangenen Woche. Letztere hilft, ein Land des einst bündnisneutralen Staatengürtels im ehemaligen Jugoslawien fest in die westlichen Bündnisstrukturen zu integrieren. Sie ist ein schwerer Rückschlag für Russland im Machtkampf in Südosteuropa.

[1] Ian Traynor: Montenegrin PM accused of link with tobacco racket. theguardian.com 11.07.2003.
[2] Longtime prime minister Djukanovic steps down. france24.com 22.12.2010.
[3] Liz MacKean/Meirion Jones: Documents tarnish Montenegro's EU bid, bbc.com 29.05.2012.
[4], [5] Antwort der Bundesregierung auf die Kleine Anfrage von Sevim Dagdelen et al.: Deutsch-montenegrinische Beziehungen angesichts der rechtsstaatlichen Verhältnisse in Montenegro. Deutscher Bundestag, 18/1216 vom 24.04.2014.
[6] Bundesminister Dirk Niebel besucht Montenegro (August 2013). podgorica.diplo.de.
[7] Andrew Byrne: Montenegro counts cost of becoming Nato's newest member. ft.com 02.06.2017.
[8] Russlands Rückkehr auf den Westbalkan; SWP-Studie S 17, Juli 2009. S. auch Hilfstruppen.
[9] Montenegro Opposition to Boycott Poll Over 'Coup' Claims. balkaninsight.com 15.02.2017.
[10] Simon Shuster: Duško Marković, the Prime Minister Stuck Between Putin and Trump in the Balkans. time.com 16.02.2017.
[11] Dusica Tomovic: Opposition Urges Montenegro to Revoke Kosovo Recognition. balkaninsight.com 11.05.2017.
[12] Aubrey Belford/Saska Cvetkovska/Biljana Sekulovska/Stevan Dojčinović: Leaked Documents Show Russian, Serbian Attempts to Meddle in Macedonia. occrp.org 04.06.2017.
[13] S. dazu Einflussverlust in Südosteuropa.