Par Per Jacobsen
Informazione
presso Casa Onna (nuova sede municipale)
esposizione della mostra
TESTA PER DENTE
crimini fascisti in Jugoslavia 1941-1945
presentazione:
sabato 22 aprile ore 11
interventi:
Giustino Parisse, Andrea Martocchia , Sandi Volk
orari di apertura
sabato e giorni festivi 11:00-13:00 / 17:00 - 19:30
giorni feriali 17:00 - 19:30
info e visite concordate con gruppi e scolaresche tel. 3466720638
organizzano:
IASRIC – Istituto abruzzese per la Storia della Resistenza e dell'Italia Contemporanea
ANPI
ANPPIA
Jugocoord Onlus
Diecifebbraio.info
L'Aquilantifa
Il nostro Coordinamento (JUGOCOORD ONLUS) sostiene e collabora con il Comitato Ucraina Antifascista Bologna, impegnato a far conoscere le ragioni della opposizione al regime sciovinista-revanscista russofobo e filonazista instaurato in Ucraina a seguito del colpo di stato del febbraio 2014. In particolare, sarà possibile visitare il banchetto del Comitato Ucraina Antifascista Bologna vicino al nostro in Via del Pratello.
ANPI com. prov. Bologna
Jugocoord Onlus
con la partecipazione di:
Comitato Ucraina Antifascista Bologna
Associazione culturale Russkij Mir (Torino)
Associazione culturale Portico delle Parole / corsi di russo, Bologna
organizzano il convegno:
Sovietici e jugoslavi nella Resistenza in Emilia-Romagna
presiede: Anna Cocchi (ANPI prov. Bologna)
Ermenegildo Bugni "Arno" (partigiano): saluti
Anna Roberti (Ass. Russkij Mir): partigiani sovietici in Italia e in Emilia-Romagna
Ivan Serra (Jugocoord Onlus): sovietici caduti a Casteldebole e Casalecchio
Mirco Carrattieri (Museo della Resistenza di Montefiorino): il battaglione russo nella Repubblica di Montefiorino
Stralci dal video Bello Ciao sul Comandante Pereladov
Andrea Martocchia (Jugocoord Onlus): la presenza jugoslava sul territorio
Jadranka Bentini (ANPI Bologna): Ricordo di Vinka Kitarovic
Franco Sprega (Museo della Resistenza Piacentina): jugoslavi nel Piacentino
Eric Gobetti (storico): I partigiani italiani all'estero
per informazioni e contatti:
Jugocoord Onlus – jugocoord @ tiscali.it / C.P. 13114 (Uff. Roma 4), 00100 Roma
ANPI com. prov. Bologna – info @ anpi-anppia-bo.it / Via San Felice, 25, 40122 Bologna (BO)scarica la locandina: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/volantini/bologna050517.pdf
evento facebook: https://www.facebook.com/events/1617502824943742/
La banda della UNO bianca era composta da poliziotti legati ai servizi segreti militari; una verità provata già dai tempi della controinformazione fatta da Lotta Continua sulla strage dell'Italicus in cui si parla chiaramente dell'esistenza di una struttura terroristica parallela all'interno della polizia.
La Uno bianca si macchiò di decine di omicidi e ferimenti contro obiettivi apparentemente diversi fra di loro: benzinai, tabaccai, passanti e testimoni; inoltre zingari e immigrati senza neanche il pretesto di pochi spiccioli da rapinare.
Il periodo di massima attività si colloca nella delicata fase di transizione dalla prima alla seconda repubblica (anticipata però già dalla fine degli anni'80 da diverse rapine con morti da parte della “banda delle coop”). Siamo in un momento di scontri senza esclusione di colpi fra apparati e servizi segreti legati alla vecchia classe politica (che subisce una sorte di golpe mediatico e giudiziario) e quelli legati ai poteri sovra-nazionali che spingono sull'acceleratore delle “riforme”.
E' proprio in questo periodo che cominciano ad apparire come funghi decine di “serial -killer”, mostri protagonisti di tanti eventi criminali di una ferocia inaudita e sempre come se fossero azioni coordinate fra loro. Ciò che li accomuna sono uno spropositato uso della violenza accompagnati dalla mancanza di moventi plausibili e l'indignazione popolare che riescono a scatenare. Ma su questo e meglio fermarsi perchè andrebbe aperto un altro capitolo .
Fra questi “serial” ce ne ricordiamo uno in particolare di quel periodo che coincide con la disgregazione della Yugoslavia e l'inizio di una guerra di aggressione da parte della NATO. Era il momento in cui si stavano gettando le basi propagandistiche di costruzione del “nemico” : i serbi . I serbi erano i “cattivi” ovunque e comunque. Il mantra della dis-informazione mondiale cominciava la sua inarrestabile nenia. Persino nei fumetti di Dylan Dog i serbi venivano raffigurati mentre uscivano dai tombini di Sarajevo con i denti da vampiro…
Come ai tempi dell'aggressione fascista all'Etiopia in cui la stampa italiana raccontava delle mogli dell'Imperatore che facevano il bagno in tinozze dorate colme di sangue caldo di povere ragazze vergini uccise…
E' proprio in questo momento che entra in scena “Manolo lo slavo” che riesce a fuggire misteriosamente dal carcere di Rimini e si mette a terrorizzare le campagne del Nord Italia vestito con pantaloni mimetici e anfibi . Proprio come Igor il russo…
Usa una 357 magnum per compiere rapine balorde presso case isolate di agricoltori “terminando” le sue vittime ; 9 morti ammazzati. Una volta catturato in Serbia confesserà di essere riuscito a fuggire dal carcere di Rimini grazie a “quelli della UNO bianca”.
(Consigliamo la bellissima inchiesta di Avvenimenti di allora su questa vicenda.)
Questo evento associato al clima di propaganda guerrafondaia di allora contro i serbi suscitò per diversi mesi la psicosi collettiva su bande di serbi che scorrazzavano anche nella pianura Padana sgozzando e trucidando inermi contadini, così come stavano facendo in Bosnia e Croazia…
Se in quegli anni l'obiettivo era neutralizzare un'ostacolo , neanche piccolo, come poteva esserlo una Yugoslavia unita in quello che era la prospettiva di costruzione e allargamento della UE sotto il rigido controllo NATO oggi la posta in gioco è l'esistenza stessa di un sistema politico, militare ed ideologico e la sua inarrestabile caduta tendenziale del saggio di profitto di fronte a due elementi: la Russia e la Cina niente affatto disposti a rinunciare alla loro quota di capitalismo.
Stiamo attenti a non sottovalutare l'impegno e le forze che lo Stato sta impiegando sugli omicidi del “russo” (che poi russo non è) e delle operazioni in corso con i migliori reparti speciali della contro-guerriglia dell'Esercito Italiano. Non stanno giocando o addestrandosi: questa è vera puzza di guerra. E' lo squillo di tromba per gli addetti ai lavori per qualcosa di “grosso” che è in gestazione. E' un passaggio forzato per una uscita dalla crisi che non può essere né democratica né comprensiva di ragioni altrui. Forse è il momento, per tutti, di fermarsi un attimo e aprire una rapida fase di riflessione per capire seriamente se c'è un pericolo imminente e reale a breve di un conflitto di proporzioni indefinite e se si come possiamo anticipare le prossime mosse del capitale affinchè questo non avvenga ammesso che ciò sia possibile.
Il giorno 05 apr 2017 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:
L'ARMATA ROSSA IN AZIONE IN FRAZIONE DI BUDRIOIl quotidiano slavofobo e anticomunista Il Resto del Carlino non si è fatto sfuggire l'opportunità offerta dalla rapina in una tabaccheria presso Budrio (BO), terminata in tragedia con l'uccisione del proprietario, per ciurlare nel manico con i paginoni dedicati a "LA PISTA DELL'EST", come di rito.Il sospettato, un russo nato in Uzbekistan quaranta anni fa, vi è reiteratamente definito "ex soldato dell'Armata Rossa" – addirittura in un titolo a caratteri cubitali sul numero del 4 aprile 2017 a pagina 7. Peccato che l'Armata Rossa abbia cessato di esistere come denominazione formale dal 1946 e non esista più nemmeno per estensione, cioè nel significato di esercito dell'Unione Sovietica, dal 1991, vale a dire quando il sospettato aveva 13 anni.(a cura di I.S.; su segnalazione di O.M., che ringraziamo)
Ebbero inizio proprio il 24 Marzo, nel 1999, diciotto anni fa, i bombardamenti su Belgrado e sulla Jugoslavia dell’epoca, da parte degli Stati Uniti e della Alleanza Atlantica, la NATO. Fu il primo di 78 giorni di guerra, una guerra che ha rappresentato un vero e proprio “paradigma”...
Mreža intelektualaca, umetnika i društvenih pokreta za odbranu čovečanstva
ДЕКЛАРАЦИЈA
О ГЛОБАЛИСТИЧКОМ ИНТЕРВЕНЦИОНИЗМУ И НАТО АГРЕСИЈИ НА СР ЈУГОСЛАВИЈУ
I
Већ три деценије у свету се успоставља и све чешће примењује модел глобалног интервенционизма. Инструмент који се користи у свим агресијама, од Србије (СР Југославије), Авганистана, Ирака, Либије, до Малија и Сирије, представља НАТО алијанса. Ова стратегија је званично инаугурисана на састанку НАТО-а у Вашингтону 25. априла 1999. године, у време агресије на СРЈ. Са том чињеницом је отпочео двадесет први век и трећи миленијум.
Уместо прогресивне мобилизације, човечанству се намећу глобалистички монизам, неоимперијализам и колонијализам, где НАТО преузима освајачку улогу и улогу заступника интереса мултинационалног капитала и војно-индустријског комплекса глобалне олигархије. Упоредо са порастом броја и обима интервенција, одвија се експанзија НАТО-а према Истоку. Иза сваке НАТО интервенције остајали су стравични призори, жртве, миграције, разарања привреде и културне баштине, девастирана друштва, унутрашњи сукоби, пљачке и неописиве патње људи. Научне дисциплине попут међународног права, историје дипломатије, спољне политике или ратоводства и интелектуални кругови показале су фрапантну инертност за разумевање настајућих интервенционизама, динамичних промена међународних односа и противуречности савремене глобализације, а повремено су и сами стављани у службу обликовања јавног мњења сагласно империјалистичким интересима.
II
Мрежа интелектуалаца, уметника и друштвених покрета за одбрану човечанства – огранак у Србији, изражава своју забринутост због гажења успостављених међународних норми, урушавања суверених држава које се опиру наметнутој глобалистичкој матрици, експанзије насиља, тероризма и на тим основама раста антизападног расположења. Зато, желимо учинити доступним основне чињенице о ратним злочинима и тешким повредама међународног права почињених у периоду од 24. марта до 10. јуна 1999. године од стране НАТО алијансе, пред којом је капитулирао део светских интелектуалаца одричући се жеље за разумевањем карактера, циљева и последица агресије.
III
Агресија НАТО против Србије (СР Југославије), марта 1999. године, предтавља прекретницу употребе ове војне алијансе у међународним односима. Наметнут је рат независној, сувереној европској држави, на самој граници НАТО зоне, грубим кршењем основних принципа међународног права, а пре свега, Повеље УН и Завршног документа из Хелсинкија. Aгресија je изведена без сагласности и супротно мандату СБ УН, чиме је извршен атентат на темеље саме ОУН и негирање њихове улоге. Наређење америчком генералу Веслију Кларку о нападу на СР Југославију, у то време команданту савезничких снага, дао је генерални секретар НАТО Хавијер Солана, попримивши карактеристике терористичке кампање усмерене против српског народа и његовог политичког вођства. Такав поступак представља злочин против мира и човечности, који је за последицу имао низ других злочина. Овим преседаном је успостављен модел интервенционизма који се примењује у свим агресијама ради отимања државне територије , успостављања војних база за даљу експанзију и освајање, за контролу и коришћење стратешких праваца, природних ресурса и главних енергетских токова. Отимањем Косова и Метохије од Србије створени су услови убрзане експанзија САД/НАТО/ЕУ на исток и милитаризацију Европе. Тиме је обесмишљено свако образложење агресије и позивање на „хуманитарне разлоге“ или алтруизам Запада на челу са САД.
Током агресије уз ангажовање 19 чланица НАТО алијансе, убијено је око 3.500, а рањено 12.500 грађана. Од тога, према званичном, објављеном списку, у редовима војске и полиције погинуло је 1.008 бораца, од којих 659 војника и 349 полицајаца. Ракетама и бомбама НАТО оштећено је 25.000 кућа и стамбених зграда и уништено 470 километара путева и 595 километара железничких шина. Оштећено је 14 аеродрома, као и 19 болница, 20 домова здравља, 18 вртића, 69 школа, 176 споменика културе и 44 моста, док је још 38 мостова било потпуно уништено. Потпуно је разорио 7 индустријских и привредних објеката, 11 енергетских постројења, 28 радио и ТВ-репетитора, 29 манастира и 35 цркава. Изведено је 2.300 налета у нападима на 995 објеката по Србији, док је 1.150 борбених авиона испалило скоро 420.000 пројектила укупне масе од 22.000 тона. НАТО је испалио 1.300 крстарећих ракета, бацио 37.000 касетних бомби које су убиле око 200 људи и повредиле још неколико стотина.
Коришћени су пројектили пуњени осиромашеним уранијумом који трајно угрожава земљиште, воду и ваздух, улази у ланац исхране и изазива далекосежне последице по здравље људи и живих бића уопште. Србија је током бомбардовања засипана и другим отровима а контаминацији су допринела и оштећења индустријских постројења. Дејство загађивача резултирало је чињеницом да је данас Србија прва у Европи по броју оболелих и умрлих од малигних болести у дечијем узрасту. Ово је био тихи атомски рат, чије последице ћемо сагледати за 600 година.
Уништена је једна трећина електроенергетских капацитета у земљи, бомбардоване су две рафинерије нафте, у Панчеву и Новом Саду, а снаге НАТО употребиле су први пут и такозване графитне бомбе нарушавајући функционисање електроенергетског система. НАТО је свесно лишавао снабдевања струјом домаћинства, болнице, породилишта, дечје вртиће, пекаре...
IV
Како се ради о неспорном и грубом кршењу основних норми међународног права, земље чланице НАTO сносе сваку одговорност за ту агресију, укључујући и одговорност за накнаду штете, процењену на износ од преко 100 милијарди САД долара. Одговорни су за коришћење оружја са осиромашеним уранијумом и других недозвољених средстава за масовно уништавање. У вези с тим, сматрамо да Србија има сва права да, пред одговарајућим међународним институцијама, покрене поступак против НАTO пакта и држава чланица, које су учествовале у агресији, у циљу остваривања права на надокнаду ратне штете, као и појединцима који су били жртве агресије. Тај процес би представљао допринос демократизацији међународних односа, ојачао улогу Уједињених нација и поштовања принципа суверенитета и равноправности народа.
Мреже за одбрану човечанства – огранак за Србију, очекује подршку својој оцени израженој у овој декларацији, од стране свих независних и слободољубивих удружења и друштвених покрета широм света, као одговор на све облике међународног насиља и кршења међународног и националног права и цивилизацијских тековина.
Београд 24.фебруар 2017.године
ПРЕДСЕДНИК ИО МОЧ
Ратко Крсмановић
La Red de Intelectuales, Artistas y Movimientos Sociales en Defensa de la Humanidad – capítulo Serbia
DECLARACIÓN
SOBRE EL INTERVENCIONISMO GLOBAL Y LA AGRESIÓN DE LA OTAN SOBRE YUGOSLAVIA
I
Durante tres décadas se aplica el modelo del intervencionismo global. El instrumento usado en todas las agresiones, desde Serbia (ex Yugoslavia), a través de Afghanistán, Iraq, Libia, hasta Mali y Siria, es la OTAN. Esta estrategia fue oficialmente inaugurada en la reunión de la OTAN en Washington, el 25 de abril de 1999, durante el bombardeo de Yugoslavia. Este hecho marcó el inicio del tercer milenio y el siglo XXI.
En vez del progreso, a la humanidad se impone el monismo global, neoimperialismo y colonialismo, donde la OTAN se convierte en un conquistador, defendor de los intereses del capitalismo multinacional y en el complejo militar de la oligarquía global. Junto con el aumento en el número y las proporciones de las intervenciones, se realiza la expansión de la OTAN hacia el Este. Cada intervención de la OTAN fue marcada por las escenas horribles, víctimas, migraciones, la industria y la cultura devastada, sociedad destruida, los conflictos internos, saqueos y el sufrimiento humano inenarrable.
II
La Red de Intelectuales, Artistas y Movimientos Sociales en Defensa de la Humanidad – capítulo Serbia expresa su preocupación por la violación de normas internacionales establecidas, la destrucción de los estados soberanos que se oponen a opresión de la matriz globalista, la expansión de violencia y terrorismo. Por lo tanto queremos hacer disponibles los hechos básicos sobre los crímenes de guerra y las violaciones graves del derecho internacional, cometidos por la OTAN en el periodo entre 24 de marzo hasta el 10 de junio del 1999, frente la que se entregaron los intelectuales mundiales y renunciaron del deseo para entender el carácter, el objetivo y las consecuencias de la agresión.
III
La agresión de la OTAN contra Serbia en el mes de marzo de 1999 representa un hito histórico en el uso de esta alianza militar en las relaciones internacionales. Violando flagrantemente todos los principios del derecho internacional, y, en primer lugar, la Carta de las Naciones Unidas y el Acta Final de Helsinki, las fuerzas occidentales impusieron la guerra a un estado europeo independiente y soberano que se encontraba en la frontera de la zona de la OTAN. Esta agresión se llevó a cabo sin el consentimiento y en contra del mandato del Consejo de Seguridad de la ONU, lo cual constituye un asesinato de los cimientos de la propia ONU, asi como la negación del papel que juega esta organización. El secretario General de la OTAN, Javier Solana, dio la orden para atacar Serbia al general estadounidense, Wesley Clark, quien desempeñó el cargo de Comandante de las Fuerzas Aliadas, convirtiendo esta decisión en una campaña terrorista dirigida contra el pueblo serbio y su liderazgo político. Ese hecho representa un crimen contra la humanidad y la paz, lo cual dio lugar a una serie de otros delitos. Debido a este precedente histórico, fue establecido el modelo intervencionista que se aplica a todas las agresiones que pretenden despojar a los pueblos soberanos de su territorio nacional, y también se hizo posible la creación de bases militares con la finalidad de conquistar, controlar y aprovecharse de los puntos estratégicos importantes, asi como de los recursos naturales y energéticos de dichos pueblos. La violenta e inconstitucional separación de Kosovo y Metohija del territorio serbio creó condiciones para una rápida expansión los EE.UU, la OTAN y la Union Europea hacia el este de Europa y para la militarización del “viejo continente”, por lo cual se hizo imposible justificar dicha agresión por razones “humanitarias o altruistas”.
Durante la agresión que contó con la participación de 19 miembros de la alianza de la OTAN, fueron asesinados alrededor de 3.500 ciudadanos serbios, y hubo más de 12.500 personas heridas. Según los datos oficiales, en las filas del ejército y de la policía murieron 1.008 luchadores, entre los cuales 659 soldados y 349 oficiales de la policía. Las bombas y misiles de la OTAN causaron daño a más de 25.000 casas y edificios, y destruyeron 470 kilómetros de carreteras y 595 kilómetros de vías férreas. Aparte de eso, 14 aeropuertos, 19 hospitales, 20 centros de salud, 18 guarderías infantiles, 69 colegios, 176 monumentos culturales y 44 puentes sufrieron un daño siginicativo, mientras que 38 puentes fueron completamente destruidos en el bombardeo, asi como 7 complejos industriales y comerciales, 11 centrales eléctricas, 28 transmisores de radio y televisión, 29 monasterios y 35 iglesias. Se llevaron a cabo 2.300 ataques contra diferentes instalaciones a lo largo del territorio serbio. Cerca de 1.150 aviones de combate pertenecientes a la OTAN dispararon más de 1.300 misiles de crucero y lanzaron 37.000 bombas de racimo que mataron a 200 personas e hirieron a cientos más.
Fueron también utlizados los proyectiles cargados con uranio empobrecido, el cual permanentemente contamina la tierra, el agua y el aire, entrando en la cadena de alimentación y dejando consecuencias de largo alcance para los seres vivos y la salud humana en general. El resultado de esta intoxicación se ve reflejado en el hecho de que hoy en dia Serbia ocupa el ptimer lugar en Europa en el número de pacientes con cáncer y personas fallecidas por enfermedades malignas en la infancia. Esta fue una guerra nuclear silenciosa, cuyas consecuencias se mostrarán en los próximos 600 años.
IV
Dado que se trata de una violación grave e indiscutible del derecho internacional, los países miembros de la OTAN llevan la responsabilidad para esa agresión, incluyendo la indemnización por daños de guerra estimada en más de 100 mil millones de dólares. Son responsables para el uso de armas de uranio empobrecido y otras armas de destrucción masiva ilícitas. En este sentido consideramos que Serbia tiene todo el derecho a, previo a las instituciones internacionales pertinentes, iniciar un procedimiento contra la OTAN y sus países miembros, que participaron en la agresión, con el fin de ejercer el derecho a una indemnización por daños de guerra, así como por las personas que fueron víctimas de la agresión. Ese proceso representaría una contribución a la democratización de las relaciones internacionales y fortalecería el papel de la ONU y el respeto a los principios de la soberanía y la igualdad entre pueblos.
La Red de Intelectuales, Artistas y Movimientos Sociales en Defensa de la Humanidad – capítulo Serbia espera el apoyo, para sus posturas expresadas en esta declaracion, de todas las organizaciones independientes y amantes de la libertad y de los movimientos sociales de todo el mundo, en respuesta a todas las formas de violencia internacional y violaciónes del derecho internacional y nacional y del patrimonio de la civilización.
Belgrado, 24 de febrero de 2017
Sabato previsti settordicimila tra Ostrogoti, Tervingi e Vandali pronti a calare su Roma e porla a ferro et foco…
Giornali e tv mainstream in questi giorni sembrano menestrelli medioevali impegnati nel cantare le epiche gesta di un signorotto un po’ infingardo, che non vince una guerra da secoli e il massimo successo militare che può vantare è la fustigazione pubblica dei sudditi. Naturalmente, se il committente è di così basso lignaggio militare, bisognerà esaltare le virtù guerriere de lo inimico, in modo che la sicura vittoria risalti maggiormente. Il fascino della divisa soccorre il redattore in crisi di fantasia, che si esalta perciò anche per i black bloc.
Un briciolo di rassegna stampa serve a dare l’idea.
L’oscar della compassione è vinto alla grande da La Stampa, quotidiano di casa Fiat amichevolmente soprannominata dai torinesi doc la busiarda. Titolo raccapricciante: Roma, scatta l’allerta terrorismo, ma fanno più paura i black bloc. Se si potesse usare la logica, con una frase simile, dovremmo chiedere un Tso urgente per il titolista, perché nessuno può seriamente avere più “paura” di quattro sciamannati di incerta provenienza, abili al massimo in danneggiamenti di poco conto (un bancomat, un’automobile, qualche vetrina, molto fumo e poco arrosto), rispetto a soggetti determinati a seminare il più alto numero di morti possibile.
Ma nel quotidiano diretto da Maurizio Molinari nulla è impossibile. Infatti nel catenaccio ci rivela che “In campo anche Scotland Yard”. E dire che la Gran Bretagna in questo vertice europeo non c’è più (ha vinto la Brexit, le procedure ufficiali partiranno mercoledì prossimo)…
L’apice dell’ignoranza viene però toccato nel secondo pezzo, dedicato alla “galassia antagonista, timori per i duri del Nord-Est”. Solito elenco di “centri sociali”, No Tav, ecc, e improvvisamente uno scoop: “Un nutrito gruppo è attesa da Venezia: Cacciari e Rivolta più frange anarchiche”. Il Cacciari citato non è infatti un “centro sociale”, ma un noto esponente dell’area Global Project. Ma chissenefrega della qualità dell’informazione, vero? Tanto stiamo soltanto pompando un clima “da paura” per giustificare qualsiasi operazione politica la polizia vorrà mettere in atto…
Non vanno meglio giornali che si pretendono “d’opposizione”, come Il Fatto Quotidiano, che nella sua versione online sembra fagocitato dalla sua antica vena manettara: “Trattati di Roma, il corteo di Eurostop e il rischio per la fontana simbolo di Testaccio”. Forse pesava il ricordo della Barcaccia di piazza di Spagna, danneggiata da tifosi olandesi in trasferta, ma fa comunque ridere l’immagine dei giornalisti costretti a spremersi il cervello per individuare una bene archeologico importante da “salvare dai barbari”… Più sobria la versione cartacea, che almeno dà conto del messaggio agli abitanti di Testaccio diffuso ieri da Eurostop.
Alla pari con il “dramma della fontana” c’è forse soltanto il post dal sito della questura di Roma – ripreso anche nell’articolo – che parla di “clima di piena collaborazione” con gli organizzatori accompagnandola però con una foto “da paura”
Lo schema imposto dal ministero dell’interno – mescolare nella stessa notizia il pericolo “terrorismo” e quello dei black bloc – è assunto con entusiasmo anche da Repubblica: “Misure antiterrorismo e l’incubo dei black bloc. Sorvegliati speciali i social”. Nel pezzo, la volenterosa cronista riprende scrupolosamente le veline che parlano di agenti e riprese sui tetti, i tavoli tecnici con le autorità del I Municipio, e a un certo punto viene infilata un’operazione in cui “agenti della Dia hanno smantellato un’organizzazione criminale impegnata nel traffico di esseri umani”. Notizie di un certo interesse, certamente, ma che in questo modo si perde in un “pastone” immondo che neanche all’ufficio stampa della Digos avranno apprezzato…
Andiamo avanti. Da giorni tutti parlano di “200 black bloc in arrivo”. La cifra è stata del resto fatta dalla Questura e nessuno ha ritenuto utile modificarla. Fa eccezione la cronaca romana del Corriere della sera, che ritiene di dover dare un contributo originale alla “fabbrica della paura” sparandola più grossa degli altri: “Sabato in arrivo 800 black bloc”. Attendiamo pazientemente il rilancio di qualcun altro in questa singolare asta della cazzata. E siamo certi che ci sarà…
Qualche nota di merito? Una volta tanto per il manifesto, che si smarca dalla canea e dedica quasi una pagina alla manifestazione di Eurostop: "Sul corteo creato ad arte un clima di paura".
E' vero, ma quel piano lo avevano studiato loro: il mostruoso schieramento di forze, le ripetute provocazioni (dal "sequestro" di più di cento manifestanti, trattenuti per ore in un centro di identificazione, alla rottura in due spezzoni del corteo alla fine del percorso: al primo dei quali si è cercato di impedire di defluire pacificamente secondo gli accordi, mentre il secondo veniva circondato e bloccato senza che fosse stato lanciato nemmeno un tappo di bottiglia – e solo grazie alla pazienza e all'atteggiamento collaborativo degli organizzatori la situazione si è sbloccata senza incidenti) stanno lì a dimostrare che esisteva una precisa volontà di provocare lo scontro, trasformando gli annunci di sventura che i media avevano lanciato nei giorni precedenti all'evento in una profezia autoavverantesi (centinaia di telecamere ci hanno accompagnato nella speranza di poter documentare il sangue versato e i danni alla città).
Ciò detto va sottolineato il comportamento ignobile dei media del giorno dopo: a partire dai numeri falsi, per esempio si è parlato di fallimento della mobilitazione, dicendo che i manifestanti erano 2000 o 3000 (con ridicole contraddizioni, tipo che erano stati effettuati duemila controlli e che nel secondo spezzone c'erano duemila facinorosi pronti alla devastazione: insomma duemila carri armati di Mussolini che giravano avanti e indietro ricoprendo tutti i ruoli?) mentre la verità è che il corteo non aveva meno di 8/10.000 persone: tantissime ove si consideri la campagna terroristica di dissuasione e comunque assai di più di quelli dei rachitici cortei pro euro di destra (federalisti) e "sinistra" (Sinistra Italiana e altri).
Una bellissima giornata di mobilitazione in una città desertificata per creare una vasta area protetta a tutela dei 27 signori racchiusi nel palazzo per firmare una nuova sacra alleanza contro i rispettivi popoli.
di Redazione Contropiano, 27 marzo 2017 / da http://www.perunaltracitta.org – Firenze
Già al concentramento a Piramide si susseguono voci tra i manifestanti: controlli serratissimi e daspo cittadini dati nella notte, pullman fermati per controlli e manifestanti portati ad un centro di identificazione perché trovati in possesso di “indumenti atti ad occultare l’identità ed impedire l’identificazione”. Felpe, kway e giubbotti, per dirlo fuor di metafora.
Il concentramento inizia ad infoltirsi e tuttavia non parte: l’intervento di Nicoletta Dosio, militante dei Notav arrivata in treno dalla Val di Susa spiega il perché: tre pullman sono stati fermati e – senza che fossero stati trovati effettivi motivi per procedere ad un fermo – più di centocinquanta persone sono state portate in un centro d’identificazione a Tor Cervara. A loro sarà di fatto negato il diritto di manifestare, perché nonostante non ci fosse nessun motivo valido, saranno rilasciati solo dopo la fine della manifestazione.
Si decide di non partire prima che ai manifestanti in stato di fermo sia restituito il diritto di esprimere il dissenso e mentre avvocati e una delegazione di manifestanti, tra cui Nicoletta Dosio e l’europarlamentare Eleonora Forenza, si reca a Tor Cervara, il corteo aspetta di poter partire: attesa, incertezza per quanto stava effettivamente accadendo e per la sorte dei compagni e delle compagne fermate non hanno contribuito certo a distendere il clima.
Quando finalmente il corteo si muove, con due ore di ritardo, attraversa il quartiere di Testaccio: negozi serrati, nessuno in strada e soprattutto ogni strada laterale a quella del percorso del corteo chiusa da agenti in assetto antisommossa: uno schieramento di forze dell’ordine smisurato.
Il corteo tuttavia prosegue senza problemi: molte persone alle finestre registrano, scattano foto, qualcuna applaude e sostiene il corteo, che arriva sul Lungotevere Aventino. È da qui è ancora più chiaro che poliziotti, carabinieri, guardia di finanza sono molti più di quanti si potesse immaginare: dall’altra sponda del Tevere, infatti, c’è un concentramento di agenti, camionette, idranti che assomiglia ad un esercito in attesa, c’è persino qualche gommone della polizia che attraversa il Tevere.
Il corteo arriva senza nessuna tensione dall’interno a Piazza Bocca della verità, ma nessuna uscita dalla piazza è libera: tutte le strade sono sbarrate da polizia in assetto antisommossa. E mentre gli organizzatori cercano di capire in che modo sciogliersi, con una manovra gli agenti chiudono anche la parte della piazza da cui la prima parte dei manifestanti è entrata, spezzando così in due il corteo. Infatti lo spezzone dei movimenti e dei centri sociali era qualche centinaio di metri dietro.
Una provocazione gratuita, ma non nuova (basti pensare a quanto successo durante il corteo dei licenziati Almaviva, sempre a Roma) messa in atto dalla polizia che ha approfittato che i due spezzoni fossero distanti, per provare a separare e caricare l’ultima parte e dare finalmente vita ad copione già scritto – quello dei manifestanti cattivi che devastano la città e della macelleria messicana che ne consegue – che stava tardando a concretizzarsi: gli scontri non ci sono stati, perché nessuno ha raccolto questa vergognosa provocazione anche grazie all’intervento degli organizzatori, che non hanno permesso che il corteo venisse diviso.
Non è servita la campagna mediatica di paura, non sono servite le provocazioni e la presunzione di colpevolezza con cui è stato impedito a centinaia di cittadini di esercitare il proprio diritto a manifestare. Non è servito l’uso delle forze dell’ordine per reprimere il legittimo dissenso: la manifestazione si è conclusa senza che i manifestanti rispondessero alle provocazioni. Con la delusione abbastanza evidente di un altro piccolo esercito presente in piazza, quello dei giornalisti, molti di loro più in attesa dello scoop che seriamente interessato alle motivazioni della manifestazione.
Ed infatti, come spesso accade, la paura degli scontri, le dichiarazioni dei politici contro chi usa la violenza, il tentativo mediatico fallito di dividere la piazza in buoni e cattivi, ha tolto spazio ai contenuti della piazza, al grido di protesta di migliaia di persone che tutte insieme hanno detto no all’Europa dei poteri forti e trasversali, dei muri contro i flussi di migranti, dell’impoverimento della classe lavoratrice, e che chiedono la libera circolazione delle persone, non delle merci.
Celebrare i 60 anni dell’Unione Europea, scrivere una dichiarazione dai toni trionfalistici in cui si celebra la costruzione di “[…] una comunità di pace, libertà, democrazie, diritti umani e governo della legge, un potere economico senza precedenti e un livello impareggiabile di protezione sociale e welfare” e farlo asserragliati in un palazzo, mentre nel resto della città si assiste alla sospensione del diritto di manifestare portandosi con sé un kway in caso di pioggia. Questo è quello che hanno fatto i 27 capi di stato europei e questo significa essere completamente scollati dal paese reale, non ascoltare assolutamente la voce di chi vive sulla propria pelle tutte le ingiustizie e le contraddizioni di un’Europa che nonostante i tentativi di presentarsi pulita, democratica, serena mostra invece le sue storture con i trattati di Dublino che umiliano i migranti, le politiche di austerity che schiacciano lavoratori e cittadini, le politiche di guerra che la rendono complice nei teatri di guerra del mondo.
Noi, insieme alle migliaia che hanno sfilato per le strade di Roma il 25 marzo, sappiamo da che parte stare e siamo solidali con chi è stato trattenuto e identificato solo per voler esercitare il diritto a manifestare il proprio dissenso.
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Contro il vertice Ue. Sfila da Testaccio a Bocca della verità il corteo “Eurostop”. Lo spezzone più stigmatizzato circondato a Bocca della Verità in una città militarizzata e deserta. 122 manifestanti provenienti da Piemonte, Nord Est e Marche trattenuti per ore a Tor Cervara. Gli è stato negato il diritto di manifestare...
Intervista a Eleonora Forenza (Prc), eurodeputata Gue. Il suo intervento al Cie di Tor Cervara per liberare dal sequestro i manifestanti di Eurostop, provenienti dalla Val Susa e rinchiusi per ore nel centro, solo per “suspicione”...
https://www.lacittafutura.it/interni/eurostop-quel-fattaccio-di-tor-cervara.html
il 25 marzo si è tenuta una partecipata manifestazione NO EURO. questo breve video racconta in sintesi la giornata...
http://contropiano.org/interventi/2017/03/18/intervistare-assad-sacrosanto-alla-faccia-dei-maestrini-del-giornalismo-090018
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=EBHmtcDIY9g
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=7KnbZcZbqtY
PRESIDENT BASHAR AL-ASSAD INTERVIEW
GIVEN TO VECERNJI LIST 03/04/2017
Question 1: Mr. President, we are already into the sixth year of the Syrian war. After the recent victories achieved by the Syrian Army in Aleppo and Palmyra, and the ongoing reconciliations, is there a glimmer of hope of an end to the Syrian war?
President Assad: Of course, for without hope neither the country, nor the people, nor the state could withstand six years of an extremely ferocious war supported by tens of regional and Western countries, some of the wealthiest and most powerful countries in the world. Without hope, there wouldn’t have been a will. But the question is: how to turn this hope into reality? This has been possible so far through two practical approaches. The first is fighting terrorism, regardless of the different names and categories given to terrorist organizations, and the second is through achieving reconciliations with all those who want to lay down their weapons, return to their normal life, and to the embrace of their country. There has been progress on both fronts: in fighting terrorism and achieving reconciliations. That’s why I say there is more hope now than in the past years.
Question 2: In the negotiations conducted previously in Astana and now in Geneva, most negotiators on the other side belonged to the opposition which upholds Wahhabi, Salafi, and Jihadi thought. Why are you negotiating with these people in the first place? And is there in reality a moderate opposition as described by the media?
President Assad: This is a very important question, because Western officials, most prominently former US President Obama, said that the moderate opposition was an illusion or a fantasy. This is by their admission, they, who supported that opposition and gave it a false moderate cover. So, this moderate opposition does not exist. The opposition which exists is a Jihadi opposition in the perverted sense of Jihad of course. It is also indoctrinated in the perverted sense that does not accept neither dialogue nor a solution except through terrorism.
That is why we cannot, practically, reach any actual result with this part of the opposition. The evidence is that during the Astana negotiations they started their attack on the cities of Damascus and Hama and other parts of Syria, repeating the cycle of terrorism and the killing of innocents.
This opposition, between brackets, because it cannot be called opposition, these terrorists cannot be an opposition and cannot help reach a solution. Apart from that, these terrorist groups are themselves linked to the agendas of foreign countries. They do not belong to a certain current or movement among the Syrian people that seeks political reform or a certain solution, neither before nor during the war. Another part of these groups might look political in the sense that they do not carry arms, but they support terrorism. A third part is linked to the Saudi, Turkish, and Western agenda.
Question 3: Why are you negotiating with them?
President Assad: We do that because, in the beginning, many people did not believe that these groups do not want to lay down their weapons and move towards political action. We went in order to prove to all those who have doubts about this that these groups cannot engage in politics, and that they are terrorist groups at heart and will remain so to the end.
Question 4: The world has declared war on terrorism. Do you believe that declaration and in what they are doing today, and can we say that it’s only Syria that is fighting terrorism today?
President Assad: The world that declared war consists practically of Western countries which themselves support terrorism. Most countries of the world are against terrorism. They do not declare that, but they have been practically cooperating with us in one way or another during the war, and before the war, because terrorism did not start only with the war on Syria. Terrorism has always existed in the world and has become more widespread as a result of the different wars in the Middle East. But the Western countries which declared war on terrorism still support it up till now. They do not fight it. It is used only in name for domestic consumption. The fact of the matter is that they use terrorism as a card to achieve different political agendas, even when this terrorism backfires and claims victims in their own countries. But they do not acknowledge this fact.
As to who is fighting terrorism in Syria, it is basically the Syrian Arab Army. This is not only a claim because there are facts on the ground which prove it. The Syrian Arab Army has been able to make these achievements in fighting terrorists thanks, in the first place, to the Syrian fighters’ will, and thanks to popular support. Without popular support, it is not possible to achieve such victories. However, there has been verystrong support from our allies, whether it was Iran, Russia, or Hezbollah from Lebanon.
Question 5: Does the Syrian Army represent all sects, ethnicities and minorities in Syria?
President Assad: Of course, that is self-evident. An army that represents part of the Syrian people cannot win in a war taking place throughout Syria. That is self-evident, regardless of how it is portrayed in the West. At the beginning of the war, the terms used by the terrorists themselves or in the media hostile to Syria in the West and in our region, wanted to portray the war as taking place between sects. This image was widespread in the West. Had this been real, Syria would have been partitioned from the first months of the war. It wouldn’t have withstood for six years as a unified people. It is true that the terrorists control some areas, but the parts controlled by the Syrian state include all parts of the spectrum of the Syrian people. More importantly, they have some of the terrorists’ families and people who fled from terrorist-controlled areas to state-controlled areas. If this Syrian Army, and behind it the Syrian government, do not represent all the Syrian people, it wouldn’t have been possible to see this unified picture of the Syrian people.
Question 6: Mr. President, there is a question I have to ask: if there has been security cooperation between the Syrian government and the European states, would have we avoided the terrorist operations which have reached France, Belgium, etc.? I ask this question because after the terrorist operations in Paris, the former head of French intelligence said that you have provided them with names and documents about terrorists, and they refused to accept them. Did they really refuse to accept them? And had there been cooperation, would have we been able to avoid these terrorist operations?
President Assad: No, he was probably speaking about cooperation before the war, because after the beginning of the war and the French position in support of the terrorists, Syria stopped security cooperation with those countries, because there cannot be security cooperation and political hostility at the same time. There should be political agreement, on the one hand, and agreement in other areas, including security, on the other.
As to whether it would have been possible to prevent such attacks in Europe through this security cooperation, in normal circumstances, the answer would be yes. But under current circumstances, the answer is no, because Europe, or a number of European countries, support terrorists on a large scale, send to Syria tens of thousands of terrorists, or support them directly and indirectly, logistically, with arms, money, political cover, and everything. When you reach this stage of supporting terrorists – and here we are talking about tens of thousands and maybe hundreds of thousands in Syria and neighboring areas – security cooperation becomes of limited effectiveness in such a case. Security cooperation focuses on tens or hundreds of individuals, but cannot be effective when there are tens of thousands and hundreds of thousands of terrorists.
If Europe wants to protect itself at this stage, it should first stop supporting terrorists in Syria. Assuming that we wanted to cooperate with them, no results can be achieved in these circumstances. We will not do that, of course, when they support terrorism. They should stop supporting terrorists immediately in any shape or form.
Question 7: Mr. President, I would like to go back to Croatia. In 2009, you visited the Croatian capital Zagreb and met Croatian officials. At that time, I read a statement by Your Excellency in which you said that Croatia is a friendly country and the Croatian people is a brotherly people, etc. Do you still consider the Croatian people a friend of Syria, particularly after the scandal related to arms shipments from Croatia to Washington, and then to Saudi Arabia and Jordan, which ultimately fell in the hands of the terrorists?
President Assad: Certainly. The Croatian people is friendly people, and our relations are decades old. We are talking about a relationship which has lasted for generations and is still going on. We do not hold the Croatian people responsible for errors made by their governments.
More importantly, if we try to monitor the public opinion in Croatia in relation to what’s going on in Syria, we’ll find that in comparison with other countries, this public opinion has been, throughout the war in general, closer to understanding what is going on in Syria than many other European peoples. Had this relationship and this friendship not been a genuine one, it would have been difficult for the Croatian people to understand what’s going on in Syria.
That’s why I would like to stress that what happened concerning the arms shipment that reached the terrorists was one of the ‘achievements’ of the former Croatian government, perhaps for financial interests, or maybe for political interests in the form of giving in to pressure exerted by other big Western powers. But, in any way, they sold the interests and principles of the Croatian people in return for petrodollars, or in the service of the narrow political interests of those officials.
Question 8: Is it possible to restore political and diplomatic relations, and probably economic relations, for Croatia has many interests in Syria?
President Assad: Of course, this is certainly possible, but this depends on the political orientations of the existing governments. If there have been policy mistakes, particularly those made by previous governments, it is very easy for future governments, or the existing one, to repair these policies. We ask these governments for nothing except thinking first of their peoples’ interests, and second of the international law which is based primarily on the sovereignty of other countries and non-intervention in their internal affairs. We have never, throughout our history and since relations started between us and Croatia now and former Yugoslavia in the past, carried out any hostile act against these countries. We have always considered them friends. What is the justification for a government to send weapons to terrorists in Syria to be used in killing innocent Syrians. I don’t think there is a justification for this; and we hope that the present government does not accept this.
Question 9: There is a large number of Jihadis or terrorists who came from the Balkans. Do you have information about their numbers?
President Assad: There is no accurate information, because of the existence of our Turkish neighbor led by the criminal Erdogan who creates all the circumstances necessary to support and strengthen the presence of those terrorists in Syria. This does not allow us to control the borders, and consequently does not allow for accurate statistics about the number of terrorists who go in and out. But the issue is not about the nationalities of these terrorists, because you know that terrorists look at the whole world as a single arena. They care neither about the national dimension nor about political borders. So, the danger to your country, or to Europe in general, does not come only from European terrorist. It is true that a European can be more dangerous because he knows the region in detail; but he will come accompanied by other terrorists from other countries, terrorists who share the same doctrine, aspirations, and ideas, in order to carry out terrorist acts in those countries. So, when we talk about the number of terrorists in Syria, we are certainly talking about hundreds of thousands, at least more than a hundred thousand. Of course, they come and go, and some of them are killed in battle; but this is our estimate of the numbers.
Question 10: Mr. President, average people in Europe or the world ask about the causes of this attack on Syria and the attempts to bring Your Excellency down. And everybody talks about the reform which you have introduced. What’s the reason behind the calls for bringing you down?
President Assad: The reason is old, simple, and clear. Those Western countries, led by the United States, in partnership mainly with Britain and France, and unfortunately some European countries which did not have a colonial history, do not accept independent states and do not accept peer relations. They want satellite states which implement their policies.
Of course, we are not against common interests with other states, with any state. Big states have interests around the world and we, as a state, have interests in our region. We are not a superpower, but when we work, based on interests, with those states, the interests should be joint interests. They want us to act for their interests against ours. That’s why we have always been in a state of struggle with these states over our interests. For instance, we want the peace process, while they want submission instead of peace. They want us to have peace without rights, which is not reasonable. They want us to give up our sovereignty, to abandon our rights which are acknowledged by international law, Security Council resolutions, and the numerous votes at United Nations for the return of our lands. These are mere examples. There are many similar issues over which they consider Syria too independent a state. That’s why they thought that waging war on Syria and replacing the current government with a client government would make it easier and better to achieve their narrow interests.
Question 11: Had you accepted peace, or submission as you put it, would what is happening to Syria today had happened?
President Assad: In order to talk about something realistic, I would give you an example. We were asked to side with the West, with the United States in particular, in 2003, in its war against Iraq. We knew that the Iraq war was a series of events aiming at partitioning the region, and we knew very well that the conferences which were held before the war in order to define the future of post-war Iraq, all discussed a future sectarian Iraq, and not a unified Iraq.
So, we knew that what was happening in Iraq will be carried over to Syria and to the whole region. Had we taken part in such a project at that time, the situation in Syria would have been much worse than if we had refused to do so. That’s why I used to say that the price for rejection or resistance is much less than the price of submission and surrender. I said this many times in the past, and the events in Syria came to prove this argument. What helped Syria to stand fast today is that it is unified. Had we gone along with the sectarian project, following the Iraqi or Lebanese model, as the Americans wanted us to do then, we would have been a country torn by a real civil war. Civil war would have been a reality, not merely a term used to describe what’s going on.
Question 12: Why do the Gulf states pay money and support terrorists to bring the government down in Syria?
President Assad: Most Gulf states are satellite states which do not dare say no. Some of them say: “We support you but cannot say so publicly. We wish you victory in your war and hope you’ll be able to preserve a united Syria and to defeat terrorists,” but in public they say something different, because they are submissive to the Western will. Most Gulf states, if not all of them, were created by the British at a certain stage and handed over to the Americans at a later stage. That’s why we cannot make a judgment on why they say something or why they say the opposite.
Question 13: They talk about creating federalism in Syria. Is that possible? And do you accept the creation of federalism in Syria?
President Assad: Federalism is a national issue; and whether it should or should not happen depends on the constitution. And the constitution needs a popular vote. That’s why we cannot, as a government, say that we accept or not accept federalism. The government and the executive authority express the will of the people. However, I can give you the general view in Syria. The majority of Syrians do not accept federalism because it is an introduction to partition. There is no justification for federalism, for the Syrians have been living together, in the same structure, without any problems for decades and centuries, even before the existence of the Syrian state, even during and before the Ottoman state. There are no historical wars between the components of the Syrian people to justify the assertion that these sects or religions or ethnicities cannot live with each other. So, the issue of federalism is made-up with the objective of reaching a situation similar to that of Iraq. In that case they use this or that part of the state, which is supposed to be a strong state, in order to produce a weak state, a weak government, a weak people, and a weak homeland.
Question 14: Turkey sent troops and has a military existence in Syria. Why do you think?
President Assad: Because Erdogan had pinned all his hopes on the terrorists achieving victories until the battle of Aleppo happened. For him, it was a decisive battle considering the political, economic, geographical, and logistical importance of Aleppo. The terrorists’ failure to keep their positions in the city of Aleppo as a result of popular rejection on the part of the population of the city and the governorate, and as a result of the achievements made by the Syrian army, caused Erdogan to interfere directly at least to secure a place at the political table when the time comes for talking about the future of Syria.
He also wanted to give al-Nusra and Al Qaeda terrorists a facelift after he was exposed worldwide as being very close to them, in every sense of the word. He wanted to give them other names, to make them shave their beards and assume the appearance of moderates, to return things to the way they were at the beginning of the crisis, and as I said to secure a role for Turkey in finding a solution in Syria through the terrorists in their new form.
Question 15: There is the same issue with American troops which are in the country and help the Kurds now. Do you consider them occupation forces?
President Assad: Of course. Any intervention, even the existence of any individual soldier, without the permission of the Syrian government, is an invasion in every sense of the word. And any intervention, from the air or otherwise, is also an illegitimate intervention and an aggression on Syria.
Question 16: Why is America here? What are the reasons in your opinion, Mr. President?
President Assad: In general terms, the American policy is based on creating chaos in different parts of the world and creating conflicts among states. This is not new. It has been going on for decades, but in different forms. Through these conflicts, it secures a foothold through the contradictions and through its proxies who are already there but were able to become prominent because of the new circumstances. And then it takes part in bargaining in order to secure its interests in that region. This is an old American policy.
Question 17: How do you see the election of Trump as President of the United States? And can you cooperate with him, particularly after recent statements on the part of the new American administration which said that the Syrian people determine the fate of the President. Do you think there is a change in the American policy?
President Assad: First, concerning the different statements about whether the President should remain or leave, and since the first statement made during the Obama administration, which has been repeated by the political parrots in Europe, we have never paid any attention to it and never commented on it because it does not concern us. This is a Syrian issue related to the Syrian people. That’s why all that has been said on the subject is simply thrown in the rubbish bin. So, any similar statement, with or against, made now by any state, is not acceptable now, because this is not an American or a European issue, nor is it the concern of any other individual outside Syria.
As to our evaluation of the new American administration, and despite the fact that it is still in its early days, we have learned something important since relations were resumed between Syria and the United States in 1974, when former American President Richard Nixon visited us. We learned not to bet on a good administration. We always say which is a bad administration and which is worse. We do not say which is good and which is better or which is bad and which is good.
What we see in America now are endless conflicts: conflicts inside the administration and conflicts outside the administration with the administration. That’s why we see only one thing in this administration, regardless of the statements which seem to be better than those of other administrations. Since they sent troops to Syria without coordination and without a request from the legitimate Syrian government, it means that this administration, like other administrations, does not want stability to be restored in Syria.
Question 18: Mr. President, Syria has been subject recently to continuing Israeli aggression. What is the objective behind that? And are you concerned about the possibility of a Syrian-Israeli war?
President Assad: Concern about a war is unrealistic, because the reality is that we are living this war. But as for calling it a Syrian-Israeli war, you can assume in any case that these terrorists are fighting for Israel. Even if they are not a regular Israeli army, they are still fighting for Israel. And Israel shares the objectives with Turkey, the United States, France, Britain, Saudi Arabia, Qatar, and other states. They all share the same objective. It is a war that has taken a new form and uses new instruments. Practically, our victory over the terrorists is a victory over all those states put together. That’s why Israel is doing its best to support these terrorists in every place the Syrian Army advances. They attack in one way or another in order to provide support to the terrorists and in order to stall the momentum of the Syrian Arab Army in facing them.
Question 19: Recently, many European parliamentarians started to flock on Syria, some publicly and some secretly. Does this mean that something has happened or does this imply a change in the European policy towards Syria? Have they understood that you were right?
President Assad: The European policy has not actually changed, because the European officials have gone too far with their lies; and now if they want to make a U-turn, the European public opinion will tell them: you were lying to us. All of what you said was not true. That’s why they have persisted in their lies but with a few modifications from time to time. They have reproduced the same product using different packaging in order to deceive their customers, i.e. the European public opinion. The Western public opinion has changed, first because those lies cannot go on for six years while belied by the facts.
Second, thanks to the social media, it has become difficult for the corporate media linked to the political machines in the West to control the ins and outs of information and data throughout the world.
Third, this happened as a result of the huge migration waves towards Europe and the terrorist acts which hit a number of European states, particularly France. These different events have made the Western citizen ask questions about the reality of what’s going on.
What has changed in Europe today is that the public opinion knows very well that the corporate media and the politicians are lying. But the public opinion does not know the full truth, it knows only part of the truth and is seeking out the truth of what is happening in Syria, what happened in Libya, and what’s happening in Yemen today, and is asking questions about the relationship between the officials in their countries and the petrodollars in the Gulf states, and other questions.
Question 20: You said recently that 2017 will see the end of the war in Syria. Do you still believe that the war in Syria will end this year?
President Assad: No, I did not say this literally. I said several times that without Western intervention, we can end this war and all its ramifications in a few months, i.e. in less than a year. That was in 2016, and was interpreted that the war was at an end and that the next year will see the end of the war.
Of course, things are moving in a better direction, as I said, not in the interest of the terrorists but in the interest of the Syrian people, but war is unpredictable, especially that the countries which have supported the terrorists are doing their absolute best to protect them, first because the defeat of the terrorists means a political defeat for them in their countries, and second because exhausting Syria is one of the major tasks they have been trying to accomplish through the terrorists and through war. So, even if Syria was able to come out of this war, they want the bottom line price to be Syria’s exhaustion and fatigue so that Syria will have energy only to feed and rebuild itself and forget all the other issues surrounding it in terms of its rights and duties in relation to the different countries in our region. In other words, they want Syria to be unable to play any active, valuable, or weighty role in the region.
Journalist: Are you confident of the victory of the Syrian-Russian-Iranian alliance?
President Assad: As I said a while ago, we have a great hope which is becoming greater; and this hope is built on confidence, for without confidence there wouldn’t be any hope. In any case, we do not have any other option except victory. If we do not win this war, it means that Syria will be deleted from the map. We have no choice in facing this war, and that’s why we are confident, we are persistent and we are determined.
Journalist: Thank you very much, Mr. President.
President Assad: Thank you.
Al-Assad: Europa se neće zaštititi od terorista jer ih podržava
Hrvati su bolje od ostalih Europljana shvatili što se događa u Siriji i nisu krivi za pogreške svojih vlada
Punih osam mjeseci čekali smo odobrenje za intervju sa sirijskim predsjednikom Basharom Al-Assadom, iz novinarskog kuta gledano, nedvojbeno najtraženijim svjetskim čelnikom.
No ni nakon odobrenja nije sve išlo glatko. Morali smo obaviti niz telefonskih razgovora i poslati mnoštvo e-mailova prije odlaska u Siriju. Procedura oko autorizacije intervjua izuzetno je komplicirana. Kako su nam objasnili, većina bi novinara iz odgovora predsjednika Bashara Al-Assada izvukla samo ono što im je odgovaralo i tako bi iskrivili odgovore i teze. U Damasku smo, prije intervjua, boravili tri dana te dogovarali posljednje detalje. Na sam dan intervjua još nismo znali gdje ćemo razgovarati s predsjednikom s obzirom na to da smo se naslušali raznih priča i nagađanja o tome gdje se Assad zaista nalazi. Stigavši u dvorište njegova ureda u Damasku, očekivali smo da je to tek početna stanica gdje će nas dočekati garda koja će nas odvesti tko zna kamo kako bismo se susreli s Assadom. Izlazeći iz automobila, doživjeli smo šok – predsjednik Assad je stajao na vratima i čekao nas.
“Dobar dan, Hassane, dobro došli u Damask. Nadam se da se niste previše umorili”, obratio nam se predsjednik pružajući ruku. Uzvratili smo mu pozdrav i zahvalili osobno i uime redakcije Večernjeg lista što nam je pristao dati intervju. Nakon razmjene kurtoaznih riječi, počeli smo razgovor, koji je trajao pola sata. Tijekom cijelog intervjua predsjednik Bashar Al-Assad djelovao je smireno, staloženo i samouvjereno. Iako su vani odjekivale snažne detonacije, na njih je bio potpuno imun. Nijednom gestom nije pokazao da je zabrinut. Na sva pitanja odgovarao je smireno, temeljito i argumentirano iako ih nije tražio unaprijed. Kako nas je dočekao, tako nas je i ispratio – srdačno, ljubazno, i sa željama za zdravlje i dug život.
Šesta godina rata
Već je šesta godina od početka sirijskog rata. Nakon nedavnih trijumfa sirijske vojske u Alepu i Palmiri te početka procesa pomirenja, postoji li tračak nade da će se okončati rat u Siriji?
Naravno, jer bez nade ni zemlja, ni ljudi, ni država ne bi mogli izdržati šest godina okrutnog rata, koji podržava desetak regionalnih i zapadnih zemalja. A među njima su i neke od najbogatijih i najsnažnijih zemalja svijeta. Ali, sada je pitanje kako tu nadu pretvoriti u stvarnost? To je do sada bilo moguće zahvaljujući dvama pristupima. Prvi je borba protiv terorizma, a drugi postizanje pomirenja sa svima koji žele položiti oružje, vratiti se svojim normalnim životima i zagrljaju svoje zemlje. Bilo je napretka na oba područja, i u suzbijanju terorizma i u postizanju pomirenja. Zato kažem da sada postoji više nade nego proteklih godina.
U pregovorima koji su ranije vođeni u Astani i sada u Ženevi većina oporbenih pregovarača podržava razmišljanja vahabita, salafista i džihadista. Zašto pregovarate s tim ljudima? I postoji li u stvarnosti neka umjerena oporba?
To je vrlo važno pitanje jer su zapadni dužnosnici, a najnaglašenije bivši američki predsjednik Obama, rekli da je umjerena oporba iluzija ili fantazija. To su, dakle, rekli oni koji su poslije podržavali tu oporbu i dali joj lažni umjereni privid. Umjerena oporba ne postoji, postoji samo džihadistička oporba, naravno u iskrivljenom smislu džihada. Ona ne prihvaća ni dijalog ni rješenje, osim putem terorizma. Zbog toga mi praktično i ne možemo postići nikakav stvarni rezultat s njima. Dokaz za to je to da su oni, tijekom pregovora u Astani, započeli napad na Damask, Hamu i druge dijelove Sirije, obnavljajući terorizam i ubijajući nevine ljude. Ti teroristi ne mogu biti oporba i ne mogu pomoći u postizanju rješenja. Osim toga, te terorističke grupe povezane su s programima djelovanja stranih država. Oni ne pripadaju nekoj struji ili pokretu u sirijskom narodu koji traže političku reformu ili određeno rješenje, nisu to činili ni prije, a ne čine ni tijekom rata. Neki dijelovi tih grupa mogu izgledati politički, u smislu da ne nose oružje, ali podržavaju terorizam, dok su neki povezani sa saudijskim, turskim i zapadnjačkim programima djelovanja.
Uski politički interesi
Zašto onda pregovarate s njima?
Zato što u početku mnogi nisu vjerovali da te grupe ne žele položiti oružje i okrenuti se političkom djelovanju. Mi smo počeli pregovore želeći dokazati svima koji su sumnjali da se te grupe ne mogu uključiti u politiku i da će do kraja ostati terorističke.
Svijet je objavio rat terorizmu. Vjerujete li u tu objavu i u ono što svijet danas čini?
Svijet koji je objavio rat terorizmu praktično se sastoji od zapadnih zemalja koje i same podržavaju terorizam. Većina je zemalja u svijetu protiv terorizma. One to ne objavljuju, ali su u praksi surađivale s nama na razne načine tijekom rata i prije rata. Jer terorizam nije započeo s ratom u Siriji, on je uvijek postojao u svijetu i proširio se kao rezultat različitih sukoba na Bliskom istoku. Međutim, zapadne zemlje koje su objavile rat terorizmu još uvijek ga podržavaju. One ga ne suzbijaju, a terorizam koriste samo kao izraz za domaću javnost. Činjenica je da oni koriste terorizam kao platformu za različite političke programe djelovanja, čak i onda kada im se taj terorizam obije o glavu i izazove žrtve u njihovim zemljama. Ali oni to ne priznaju. Protiv terorizma u Siriji u osnovi se bori samo sirijska arapska vojska. Ovo nije floskula, činjenice na terenu to dokazuju. Sirijska arapska vojska bila je u stanju postići uspjehe u borbi protiv terorizma zahvaljujući, u prvom redu, volji sirijskih boraca i podršci naroda. Naravno, postojala je i vrlo snažna podrška naših saveznika Irana, Rusije i Hezbollaha iz Libanona.
Predstavlja li sirijska vojska sve sekte, etnicitete i manjine u Siriji?
Pa to je očito! Vojska koja bi predstavljala samo dio sirijskog naroda ne bi mogla pobijediti u ratu koji se događa u cijeloj Siriji. Bez obzira na to kako se to predstavlja na Zapadu. Na samom početku rata i teroristi i neprijateljski raspoloženi zapadni mediji, kao i oni u našoj regiji, željeli su predstaviti ovaj rat kao sektaški. Ta je slika bila jako raširena na Zapadu. Da je ona bila istinita, Sirija bi bila podijeljena već prvih mjeseci rata. Sirijci ne bi izdržali šest godina kao jedinstven narod. Istina je da teroristi kontroliraju neka područja, ali dijelovi koje kontrolira sirijska država uključuju sve spektre sirijskog naroda. Kad ta sirijska vojska i iza nje sirijska vlada ne bi predstavljale cjelokupan sirijski narod, ne bi bilo moguće vidjeti tu jedinstvenu sliku sirijskog naroda.
Da je postojala sigurnosna suradnja između sirijske vlade i europskih država, bismo li mogli izbjeći teroristička djelovanja koja su zahvatila Francusku, Belgiju...? Postavljam ovo pitanje jer je nakon terorističkih napada u Parizu bivši čelnik francuskih obavještajnih službi rekao da ste im dostavili imena i dokumentaciju o teroristima, ali da su ih oni odbili prihvatiti. Jesu li ih zbilja odbili prihvatiti? I, bismo li mi, da je postojala suradnja, bili u stanju izbjeći te terorističke činove?
Ne, on je vjerojatno govorio o suradnji prije rata jer nakon početka rata i francuske pozicije podržavanja terorista Sirija je obustavila sigurnosnu suradnju s tom zemljom. Ne možete imati sigurnosnu suradnju i političko neprijateljstvo u isto vrijeme. Trebao bi postojati politički sporazum s jedne strane, i sporazum na drugim područjima, uključujući sigurnost. Što se tiče pitanja bi li bilo moguće spriječiti te napade u Europi kroz jednu takvu sigurnosnu suradnju, u normalnim okolnostima odgovor bi bio da. Ali u današnjim okolnostima odgovor je ne jer Europa, ili brojne europske zemlje koje podržavaju teroriste, u velikoj mjeri šalju u Siriju desetke tisuća terorista ili ih podržavaju direktno i indirektno, logistički, oružjem, novcem, političkim pokrićem i svim drugim sredstvima. Kad dostignete taj stupanj podržavanja terorista – a mi ovdje govorimo o desecima tisuća, a možda i o stotinama tisuća u Siriji i susjednim područjima – u tom slučaju sigurnosna suradnja poprima ograničenu učinkovitost. Sigurnosna se suradnja fokusira na desetke ili stotine pojedinaca, ali ne može biti učinkovita kada postoje deseci i stotine tisuća terorista. Ako se Europa želi zaštititi u ovoj fazi, prvi korak bio bi prestanak podrške teroristima u Siriji. Uz pretpostavku da bismo htjeli surađivati s njima, u ovim okolnostima se ne mogu postići nikakvi rezultati. Mi to, naravno, nećemo učiniti sve dok oni podržavaju terorizam. Oni trebaju odmah prestati podržavati teroriste.
Godine 2009. posjetili ste Zagreb i sreli se s hrvatskim dužnosnicima. U to vrijeme sam pročitao vašu izjavu u kojoj ste rekli da je Hrvatska prijateljska zemlja, da je hrvatski narod bratski narod. Smatrate li još uvijek hrvatski narod prijateljem Sirije, posebno nakon isporuke oružja iz Hrvatske u Washington, a onda u Saudijsku Arabiju i Jordan, koje je na kraju palo u ruke terorista?
Svakako. Hrvatski narod je prijateljski narod i naši odnosi traju desetljećima. Govorimo o odnosu koji je trajao generacijama i još uvijek traje. Ne smatramo hrvatski narod odgovornim za pogreške koje su učinile njihove vlade. Što je još važnije, ako pokušamo pratiti javno mnijenje u Hrvatskoj u odnosu na ono što se događa u Siriji, ustanovit ćemo da je – u usporedbi s drugim zemljama – to javno mnijenje bilo, općenito tijekom rata, bliže razumijevanju onoga što se događa u Siriji nego kod mnogih drugih europskih naroda. Da taj odnos i to prijateljstvo nisu bili iskreni, hrvatskom narodu bilo bi teško razumjeti što se događa u Siriji. Zbog toga bih želio naglasiti da je ono što se dogodilo u vezi s isporukom oružja koje je došlo do terorista bilo jedno od “postignuća” prethodne hrvatske Vlade, možda zbog financijskih ili političkih interesa, možda je to bilo popuštanje pod pritiskom drugih velikih zapadnih sila. Ali, bilo kako bilo, oni su prodali interese i principe hrvatskog naroda u zamjenu za petrodolare ili za uske političke interese tih dužnosnika.
Zapad želi satelitske države
Je li moguće obnoviti političke i diplomatske, a možda i ekonomske odnose, jer Hrvatska ima brojne interese u Siriji?
Naravno, svakako je moguće, ali to ovisi o političkoj usmjerenosti postojećih vlada. Ako su postojale pogreške u politici, posebno one koje su počinile prethodne vlade, vrlo je lako za buduće vlade ili za ovu postojeću obnoviti te odnose. Mi od tih vlada ne tražimo ništa drugo nego da najprije misle o interesima svojeg naroda, a zatim na međunarodno pravo koje se ponajprije zasniva na suverenosti drugih zemalja i nemiješanju u njihove unutarnje poslove. Mi nismo nikada, tijekom cijele naše povijesti otkad su započeli odnosi između nas i Hrvatske sada, a bivše Jugoslavije u prošlosti, izveli nikakav neprijateljski čin protiv tih zemalja. Uvijek smo ih smatrali prijateljima. Kakvo opravdanje ima vlada da pošalje oružje teroristima u Siriji koje će se koristiti za ubijanje nedužnih Sirijaca? Mislim da nema opravdanja za to i nadamo se da sadašnja vlada to ne prihvaća.
Postoji velik broj džihadista i terorista koji su došli s Balkana. Imate li informaciju o njihovu broju?
Nemamo točnih informacija zbog našeg turskog susjeda pod vodstvom kriminalca Erdoğana, koji podržava jačanje prisutnosti tih terorista u Siriji. To nam onemogućuje kontrolu granica i posljedično nam ne omogućuje točnu statistiku o broju terorista koji ulaze i izlaze iz zemlje. Ali glavno pitanje nije pitanje nacionalnosti tih terorista, jer znate da teroristi gledaju na cijeli svijet kao na jedinstvenu arenu. Oni ne vode računa ni o nacionalnoj dimenziji ni o političkim granicama. Tako da opasnost za vašu zemlju ili za Europu općenito ne dolazi samo od europskih terorista. Istina je da neki Europljanin može biti opasniji jer poznaje vašu regiju u detalje, ali njega će pratiti i drugi teroristi iz drugih zemalja, teroristi koji dijele istu doktrinu, aspiracije i ideje, u namjeri da izvedu napade. Zato, kada govorimo o broju terorista u Siriji, svakako govorimo o stotinama tisuća ili barem o više od stotinu tisuća. Naravno, oni dolaze i odlaze, a neki od njih budu i ubijeni u borbi.
Prosječni se ljudi pitaju o uzrocima napada na Siriju i pokušajima vašeg svrgavanja. Koji razlozi stoje iza toga?
Razlog je star, jednostavan i jasan. Te zapadne zemlje, predvođene Sjedinjenim Američkim Državama, u partnerstvu s uglavnom Velikom Britanijom i Francuskom, a na žalost i nekim europskim zemljama koje nemaju kolonijalnu povijest, ne prihvaćaju nezavisne države i ne prihvaćaju ravnopravne odnose. Oni žele satelitske države koje provode njihove politike. Velike države imaju interese po cijelom svijetu, a mi imamo interese u našem okruženju. Nismo supersila, ali kada djelujemo s drugim državama, interesi trebaju biti zajednički. No oni žele da djelujemo za njihove interese protiv naših. Zbog toga smo uvijek bili u sukobu s tim zemljama. Na primjer, mi želimo mirovni proces, dok oni žele pokornost umjesto mira. Oni žele da imamo mir bez prava, što nije razumno. Oni žele da se odreknemo svoje suverenosti, da odustanemo od svojih prava koja su priznata međunarodnim pravom, rezolucijama Vijeća sigurnosti i brojnom potporom u Ujedinjenim nacijama za povrat naših područja. Postoji mnogo pitanja zbog kojih smatraju da je Sirija kao država previše nezavisna. Zbog toga su mislili da bi im vođenje rata u Siriji i zamjena sadašnje vlade klijentelističkom olakšalo stvari i omogućilo postizanje njihovih uskih interesa.
Cijena otpora i podložnosti
Da ste prihvatili mir ili pokornost, kako ste rekli, bi li se dogodilo ovo što se danas događa u Siriji?
Dat ću vam jedan primjer. Od nas je zatraženo da stanemo uz Zapad, posebno SAD, 2003. godine u njihovu ratu protiv Iraka. Znali smo da je rat u Iraku početak niza događaja radi podjele regije. Na svim konferencijama koje su se održavale prije rata, u namjeri da se odredi budućnost poslijeratnog Iraka, raspravljalo se o budućnosti sektaškog, a ne jedinstvenog Iraka. Dakle, znali smo da će se ono što se događa u Iraku preseliti u Siriju i na cijelu regiju. Da smo tada sudjelovali, situacija u Siriji bila bi danas puno gora nego nakon što smo to odbili učiniti. Zbog toga sam običavao govoriti da je cijena otpora puno manja nego cijena podložnosti. To sam rekao puno puta u prošlosti, a kasniji događaji u Siriji to su i dokazali. Ono što je pomoglo Siriji da danas čvrsto stoji jest to što je ona ujedinjena. Da smo pristali na sektaški projekt, bili bismo zemlja rastrgana pravim građanskim ratom. Građanski rat bio bi stvarnost, a ne samo pojam koji se koristi za opis onoga što se zbiva.
Zašto zaljevske zemlje plaćaju novcem i podržavaju teroriste kako bi svrgnule vladu u Siriji?
Većina zaljevskih država satelitske su države koje se ne usude reći ne. Neke od njih kažu: “Mi vas podržavamo, ali to ne možemo javno reći. Želimo vam pobjedu u ratu i nadamo se da ćete biti u stanju sačuvati jedinstvenu Siriju i pobijediti teroriste.” Ali u javnosti govore nešto drugo jer su podložni zapadnjačkoj volji. Većinu zaljevskih država, ako ne i sve, u određenoj fazi stvorili su Britanci, a poslije su predane Amerikancima.
Prihvaćate li ideju federalizma u Siriji o kojoj se u posljednje vrijeme dosta govori?
Federalizam je nacionalno pitanje, a treba li se dogoditi ili ne, ovisi o ustroju. A za ustroj je potreban glas naroda, a vlada i izvršna tijela izražavaju volju naroda. Ipak, većina Sirijaca n
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DŽEVAD JAHIĆ i MIRJANA VLAISAVLJEVIĆ. Moderator: Omer KARABEG. Danas razgovaramo o tome, kakav je status bosanskog jezika u Bosni i Hercegovini...
L’Académie croate adopte une nouvelle déclaration très politique sur la langue (Davor Butković, Jutarnji List / CdB, feb. 2005)
http://www.balkans.eu.org/article5186.html
Sandjak : guerre des langues dans les écoles de Novi Pazar (A. Rizvanović et J. Kruševijanin, IWPR / CdB, feb. 2005)
Parlez-vous « bosnien » ? Désormais, cette langue sera enseignée dans les écoles de Novi Pazar, car les habitants bosniaques de la région refusent de parler le serbe. Les experts estiment cependant que les nouveaux manuels scolaires ont été réalisés sans aucune rigueur scientifique...
http://www.balkans.eu.org/article5098.html
Language Battle Divides Schools (By A. Rizvanovic, IWPR 2 Aug 05)
https://iwpr.net/global-voices/language-battle-divides-schools
L’intervento di Andrea Marcolongo a un incontro in Trentino, nell’ambito del Festival delle lingue di Rovereto, denuncia i paradossi del purismo strumentale
Questa la tesi della “Dichiarazione sull'unitarietà della lingua” presentata oggi a Sarajevo e frutto del lavoro e di duecento linguisti, intellettuali e figure pubbliche di spicco dei quattro paesi interessati.
Secondo gli autori, le differenze di lessico e ortografia nelle varie versioni della “lingua unica” che si parla nello spazio ex-jugoslavo, sono state esagerate ed utilizzate dalle ideologie nazionaliste che hanno contribuito allo sfascio della Jugoslavia e alla nascita di vari stati indipendenti sulle rovine della federazione di Tito.
“Un narcisismo delle piccole sfumature” che ha avuto conseguenze pesanti, dalla ghettizzazione dei “diversi” sulla base di differenze nell'uso della lingua, al blocco del normale sviluppo letterario e stilistico della “lingua contesa”. Ma anche sbocchi comici e paradossali, come la sottotitotolazione di film già totalmente comprensibili al pubblico interessato.
Vista la sensibilità dell'argomento nel contesto ex-jugoslavo, la “Dichiarazione” ha provocato polemiche soprattutto in Croazia, il paese che - più di altri – ha posto l'“unicità e diversità” del croato come pilastro della propria identità culturale e statuale.
Interpellato a riguardo, il premier croato Andrej Plenković si è limitato a rispondere piccato: “Il croato è una lingua ufficiale dell'Ue, e questa dichiarazione è solo un'iniziativa informale che non merita lo sforzo di una replica”.
DEKLARACIJA O ZAJEDNIČKOM JEZIKU
U proteklih godinu dana su u Podgorici (nekadašnjem Titogradu), Splitu, Beogradu i Sarajevu održane konferencije na kojima je, kroz otvoreni dijalog lingvista i drugih stručnjaka, javno tematizovano pitanje postojanja četiri „politička“ jezika u Bosni i Hercegovini, Crnoj Gori, Hrvatskoj i Srbiji. „Uprkos željenoj i ostvarenoj emancipaciji te formalnom postojanju četiri standarda, identitetsko-jezičke strasti nisu se smirile, a preskriptivizam, zanesenost jezičkim imperijalizmom, teze o 'pedesetogodišnjem jezičkom ropstvu' i čitav dijapazon pogrešnih interpretacija i dalje traju.“, navodi se u obrazloženju. Projekat je zaokružen donošenjem dokumenta pod nazivom DEKLARACIJA O ZAJEDNIČKOM JEZIKU, a cilj je jednostavan – prevazilaženje nepotrebnih poteškoća u raznim segmentima društva, naročito u školama.
Nazivati jezik ZAJEDNIČKIM već ima svoju potvrdu u praksi i nije ga potrebno posebno priznavati. DEKLARACIJA, bez dvoumljenja, nudi adekvatnu alternativu totalnoj jezičkoj konfuziji koja nas prati još od početka 90-ih, ona nije nametanje, već, naprotiv, dobrodošlo rješenje. Pri tome je najmanje važno kako se taj (ZAJEDNIČKI) jezik zove.
Apsolutno svjesni činjenice da se ovim želi pokrenuti proces normalizacije odnosa među narodima na prostoru nekadašnje Jugoslavije, a jedan od sastavnih i neizostavnih dijelova tog procesa svakako jeste jezik, mi, članovi Udruženja „Naša Jugoslavija“, Saveza Jugoslovena, Zajednice Jugoslovena u Njemačkoj, podržavamo ovu inicijativu, pridružujemo se potpisnicima i pozivamo Vas da učinite isto.
Koordinacija
Udruženja „Naša Jugoslavija“,
Saveza Jugoslovena i
Zajednice Jugoslovena u Njemačkoj
DEKLARACIJU O ZAJEDNIČKOM JEZIKU
- činjenica postojanja zajedničkog policentričnog jezika ne dovodi u pitanje individualno pravo na iskazivanje pripadnosti različitim narodima, regijama ili državama;
- svaka država, nacija, etno-nacionalna ili regionalna zajednica može slobodno i samostalno kodificirati svoju varijantu zajedničkog jezika;
- sve četiri trenutno postojeće standardne varijante ravnopravne su i ne može se jedna od njih smatrati jezikom, a druge varijantama tog jezika;
- policentrična standardizacija je demokratski oblik standardizacije najbliži stvarnoj upotrebi jezika;
- činjenica da se radi o zajedničkom policentričnom standardnom jeziku ostavlja mogućnost svakom korisniku da ga imenuje kako želi;
- između standardnih varijanti policentričnog jezika postoje razlike u jezičnim i kulturnim tradicijama i praksama, upotrebi pisma, rječničkom blagu kao i na ostalim jezičnim razinama, što mogu pokazati i različite standardne varijante zajedničkog jezika na kojima će ova Deklaracija biti objavljena i korištena;
- standardne, dijalekatske i individualne razlike ne opravdavaju nasilno institucionalno razdvajanje, već naprotiv, doprinose ogromnom bogatstvu zajedničkog jezika.
- ukidanje svih oblika jezične segregacije i jezične diskriminacije u obrazovnim i javnim ustanovama;
- zaustavljanje represivnih, nepotrebnih i po govornike štetnih praksi razdvajanja jezika;
- prestanak rigidnog definiranja standardnih varijanti;
- izbjegavanje nepotrebnih, besmislenih i skupih ”prevođenja” u sudskoj i administrativnoj praksi kao i sredstvima javnog informiranja;
- slobodu individualnog izbora i uvažavanje jezičnih raznovrsnosti;
- jezičnu slobodu u književnosti, umjetnosti i medijima;
- slobodu dijalekatske i regionalne upotrebe;
- i, konačno, slobodu ”miješanja”, uzajamnu otvorenost te prožimanje različitih oblika i izričaja zajedničkog jezika na sveopću korist svih njegovih govornika.
Retour de la polémique : parle-t-on croate ou serbo-croate en Croatie ?
Depuis l’implosion de la Yougoslavie et la proclamation de l’indépendance croate en 1990, la politique officielle de Zagreb soutenait que l’ancienne langue commune, le serbo-croate, n’existait plus, le croate représentant une langue à part. Depuis l’indépendance, une campagne bien ficelée a eu pour but de convaincre les pays étrangers que le serbe et le croate étaient deux langues différentes, pratiquement incompréhensibles l’une de l’autre.
Que cette campagne ait porté ses fruits est démontré par le fait que beaucoup de personnes vivant à l’étranger se sont senties invitées, malgré leurs piètres connaissances en la matière, à affirmer avec beaucoup de détermination que le régime communiste en Yougoslavie avait interdit la langue croate et bloqué son libre développement.
Deux langues, vraiment ?
L’éminente linguistique croate comme l’élite intellectuelle ont soutenu cette posture et ont avancé de nombreux arguments ingénieux pour démontrer que le serbe et le croate étaient deux langues différentes. Ce grand projet a eu comme objectif d’éloigner la langue croate le plus loin possible de la norme commune, norme qui avait pourtant été choisie dans la première partie du XIXe siècle par les Croates eux-mêmes pour renforcer la création de leur État-nation.
De fait, les patriotes croates ont choisi dans les années 1830 un dialecte commun. Ce dialecte a été standardisé et décrit dans les grammaires et dictionnaires, aussi bien en Croatie qu’en Serbie. Depuis lors, et jusqu’à la dissolution de la Yougoslavie, le serbo-croate a été reconnu comme langue-standard commune aux Serbes, Croates, Bosniens et Monténégrins. Mais avec la création de nouveaux pays indépendants, la construction des nouveaux États-nations passait aussi par la langue, qu’il fallait nouvelle et indépendante.
Bien évidemment, la langue ne peut changer en un claquement de doigts, sur un diktat venu d’en haut. On ne peut pas modifier la langue et en faire quelque chose d’autre de ce qu’elle est et de ce qu’elle a toujours été. Car la langue a sa propre composition, ses structures phonologiques, morphologiques et syntaxique ; elle ne change que lentement. C’est pour cela que le dictionnaire et le bon usage (pravopis) croate représentent l’unique champ sur lequel les innovateurs de la langue croate puissent avoir une emprise.
Des années durant, une sorte de « novlangue » à la George Orwell a été promue en Croatie, avec des règles très strictes sur ce qui est une utilisation correcte et incorrecte de la langue. Les mots et les phrases serbes, qui ont également pris racine en Croatie, sont devenus définitivement obsolètes. Les médias et maisons d’édition croates embauchent de soi-disant lecteurs, qui en réalité fonctionnent comme censeurs. Leur tâche consiste à bloquer des « mauvais » mots, afin que les serbismes ne passent pas.
De leur côté, les journaux ouvraient des concours pour récompenser celui qui inventerait le meilleur mot croate. Il y a même eu des tentatives de criminalisation de l’utilisation de mots non-croates, suivant à peu près la même recette utilisée dans l’Italie de Mussolini, l’Allemagne nazie et la Croatie fasciste, au cours de la Seconde Guerre mondiale. Tout cela à cause de l’idée illusoire selon laquelle les frontières linguistiques et nationales doivent coïncider et que, sans langue propre, la Croatie n’aurait pas d’identité propre.
Ce que tout le monde savait déjà
Dans cet océan de linguistique partiale et nationaliste, un seul, mais vaste, ouvrage essaie de mettre fin à l’illusion d’une Croatie linguistiquement pure et suscite un torrent de réactions dans le pays. Snježana Kordić, l’auteur du livreLa langue et le nationalisme, est sans doute la linguiste croate la plus connue à l’étranger. Elle enseigne depuis quinze ans dans plusieurs universités allemandes et est l’auteur d’une liste imposante d’ouvrages.
Dans une suite d’articles déjà publiés, Snježana Kordić a affirmé ce que tout le monde savait déjà, à savoir que les Serbes, les Croates, les Bosniaques et les Monténégrins parlent des variantes différentes d’une même langue. Dans son livre, elle démontre que la thèse selon laquelle les frontières linguistiques et nationales coïncideraient est fausse. Elle donne des preuves pour prouver que le serbo-croate est une langue polycentrique tout comme l’anglais, l’allemand, l’espagnol et tant d’autres. Elle critique ses homologues croates pour leur manque frappant de connaissances en linguistique contemporaine et en les méthodes sociolinguistiques les plus simples.
Snježana Kordić s’est longuement penchée sur la problématique de la censure linguistique mise en place en Croatie. Elle accuse les linguistes et les intellectuels croates de céder à la pression des politiciens et autres groupes nationalistes. Des années durant, la polémique avec ses collègues était sans conséquence, car menée dans le cadre de revues spécialisées. Or, son nouveau livre a eu l’effet d’une bombe, qui a mobilisé les cercles nationalistes.
« Un complot contre la Croatie »
Une association privée qui répond au nom de Conseil culturel croate a porté plainte contre le ministère de la Culture pour avoir accordé son soutien financier à la publication de cet ouvrage. Selon cette association, le ministère aurait commis une infraction à la Constitution du pays qui établit le croate comme la langue officielle du pays. La même association affirme également que le ministère n’a pas à financer un livre qui affirme que les Serbes et les Croates parlent une seule et même langue.
De même, le livre en question serait une menace pour l’indépendance croate et représenterait une insulte au peuple croate, ainsi qu’une attaque à l’identité nationale croate. Au sein de l’association, on pense également - chose pas si étonnante dans cette région de l’Europe - que le livre fait partie d’un complot contre la Croatie. Son président a récemment affirmé que « En Croatie les collaborateurs de ce complot étant connus, ceux d’Allemagne et d’ailleurs seront démasqués ». Selon lui, « les pistes mènent à La Haye, Londres et Bruxelles ».
Qui sont les « ennemis de la Croatie » ?
Les nationalistes croates voient des ennemis intérieurs et extérieurs partout. Parmi eux, le Tribunal de La Haye pour l’ex-Yougoslavie, qui non seulement juge les criminels de guerre croates, mais de plus engage, malgré les désapprobations de la Croatie officielle, des interprètes et traducteurs de toute la région linguistique serbo-croate et publie ses documents soit dans la variante serbe, soit dans la variante croate, en reconnaissant ainsi de fait la langue serbo-croate comme étant la langue de travail du tribunal, et par conséquent une langue unique.
Bruxelles est désigné comme étant l’ennemi de la Croatie parce que les nationalistes croient percevoir des signes clairs qu’une fois la Serbie et la Croatie intégrées à l’Union européenne, Belgrade refusera la demande de la Croatie de reconnaître le croate comme langue à part entière. Et de ce fait, la nation, dont le plus grand espoir est d’avoir sa langue propre, connaîtra un échec sans précédent.
L’actualité de ce sujet sensible a placé le livre La langue et le nationalisme au cœur du débat. La Croatie est partagée en deux clans : lest pour Snježana Kordić et les contre. De nombreux commentaires sont publiés dans la presse, ainsi que sur Internet. Des meetings et des manifestations sont organisées contre le livre. Snježana Kordić a accordé énormément d’interviews aux journaux et hebdomadaires indépendants. Son ouvrage spécialisé est presque unbestseller et dû être retiré pour répondre à la demande. Il semblerait que la majorité des gens s’intéressent à la langue, et ceci d’une façon qui apparemment ne suit pas les lignes directrices dictées par le pouvoir.
Une rhétorique nationaliste usée jusqu’à la corde
Vu sous cet angle, l’amertume et les frustrations causées par le livre de Snježana Kordić sont compréhensibles. On dirait que peu de choses ont changé depuis que Dubravka Ugrešić, Slavenka Drakulić et d’autres intellectuels ont été forcés à l’exil dans les années 1990, pour s’être opposé au nationalisme xénophobe de l’ère Tuđman.
La rhétorique utilisée contre ce livre est la même que jadis. Mais, il s’est avéré que Snježana Kordić n’était pas la seule à penser ainsi. Sur les blogs, nombreux sont les simples citoyens qui ont, peut-être pour la première fois, exposé publiquement leurs réflexions sur la thèse selon laquelle ils ne comprendraient soi-disant pas leurs voisins de Serbie et Bosnie. Beaucoup d’hommes de lettres et intellectuels renommés ont affiché leur soutien à Snježana Kordić. Ils voient cette cabale comme une chasse aux sorcières.
Parmi ses soutiens en Croatie, connus de Hrvoje Hitrec [1] et son Conseil culturel croate, figure aussi l’auteur croate probablement le plus traduit à l’étranger : Miljenko Jergović. Toute cette affaire jette sans doute une lumière honteuse sur l’élite politique et intellectuelle croate. En effet, que penser d’une société dont l’indépendance et l’existence peuvent être mises en danger par un livre ? Surtout que, comme l’avait fait remarquer l’un des participants au débat, Snježana Kordić n’a rien fait d’autre que redécouvrir l’eau tiède...
Cet article est initialement paru le 21 janvier 2011 dans le magasine Kristeligt Dagblad de Conpenhague, sous le titre « La lutte pour la langue est une lutte pour l’identité nationale ».
as Jahr 2006 hat uns auf dem Balkan einmal mehr einen Staat beschert: Montenegro, 13.812 Quadratkilometer, 620.000 Einwohner. Also etwas kleiner als das Bundesland Schleswig-Holstein und fast genau so bevölkert wie das Bundesland Bremen. Aber um Größe und Bevölkerungszahl geht es auf dem Balkan nicht, sondern es geht um Identitäten und Sprachen.
Montenegro war in den späten 1990-er Jahren Liebling der internationalen Gemeinschaft, da diese sonst nichts gegen den Belgrader Diktator Slobodan Miloševic in der Hand hatte. Wäre es nach den Montenegrinern gegangen, dann hätte diese für sie so einträgliche Situation ewig bestehen können, weswegen sie auch nie die Opposition gegen Miloševic unterstützt haben. Denn sie wussten, wenn die siegt, dann interessiert sich niemand mehr für sie, aber viele werden sich an Montenegros Rolle bei Schmuggel und anderen mediterranen Gaunereien erinnern. Da erschien die Eigenstaatlichkeit als der goldene Weg, und den hat das Land konsequent beschritten – von der Einführung der D-Mark als nationale Währung im Jahr 2000 bis zur Unabhängigkeitserklärung im Juni 2006.
Land hinter Gottes Rücken
Rechtlich ist Montenegro ein vollgültiger Staat, seinem Wesen nach jedoch eine jener Balkan-Karikaturen, über die in der deutschen Publizistik bereits vor 90 Jahren abfällig geurteilt wurde: Staaten werden von Nationen gebildet, die im Besitz aller Attribute sind, die eine Nation nun einmal ausmachen – gemeinsame Sprache, Identität, Geschichte, Territorium etc. Auf dem Balkan schaffen oder verlangen ethnische Gruppen eigene Staaten – in der Hoffnung, mit der Schubkraft der Eigenstaatlichkeit endlich zu der Nation zu werden, die sie nie waren oder sein können.
Montenegriner hat es seit dem späten Mittelalter gegeben, allerdings nur als Teil des serbischen Ethnikums. Sie sind und bleiben Serben – die sich von anderen Serben nur dadurch unterscheiden, dass sie in 400 Jahren osmanischer Fremdherrschaft nie völlig erobert wurden. Wo die Osmanen nicht hinreiten konnten, dort ließen sie sich auch nicht sehen, und so konnte das „Land der schwarzen Berge“ (wie der italienische Landesname Montenegro bzw. der slavische Crna Gora in deutscher Übersetzung heißt) in relativer Unabhängigkeit leben. Bei den Serben war für Montenegro auch der ironische Begriff Zemlja Bogu za ledima im Umlauf: Land hinter Gottes Rücken.
Alles eine Verwandtschaft
Eine montenegrinische Identität, geschweige denn eine montenegrinische Sprache hat sich nie herausgebildet – im Gegenteil: Der montenegrinische Fürst-Bischof Petar Njegoš (1813-1851) machte sich 1847 in seinem Gedicht „Pozdrav rodu iz Beca“ (Wiener Gruß an die Landsleute) über gewisse dialektale Unterschiede bei den Serben lustig: „Lipo, ljepo, lepo, lijepo – listici su jednoga cvijeta“. Was deutsch etwa so wiederzugeben wäre: „Schön, scheen, scheun – sind doch Blätter derselben Blume“. Eben dieser souveräne Umgang mit Sprache hat Njegoš befähigt, zu einem der größten Dichter der Serben zu werden, dessen Versepos „Gorski vijenac“ (Der Bergkranz) zum Pantheon der südslavischen Literatur gehört.
Heute erscheint in der montenegrinischen Hauptstadt Podgorica ein Literaturblatt „in montenegrinischer Sprache“, von der niemand sagen kann, was sie ist. Angeblich hat das Montenegrinische zwei Buchstaben mehr als das Serbische, die auch niemand kennt. Und derselbe Krampf herrscht in allen Bereichen, in denen Montenegriner die Einmaligkeit ihrer Nation und Nationalkultur belegen wollen. Selbst eine eigene Kirche haben sie und berufen sich auf kirchliche Autokephalie in der Vergangenheit, was bestenfalls halbrichtig ist: Die Serbische Orthodoxe Kirche bestand bis 1921 aus vier oder fünf autokephalen Kirchen, darunter auch eine montenegrinische, die sich dann freiwillig zu der einen serbischen Kirche vereinigten. Bei einem Vortrag in Bonn sagte 1997 der damalige Präsident, spätere Premierminister Montenegros, dass fast alle „Montenegriner Verwandtschaftsbeziehungen ersten Grades zu Serbien“ hätten – später wurde er der härteste Verfechter montenegrinischer Eigenstaatlichkeit, da nur diese ihn, den Haupt-„Paten“ des mediterranen Zigarettenschmuggels, vor italienischen Strafverfolgern retten kann.
Das deutsche Beispiel
Diese ethno-linguale Gemengelage auf dem Balkan hat Deutschen manchmal gefallen, da sie in Deutschland ähnlich bestand: Die Deutschen sind keine Nation, die sich im Grad ihrer Binnenkohäsion mit Franzosen, Engländern, Russen vergleichen könnte – es gab nie ein deutsches Paris, London, Sank Petersburg. Was es bei Deutschen gab, war ein Ensemble von verwandten Stämmen auf der Basis einer gemeinsamen Sprache, wobei jeder Stamm sein eigenes Zentrum als Kristallisationspunkt seiner kreativen Energien besaß: Weimar bei den Thüringern, Dresden bei den Sachsen, München bei den Bayern etc.
So ähnlich stellten sich Deutsche vor 100, 200 Jahren die Südslaven vor. Sie alle sind „ein einziges Volk von der nämlichen Sprache“, urteilte 1829 Leopold von Ranke und knapp 100 Jahre später schrieb der deutsche Reichstagsabgeordnete und Balkankenner Hermann Wendel: „Serben, Kroaten und alle anderen sind ein Volk. Wenn sie es nicht sind, sind die Deutschen auch keins“. Diese Auffassung teilten auch die Südslaven. Im März 1850 schlossen Serben und Kroaten in Wien einen „Schriftsprachenvertrag“, der mit den Worten begann: „Wir sehen ein, dass ein Volk eine Literatur und Sprache braucht“, letztere nach deutschem oder italienischem Vorbild, wo man auch keine künstliche Gemeinsprache erfand, sondern einen Dialekt zur gemeinsamen Hoch- und Standardsprache erhob.
Natürlich hat die romantische deutsche Auffassung von der ethnischen und lingualen Einheit aller Südslaven nie ganz zugetroffen, und inzwischen musste ganz Europa schmerzlich erfahren, wie recht Milovan Djilas hatte, als er grimmig urteilte: „Wenn man auf dem Balkan über Sprachen diskutiert, werden auch schon Messer gewetzt!“
Sprache in Theorie und balkanischer Praxis
Die politisch motivierte Sprachendifferenzierung ist Gradmesser schwindender ethnischer Toleranz: Ethnische Spannungen kündigen sich an und vertiefen sich durch rückläufige sprachliche Toleranz. Wir haben es also mit einem politisch konfliktträchtigen Thema zu tun, was zu theoretischer Klärung zwingt:
o Sprache ist menschlich (aber wohl nicht immer human).
o Sie ist ein Zeichensystem (das regional nur für den inner circle gilt).
o Sie ist ein Medium des Gedankenaustauschs (wenn man denn den Dialog will).
o
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Nous comptons sur la participation des amis du CSO. N’oubliez pas de vous inscrire.
Déjeuner-Débat "Bosnie-Herzégovine, 25 ans après: mythes, réalités et perspectives de réconciliation" (6 avril - WBI)
Le 6 avril 1992, la guerre éclatait en Bosnie-Herzégovine. Pendant trois ans et demi, les combats firent rage, déplaçant deux millions de personnes et entraînant la mort d’environ cent mille autres. Vingt-cinq ans plus tard, les causes du déclenchement du conflit et les responsabilités pour sa longue durée sont beaucoup plus complexes que ce qui était avancé à l’époque par des médias et des gouvernements trop souvent manichéens.
Depuis, sous la supervision des États-Unis et de l’Union européenne, le pays est pacifié. Mais aucune réelle réconciliation intercommunautaire ne s’est encore produite, les réflexes identitaires continuant à primer sur les initiatives citoyennes. Aux aspirations centralisatrices des Bosniaques s’opposent les tendances centrifuges des Serbes et Croates bosniens. L’interminable mise sous protectorat du pays semble avoir entraîné une déresponsabilisation des acteurs locaux et aiguisé les rivalités à caractère ethnique. Plus grave encore, plusieurs anciens chefs de guerre appellent ouvertement à la guerre afin de régler les problèmes institutionnels, apparemment insolubles, découlant de l’accord de Dayton, ayant mis fin aux combats.
Pour parler et débattre du passé récent et de l’avenir de la Bosnie-Herzégovine, nous vous convions à ce déjeuner-débat, qui sera ouvert par des interventions de :
- Georges Berghezan, chercheur au GRIP, qui présentera son nouveau rapport sur la Bosnie-Herzégovine
- Xavier Bougarel, historien et chercheur au CNRS, pour un exposé sur les conséquences pour l’Europe du conflit bosnien
Où : Wallonie Bruxelles International (place Sainctelette, 2 à 1080 Bruxelles - métro Yser / Plan d'accès)
Quand : jeudi 6 avril 2017 de 12h à 14h
Inscriptions : Entrée gratuite mais inscription nécessaire : via notre formulaire d'inscription en ligne ; via l'adresse publications@... ou par sms au 0471/682.689
La conférence est organisée par l'Association pour les Nations unies (APNU) et le GRIP, avec le soutien de Wallonie-Bruxelles international (WBI).
GLI ANNI DI FATIDICHE ESPERIENZE DELLA FAMIGLIA MANDIC CON IL FASCISMO E CON IL NAZISMO
Malato di tumore da tempo, era tuttavia sempre in prima linea con idee e proposte di iniziative – tra cui un progetto in fieri di convegno per il Centenario dell'Ottobre, che altri compagni seguiranno anche in sua memoria.
Con lui abbiamo realizzato importanti progetti, tra cui le pubblicazioni "Dossier Srebrenica", "Il corridoio" di JTMV e "Menzogne di guerra" di J. Elsässer, perle rare nel panorama editoriale fondamentalmente fascista dell'Italia all'inizio del XXI secolo.
Grande cuore napoletano, marxista-leninista intransigente, uno dei pochi italiani che negli anni Settanta poteva entrare in Albania senza il visto... Diceva di se stesso, citando una battuta del film di Sordi "Finché c'è guerra c'è speranza" che riguardava un personaggio suo omonimo, guerrigliero antimperialista: "Manes è dappertutto". Ed ora anche per sempre.
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/arte_e_cultura/17_marzo_21/manes-l-editore-che-non-smise-mai-essere-comunista-68b4fa3c-0e46-11e7-851f-0eb635d33863.shtml
Intervista Sergio Manes "La Città del sole"- Napoli (NapoliUrbanBlog, 15 ago 2010)
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=IWVvJSmt5yk
24 mar 2017
Addio al compagno Sergio Manes, instancabile militante e organizzatore di cultura
Alexander Höbel
Il compagno Sergio Manes, fondatore e anima del Centro culturale e delle Edizioni La Città del Sole, ci ha lasciato poche ore fa, all’alba di questo 19 marzo grigio e triste. Sergio è stato un comunista fino alla fine: un comunista mai riconciliato col mondo ingiusto, grande e terribile; un comunista da tempo “senza partito”, critico sincero dei nostri limiti, delle nostre inadeguatezze. Le sue critiche però non erano quelle di un compagno che sta alla finestra o davanti a un computer, ma quelle di un militante costantemente impegnato, sul versante della battaglia culturale e della continua organizzazione di luoghi e momenti di aggregazione, mobilitazione, crescita politica.
Sergio Manes aveva iniziato la sua militanza nel 1960, e raccontava spesso del suo fermo nel corso delle manifestazioni antifasciste di quel luglio, che anche a Napoli segnarono la discesa in campo di una nuova generazione di antifascisti e di comunisti. Sergio aderì al Partito comunista italiano, da cui uscì pochi anni dopo, condividendo la critica che intanto andava emergendo alla strategia togliattiana e che si saldò presto con la contestazione della linea del partito sovietico operata sul piano internazionale dai comunisti cinesi. Entrò dunque a far parte del Pcd’I m-l, collaborando alla rivista “Nuova Cultura” e fondando assieme ad altri il quotidiano “Ottobre” (in entrambi i casi direttore responsabile era Mario Geymonat). Anche in quella esperienza Sergio portò la sua grande attenzione al versante culturale della lotta politica: una concezione che conservò anche quando si allontanò dalla militanza di partito.
Nel 1989-90, in opposizione frontale alla liquidazione del Pci promossa da Achille Occhetto e dal gruppo dirigente della Bolognina, il compagno Manes rientrò nel Partito comunista italiano per partecipare alla battaglia del “fronte del No”, anche lì dando vita a bollettini, giornali, pubblicazioni. È in quella fase che ebbi modo di conoscerlo. Aveva saputo che nella sezione “Che Guevara” del Pci, nello stesso quartiere di Napoli in cui abitava, c’era un gruppo di giovani decisi a impegnarsi per il No allo scioglimento, e fu lui dunque a contattarci, per chiedere, confrontarsi; ne venne fuori un’intervista per un foglio che, se ricordo bene, si chiamava “Rosso di Sera”.
Poi Sergio aderì, come molti di noi, a Rifondazione comunista. E si impegnò sia sul versante politico della dialettica interna, sia nel tentativo di avviare un’iniziativa culturale ed editoriale che fiancheggiasse l’attività del Partito: le “Edizioni di Rifondazione comunista” però non nacquero mai. L’unica pubblicazione fu quella parte dei Manoscritti economico-filosofici di Marx intitolata Proprietà privata e comunismo. Sergio diede vita allora alle edizioni Laboratorio politico, e con quel marchio avviò un’intensa attività editoriale.
Poco dopo diede vita all’Associazione comunista “L’Internazionale”, e le nostre strade si incrociarono di nuovo. Sergio coglieva l’esigenza di noi compagni più giovani di imparare, discutere, approfondire, impegnarci nella battaglia delle idee. E per alcuni anni quella associazione, nella sede magnifica di Palazzo Spinelli, fu un punto di rifermento per tanti giovani e per i comunisti napoletani in generale: quelli che continuavano a militare nel Prc, ma anche tutti gli altri. Non mancarono gli scontri, anche forti, l’Associazione entrò in crisi. Poco dopo il compagno Manes abbandonò anche il Prc, per dedicarsi completamente alla battaglia culturale: una battaglia, però, sempre finalizzata alla politica, ossia alla trasformazione del mondo.
E proprio il suo impegno costante su questo versante ci portò di nuovo a incontrarci. Sergio intanto aveva dato vita a una nuova casa editrice, La Città del Sole, collaborando tra l’altro strettamente con l’Istituto italiano per gli studi filosofici, e negli anni Duemila promosse altre interessanti esperienze, quella del Centro studi sui problemi della transizione al socialismo (notevole il convegno di Napoli del novembre 2003, dal quale venne fuori il libro Problemi della transizione al socialismo in URSS) e quella dell’Archivio storico del movimento operaio napoletano, mentre il Centro culturale La Città del Sole costituiva una Biblioteca di grande interesse. Nuove generazioni di militanti, che si avvicinavano alla politica, trovavano in quelle strutture possibilità di formazione, dibattito, crescita. Intanto Sergio trovava il tempo anche per tornare a riflettere sul ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, sintetizzando le sue valutazioni nel libro Senza testa. Limiti e insegnamenti delle lotte degli anni ’60 e ’70, uno dei pochissimi suoi titoli pubblicati dalla sua casa editrice, che intanto arricchiva il suo catalogo di autori e testi di rilievo non solo nazionale.
La Città del Sole si è impegnata anche nel proseguire la pubblicazione delle Opere complete di Marx ed Engels nella loro traduzione italiana (importante, tra le altre, l’uscita nel 2012 di una nuova edizione del I Libro del Capitale, a cura di Roberto Fineschi), ma ha dovuto affrontare problemi sempre maggiori, di tipo logistico ed economico, incontrando una scarsa capacità di ascolto e di valorizzazione, a Napoli e sul piano nazionale, fino allo scontro col Comune per la sede concessa al Centro culturale, che proprio nelle scorse settimane è parso finalmente avviarsi a una soluzione.
Mi rendo conto di aver parlato tanto dell’attività di Sergio, e poco di lui. Forse perché proprio nella sua instancabile attività e capacità d’iniziativa e di lavoro Sergio metteva tanta parte di sé e ha messo tanta parte della sua vita. Ma non voglio che questo impedisca di dire qualcosa su di lui come persona: della sua schietta umanità, della grande ironia, del suo spirito profondamente napoletano, dell’intelligenza vivacissima, del “brutto carattere” che era poi una intransigenza assoluta verso opportunismi e pressapochismi, del suo essere sempre proiettato verso il futuro. Anche in questi mesi, quando, pur sapendo del male grave che lo aveva colpito, non si è stancato di proporre, incalzare, stimolare, per il futuro del Centro culturale e della Casa editrice, e intanto per quanto occorreva mettere in campo per il Centenario della Rivoluzione d’Ottobre (e su questo terreno un importante percorso unitario, di cui questo sito è uno dei primi frutti, è stato avviato).
Fino alla fine Sergio ci ha spronato, proposto, consigliato, spinto ad andare avanti. E ancora avanti cercheremo di andare, coi nostri limiti, anche nel suo ricordo, cercando di fare la nostra parte perché il suo grande lavoro sia ulteriormente sviluppato.
Alla sua famiglia, a sua moglie Liliana, ai figli Emiliano e Giordano, va intanto il nostro abbraccio commosso.
di La Contraddizione 25/03/2017
Difficile parlare di una persona conosciuta da sempre. Non c’è memoria distinta, infatti, del primo incontro, come del primo impegno culturale, politico, della prima militanza, dei primi pensieri tendenti al comunismo, del primo accesso ai livelli scientifici della transizione socialista, come dire insomma della teoria della rivoluzione iniziatasi più di cento anni fa. È come se Sergio fosse da sempre compresente a tutto ciò, alle battaglie sindacali, politiche, alle fasi propositive e a quelle recessive della nostra storia recente, con il suo instancabile fare, proporre, suggerire, lottare su tutti i terreni possibili per l’apertura di varchi ad una umanità meritevole di una destinazione di crescita razionale e di giustizia sociale. Le sue ultime parole per definire il comunismo sono state proprio tese a ribadire che infine, da qualunque versante lo si volesse considerare, avrebbe dovuto inevitabilmente sfociare nel diritto alla vita di tutti, e nella umanizzazione consapevole di una comunità mondiale in grado di soddisfare i bisogni storici della vita.
Nel suo modo di esprimersi, a metà scherzoso e a metà serio, era solito dire di avere tre figli: due in carne e ossa, amatissimi, e un terzo partorito come casa editrice di cui ha continuamente curato, non solo la nascita ma poi anche la crescita, concepita come erede naturale di tutte le pubblicazioni necessarie a informare scientificamente in senso lato, e in particolare sul pensiero socialista e comunista. Il mantenimento della memoria del sapere attraverso il libro, colto o divulgativo, specialistico o politico, nel momento in cui la lettura veniva meno, le case editrici storiche della sinistra sparivano una dietro l’altra, i classici del marxismo venivano mandati al macero o su qualche sparuta bancarella e le librerie che li tenevano vendute ad altre attività commerciali, significava scommettere sulla sopravvivenza, in questi lunghi tempi bui, della consapevolezza delle contraddizioni del sistema, del conseguente sfruttamento umano necessario al dominio di questo, della crescente distruttività legata al suo inevitabile progresso, infine della altrettanto ineluttabile tendenza alla sua fine e superamento in un altro modo di produzione.
Difficile parlare di Sergio Manes, nel senso che era stato capace di confondersi nei molteplici momenti di lotta sociale, nella storia delle trasformazioni del comunismo italiano e internazionale, solerte punto di riferimento di iniziative culturali e per pubblicazioni editoriali coraggiose, che altrove non avrebbero avuto spazio data la regressione sociale e politica di questi ultimi cinquant’anni. Come persona, pur essendo una individualità forte e spiccata, autorevole e tenace, non era schivo dal mostrare anche i lati più teneri, affettuosi e fragili legati agli affetti più cari, all’amicizia dei compagni considerata sempre come il bene più prezioso di cui avrebbe sentito una mancanza insopportabile semmai fosse venuta meno. Oggi a parlare a tutti di Sergio saranno le innumerevoli pubblicazioni della Città del Sole, che ci auguriamo possano continuare ad essere prodotte, proprio come lui auspicava, nell’ottica di una continuità non solo della sua lotta personale, ma soprattutto della necessità di resistenza sociale della cultura marxista di contro a ogni ostracismo opposto dal capitale. La “Città del Sole” non è soltanto stata la sua casa editrice, ma anche un centro stabile di incontri e dibattiti cultural-politici che Sergio ha tenuto caparbiamente a costituire a Napoli, nonostante tutti i tentativi di esproprio, i furti, le effrazioni e distruzioni subite, operate da riconoscibili ignoti mai efficacemente perseguiti, ad irrisione delle puntuali denunce effettuate.
La lunga collaborazione con l’associazione Contraddizione si è tradotta con la collana “Il socialismo scientifico” da cui è scaturito Laboratorio politico, la cui definizione era appunto la cifra costante di Sergio:“iniziativa militante che si pone –senza riproporre vecchie preclusioni e al di fuori di nuove divisioni – al servizio di una ripresa culturale e politica del movimento comunista… aperta ad ogni livello di contributo di tutti i militanti, poiché potrà raggiungere gli obiettivi per cui è nata solo con l’apporto e la collaborazione attiva di chi, con indomabile ostinazione, è impegnato più che mai a comprendere e trasformare la realtà, a battersi per realizzare i valori e gli ideali del comunismo”. Un’altra collana intitolata “Comunismo In/formazione”, sempre entro Laboratorio politico, ha affrontato diverse tematiche del presente sulla falsariga delle analisi marxiane, per attestarne e dimostrarne l’assoluta attualità e unicità analitica per la critica del presente. Inutile ribadire che senza la piattaforma e la disponibilità di questa casa editrice il lavoro profuso per i vari contributi non avrebbe mai visto la luce. Questa, inoltre, è stata la base anche per molte altre collaborazioni con docenti di ogni ordine e grado, riviste legate alla tradizione di sinistra, strutture sindacali, compagni sparsi e movimenti che faticosamente Manes ha continuamente ricercato, contattato, sollecitato e aiutato ad esistere. La casa editrice era il supporto e lo strumento che si attivava ovunque un nucleo di resistenza all’abbandono del comunismo si evidenziasse con le forze possibili ma reali.
Già dallo scorso anno Sergio aveva avviato i preparativi per una riflessione critica sulla rivoluzione d’ottobre in occasione, quest’anno, del ricorrere del suo centenario. Non si doveva trattare né di una commemorazione né di una celebrazione ritualistica, ma di una valutazione a più voci sul significato storico, sulla sua supposta attualità o meno, sulla sua permanenza nel presente, anche nei più giovani, e sulla sua forza ancora propositiva nelle contraddizioni di un imperialismo dei nostri giorni più avanzato e minaccioso. Seppure non riuscirà a vederne le conclusioni, tutti i compagni impegnatisi in quest’obiettivo nel portare a termine – forse in ottobre o novembre di quest’anno – sentono ora di proseguire i lavori anche in suo nome, come per tutte le altre iniziative e proposte che Sergio ha lasciato incompiute nella vita della sua terza, preziosa creatura. In essa si concretizza quella difficile sintesi di teoria e prassi che Sergio Manes ha mostrato come quella “cosa semplice difficile a farsi” [1].
Note:
[1] L’ultima citazione, per chi volesse apprenderne completamente il significato, non conoscendola, è la frase finale di B. Brecht in “Lode del comunismo”, 1933.
March 19 2917 · Uberlândia, MG, Brazil
Lo vogliamo ricordare riproponendo un suo recente articolo, schiettamente critico rispetto il passato e il presente del movimento dei comunisti in Italia, in cui prova a indicare "l'unica strada praticabile: riappropriarsi dei propri strumenti teorici; farne un uso ad un tempo rigoroso e dialettico nel nostro tempo, formando una nuova generazione di quadri e di militanti; affrontare finalmente, con coraggio e sistematicità, una rilettura autocritica di tutta la propria esperienza novecentesca; provare ad articolare un "programma minimo" per questa fase dello scontro di classe con proposte, obiettivi e percorsi ragionevoli e praticabili."
Rivolgiamo ai famigliari e agli amici più stretti le nostre sincere condoglianze.
Ciao Sergio, che la terra ti sia lieve.
I compagni e le compagne del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
20 marzo 2017
Per la lotta ideologica attiva
09/09/2016
I comunisti non si autocriticheranno mai abbastanza per aver disatteso - del tutto o quasi - l'esigenza di sottoporre ad analisi rigorosa i cambiamenti epocali della seconda metà del '900. Questa omissione ha impedito che l'esperienza ancora in corso del comunismo novecentesco - a partire da quella centrale dell'URSS - interpretasse pienamente e correttamente le trasformazioni in atto e individuasse linee capaci di resistere alle difficoltà insorgenti, ma anche di conquistare nelle condizioni in via di cambiamento nuovi traguardi all'altezza di quelli conseguiti fino a quel momento. Le conseguenze furono il crescente degrado teorico e il logorio politico di quelle esperienze fino al loro collasso.
Ma ce ne sono state altre che sono andate ben oltre il tempo della sconfitta e che ancora oggi pesano come macigni sulla speranza e sui volenterosi - ma confusi - tentativi di ripresa e di ripartenza. La inadeguata percezione dei cambiamenti in atto e il sostanziale vuoto di analisi innescarono una deriva - la cui responsabilità grava pesantemente sui gruppi politici dirigenti e ancor più sugli intellettuali comunisti - che lasciò e ancora lascia campo libero alla borghesia transnazionale sul piano strutturale e uno spazio immenso ad elaborazioni sia esterne alla tradizione marxista, sia vicine o perfino interne ad essa ma che fanno un utilizzo non rigoroso e coerente delle categorie e del metodo e che, nelle loro evoluzioni più mature, hanno portato infine a concezioni del tutto estranee alla concezione materialistica e dialettica del mondo e della storia.
Esse hanno, però - proprio per la loro sostanziale affinità con visioni interne al pensiero idealistico dominante e per la loro più semplice accessibilità - una capacità di suggestione e di convincimento che devia le analisi e le proposizioni di carattere politico di chi continua tuttavia a porsi soggettivamente - ma volontaristicamente - su un terreno alternativo e antagonista. Si pensi, ad esempio, alla deriva originariamente "operaista" la cui elaborazione del concetto di "operaio-massa" non poteva – nella sua forma matura e in presenza delle trasformazioni avvenute nella realtà produttiva e sociale - non sfociare che in quella della "moltitudine" che segna il definitivo abbandono - concettuale e politico, ancor prima che lessicale - della categoria di classe. Un approdo che sfugge al ben più arduo compito di ridefinirla nelle nuove condizioni, ma che porta a esiti aberranti.
Al suo seguito trovano spazio suggestioni soggettivistiche, che sembrano aderire più semplicemente al nuovo, ma che portano in sé l'eco dell'antica contrapposizione tra idealismo e materialismo, tra gradualismo e dialettica. Si riaffacciano in realtà vecchie ipotesi – per esempio, ma non solo, di impronta proudhoniana – che reintroducono opzioni strategiche, proposizioni e percorsi tattici, metodi e forme di lotta e di organizzazione che ben poco hanno più in comune con il pensiero e il metodo marxisti.
Le conseguenze sono devastanti: sfuma e finisce per sparire la contraddizione principale del rapporto tra chi produce la ricchezza e chi se ne appropria e, dunque, scompaiono le radici stesse dell'ineguaglianza e dell'ingiustizia, della loro riproduzione verso l'alto, del loro possibile rovesciamento dialettico: la necessità di una radicale trasformazione dei rapporti di produzione a seguito dello sviluppo incontenibile delle forze produttive.
Ne discende che cambiano inevitabilmente il terreno, i soggetti e le modalità dello scontro e del necessario salto di qualità: il luogo non è più quello della produzione; i soggetti non sono più i "borghesi" e i "proletari", i "capitalisti" e i "lavoratori", ma l'"imperialismo" e le "banche" da un lato e il "popolo" dall'altro, i "ricchi" e i "poveri"; lotta e obiettivi del cambiamento non sono fondati sull'unità organizzata e sull'internazionalismo militate degli sfruttati e degli oppressi del mondo in ragione delle radici comuni e delle cause materiali del loro sfruttamento e della loro oppressione, ma su una conflittualità diffusa, generalizzata e dispersa tra le strutture del privilegio e la massa indifferenziata delle moltitudini subordinate; alle forme organizzate - politiche ed economiche – della lotta per la trasformazione vengono preferiti strumenti "leggeri" - cangianti e variegati - di autorganizzazione "partecipata" e "democratica". Non si tratta affatto, dunque – come si favoleggia con irresponsabile leggerezza codina o con opportunistico feticismo per un "nuovo" sgrammaticato – di differenze meramente formali o lessicali.
I comunisti hanno avuto e hanno grandi difficoltà a contrastare questa deriva che ormai connota una parte maggioritaria delle esperienze di lotta di questo tempo e suggestiona anche organismi che continuano a schierarsi in campo comunista. Sfilacciata la dimestichezza con il metodo e le categorie interpretative, sacralizzata per superficialità o per opportunismo l'esperienza novecentesca, trascurate l'insorgenza e la crescita di queste diverse concezioni e metodi di lotta, assediati o minati al loro stesso interno da pulsioni democraticiste, compresi soltanto di sé e occupati piuttosto a dividersi settariamente e a riprodursi replicando all'infinito esperienze già dimostratesi inadeguate, hanno essi stessi dismesso o appannato i propri riferimenti teorici e smarrito qualsiasi legame con la classe di riferimento - di cui però pretendono astrattamente di continuare a rappresentare gli interessi - e arrancano ai margini dei cosiddetti "movimenti".
Tuttavia, in una situazione così difficile e di così lungo periodo ci sono ancora una speranza e una ragionevole possibilità di ripresa. Già il testardo e pur sterile arroccamento di questi anni testimonia nelle diverse realtà residuali - anche e non solo di provenienza Pci-Prc - se non altro una tenacia che deve però scrollarsi di dosso i vecchi e i nuovi schemi settari e autoreferenziali per liberare le potenzialità tuttavia esistenti. In questa prospettiva il dato positivo che bisogna cogliere e valorizzare è che intanto cominciano a far breccia gli sforzi dei pochi che ostinatamente continuano a indicare e percorrere concretamente - nei limiti del possibile - l'unica strada praticabile: riappropriarsi dei propri strumenti teorici; farne un uso ad un tempo rigoroso e dialettico nel nostro tempo, formando una nuova generazione di quadri e di militanti; affrontare finalmente, con coraggio e sistematicità, una rilettura autocritica di tutta la propria esperienza novecentesca; provare ad articolare un "programma minimo" per questa fase dello scontro di classe con proposte, obiettivi e percorsi ragionevoli e praticabili.
Tutto questo, però, rischia di restare puro e inutile esercizio intellettuale se non viene coniugato e verificato nella realtà viva dello scontro di classe che si sviluppa - pur se percepita in modo distorto e realizzata in maniera frammentata, dispersa e spesso incoerente - sulle condizioni materiali delle masse sfruttate e oppresse, sulle drammatiche contraddizioni reali derivanti dalle scelte imposte dal capitalismo transnazionale, sui retroterra ideologici di chi - comunque meritoriamente -suscita e orienta queste lotte a cui occorre portare il massimo contributo e il sostegno. Ma esserci non basta. Questo vuol dire che formazione, ricerca, analisi e proposizioni non possono essere studio avulso dal contesto reale, ma debbono essere impostati e sviluppati in funzione di esso.
E allora formazione, ricerca, analisi e proposizioni debbono essere centrate e finalizzate a riportare il terreno principale di scontro nei luoghi e sui modi della produzione; a riguadagnare la fiducia della classe lavoratrice nella prospettiva comunista e in chi opera a partire dai loro bisogni collettivi piuttosto che dai loro presunti diritti individuali; a ricostruire nelle nuove condizioni e con la lotta l'unità degli sfruttati e degli oppressi a livello nazionale e internazionale; a individuare e realizzare forme di lotta capaci di unificare questo esercito sterminato, in mille modi frazionato ma unito dalla comune condizione; a costruire forme stabili di organizzazione, al passo con la realtà materiale di oggi.
A questo scopo è anche utile e necessario aggredire criticamente analisi, posizioni e iniziative che vengono agitate sulla scena politica, che captano il consenso e indirizzano la conflittualità dei militanti: polemiche non demonizzanti ma intese, fornendo gli opportuni spunti critici, a problematizzare, a far discutere, a fare chiarezza, a formare maieuticamente i militanti. È giunto il tempo di scatenare tra gli stessi comunisti, ma anche tra coloro che si ispirano ancora ad orizzonti anticapitalisti, una seria lotta ideologica attiva e dedicare ad essa energie e risorse.
Kod Železničkog mosta u Grdeličkoj klisuri obeleženo 18 godina od početka NATO bombardovanja SR Jugoslavije 1999. Vučić: Na svaku agresiju imaćemo jak i jasan odgovor...
Конференција "Агресија НАТО 18 година после- где смо сада?" одржана је 23. априла 2017. године у Свечаној сали Дома војске у Београду. Конференција је окупила преко 250 учесника из Србије ( укључујући АП Косово и Метохију), Републике Српске, Црне Горе и српског расејања, као и велики број дипломата страних земаља у Србији. Скуп је започео минутом ћутања, чиме је одата почаст свим невино страдалим жртвама агресије. У наставку су излагања учесника.
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3860
https://it.sputniknews.com/mondo/201703204225158-unione-europea-russia-serbia-conflitti-balcani/
18. GODIŠNJICA NATO AGRESIJE NA SR JUGOSLAVIJU
Danas 24. marta, navršava se 18 godina od početka brutalne NATO agresije na SR Jugoslaviju, odnosno Srbiju i Crnu Goru, koja je trajala punih 78 dana. Sama agresija pokrenuta je mimo svih dotadašnjih normi međunarodnog prava, povelje UN-a, završnog dokumenta iz Helsinkija o evropskoj sigurnosti i suradnji pa i do tada važećih NATO akata koji su Sjevernoatlantski savez definirali kao obrambeni sistem.
Iako je NATO agresija na SR Jugoslaviju predstavljala presedan po nekoliko osnova, ona je ipak proizvod jedne politike koja si želi uzurpirati pravo dominacije u svijetu i upravljanja iz jednog centra moći.
Agresija koju je tzv. međunarodna zajednica, a ustvari grupa najbogatijih zemalja svijeta na čelu sa SAD-om i NATO, izvršila u proljeće 1999. godine na SRJ, bila je u svojoj biti sastavni dio borbe za prostor koja je krenula nakon tektonskih društveno-političkih procesa 90-ih godina prošlog stoljeća, a kojima je cilj bio prodor krupnog kapitala na Istok i osvajanje novih teritorija.
Tim prodorom je kapitalizam, koji se našao u dubokoj krizi 80-ih godina prošlog stoljeća, ostvario svoja tri cilja i odgodio svoj silazak s društvene scene i odlazak u povijest za jedan nedefinirani vremenski period.
Ciljevi koje je kapitalizam postigao su:
- ekonomski
- politički
- vojni
EKONOMSKI cilj sastojao se od:
Osvajanja novih tržišta.
Preuzimanja infrastrukture, sirovinske i financijske baze novoosvojenih područja.
Dobivanja jeftine radne snage, bilo postojeće u zemljama u koje su transferirali kapital ili one imigrantske u vlastitim zemljama.
POLITIČKI cilj sastojao se od:
Eliminacije socijalizma u Evropi i samoupravljanja u Jugoslaviji.
VOJNI cilj sastojao se od:
Prodora na Istok s krajnjim ciljem približavanja i opkoljavanja Rusije i Kine. I taj proces još traje.
Agresija na SRJ 1999. godine, osim što je bila dio opće strategije osvajanja prostora, na način kako je izvedena po svojoj brutalnosti imala je i zadatak kažnjavanja neposlušnog protivnika.
Naime, dinamika prodora u istočnoj Evropi bila je za nosioce imperijalne težnje zadovoljavajuća, jer su u zemljama bivšeg socijalističkog bloka lako pronašli suradnike među političkim elitama za rušenje dotadašnjeg društveno-političkog uređenja, koji su time vlastiti narod i materijalne resurse predali globalnom krupnom kapitalu.
Problem je nastao na jugoslavenskom prostoru. Posebno nepoželjan imperijalističkim krugovima bio je njen model samoupravnog socijalizma kao primjer emancipatorske prirodne pozicije rada u društvu i dostojanstva radnika koji bi bili u stanju upravljati vlastitim sudbinama uz pun državni suverenitet.
U procesu koji je dirigiran izvana, a realiziran iznutra, predani smo na milost i nemilost svjetskim moćnicima pri čemu su vodeću ulogu odigrale secesionističke republike Slovenija i Hrvatska, a po domino efektu slijedile Bosna i Hercegovina i Makedonija, bez iole racionalne potrebe koja bi imala pokriće u ekonomskoj ili nekoj drugoj logici. Jedinu prepreku osvajanju kompletnog prostora i dominacije nad njim, predstavljala je tadašnji ostatak nekadašnje države, SR Jugoslavija, koja je, iako s tada već promijenjenim društveno-političkim uređenjem, percipirana kao zadnji bastion na putu imperijalističkim moćnicima i zbog toga ju je trebalo kazniti. Da se radi o kažnjavanju razvidno je već iz činjenice da je međunarodna zajednica primjenjivala različite kriterije za pojedine republike i narode bivše Jugoslavije, što je bilo dozvoljeno jednima, nije bilo dozvoljeno drugima, a to je zavisilo od stupnja koncilijantnosti lokalnih oligarhija naspram svjetskih moćnika.
Uslijedila je brutalna agresija NATO snaga koje nisu nanijele SRJ relativno velike vojne gubitke usprkos širini kampanje i činjenici da je omjer snaga izražen u ljudstvu i vojnoj opremljenosti između agresora i napadnutih bio do tada nezabilježen u vojnoj praksi. Iako su vojni gubici SRJ bili relativno mali, zato su oni civilni i materijalni bili vrlo visoki. Uništavana je infrastruktura i ekonomska supstanca zemlje primjenom najsofisticiranijih sredstava koja nemaju nikakvo vojno opravdanje, već su namijenjena materijalnom razaranju civilnih i privrednih objekata, često s katastrofalnim učincima.
Prvi su put upotrijebljene grafitne bombe, a vrhunac brutalnosti postignut je upotrebom municije s osiromašenim uranom koja trajno kontaminira prostor u kojem žive ljudi, a o apsurdu upotrebe tih sredstava svjedoči činjenica o velikom broju stradalih pripadnika agresorskih jedinica koje su rukovale tom municijom.
Presedan, par excellence, učinjen je sada već prema državi Srbiji otimanjem dijela njenog teritorija mimo svih međunarodnih pravnih normi i instaliranjem imperijalističkog protektorata na Kosovu i Metohiji s najvećom NATO vojnom bazom u ovom dijelu svijeta. Tim činom stvorena je jedna umjetna kvazidržavna tvorevina bez vlastite privrede od koje bi njeni građani živjeli, ali s velikim i vrijednim mineralnim resursima, koju nije priznao veliki broj zemalja u svijetu, a čija je osnovna namjena biti odskočna daska SAD-a i NATO-a na putu prema Kaspijskom bazenu. Ta je teza potvrđena 2008. kad su SAD i NATO stojeći jednom nogom na Kosovu i Metohiji pokušali drugom nogom zakoračiti na Kavkaz, što im, na sreću, nije uspjelo. Kasnija događanja u Ukrajini i ona recentna u baltičkim zemljama potvrđuju namjere SAD-a u širenju utjecaja prema Rusiji, ne prežući pritom od suradnje s eksplicite fašističkim subjektima.
Od agresije je, eto, proteklo 18 godina, ali posljedice su još prisutne, prvenstveno one zdravstvene kao posljedica trajno kontaminiranog tla od upotrebe radioaktivne municije. Ali i sam proces porobljavanja još traje. On se finalizira, ovaj put ne vojnim sredstvima, s ciljem da se žrtva ponizi i uvuče u interesni krug svojih tlačitelja – EU i NATO. Na raspolaganju je široki spektar metoda: od honoriranja oligarhije, obećanja za jednokratnu upotrebu, uvjeravanja, ucjena, podmetanja i slično.
Doprinos agresiji odradile su i bivše republike SFRJ, pa i Hrvatska, dozvolivši agresorskim snagama korištenje zračnog prostora za avione koji su polijetali iz NATO baze u Avianu. Dio neiskorištenih bojnih punjenja ti su avioni na povratku istresali u Jadransko more da bi se oslobodili prije slijetanja.
Aviano je tih dana svjedočio i plemenitoj strani ljudskog uma. Cijelim tokom bombardiranja tamo su se održavale vrlo organizirane masovne proturatne demonstracije na dnevnoj bazi, pretežno mladih ljudi pristiglih iz svih dijelova Italije i Evrope. Broj prisutnih znao je vikendom prelaziti brojku od 25.000 ljudi. Socijalistička radnička partija je, kao jedini politički subjekt iz Hrvatske, u organizaciji i suradnji s našim drugovima iz Rifondazione Comunista dva puta učestvovala u demonstracijama i to 17. aprila i zadnji vikend prije prestanka agresije. Tom je prilikom u demonstracijama uzeo učešće i osnivač i tadašnji predsjednik SRP-a dr. Stipe Šuvar.
Vladimir Kapuralin
18.ГОДИШЊИЦА НАТО БОМБАРДОВАЊА СРЈ
Комунисти Србије никада неће заборавити злочиначку агресију НАТО пакта на чијем челу су САД и водеће земље ЕУ који сви заједно представљају ударну песницу крупног капитала који изграђује нови светски поредак. 24. Марта 1999.године НАТО пакт је по први пут изашао из својих до тада прокламованих начела да никада никога не напада без сагласности СБ УН.
Током агресије уз ангажовање 19 чланица НАТО алијансе, убијено је око 3.500, а рањено 12.500 грађана. Од тога, према званичном, објављеном списку, у редовима војске и полиције погинуло је 1.008 бораца, од којих 659 војника и 349 полицајаца. Ракетама и бомбама НАТО оштећено је 25.000 кућа и стамбених зграда и уништено 470 километара путева и 595 километара железничких шина. Оштећено је 14 аеродрома, као и 19 болница, 20 домова здравља, 18 вртића, 69 школа, 176 споменика културе и 44 моста, док је још 38 мостова било потпуно уништено.Потпуно је разорио 7 индустријских и привредних објеката, 11 енергетских постројења, 28 радио и ТВ-репетитора, 29 манастира и 35 цркава. Изведено је 2.300 налета у нападима на 995 објеката по Србији, док је 1.150 борбених авиона испалило скоро 420.000 пројектила укупне масе од 22.000 тона. НАТО је испалио 1.300 крстарећих ракета, бацио 37.000 касетних бомби које су убиле око 200 људи и повредиле још неколико стотина.
Коришћени су пројектили пуњени осиромашеним уранијумом који трајно угрожава земљиште, воду и ваздух, улази у ланац исхране и изазива далекосежне последице по здравље људи и живих бића уопште. Србија је током бомбардовања засипана и другим отровима а контаминацији су допринела и оштећења индустријских постројења. Дејство загађивача резултирало је чињеницом да је данас Србија прва у Европи по броју оболелих и умрлих од малигних болести у дечијем узрасту. Ово је био тихи атомски рат, чије последице ћемо сагледати за 600 година.
Уништена је једна трећина електроенергетских капацитета у земљи, бомбардоване су две рафинерије нафте, у Панчеву и Новом Саду, а снаге НАТО употребиле су први пут и такозване графитне бомбе нарушавајући функционисање електроенергетског система. НАТО је свесно лишавао снабдевања струјом домаћинства, болнице, породилишта, дечје вртиће, пекаре…
Комунисти Србије ће се и даље борити против поданичких власти у Србији који подржавају прикључење ЕУ и Евроатланским интеграцијама. Наглашавамо да је капитализам у овој фази узрочник НАТО агресије и свих досадашњих ратова и криза у свету.
КОМУНИСТИ СРБИЈЕ
alle ore 20 presso la Tensostruttura comunale nella zona industriale
Cena Resistente 73° Anniversario Eccidi di Montalto e Piobbico
Resistenza, memoria e difesa del territorio
L’edizione della “cena resistente” di quest’anno sarà realizzata dalle sezioni Anpi Sarnano e Caldarola.
L’evento, che cade nel periodo degli anniversari nazifascisti di Montalto (22 marzo) e Piobbico (29 marzo), si svolgerà presso la tensostruttura comunale nella zona industriale di Caldarola.
Dopo la cena di autofinanziamento, il cui ricavato servirà per la realizzazione della “Marcia della Memoria” Caldarola-Montalto e per progetti di ‘ricostruzione’ della memoria, avrà luogo un dibattito aperto su ‘Resistenza, memoria e difesa del territorio’.
Ci saranno i contributi di Lorenzo Marconi, presidente provinciale dell’Anpi Macerata, Franco Fabi dell’Anpi intercomunale Visso-Castelsantangelo sul Nera, Susanna Angeleri del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia (CNJ) e la presentazione di ‘Terre in moto’ Marche, “una rete di realtà sociali, associazioni e semplici cittadini che ha intrapreso un percorso collettivo che vuole intervenire sulle problematiche legate al terremoto andando oltre i singoli ambiti comunali”.
L’appuntamento è per venerdi 31 marzo a partire dalle ore 20.00.
Pagina Fan: https://www.facebook.com/anpi.sarnano/
Email: anpisarnano @ gmail.com
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59561
Riga: la sfilata annuale degli ex legionari lettoni delle SS
Sono finiti in manette ieri a Riga i giovani che, in lingua russa, avevano osato gridare “Vergogna Lettonia; il fascismo non passerà”, di fronte al corteo che ogni anno, il 16 marzo, celebra i legionari lettoni delle Waffen SS. La data ricorda il primo scontro dei reparti lettoni delle SS (15° e 19° Divisioni Granatieri) contro l'Armata Rossa, nel 1944.
La Lettonia si difende in questo modo dalla “aggressione” russa e spiega ai più piccoli il pericolo che potrebbe venire da est, insegnando la “Difesa dello stato” – educazione patriottica e preparazione paramilitare – materia scolastica introdotta in seguito alla “annessione della Crimea”. Per i più grandi, la speaker del Saeima per il Nacionālā apvienība (Unione nazionale, il cui simbolo è di per sé un programma), Ināra Mūrniece, propone di reintrodurre il servizio militare obbligatorio, cui però si oppongono (ma solo per motivi di bilancio, o per la paura che i giovani emigrino, pur di evitarlo) Presidente, Ministro della difesa e Comandante in capo, nonostante insistano anch'essi sul “pericolo russo”. Si è arrivati al punto di dichiarare che la naja servirebbe gli interessi russi, indebolendo l'esercito professionale (circa 6.000 uomini) e la Zemessardze, la difesa territoriale (8.000 uomini).
La stessa Ināra Mūrniece, intervenendo ieri alla cerimonia commemorativa delle SS al cimitero militare di Lestene (80 km a sudovest di Riga) ha dichiarato che i legionari SS andarono in battaglia per “sgominare il bolscevismo, nella speranza di sconfiggere entrambi gli eserciti occupanti” (lo stesso argomento usato dai neonazisti ucraini che si rifanno a Stepan Bandera) “come avevano fatto nella guerra di indipendenza del 1918-1920, allorché i lettoni respinsero sia i bolscevichi, che i nazisti”, i quali ultimi, per le cronache, non erano ancora comparsi.
Ma, nota Sergej Orlov su Svobodnaja Pressa, le fobie che dettano tali misure e altre già adottate ad esempio in Lituania, potrebbero in egual misura scoraggiare i tanto attesi investimenti occidentali. Tant'è che, ad esempio, il sindaco della città portuale di Ventspils, 200 km a nordovest di Riga, Ajvar Lembergs, aveva già avuto da ridire sulle prese di posizione della passata amministrazione USA a proposito della “linea del fronte che passa per la Lettonia”: pensiamo davvero, aveva detto Lembergs “che un investitore voglia gettare risorse in un territorio prossimo alla linea del fronte?”. Non a caso, il 23% dei lettoni, contro le pretese dei circoli russofobi, avrebbe voluto Lembergs alla guida del governo, sopravanzando nei favori addirittura il sindaco di Riga Nils Ušakovs, appoggiato dalla forte minoranza russofona lettone, in gran parte esclusa dal diritto di voto nella Lettonia membro della UE.
In un modo o in altro, sembra comunque che il passato collaborazionista torni regolarmente a far capolino nei Paesi baltici, con le parate annuali di Riga e Sinimaee, in Estonia. E a poco servono gli “argomenti” secondo cui i legionari baltici sarebbero stati costretti a indossare l'uniforme nazista per difendere il proprio paese: combattendo contro l'Armata Rossa, liberavano forze naziste per le necessità di sterminio nei campi di Salaspils (20 km a sudest di Riga) o Klooga (40 km a sudovest di Tallin); tanto più che, come nota l'agenzia Regnum, i legionari non prestavano giuramento al proprio paese, ma direttamente a Adolf Hitler.
E ugualmente serve a poco la “giustificazione” per cui i legionari lettoni non ricadono sotto le sentenze del tribunale di Norimberga, dato che, nonostante il loro status formalmente volontario, non avrebbero avuto la possibilità di sottrarvisi. Le stragi di almeno 12mila civli lettoni (di cui 2.000 bambini) e le distruzione di centinaia villaggi in Russia, Bielorussia e Polonia a opera di battaglioni lettoni delle SS, impiegati nelle attività antipartigiane dell'operazione “Magia invernale”, non sembrano un solido argomento a sostegno delle dichiarazione adottata nel 1998 dal Saeima lettone: "L'obiettivo dei militari richiamati e di quelli che volontariamente aderirono alla legione era quello di difendere la Lettonia dalla restaurazione del regime stalinista. Essi non presero mai parte alle azioni punitive hitleriane contro la popolazione civile". Nel 1944-'45, come ricorda un ampio servizio di Argumenty i Fakty, i terroristi del “Comando Arajs” di polizia ausiliaria si occuparono dell'eliminazione di ebrei lettoni – da 26mila a 60mila, a seconda delle fonti – e anche questo difficilmente permette di considerare i membri volontari della legione lettone “vittime delle circostanze”, come si tenta di presentarli oggi in Lettonia.
Sono centinaia i collaborazionisti, sfuggiti 70 anni fa alla giustizia sovietica, rifugiati a ovest e utili alle manovre della guerra fredda, poi rientrati in patria dopo la fine dell'Urss. Ma perché su di loro, nota Argumenty i Fakty, sulle loro sfilate e celebrazioni, l'occidente chiude tutti e due gli occhi? Perché tali reparti di SS non ci furono solo nei Paesi baltici o in Ucraina: ce ne furono in Olanda, Danimarca, Norvegia, Belgio, Finlandia, Svezia, Francia e in altri paesi europei.
E' così che oggi, da Riga, Tallin o Vilnius, mentre non si rinnega tale passato e anzi lo si esalta, con la partecipazione ai cortei dei veterani anche di massimi esponenti governativi (a titolo individuale, per carità!), non si hanno remore a pretendere “compensazioni” in milioni di euro non dagli eredi degli ex camerati, ma dalla Russia, “erede della occupazione sovietica”.
“Io ho vissuto l'occupazione e so cosa significhi”, ha dichiarato qualche giorno fa il primo ministro estone Juri Ratas incontrando a Bruxelles il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e riferendosi alla odierna “occupazione russa” dell'Ucraina e alla necessità di “ristabilire l'integrità territoriale di Moldavia e Georgia”. Se è chiara la sua posizione geopolitica, nota Sergej Orlov su Svobodnaja Pressa, è però il caso di ricordare come suo padre, Rejn Ratas, durante “l'occupazione sovietica” – terminata, bisogna ricordarlo, nel 1991, quando Juri Ratas aveva 13 anni – sia divenuto uno degli scienziati più affermati del paese, le cui centinaia di pubblicazioni e volumi sono oggi disponibili in ogni biblioteca russa.
Ora, dunque, lo scorso novembre Juri Ratas è diventato leader del Partito di Centro (sostenuto da moltissimi russi di Estonia), capovolgendo la precedente politica di buon vicinato con Mosca condotta dal suo predecessore e sindaco di Tallin, Edgar Savisaar, politica che aveva relegato il partito fuori del governo, nonostante i successi elettorali. Adottando la nuova politica, il Partito di Centro è stato immediatamente ammesso al governo e Ratas nominato primo ministro.
E' così che va, nella UE “a due velocità”, non solamente economiche, quando a Bruxelles si ritiene, alla maniera di Heinrich Böll, che “nei momenti decisivi bisogna essere primitivi e barbari”.