Sono sempre stato convinto, condividendo in questo le idee di autorevoli storici come Le Goff, Braudel, ecc., che la falsificazione e mistificazione della Storia sia stata e sia uno degli strumenti essenziali per la realizzazione delle fondamenta di qualsiasi progetto di oppressione, di aggressione, di guerra, di etnocidio, di genocidio e che, conseguentemente, lo studio ed il disvelamento non solo della realtà storica ma dei processi di sua mistificazione, dei loro autori e dei loro scopi, rappresenti un elemento imprescindibile di qualsiasi battaglia contro quei progetti disumani, se non ci si vuole affidare alla sloganistica generica, al richiamo a semplici emozioni o alla demagogia.
Quando quella mistificazione si presenta non solo e non tanto sotto la veste della aperta falsificazione (che pure è sempre componente di tale processo) ma come rimozione voluta di aspetti “scomodi” della Storia e soprattutto di quella Storia che si ama presentare come “propria”, come fondante la “propria” identità, a cui abbeverarsi per forgiare miti e realtà, comportamenti collettivi e decisioni politiche, linee educative e tendenze mediatiche, paradossalmente il danno è maggiore e più profondo perché tende a dilatarsi nei decenni e talora nei secoli, pronto a farsi alimento di qualsiasi infamia sciovinista, militarista, razzista, revisionista, di qualsiasi demagogia mobilitante, di qualsiasi banalizzazione tesa a creare confusione voluta.
Il 2 maggio 2014, i neonazisti ucraini bruciarono vive almeno 45 persone nella Casa dei Sindacati di Odessa, mentre a Kiev, nuovi leaders affermatisi grazie a quegli eventi di Maidan (in realtà un vero golpe etero diretto da ambienti NATO) in cui tali forze neonaziste erano state determinanti e che venivano presentati ciecamente dai media italiani come “rivoluzione democratica”, avevano iniziato un processo che li avrebbe portati rapidamente ad integrare quei neonazisti nelle forze armate ucraine, a rispondere alle manifestazioni di chi si opponeva alla svolta di Maidan con tanks e bombardamenti, innescando una guerra civile, a distruggere i monumenti ai caduti nella lotta contro l’invasore nazifascista del 1941-1943, ad assumere esplicitamente come riferimenti mitico-eroici i collaborazionisti ucraini dei nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Era per me chiaro, proprio sulla base delle mie analisi sui processi di rimozione e falsificazione storica ( Banditi e banditori, Manni, Lecce, 2000; Reti mediterranee, Gamberetti, Roma, 2002; Il nemico che non c’è, Dell’Albero/COME, Milano, 2006), che quel laboratorio di neonazismo in cui si stava trasformando l’Ucraina, sotto gli auspici e con la complicità dell’intero Occidente, basava il suo agire ancora una volta su quei processi di rimozione e falsificazione storica e che al tempo stesso si doveva non solo all’azione di media embedded e di settori politici UE ma anche all’azione pluridecennale di processi appartenenti a quella categoria il fatto che tale laboratorio di neonazismo era largamente sottovalutato in Italia.
Sottovalutato volutamente dagli ambienti più direttamente succubi rispetto al volere di NATO, UE, governi occidentali, ma anche, forse non volutamente, da buona parte delle forze antifasciste e democratiche, dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni culturali antirazziste, da tanti che si proclamano “rivoluzionari” o anche “innovatori” nel modo di far politica. Dietro quella sottovalutazione grave, che oltre tutto lascia e lasciava spazio a confusioni “rosso-brune” (che mascherano il volto fascista dietro l’anti-americanismo) ed a simpatie esplicitamente dimostrate verso settori dei neonazisti di Kiev da parte di esponenti di partiti italiani che si dicono “democratici” (come il PD Pittella con “Pravy Sektor”) ci fosse anche stavolta una operazione di rimozione complessa, articolata e prolungata, iniziata non nel 2014, né al momento della dissoluzione dell’URSS, ma decenni fa. Una rimozione di molteplici aspetti storici delle vicende ucraine in generale e del loro rapporto, ancor più nascosto, con la Storia stessa del nostro Paese.
La ricerca che dal maggio 2014 al febbraio 2016 ha portato infine alla pubblicazione del mio nuovo libro Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016) si è quindi incentrata su alcuni di quegli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati, per mettere a disposizione di chi non accetta i frutti orrendi del laboratorio neonazista ucraino e del suo ruolo nelle strategie dei circoli neoliberisti occidentali più radicali strumenti di approfondimento, e quindi di lotta, posto che smascherare quelle rimozioni, analizzare quegli elementi volutamente censurati rappresenta uno degli elementi imprescindibili per opporsi alle strategie ed alle tattiche di chi ne è l’autore e li usa per realizzare, fra l’altro, quel laboratorio neonazista ucraino e non solo (si pensi alla situazione nei Paesi Baltici, in Polonia, in Turchia, ecc.).
Se si vuole collocare la realtà attuale ucraina nel suo vero contesto, innanzi tutto storico prima ancora che geopolitico, ed in rapporto con una tendenza alla costruzione sistematica della “russofobia” (così ben analizzata da Guy Mettan nel suo recentissimo Russofobia. Mille anni di diffidenza; Sandro teti editore, Roma, 2016) va prima di tutto notato che gli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati relativi all’Ucraina e specificamente alla realtà del Donbass sono molti e riguardano anche ambiti storici antichi, come il fatto che in realtà Kiev, lungi dall’essere “cuore della patria ucraina” è il luogo dove nasce nel IX secolo d.C. …il primo stato proto-russo, la Rus’ di Kiev, appunto, cristianizzata a cavallo fra X e XI secolo dal Principe Vladimir, che il simbolo scelto dai “nazionalisti” ucraini (detto “tridente”) è in realtà un girifalco, uccello che rappresentava lo stemma araldico della famiglia del suddetto Principe Vladimir della Rus’ di Kiev e che quella Galizia culla del “nazionalismo ucraino”, del collaborazionismo coi nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e del neonazismo ucraino attuale non solo appartiene all’Ucraina solo grazie alle annessioni all’URSS realizzate dal tanto odiato Stalin, che la sottrasse alla Polonia (ricompensata con territori ad Ovest, ex-tedeschi, dopo la sconfitta del nazismo), non solo era abitata prevalentemente da Polacchi ed Ebrei prima delle stragi che nazisti e collaborazionisti ucraini vi compirono dal 1941, ma, nella sua fase di sudditanza all’Impero Austro-ungarico, prima, ed in quella di occupazione germanica durante la Prima Guerra Mondiale, poi, fu teatro della costruzione di quel “nazionalismo” ucraino (inizialmente chiamato “ruteno”, termine che in realtà nel Medioevo significava “della Rus”, ossia…”russo”!) che nacque come strumento della cultura e della politica germano-centrica contro lo zarismo russo e sulla base delle concezioni del nazionalismo-romanticismo germanico.
Sebbene, però, questi ed altri elementi relativi alle fasi storiche fra il Medioevo e la Prima Guerra Mondiale non vadano affatto trascurati ed anzi vadano ulteriormente portati alla luce per combattere la disinformazione ed il pressappochismo e siano citati nel libro, esso si concentra su altri aspetti, più recenti e significativamente proiettati sull’oggi. In primo luogo sul ruolo dell’Italia nelle politiche di conquista, rapina e massacro di impronta germanica in quella che da poco più di 150 anni si suole chiamare “Ucraina” come parte del progetto di espansione genocida tedesca ad Est. Ruolo che trova i suoi germi concettuali e concreti addirittura in politiche italiane largamente antecedenti alla presa stessa del potere in Germania da parte del nazismo, sia relative alle pratiche coloniali di annientamento e sfruttamento (in Eritrea, in Libia, poi in Etiopia e Somalia), sia a quelle di snazionalizzazione e deculturazione delle minoranze attuate nel SudTirolo e nelle aree slovene del Friuli-Venezia Giulia dal 1919, sia allo stabilirsi di strutture italiane finalizzate allo sfruttamento economico nei territori austroungarici dopo la vittoria italiana del 1918, inclusi appunto territori galiziani.
Ruolo che si intreccia con l’ideologia antisemita ed antirussa (prima ancora che antibolscevica), della Chiesa cattolica, che del resto dopo la frattura con quella ortodossa del 1054, è motore significativo di aggressioni alla Russia ed agli Ortodossi, fin da quando papa Gregorio VII (1073-1085) promuove l’azione del feudalesimo tedesco contro le genti russe in funzione di una loro auspicata conversione forzata al Cattolicesimo, fin da quando nel 1220, con questa scusa, i Cavalieri teutonici aggrediscono la terra russa (e vi vengono battuti nel 1242 dalle forze guidate da Aleksandr nevskji), fin da quando la Chiesa cattolica patrocina “crociate” dei cattolici polacco-lituani contro gli Ortodossi russi per tutto il XIII secolo o quando, nel 1596, il regno cattolico polacco-lituano impone alla Chiesa Ortodossa delle regioni galiziano-voliniane di sottomettersi all’autorità papale (nascita del fenomeno “uniate”) o nel 1612 si spinge ad attaccare la città di Mosca.
Una pratica ideologica che continua nei secoli seguenti, con l’appoggio di vescovi cattolici (fra cui quello di Tulle nel 1854 che dichiara relativamente agli Ortodossi russi: “vi sono uomini che rispondono al nome di cristiani più pericolosi per la Chiesa che i pagani stessi) e dell’arcivescovo di Parigi Sibourg (che la definisce “guerra contro l’eresia ortodossa”) alla Guerra di Crimea contro la Russia e si proietta fino alle “apparizioni di Fatima” in cui la madonna chiederebbe la “conversione della Russia” (mesi prima che avvenga la Rivoluzione bolscevica!!!) e prende vigore dal 1918 nella campagna contro il bolscevismo definito sì ateo ma spesso anche “giudeo” (identificazione che sarà cara ai nazisti….).
Ruolo che, però, trova la sua massima e piena realizzazione col e nel fascismo, ancora una volta sia sul piano teorico che pratico, fino a fare da base alla realtà della partecipazione italiana alla guerra hitleriana di aggressione all’URSS, con uno specifico ruolo proprio in Ucraina.
Su questo piano sono molti i miti da sfatare e lo si può fare, se solo lo si vuole, agevolmente, se si interconnettono a rete elementi contenuti in studi realizzati da Del Boca, Conti, Focardi, Oliva, Pisanty, Rochat e soprattutto Schlemmer e li si arricchiscono di analisi comparate (come si è cercato di fare nel mio testo) con frammenti di verità conservati in quel che resta nell’Archivio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito italiano (al netto delle depredazioni angloamericane e soprattutto di un “provvidenziale” incendio di parte cospicua dei documenti avvenuto il 23 aprile 1945….), con contraddizioni palesi fra schegge di memoria contenute in testi diversi di reduci italiani della Campagna di Russia, a partire da quello del comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), generale Messe, e con altro materiale reperibile da varie fonti.
Il primo mito da sfatare è quello che l’Italia fu trascinata nella Campagna di Russia da Hitler. In realtà Hitler preferiva vedere l’Italia concentrarsi sul fronte africano e fu Mussolini che ripetutamente ed insistentemente chiese di poter far partecipare truppe italiane all’aggressione all’URSS, con due scopi dichiarati: avere un ruolo nella “crociata antibolscevica” ed ottenere territori e risorse da sfruttare. Scopi che già esplicitano che la partecipazione italiana aveva caratteristiche di fondo non diverse da quelle naziste, perché l’intervento italiano si configura sia come “guerra ideologica” che come “guerra di rapina” e porta con sé in entrambi gli aspetti la necessità evidente di praticare una strategia di massacro ed affama mento.
Il secondo mito da sfatare è quello di una massa di soldati ed ufficiali italiani gettati nella carneficina del fronte orientale senza convinzione e senza concezioni radicali; lettere, testimonianze, memorie confermano invece che l’ideologia nazista del Mein Kampf (testo largamente diffuso negli ambienti colti e soprattutto giovanili italiani da cui proveniva la maggioranza degli ufficiali) era ampiamente nota ed accettata, che gerarchie ecclesiastiche e parroci di campagna “caricarono” i soldati di un senso sacrale della lotta contro il “bolscevismo ateo”, che l’antisemitismo diffuso dal 1938 attraverso una panoplia di strumenti mediatici aveva largamente attecchito e che erano condivise (anche dallo stesso Messe) concezioni care ai nazisti che ebbero traduzione pratica in ordini e pratiche di massacro, come quella che identificava “boslcevichi” ed “ebrei”, destinandoli alla eliminazione.
Il terzo mito da sfatare, collegato al secondo, è quello degli “Italiani brava gente”, ossia di una contrapposizione fra i “cattivi tedeschi” ed i “buoni italiani”, che in realtà è significativamente una estensione della menzogna tedesca che contrapponeva e per decenni ha contrapposto i “cattivi SS” ai “buoni soldati della Wehrmacht”. In realtà, certamente i gruppi speciali di sterminatori (einsatzgruppen) e le SS commisero sul fronte orientale e soprattutto in URSS crimini insuperabili per orrore e quantità, ma la Wehrmacht non fu affatto “innocente”, partecipando attivamente ai massacri di Ebrei, partigiani, comunisti, civili in genere, alle deportazioni e schiavizzazioni di massa, alle rapine e distruzioni sistematiche, all’annientamento per fame dei prigionieri di guerra. Le truppe italiane (e non solo i reparti di camicie nere come la Legione Tagliamento) non si resero responsabili di una quantità e qualità di crimini equiparabile a quelli tedeschi ma presentarli in massa come “brava gente” è una menzogna densa di conseguenze. I reparti italiani, che operarono in Russia sempre sotto il comando tedesco, erano reduci da crimini di guerra terribili in Etiopia (e in Libia prima ancora del fascismo!), in Grecia, in Albania e soprattutto in Yugoslavia; in URSS parteciparono ai rastrellamenti, crearono campi di concentramento per prigionieri di guerra (affamandoli), consegnarono ai tedeschi per destinarli a sicura morte partigiani, comunisti, Ebrei, civili rastrellati, praticarono distruzioni e rappresaglie e se non poterono rapinare su vasta scala (ed usare come programmato le risorse agricole ucraine per sfamare gli Italiani e migliaia di prigionieri russi per le miniere sarde) è solo perché i tedeschi non vollero spartire il bottino e la rapina con gli Italiani e questi ultimi furono costretti a servirsi solo….dei pacchi da inviare a casa (volutamente aumentati di peso….).
Truppe, ufficiali italiani, perfino la Polizia Politica fascista erano a conoscenza dei crimini enormi che i nazisti commettevano, con l’appoggio dei collaborazionisti locali, ma non vi fu una reazione istituzionale di alcun tipo e si proseguì tranquillamente a cooperare con gli autori e garantire condizioni perché molti di quei crimini avvenissero.
Da tante lettere di semplici soldati, sottufficiali ed ufficiali italiani impegnati sul fronte russo 8e specificamente, per tanti mesi, proprio in Ucraina) emerge entusismo nella partecipazione ad una “impresa” che viene vissuta come “crociata contro il bolscevismo ateo”, come “campagna per portare la superiore civiltà romana ai barbari delle steppe russe”, come “lotta alle sanguisughe giudee”.
Per non parlare della “cameratesca” complicità durante l’invasione nazifascista all’URSS fra reparti nazisti e reparti maggiormente ideologizzati delle truppe italiane, come quella X MAS che fu di stanza a Mariupol o della Legione Tagliamento, i cui superstiti dopo la ritirata dalla Russia formarono il nerbo dell’omonimo reparto repubblichino che si distinse dopo l’8 settembre 1943 nella repressione antipartigiana, nelle stragi in Italia.
L’altro aspetto affrontato nel libro è il ruolo dei collaborazionisti ucraini in rapporto sia coi Tedeschi che con gli Italiani. Anche qui ci sono miti da sfatare, tanto più gravi in quanto sono oggi rilanciati ufficialmente dalla giunta oligarco-fascista di Kiev, primo fra i quali il considerare tali collaborazionisti come “nazionalisti ucraini”. Erano invece tanto poco veri “nazionalisti” che non evitarono né di essere arruolati a migliaia come guardiani dei lager nazisti, operando nei centri polacchi di Sobibor, Treblinka, Majdanek, ecc. ma perfino nella Risiera di San Sabba a Trieste, né di combattere al servizio dei nazisti in aree che nulla avevano a che vedere con l’Ucraina, come la Slovacchia o l’Italia settentrionale.
Erano soprattutto autori di crimini in questo caso assolutamente equiparabili a quelli nazisti, sia in termini di crudeltà degli aguzzini che di stragi di massa di Ebrei, Polacchi (oltre 200.000 trucidati solo in Galizia e Volinia dai collaborazionisti ucraini), prigionieri sovietici, partigiani, civili sospettati di aiutarli, sia di rapina ai danni delle vittime e dei propri concittadini. Anche in questo caso, un aspetto volutamente dimenticato è che vi fu organica cooperazione di simili bande di criminali anche con le truppe italiane, in particolare proprio nel Donbass, visto che esso fu il teatro di impiego del CSIR nel 1941 (mentre quando gli Italiani estesero la partecipazione e crearono un’armata, l’ARMIR, nel 1942 essa venne schierata sul Don) e che Stalino (l’attuale Donetsk) era la sede del Comando Italiano, oltre che uno dei luoghi di deportazione ancora nel 1942-43 in lager per prigionieri di guerra sovietici gestiti da Italiani e che di stragi efferate di migliaia di civili compiute dai nazisti.
Si arriva perfino al paradosso che gli attestati di “benemerenza” da parte di criminali collaborazionisti ucraini verso ufficiali italiani vengono usati nel dopoguerra per inventare un rapporto positivo di alcuni di costoro (accusati dai Sovietici di crimini di guerra e mai processati in Italia) con l’insieme della popolazione locale, mentre si nascondono i propositi di ufficiali italiani (come il col. Piccinini) che propongono lo sgombero totale della popolazione da località del Donbass come Rykovo perché “infestata da bolscevichi”!
Ancora, alla fine della guerra, se tante decine di migliaia di collaborazionisti ucraini dei nazisti, compresi i membri della famigerata XIV Divisione SS “Galizien”, riusciranno a sfuggire alla giusta punizione sovietica arrendendosi agli Angloamericani e verranno perfino fatti emigrare in Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada, ciò avviene con la complicità sia di esponenti anticomunisti come il generale polacco Anders (che certifica falsamente la cittadinanza polacca di tutti i membri di quella divisione), sia di ambienti vaticani e di conventi in territorio italiano. Saranno quei collaborazionisti che nella “diaspora”, per decenni, durante la Guerra Fredda, alleveranno figli e nipoti ai disvalori, ai simboli, ai riti del collaborazionismo, della russofobia, del nazismo, forniranno reclute alla rete di spie e sabotatori occidentali contro l’URSS che vedeva nella sua leadership l’ex-capo dei servizi segreti nazisti sul fronte orientale, Gehlen, daranno vita, dopo la dissoluzione elstiniana dell’URSS, ai nuclei dei movimenti di destra radicale nell’Ucraina diventata indipendente ed i cui confini, tanto “sacri” per chi si definisce “nazionalista” e pratica lo sport della russofobia, includono territori che proprio l’URSS dell’aborrito Stalin aggregò all’Ucraina sottraendoli a Polonia, Slovacchia e Ungheria!
Solo se si ricostruisce questa trama storica, di cui si è dato in questa sede qualche cenno, si può, allora, comprendere cosa sta avvenendo in Ucraina in questi ultimi anni. Non è un caso se la NATO ha scelto l’Ucraina, ed in diversa misura Paesi Baltici in cui si negano i diritti civili a chi è discendente di Russi, si distruggono i monumenti antinazisti, si esaltano come eroi anche in questo caso i collaborazionisti dei nazisti (co-autori anche in quelle terre di stragi di Ebrei, Russi e prigionieri sovietici…), come laboratorio principale per riattivare su larga scala quella russofobia criminale che fu una delle molle non solo del fascismo, dell’hitlerismo, dei suoi collaborazionisti orientali (baltici, ucraini, croati, ecc.) e di tanti regimi fascisteggianti europei (da quello stesso polacco a quello ungherese, ad esempio) ma per decenni delle cosiddette “democrazie occidentali” pre-Seconda Guerra Mondiale, da quella britannica a quella statunitense.
Una russofobia che, come si è detto, affonda nella Storia, anch’essa, ben al di là dello stesso antibolscevismo e dello stesso atteggiamento della Chiesa cattolica ed ha esempi lampanti quali il disprezzo di Voltaire e quello di Napoleone per quelli che definiva assieme “tartari” e “barbari del Nord” e che si intreccia ovviamente, dalla Rivoluzione di Ottobre in poi, con l’odio assoluto verso il Paese reo di aver portato a compimento la prima costruzione di un esperimento sociale non asservito alla logica del capitale occidentale.
A quella russofobia di sfondo, fa riscontro, dalla fase in cui fascismo e poi più ancora nazismo furono scelti dal capitale internazionale (inclusi settori di quello USA, come Ford) come strumenti di distruzione delle velleità di giustizia sociale redistributiva del proletariato europeo, appunto l’uso del nazifascismo come strumento estremo per imporre la volontà del capitale monopolistico, ieri, globalizzato, oggi, anche a costo di vedersi sfuggire di mano quegli strumenti esattamente come accade in altro modo e per altro verso con gli integralismi religiosi estremistici (alimentati in passato contro i nazionalismi laici e marxisteggianti o, ancora una volta, contro la vecchia URSS) e vederseli trasformare in soggetti autonomi capaci di mordere anche la mano di chi li ha allevati, come già avvenne negli anni ’30 proprio con fascismo e nazismo.
Se, quindi, in Ucraina come altrove (ma con le debite differenze da non sottovalutare) la rete dei fili neri della ragnatela dell’oppressione pseudo-nazionalista, sciovinista, fascista, intrisa di mistificazione storica, affonda le sue radici perfino in lontani passati proto-borghesi, come ci insegnava Gramsci parlando del Risorgimento italiano, dinanzi ad essa, ai ragni che la tessono, alle conseguenze nefaste che ne scaturiscono non ha senso domandarsi quale livello di affidabilità rivoluzionaria, quale dose di progettualità socialisteggiante, quale tasso di eredità classista abbiano le forze che ad essa si oppongono, fermo restando ogni rifiuto indispensabile di qualsiasi contaminazione “rosso-bruna”. Chi si opponeva ieri all’invasione ed alle rapine di Napoleone (anche quando era perfino più retrogrado dello stesso Napoleone, ma difendeva la sua terra), chi si è opposto all’orrore nazifascista (si trattasse di un liberale britannico convertitosi per necessità all’antifascismo o di un bolscevico russo convertitosi all’alleanza con i “capitalisti” inglesi per altrettanta necessità, di un ufficiale sovietico recuperato dal fondo di un gulag staliniano o di un ufficiale monarchico italiano pronto a non tradire i suoi compagni di lotta comunisti sotto le torture a Via Tasso, di un minatore del Donbass sabotatore della produzione asservita ai Tedeschi o di un resistente gaullista francese, ecc.), chi si oppone oggi ai nuovi laboratori in cui quell’orrore si vuole riprodurre (si tratti di un miliziano cosacco del Donbass o di un antifascista milanese, di un antinazista tedesco o di un comunista ucraino costretto alla illegalità, di un aderente all’ANPI di Roma o di un Polacco che scende in piazza contro il regime, di un Siriano che si batte contro l’ISIS foraggiata dal fascista Erdogan o di un pilota russo che lo appoggia, ecc.) e non si fa adescare da fascisti e razzisti, antisemiti e provocatori mascherati da “antiamericani” e perfino da “filoputiniani” fa storicamente parte della risposta necessaria a quella ragnatela: una rete del colore del sangue che affermava, afferma ed affermerà che la memoria non si deve rimuovere e la lotta prosegue, in forme sempre diverse, contro lo stesso orrore di sempre.
Silvio Marconi, 9 luglio 2016