Informazione


DI CHE PARLIAMO?

Cosa resta di Sana’a, capitale yemenita (PandoraTV, 7 mar 2017)

Più di 10mila le vittime, 40mila i feriti, più di tre milioni gli sfollati, 12 milioni le persone che rischiano la morte per fame e inedia. La tragedia dello Yemen, il paese più povero del mondo arabo ma che ha la disgrazia di trovarsi in posizione strategica, affacciato sul Golfo di Aden, si sta compiendo nell’indifferenza dell’Europa. La grande macchina dei media occidentali ha volutamente oscurato quanto accade in questo Paese per non disturbare i monarchi sauditi ed i lucrosi traffici che gli Usa e i Paesi europei svolgono con le petromonarchie. Oltre a bombardamenti indiscriminati, che proseguono incessanti dal 25 marzo 2015 da parte della coalizione del Golfo, guidata da Arabia Saudita e sostenuta da Usa e Gran Bretagna, lo Yemen è sottoposto a un embargo per via marittima e aerea, imposto attraverso navi da guerra saudite e statunitensi che pattugliano il Mar Rosso e il Golfo di Aden. Senza considerare che anche i porti di attracco sono stati bombardati...




(hrvatskosrpski / italiano)
 
Madonna del Malaffare
 
1) Tiziano Renzi: << Io a Medjugorje lo sa da quando ci vado? Dal ‘93... Ma guai a chiamarla Jugoslavia. >>
2) Medjugorie, il vescovo di Mostar: la Madonna non è mai apparsa
3) Ratko Perić, biskup: MEĐUGORSKA „UKAZANJA“ U PRVIH SEDAM DANA
 
 
Su Medjugorje e dintorni si vedano alla nostra pagina dedicata https://www.cnj.it/documentazione/varie_storia/prebilovci.htm :
• Link e documenti utili
• Michael E. Jones: IL FANTASMA DI ŠURMANCI: REGINA DELLA PACE, PULIZIA ETNICA, VITE DISTRUTTE
• James Martinez: LA REGINA DEI PROFITTI (2000) 
• INTERVISTA a E. Michael Jones, autore di due libri sulle apparizioni della Madonna a Međugorje (marzo 2008)
• Giancarlo Bocchi: MEDJUGORJE, LA FABBRICA DELLE APPARIZIONI
• News
 
 
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«A Fiumicino con mister X? Nessun segreto: è solo un manager»

Tiziano Renzi: «Ho visto Comparetto della Fulmine, un’azienda di spedizioni. Altro che uomo del mistero!». La messa a Rignano sull’Arno e la riunione al circolo dem. «Dimettermi dalla carica nel Pd? Non vedo perché, il partito è garantista»

di Virginia Piccolillo, 5 marzo 2017
 
Scende dalla Touran nera respingendo con durezza l’agguato delle telecamere: «Voglio solo essere lasciato in pace! Questo è stalking». Agguanta una 48 ore nera dal bagagliaio e poi entra nella Pieve di San Leolino respingendo le domande: «State violentando la mia vita privata». In chiesa si siede come al solito all’organo, tira fuori dalla valigetta gli spartiti e, dopo aver duettato con un flauto, intona: «Perdonami Signore, ho molto peccato». (...)
 
Ci parli dei suoi viaggi a Medjugorje che condivide con il suo amico Carlo Russo.

«Ecco lo vede. Mi dica un po’ lei se è normale? Poi dice: “Oh perché tu t’infuri?”». 

Le sto facendo una domanda. Di Medjugorje lei dice di aver parlato al manager di Consip, Luigi Marroni, nel suo incontro a Santo Spirito. 

«Io a Medjugorje lo sa da quando ci vado? Dal ‘93». 

Durante la guerra in Jugoslavia? 

«Sì. Partivamo da Rignano e portavamo aiuti alla povera gente. Ma guai a chiamarla Jugoslavia. È un posto che ho proprio nel cuore. Ma che ne sapete voi?».
Ma questa storia della statua della Madonna che ha chiesto a Marroni di mettere all’Ospedale Meyer ce la spiega? E poi all’ospedale c’è stata messa davvero?

«Questo non glielo posso dire perché c’è l’indagine». (...)
 
 
 
=== 2 ===
 
 
Medjugorie, il vescovo di Mostar: la Madonna non è mai apparsa
 
di Franca Giansoldati, 28 Febbraio 2017

Città del Vaticano - Le apparizioni della Madonna di Medjugorie sono una fiction, una gigantesca truffa collettiva, oppure sono davvero frutto di un fenomeno soprannaturale e inspiegabile? Il vescovo di Mostar, Ratko Peric, sul sito della diocesi, ha pubblicato una lunga riflessione dalla quale emerge di avere pochi dubbi: «Sebbene si sia detto che le apparizioni dei primi giorni potrebbero essere ritenute autentiche e che poi sarebbe sopraggiunta una sovrastruttura per altri motivi, in prevalenza non religiosi, questa Curia ha promosso la verità anche riguardo a questi primi giorni». Insomma, tolto l’inizio del fenomeno, quando i bambini raccontavano le visioni e Medjugorie era un paesino sperduto su una collina brulla, tutto il resto è da prendere con le pinze.
L’intervento del vescovo di Mostar è stato pubblicato alla vigilia dell’arrivo nella cittadina bosniaca dell’inviato del Papa, il vescovo polacco scelto per mettere ordine nel ginepraio economico del santuario dove oggi tutto appare come un grande business, gli alberghi, i ristoranti, gli shop, i souvenir. Peric racconta che dopo aver trascritto dai registratori le audiocassette contenenti i colloqui avvenuti, nella prima settimana delle apparizioni (1982) nell'ufficio parrocchiale di Medjugorje, tra il personale pastorale e i ragazzi e le ragazze (che avevano affermato di aver visto la Madonna, «con piena convinzione e responsabilità») ha illustrato i motivi per cui «appare evidente la non autenticità dei presunti fenomeni. Se la vera Madonna, Madre di Gesù, non è apparsa – come infatti non è – allora a tutto sono da applicare le seguenti formule: sedicenti veggenti, presunti messaggi, pretes” segno visibile e cosiddetti segreti».
«Nel corso del mio ministero episcopale, prima da coadiutore (1992/93) e poi da ordinario, con prediche e pubblicazioni di libri (Sedes Sapientiae 1995, Speculum iustitiae 2001, La Madre di Gesù 2015) e di una cinquantina di articoli mariani e mariologici, ho cercato di presentare il ruolo della Beata Vergine Maria nell'incarnazione ed opera del Figlio di Dio e suo Figlio, e la sua intercessione per tutta la Chiesa, di cui lei è Madre secondo la grazia. Nello stesso tempo ho rilevato, come fu fatto anche dal mio predecessore, il vescovo Pavao Žanić, la non autenticità delle apparizioni, che finora hanno raggiunto la cifra di 47.000. Questa Curia ha cercato sempre di informarne la Santa Sede, in particolare i Sommi Pontefici San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Qui riportiamo succintamente una serie di punti inerenti ai primi giorni delle „apparizioni“, per cui siamo profondamente convinti di quanto detto».
Una figura ambigua. La figura femminile che sarebbe apparsa a Medjugorje secondo il vescovo di Mostar si comporta «in modo del tutto diverso dalla vera Madonna, Madre di Dio, nelle apparizioni riconosciute finora come autentiche dalla Chiesa: di solito non parla per prima; ride in maniera strana; a certe domande scompare e poi di nuovo ritorna; obbedisce ai veggenti e al parroco che la fanno scendere dal colle in chiesa sebbene controvoglia. Non sa con sicurezza per quanto tempo apparirà; permette ad alcuni presenti di calpestare il suo velo steso per terra, di toccare la sua veste e il suo corpo. Questa non è la Madonna evangelica».

 
=== 3 ===
 
IN ENGLISH: THE FIRST SEVEN DAYS OF THE “APPARITIONS” IN MEDJUGORJE
 
 
MEĐUGORSKA „UKAZANJA“ U PRVIH SEDAM DANA
VIJESTI 28. February 2017.
 

Budući da „Crkva Boga živoga“ jest „stup i uporište istine” (1 Tim 3,15), sva dosadašnja istraživanja „međugorskog fenomena” išla su za tim da se ustanovi istina: jesu li ukazanja vjerodostojna ili nevjerodostojna? Constat vel non de supernaturalitate? Tomu je služila prva dijecezanska komisija u Mostaru: 1982.–1984., proširena komisija: 1984.-1986., komisija Biskupske konferencije u Zagrebu: 1987.–1990., komisija Kongregacije za nauk vjere u Vatikanu: 2010.-2014. te vrjednovanje same Kongregacije: 2014.–2016., kako je bio odredio papa Benedikt XVI. A sve se našlo u rukama Svetog Oca Pape Franje.

Stajalište ovog Ordinarijata kroz sve ovo vrijeme bilo je jasno i odlučno: nije riječ o vjerodostojnim ukazanjima Blažene Djevice Marije.

Iako je bilo ponekad govora o tome da bi se ukazanja prvih dana mogla smatrati istinitima, a potom je nadošla „nadgradnja“ drugih, ponajviše nereligioznih elemenata, ovaj je Ordinarijat promicao istinu i s obzirom na te prve dane. Nakon što su presnimljene i prepisane audiokasete koje sadržavaju razgovore pastoralnog osoblja u župnom uredu u Međugorju, u prvih tjedan dana, s dječacima i djevojčicama koji su tvrdili da im se ukazala Gospa, s uvjerenjem i odgovornošću iznosimo razloge i zaključke o nevjerodostojnosti navodnih ukazanja. A ako se prava Gospa, Isusova Majka, nije ukazala – kao što nije – onda su sve to samozvani vidioci, tobožnje poruke, tzv. vidljivi znak i navodne tajne.

U vrijeme svoje biskupske službe, najprije koadjutorske (1992./93.) potom ordinarijske, svojim propovijedanjem, objavljivanjem knjiga (Prijestolje mudrosti 1995., Ogledalo pravde 2001., Isusova majka 2015.) te još pedesetak marijanskih i marioloških članaka, nastojao sam obrazlagati ulogu Blažene Djevice Marije u utjelovljenju i djelu Sina Božjega i Sina njezina, i njezin providnosni zagovor cijele Crkve kojoj je ona Majka po milosti. U isto doba isticao sam, na liniji svoga prethodnika sretne uspomene biskupa Pavla Žanića, nevjerodostojnost međugorskih ukazanja koja su do sada dosegnula brojku od 47 tisuća. Ovaj je Ordinarijat uvijek nastojao o tome izvješćivati Svetu Stolicu, napose Vrhovne svećenike: svetoga Ivana Pavla II., Benedikta XVI. i Franju. Ovdje sažeto donosimo niz točaka iz tih prvih dana „ukazanja“, koje nas u tu nevjerodostojnost duboko uvjeravaju.

Dvoznačna pojava. Ukazana žena, koja se navodno pojavila u Međugorju, ponaša se sasvim drugačije od istinske Gospe, Majke Božje, u ukazanjima koja je Crkva do sada priznala autentičnima. Redovito ne govori prva; čudno se smije; nakon određenih pitanja nestaje, zatim se ponovo vraća; pokorava se „vidiocima” i župniku da s brda siđe u crkvu, iako nevoljko. Nije sigurna koliko će se vremena ukazivati; dopušta nekima nazočnima da joj gaze po velu koji se vuče po zemlji, dopušta da joj se dodiruje odjeća i tijelo. Takva doista nije evanđeoska Gospa!

Čudan trepet. Jedan od „vidjelaca“, Ivan Dragićević, u razgovoru s kapelanom fra Zrinkom Čuvalom (1936.-1991.) kaže da je primijetio, prvoga dana, „trepet“ na rukama pojave.[1] Kakav „trepet“? Takva primjedba može pobuditi ne samo jaku sumnju nego i duboko uvjerenje da to nije autentično ukazanje Blažene Djevice Marije, iako se tako, navodno, predstavlja već četvrtoga dana.[2]

Obljetnica neistinita. Navodna su ukazanja započela 24. lipnja 1981. Međutim, režiseri „međugorskoga fenomena” odlučili su da se obljetnica ne slavi 24. nego 25. lipnja. Razlog takva izbora jest u tome što je 25. lipnja 1981. bilo, navodno, zajedno na „ukazanju” sve šestero „vidjelaca” probranih od više njih koji su se tih dana hvalili da su imali „ukazanja“. Pravu istinu, opovrgavajući ovu verziju Vicke Ivanković, kaže sam Ivan Dragićević, koji tvrdi: „Prvu sam večer bio s njima, drugu nisam“.[3] Od šestero uobičajenih „vidjelaca“, osim Marije Pavlović, i Jakov je Čolo prvi put bio na „ukazanju“ tek drugoga dana.[4] Prema tomu nadnevak je obljetnice proizvoljan, netočan, krivotvoren.

Ne/vidljivo dijete. Figura, koja se navodno ukazuje kao žena ima različite opise: neke „vidjelice“ vidjele su kao neko dijete prekriveno na rukama žene: Vicka i Ivanka Ivanković, [5] Mirjana Dragićević, [6] Ivanka to ponovo potvrđuje. [7] Ivan, međutim, izričito niječe da je vidio dijete, dok je, naprotiv, lako mogao vidjeti iz daljine „oči“ i „trepavice“ ženskoga lika.[8]

Varljivi znak. „Vidioci“ su od početka, od drugoga dana, tražili od svoje pojave neki „znak“ kao dokaz o vjerodostojnu ukazanju. Prema Ivanki, pojava je dala „znak“ o okrenutosti sata na Mirjaninoj ruci: „skroz se sat okrenuo“; „I ona je na satu ostavila znak“! [9] Više nego smiješno i čudovišno!

Ali redovito se događa da se, na vrlo čest zahtjev vidljiva znaka, svima pojava samo nasmiješi i nestane. [10] A ponekad se odmah vrati. U jednom trenutku upada vjernik imenom Marinko, koji vodi „vidioce“, sugerirajući im: ako „Gospa“ ne može dati znaka, „neka pita Isusa da joj pomogne“.[11]

Ivanka je sigurna da će pojava ostaviti znak na brdu, možda u obliku vode.[12] Čeka se skoro četiri desetljeća, nema nikakva znaka, ni vode, sve sama izmišljotina!

Neprotumačiva šutnja. U prvih sedam dana pojava ne poduzima nikakve inicijative, ne počinje govoriti prva.[13]Na pitanja „vidjelaca“ odgovara općenito, radije dvosmisleno, kimajući glavom,[14] odgađajući u budućnost, obećavajući čudo ozdravljenja i ostavljajući poruku svijetu: „Neka narod čvrsto vjeruje kao da me vidi“. I franjevcima: „Nek čvrsto vjeruju“ [tj. da se ukazala].[15]

Čudne poruke. Prvih dana, prema snimljenim razgovorima, ne vidi se nikakva svrha takozvanih ukazanja, ne opravdava se pojava, ne daje se nikakva posebna poruka ni za „vidioce“, ni za franjevce, osim da vjeruju da se „ukazala“, ni za vjernike župe, ni za svijet. A privatne su „poruke“ ove vrste:

Ivanki njezina majka, koja je umrla dva mjeseca prije toga, šalje poruku: „Slušajte babu jer je stara“.

Mirjani pojava kaže da je njezin pokojni „dedo dobro“, i da „ode na groblje“.

Ivanka je čula od pojave motiv "ukazanja" u Međugorju: „Zato što ima puno vjernika“.

Vicka je čula da je pojava došla da se „narod pomiri“.[16]

Ivan je čuo poruku: „Vi ste najveći vjernici“.[17]

Jakov jednostavno kaže: „Ovako, kad ja postavim pitanje, ja u sebi mislim da će mi ona tako reć i ona mi rekne tako”.[18] Sve sami umišljaj i izmišljaj!

Lažna proročanstva o lažnim ukazanjima. Na Ivankino pitanje koliko će dugo još ostati i ukazivati se, pojava odgovara: „Koliko god vi hoćete, koliko god vi želite“.[19]

Mirjana kaže da će pitati pojavu koliko će se dana još ukazivati i onda dodaje kako joj iz nje neki glas govori da će se još ukazivati „2-3 dana“. To ponavlja još jednom.[20]

Na pitanje župnika o. Zovke kada će prestati „ukazanja“, Vicka odgovara: „Ja mislim isto kad bi mi rekli da nećemo više dolazit, a da nam ostavi tačno neki znak, sigurno da bi prestalo”.[21] Znači li to: budući da tražena „znaka“ nema već 37 godina, zato „ukazanja“ ne prestaju!

Potom kategorična izjava pojave koja se „ukazala“ ne u Međugorju nego u susjednom Cernu, u utorak popodne, 30. lipnja 1981., da će se ukazivati još samo „tri dana“: 1., 2. i 3. srpnja 1981. U stvari, na pitanje župnikovo, koliko će se vremena još ukazivati, sve petero „vidjelaca“, osim Ivana, odgovaraju jednoglasno: „Tri dana“.22

Zatim pojava mijenja ideju i „ukazuje“ se već 37 uzastopnih godina svaki dan trima „vidiocima“ u skupini: Ivanu, Mariji i Vicki, a drugima troma jednom godišnje: Mirjani od 1982. godine, Ivanki od 1985. i Jakovu od 1998. Osim toga, dvoma spomenutih iz skupine pojava se „ukazuje“ jednom mjesečno od 2007. s „porukama“ svijetu: Mirjani točno 2. i Mariji 25. svakoga u mjesecu.

Različite haljine. Iz razgovora s „vidiocima“ pojava se oblači na razne načine. Ona je imala haljinu -

prema Ivanu: „plave boje“ prvoga dana; [23]

prema Ivanki: „kafe boje“ drugoga dana; [24]

prema ostalim „vidiocima“ – „sive boje“: Jakov,[25] Mirjana,[26] Ivanka šestoga dana.[27]

Više nervoza nego mir. Vidi se neka napeta nervoza u padanju „u nesvijest“ i na zemlju triju „vidjelica“, trećega dana, 26. lipnja: Ivanke, Mirjane i Vicke. „One su padale u nesvijest, meni ništa”, hrabri se Marija.[28] Vicka: „Velečasni, ja došla gore, donila one kršćene soli i vode. I velim ja: ako ne bude Gospa, otić će. Poškropit ćemo i da vidimo. Stvarno vidit ćemo. Došla ja: „U ime Oca i Sina i Duha Svetog. Amen. Ako si Gospa, ostani među nama; ako nisi, iđi!’“[29] Uporno traženje vidljiva „znaka” za ljude da im vjeruju. U većini razgovora spominje se znak, [30] i vidljivo je da su „vidioci“ nervozni jer nemaju vidljiva znaka.

Škandalozni dodiri. Nešto vrlo neobično i ozbiljno: pojava dopušta da joj neki iz mnoštva gaze ne samo njezin veo koji se proteže do zemlje, [31] nego i da joj dodiruju tijelo. Vicka je već dotiče drugi dan. „I kad je dirneš, velečasni, ovako, prsti odskoče“.[32] Isto ponavlja Ivanka i dodaje da, dodirujući njezino tijelo, osjeća kao da je „vazduh, nekako kao svila, sve nam se odmiču prsti ovako, kad je diramo, sve se prsti odmiču”.[33] Dali su i jednoj doktorici da se dotakne te pojave: „I, eto, ona je dirnila njenu haljinu”.[34] Takve priče o dodirivanju navodna Gospina tijela, njezine haljine i gaženja njezina vela stvaraju u nama i osjećaj i uvjerenje da se radi o nečem nedostojnom, nevjerodostojnom i škandaloznom. Samo možemo reći: To nije katolička Gospa!

Namjerne manipulacije. Sugovornik „vidjelaca“, fra Jozo Zovko, župnik, nervozan je

jer ukazana pojava ne šalje konkretne poruke za svijet i za franjevce;

jer s brda ne silazi u crkvu, gdje se nalazi njezin kip;

štoviše, pita može li se Gospu „obvezat” – doslovno tako! – da siđe i ukaže se u crkvi. O. Zovko: „Ali ovo me zanima, Mirjana, ako se Gospa ne pokaže u crkvi, možete li vi nju obvezat da ona se u crkvi pokaže, možda može, je li, šta misliš to?” Mirjana: „Ne znam. Nismo o tome razmišljali uopće”. O. Zovko ponavlja: „Ja mislim da bi mogla obvezati: ‘Gospe, tražim da mi se ukažeš u crkvi', šta misliš?” A onda Mirjana popušta i misli da bi „bilo isto bolje jer onda nas ne bi ni milicija ova tražila…”.[35] I tako se manipulacijski „ukazanja” premještaju u crkvu 1. srpnja 1981. Takvo „obvezivanje“ navodne Gospe da siđe i „ukazuje se“ u crkvi jest magična igra, a ne Kristovo Evanđelje!

Zaključak. Nakon komisijskih radova o „međugorskom fenomenu” u Mostaru slijedila je izjava biskupa Pavla Žanića u Međugorju, 25. srpnja 1987. Smisao biskupove izjave jest da je posve jasno da se u Međugorju ne radi o nadnaravnim pojavama i objavama. A nakon komisijskoga rada u Zagrebu, izjavu je dala i tadašnja Biskupska konferencija, u Zadru, 10. travnja 1991. Ona kaže: na temelju dotadašnjega istraživanja ne može se ustvrditi da se radi o nadnaravnim ukazanjima i objavama.

Imajući u vidu sve što je ovaj Biskupski ordinarijat do sada istraživao i proučavao, uključujući prouku prvih sedam dana navodnih ukazanja, može se mirno ustvrditi: Gospa se u Međugorju nije ukazala! To je istina koje se držimo, i vjerujemo Isusovoj riječi da će nas „istina osloboditi“ (Iv 8,32).

+Ratko Perić, biskup

 

[1] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[2] Kaseta 7 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, nedjelja prije podne, 28. VI. 81.

[3] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[4] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[5] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[6] Kaseta 6 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[7] Kaseta 11 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, nedjelja navečer, 28. VI. 1981.

[8] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[9] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[10] Kaseta 10 – razgovor: o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, nedjelja navečer, 28. VI. 1981.

[11] Kaseta 13 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[12] Kaseta 13 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[13] Kaseta 13 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 81.

[14] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[15] Kaseta 11 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, nedjelja navečer, 28. VI. 1981.

[16] Kaseta 1 – svi navedeni citati iz kasete 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[17] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[18] Kaseta 16 – razgovor o. Jozo Zovko – petero „vidjelaca”, utorak navečer, 30. VI. 1981.

[19] Kaseta 13. razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[20] Kaseta 14 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[21] Kaseta 15 – razgovor o. Jozo Zovko – Vicka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[22] Kaseta 16 – razgovor o. Jozo Zovko – petero „vidjelaca”, utorak navečer, 30. VI. 1981.

[23] Kaseta 2 – razgovor: o. Zrinko Čuvalo – Ivan Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981.

[24] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[25] Kaseta 5 – razgovor o. Jozo Zovko – Jakov Čolo, subota popodne, 27. VI. 1981.

[26] Kaseta 6 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, subota popodne, 27. VI. 1981. Također

kaseta 8 – razgovor o. Jozo Zovko – Jakov Čolo, nedjelja prije podne, 28. VI. 1981.

[27] Kaseta 11 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, nedjelja navečer, 28. VI. 1981.

[28] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[29] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović, subota prije podne, 27. VI. 1981.

[30] Kaseta 1, 2, 5, 6, 7, 9, 10, 11, 14, 15, 16.

[31] Kaseta 7 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, nedjelja prije podne, 28. VI. 1981.

[32] Kaseta 1 – razgovor o. Zrinko Čuvalo – Ivanka i Vicka Ivanković i Marija Pavlović subota prije podne, 27. VI. 1981.

[33] Kaseta 11 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, nedjelja večer, 28. VI. 1981.

[34] Kaseta 13 – razgovor o. Jozo Zovko – Ivanka Ivanković, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

[35] Kaseta 14 – razgovor o. Jozo Zovko – Mirjana Dragićević, utorak prije podne, 30. VI. 1981.

 

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Kosovo: "Non pensavamo che tornassero terroristi..."

1) Kosovo, Vicepresidente a parlamentari italiani: "Non pensavamo che i nostri volontari mandati in Siria contro Assad tornassero terroristi"
Intervista a Emanuele Scagliusi (M5S) di ritorno da una missione della Commissione Affari esteri della Camera in Kosovo, 23/02/2017
2) Le bandiere dell'Isis nei villaggi dell'Albania. "Una polveriera per la Puglia" (La Repubblica Bari, 7.1.2017)
3) Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti (Sergio Cararo, 9 agosto 2016)


À lire aussi: GUERRE EN SYRIE : QUI ÉTAIT RIDVAN HAQIFI, LE CHEF DES COMBATTANTS KOSOVARS DE L’ÉTAT ISLAMIQUE ?
(Radio Slobodna Evropa | Traduit par Chloé Billon | lundi 20 février 2017)
Connu pour ses vidéos de propagande où il prédisait des « jours sombres » aux Balkans, le chef des combattants kosovars de l’État islamique, l’ancien imam de Gnjilan, Ridvan Haqifi, aurait été abattu en Syrie...


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23/02/2017

Kosovo, Vicepresidente a delegazione di parlamentari italiani: "Non pensavamo che i nostri volontari mandati in Siria contro Assad tornassero terroristi"


Come AntiDiplomatico abbiamo intervistato Emanuele Scagliusi (M5S) di ritorno da una missione della Commissione Affari esteri della Camera in Kosovo.


“Almeno cinque campi, di cui - se non tutto - l’impressione è che si sappia molto. Se la presenza di cellule fondamentaliste nell’area dei Balcani è cosa nota (due anni fa l’Espresso ne aveva censite una ventina in tutta la regione), adesso arriva la conferma dell’esistenza di un livello superiore. Prevedibile, per alcuni versi, ma finora mai resa nota più o meno ufficialmente: la presenza di campi di addestramento dell'Isis in Kosovo”. Iniziava così un articolo de l’Espresso che riportava la notizia dei cambi dell’Isis nello stato esperimento della NATO che come AntiDiplomatico avevamo anticipato di settimane.
 
Inquieta ancora di più pensare ai campi di addestramento in Kosovo alla luce di questa dichiarazione del vice Presidente del Parlamento kosovoro Xhavit Haliti rilasciata questa settimana: “Noi abbiamo semplicemente inviato dei volontari a combattere contro Assad in Siria, non credevamo che sarebbero tornati terroristi islamici". Inquietano, per il ruolo dell’Unione Europea e della Nato, queste "illuminanti" dichiarazioni di Haliti rilasciate ad una delegazione della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, nella quale era presente anche il deputato del Movimento Cinque Stelle Emanuele Scagliusi. Come AntiDiplomatico abbiamo avuto la possibilità di rivolgergli alcune domande.
 

ll Kosovar Center for Security Studies (Kcss) stima che il Kosovo sia oggi il principale serbatoio europeo pro-capite di foreign fighter dello Stato Islamico. La diffusione dell’Islam radicale si è spesso materializzata nella costruzione, attraverso grandi finanziamenti sauditi, di centinaia di moschee wahabite e nella distruzione di altrettante chiese cristiane e monasteri. Tutto il territorio kosovaro pullula da anni di imam radicali che predicano la guerra santa e operano come reclutatori nelle centinaia di moschee finanziate dalle monarchie arabe. Com’è possibile che tutto questo accada sotto gli occhi dell’apparato militare e di intelligence Nato e Ue che opera in Kosovo?
 
Nella mia recente visita in Kosovo abbiamo avuto una serie di incontri bilaterali con il Presidente dell’Assemblea della Repubblica del Kosovo, Kadri Veseli, con il Vice presidente dell’Assemblea, Xhavit Haliti e con la neoeletta Ministra per l’integrazione europea, Mimosa Ahmetaj.  Sono rimasto colpito dalla naturalezza con la quale il vicepresidente del Parlamento kossovaro ci ha raccontato il problema legato ai foreign fighters. “Noi abbiamo semplicemente inviato dei volontari a combattere contro Assad in Siria, non credevamo che sarebbero tornati terroristi islamici". Una frase inquietante che lascia ben intendere l'emergenza legata al terrorismo che sta vivendo il Kosovo. Un problema, quello dei foreign fighters, che rischia di diventare un'altra delle emergenze di questo Paese dove negli ultimi anni sono aumentate le moschee wahabite ed i centri in cui il fenomeno della radicalizzazione islamica aumenta, grazie ai finanziamenti che arrivano dai Paesi del Golfo e della Turchia.

Che ruolo giocano le Monarchie del Golfo in questo processo in corso nel Kosovo?
 
L’Arabia saudita, alleato Usa e Ue, è il più grande acquirente dell’equipaggiamento militare dei paesi balcanici. L’Arabia Saudita sostiene le forze jihadiste in Siria.
Credo che il cerchio si chiuda.
Un recente studio pubblicato dal BIRN (Balkan Investigative Reporting Network) sostiene che dal 2012, anno dell’inasprimento delle “primavere arabe”, ad oggi, ai paesi dei Balcani sono state comprate armi per un valore di 1.2 miliardi di euro da Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Turchia, molte delle quali smistate per poi essere usate nel conflitto siriano e in quello yemenita. I leader europei hanno fatto di tutto negli ultimi anni per tentare di bloccare la strada percorsa dai migranti che tentavano di raggiungere l’Europa passando per i paesi mentre non si sono preoccupati di mobilitarsi per fermare il commercio di armi che segue la medesima rotta balcanica che percorrono i migranti (con l’unica differenza che viene percorsa nella direzione opposta).
 
 
La crescente partecipazione di membri radicali tra le fila dello Stato Islamico e la posizione di hub strategico nel cuore dell’Europa sollevano seri elementi di criticità legati al ritorno dei combattenti in patria. “Questa situazione è potuta maturare nonostante le missioni internazionali presenti sul territorio, perché da tempo l’Europa e la Nato si disinteressano al Kosovo, e ai Balcani in generale, nonostante questa evoluzione fosse chiara da anni”. Sono parole del Generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato in Kosovo. Come procede il lavoro del contingente italiano in Kosovo?
 
Nella nostra missione, abbiamo visitato il contingente italiano presso la KFOR e la base dei Carabinieri della Multinational Special Unit (MSU). 
Con loro, abbiamo potuto visitare il Ponte di Mitrovica, uno dei luoghi simbolo del conflitto del ‘99 e teatro dei più recenti scontri connessi dalle perduranti tensioni interetniche tra minoranza serba e maggioranza di albanese. Attraversandolo, ho subito percepito, nonostante siano passati 18 anni, quali siano gli sconvolgimenti che le missioni "umanitarie" portano in paesi che con difficoltà nel corso della loro storia avevano raggiunto il loro precario equilibrio tra le diverse etnie, religioni e ideologie politiche.
Ricordo ancora le bombe del Governo D'Alema, spacciate per intervento militare in difesa dei diritti umani, che in verità hanno contribuito a rimescolare le tessere del puzzle balcanico. Tessere che faticosamente si cerca di rimettere in ordine.

Il Kosovo vuole entrare nell’Unione Europea. Secondo lei sono pronti?
 
Adesso il Kosovo, come un po' tutti i Paesi balcanici, ambisce ad entrare nell'Unione Europea e, dai discorsi che ho sentito dai loro parlamentari e rappresentanti di Governo, mi sembrava di essere tornato indietro di qualche decina di anni quando l'allora presidente del consiglio Prodi annunciava: "con l'euro lavoreremo un giorno in meno guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più". Previsione rivelatasi drammaticamente sbagliata. 
Il Kosovo rischia di cadere in una simile illusione. Per questo, in tutti gli incontri bilaterali avuti, ho illustrato loro la posizione del M5S su tutto quello che a nostro avviso va rivisto immediatamente in Europa: dalla moneta unica alla gestione dei profughi, dal mercato del lavoro a quello delle merci. Una serie di temi che prevedono nella nostra agenda politica una rivisitazione del principale trattati della UE. "O l'Europa cambia o muore".


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Terrorismo, le bandiere dell'Isis nei villaggi dell'Albania. "Una polveriera per la Puglia"

I fenomeni di radicalizzazione oltre l'Adriatico preoccupano l'intelligence italiana: sul territorio pugliese ci sono comunità originarie dei villaggi su cui sventolano le bandiere del Califfato

di GIULIANO FOSCHINI

7 gennaio 2017

È dal mare Adriatico che arriva oggi uno dei principali allarmi per il terrorismo in Italia. E la Puglia è frontiera di questo rischio. Nulla c'entrano i flussi migratori. L'allerta non riguarda né i barconi di disperati che attraccano per lo più sulle coste del Salento né le migliaia di richiedenti asilo che, in attesa del permesso di soggiorno, vengono portati nei Cara di Bari e Foggia o nell'hotspot di Taranto.

L'allarme arriva dall'Albania. Dove i nostri servizi di intelligence, così come quelli della maggior parte dei Paesi occidentali, hanno lanciato l'allerta radicalizzazione: in alcuni villaggi, e in particolare quelli ai confini del Kosovo, da tempo sventola la bandiera nera dell'Isis. E sono sempre più i casi di radicalizzazione. "Sta diventando una polveriera" ragiona una qualificata fonte investigativa italiana. "E in questo senso l'Italia diventa un paese esposto. E la Puglia in particolare". Questo per via della vicinanza geografica, della presenza di comunità fortemente radicate e per quegli stretti collegamenti tra criminalità organizzata e traffico internazionale di stupefacenti.

Il caso Albania. Sin dalla nascita dello Stato islamico un numero importante di foreign fighter è partito dai Balcani occidentali, e dall'Albania soprattutto. Se ne stimano mille almeno. Negli ultimi 12 mesi, però, il flusso si è notevolmente ridotto. Non è un caso: la perdita di terreno in Siria ha spinto l'Isis a bloccare i viaggi di chi si vuole arruolare per spostare, appunto, il conflitto in Occidente. Non a caso le intelligence europee segnalano una radicalizzazione sempre più profonda proprio in questi mesi. Un allarme che in un certo modo le autorità albanesi stanno cercando di fronteggiare.

Nove persone sono state condannate per reclutamento, si sta cercando di fare un lavoro sulle moschee seppur 89 sembrano essere completamente fuori controllo. I servizi albanesi hanno segnalato come "fortemente pericolosi" una decina di imam, due dei quali sono però in carcere. Il più pericoloso di loro, Almir Daci, dovrebbe essere morto ad aprile scorso in Siria: è lui che da Leshnica, la città nel sud-est dell'Albania dove reggeva la moschea che ha radicalizzato centinaia di uomini. I ragazzi di Leshnica, Zagorcan e Rremeni sono quelli che ora fanno tremare l'Europa.

La rete pugliese. Non sono città qualsiasi. In Italia vivono da tempo comunità originarie di quelle zone. In particolare in Puglia, con concentrazioni in Salento e in un comune della provincia barese. Un ragazzo di quelle zone, Ervis Alinj, si era trasferito in Puglia piccolo per poi ritornare a casa con i genitori in Albania. Qui si è radicalizzato e poco meno di due anni fa è morto mentre combatteva in Siria. Vengono dal sud-est albanese esponenti di spicco anche della malavita organizzata pugliese, che vivono da anni nel barese e sono attivi in particolare nel traffico di stupefacenti e in quello di armi.

Un fattore questo che rende ancora potenzialmente più pericolosa la situazione, in quanto legherebbe la criminalità organizzata con le organizzazioni terroristiche. Non a caso, sulla cellula albanese da tempo lavora la Dda di Bari. Un fascicolo è stato aperto dopo la strage di Nizza ma fin qui, più che una reale pista investigativa, si è trattato di una suggestione. Chokri Chaffroud, il complice di Mohamed Bouhlel, lo stragista di Nizza aveva vissuto per anni a Gravina, dove vive una delle comunità albanesi più importanti e, indagini alla mano, con più affari criminali. Ed erano proprio albanesi due presunti complici di Bouhlel, arrestati dopo la strage sulla Promenade con l'accusa di avergli offerto un supporto logistico per compiere l'attentato.

La prevenzione. Chiaro il rischio, in questi mesi si stanno prendendo tutte le contromisure affinché il pericolo resti potenziale. La Dna, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha sottoscritto in estate un protocollo con i colleghi serbi che serve proprio a mettere in rete le informazioni. In questo senso il porto di Bari, considerato hub per il passaggio, è in grado di offrire un supporto fondamentale: ha un sistema informatico di registrazione dei passeggeri che consente di verificare alle forze di polizia in tempo reale chi, quando e soprattutto accompagnato da chi ha viaggiato.

Proprio grazie a questo software - unico in Italia - è stato possibile individuare Ahmed Dhamani, uno dei fiancheggiatori di Salah Abdeslam, il terrorista che assaltò Parigi il 13 novembre 2015. Nessuno conosceva il suo nome ma la Digos di Bari scoprì che i due avevano viaggiato insieme da Bari a Patrasso il primo e il 5 agosto, in quel viaggio in Grecia nel quale fu probabilmente organizzata la strage.



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Lo Stato Islamico alle porte di casa. Nei Balcani crescono i network jihadisti


di Sergio Cararo, 9 agosto 2016

Sembrerebbe una legge del contrappasso eppure è lo stesso scenario che si è ripetuto costantemente dall’alleanza con i mojaheddin afgani dal 1980 in poi. Gli Stati Uniti, la Nato e l’Unione Europea hanno disgregato gli stati esistenti – anche con i bombardamenti e le operazioni di regime change – hanno sostenuto militarmente i gruppi islamici e hanno consentito il loro rafforzamento economico e militare in enclavi protette e sostenute dal wahabismo saudita. Ma non è accaduto solo in Medio Oriente, è accaduto anche in Europa nella sua periferia balcanica. Una volta diradata la polvere dei bombardamenti (incluso quelli all’uranio impoverito) sul territorio dei Balcani sono rimaste quasi sempre basi militari Usa (in Kosovo, Croazia, Macedonia) e sono prosperati network legati alla jihad globale, sia di osservanza wahabita (legati all’Arabia Saudita) che di altre correnti (legati alla Turchia). Il risultato è che enclavi dello Stato Islamico sono assai più vicine ai confini europei di quanto la geografia e la cronaca abbiano lasciato intendere fino ad ora.

Sono stati infatti individuati diversi network jihadisti che hanno origine in Kosovo (dove in rapporto alla popolazione si segnala il numero più alto di foreign fighters andati a combattere in Siria e Iraq tra le file dell’Isis), Bosnia e Albania. In questi tre paesi balcanici nei quali la Nato è intervenuta militarmente tra il 1995 e il 1999 a sostegno delle ambizioni islamiche,   si è formata una rete di gruppi islamici radicali, che si ispirano a Lavdrim Muhaxheri, noto come il “’macellaio dei Balcani”, per le sue atroci esecuzioni al servizio del califfo Al-Baghdadi. Tra i cento soggetti  posti all’attenzione dalla polizia in Italia, ci sono persone provenienti da quelle zone: si tratta soprattutto di ex criminali con precedenti per spaccio di droga, tra cui anche donne. Proprio nel dicembre 2015 è stato individuato un gruppo di kosovari, di cui alcuni arrestati, che propagandava la Jihad  e che,  secondo gli investigatori,  aveva collegamenti con gruppi riconducibili a Muhaxheri. Quest’ultimo ha lavorato proprio dentro la base militare Usa in Kosovo, quella di Camp Bondsteel, all’ombra delle quale si segnalano ben cinque campi di addestramento dei miliziani islamici.

Il vero cuore dello Stato Islamico alle porte dell’Europa è proprio il Kosovo, uno stato fantoccio creato dai bombardamenti dalla Nato e riconosciuto come indipendente dalla maggioranza dei paesi europei (tranne la Spagna). Una inchiesta de L’Espresso rivela che Florin Nezir,  l’imam della moschea Sinaan Pasa Camii di Kacanik, è stato sostenuto in questi anni da Ilir Berisha e Jetmir Kycyku,  arrestati per terrorismo in un’operazione dell’ Eulex (la missione europea in Kosovo). Ma il grande sostenitore di Nezir è Lavdrim Muhaxheri, albanese, oggi uno dei capi dello Stato islamico, ex collaboratore della Kfor (la missione Nato in Kosovo dopo la guerra del 1999), famoso per essersi fatto ritrarre mentre decapitava prigionieri in Siria.

Il reclutamento di giovani jihadisti che partono per Siria e Iraq è un fenomeno diffuso in tutta l’area che si è ulteriormente aggravato con il ritorno di gruppi di foreign fighters. Diventati pedine importanti e anelli di congiunzione tra l’Europa e il Medio Oriente.
Da Kacanik sono partiti nel 2014 almeno 7 giovani di età compresa tra i 25 e i 31 anni, per andare in Siria e Iraq come foreign fighters al servizio dell’Isis. Il flusso si è ridotto con la legge sui foreign fighters approvata nel 2014 dal Parlamento di Pristina. Qualche mese fa, un’operazione congiunta di esercito e polizia ha portato all’arresto di cinquanta persone legate all’estremismo islamico e coinvolte nella partenza di combattenti per Siria e Iraq. Gli indagati (dati del 2015) sono 130, di cui un’ottantina  gli arrestati .
Ma non è solo il Kosovo a preoccupare tra i paesi dell’area balcanica: Bosnia, Macedonia, Sangiaccato serbo conoscono situazioni simili. Negli anni ‘90 in queste regioni attraversate dalla secessioni e dalle guerre civili che hanno contrapposto comunità musulmane a comunità ortodosse o cattoliche, è stato imponente l’ingresso in alcune aree di mujaheddin, finanziati dall’Arabia Saudita, ha contribuito a far crescere il numero dei musulmani wahabiti. La Nato, che ha sempre e solo bombardato la Serbia o la Repubblica Sprska in Bosnia, ha chiuso entrambi gli occhi rispetto a questa rilevante infiltrazione di foreign fighters nelle guerre balcaniche. “Due aspetti sono risultati fondamentali per l’espansione del wahabismo nei Balcani” scrive l’inchiesta de L’Espresso, “ la forza della propaganda grazie all’attività di associazioni sul filo della legalità da un lato, e i cospicui finanziamenti dall’altro. Tali correnti integraliste vanno collegate alla guerra del 1992-1995, quando in Bosnia giunsero alcune centinaia di volontari arabi e islamici (secondo altre fonti sono stati migliaia) per combattere a fianco dei musulmani bosniaci, inquadrati nell’esercito governativo”.

A  Bihac, in Bosnia,  c’è una fetta di territorio ormai sfuggito dal controllo statale (debole in un paese di fatto diviso, costruito e per lungo tempo gestito dalla Nato e dall’Unione Europea tramite commissari plenipotenziari), dove la polizia non entra e dove esiste una vera enclave dello Stato islamico. 
Comunità consistenti di musulmani integralisti bosniaci sono sorte in particolare nei villaggi di Bocinja, presso Maglaj, in Bosnia centrale, e Gornja Maoca, presso Brcko, dove periodicamente la polizia effettua blitz e retate di islamisti radicali. Secondo stime non ufficiali, sarebbero almeno 150 gli jihadisti partiti dalla Bosnia per combattere in Siria e Iraq, 50 sono rientrati in Bosnia e una ventina di loro finora sarebbero stati uccisi.
Gli anni della ricostruzione post guerra sono stati caratterizzati dall’arrivo di numerose organizzazioni umanitarie patrocinate da Paesi islamici: Alto Comitato saudita, Fondazione Al-Haramain, Società per la rinascita del patrimonio islamico.

In alcune zone della Bosnia come a Bihac, Teslic, Zeppe, Zenicae Gornja Maoca sono ormai presenti delle sacche wahabite dove si seguono alla lettera gli insegnamenti di Abu Muhammad al-Maqdisi, predicatore giordano-palestinese noto per le sue posizioni radicali. In queste regioni i wahabiti vivono secondo le leggi della Sharia seguendo gli insegnamenti di imam radicali come Husein Bilal Bosnic e Nusret Imamovic. Il villaggio di Gornja Maoca, situato vicino alla città di Brcko, risulta essere la stazione di transito, stando ad alcuni rapporti del Middle East Media Research Institute, attraverso la quale avviene il passaggio per jihadisti stranieri in viaggio per lo Yemen, l’Iraq e la Siria, e in questo contesto il nome di Bilal Bosnic ricorre frequentemente in relazione alle attività di trasporto dei guerriglieri.

Dai Balcani raggiungere la Siria risulta ormai molto facile: ogni grande città della regione è collegata con Istanbul, sia con pullman che con l’aereo. In seguito, stando alle indicazioni della polizia bosniaca, i volontari si muovono alla volta di Antakia, per attraversare la frontiera di Bab Al-Hawa con l’aiuto dei gruppi jiahdisti siriani, per raggiungere successivamente il Fronte al-Nusra.

Segnali preoccupanti vengono anche da un altro stato sorto nella stagione delle secessioni nella ex Jugoslavia: la Macedonia. Recentemente in una località al confine con il Kosovo, Kumanovo, si sono registrati scontri armati tra milizie islamiche macedoni e polizia con diversi morti soprattutto tra gli agenti. Secondo il portavoce della polizia macedone Ivo Kotevski, gli islamisti sarebbero entrati in Macedonia da un Paese confinante, l’Albania o più verosimilmente il Kosovo.. Questo accadeva solo tre settimane dopo che una quarantina di militanti kosovari aveva preso il controllo di una stazione di polizia sul confine rivendicando la creazione di una enclave indipendente albanese in Macedonia.
La componente estremista del wahabismo in Macedonia è stata poi coinvolta nei tentativi di assumere il controllo di alcune importanti moschee della capitale Skopje come Yahya Pasha, Sultan Murat, Hudaverdi e Kjosekadi.






Incessante propaganda mirata allo squartamento della Siria

1) LETTERA APERTA ad Amnesty International Italia
2) MOSTRA “CAESAR”: cosa ci tocca vedere a Milano. Il sindaco Sala ha nulla da dire?
3) E' INIZIATO IL LINCIAGGIO contro gli archeologi occidentali che "osano" collaborare con i colleghi siriani. Nel mirino anche PAOLO MATTHIAE, il più grande archeologo italiano vivente


Vedi anche:
L'Esercito siriano entra nella città di Palmira (1.3.2017). VIDEO e MAPPA:
Le prime immagini di Palmira liberata (2.3.2017):


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LETTERA APERTA ad Amnesty International Italia


Con il vostro Comunicato CS 028 – 2017 diffuso il 1° marzo, dopo aver genericamente parlato di inchieste sull’uso di armi chimiche riguardanti “tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Siria”, rivelate, dalle parole della stessa Tadros,  il vero scopo del comunicato: attaccare il governo siriano impegnato da 6 anni in un durissima battaglia contro orde di terroristi e mercenari etero diretti dall’esterno che hanno il compito di distruggere e smembrare quello sfortunato paese; e attaccare nel contempo Russia e Cina colpevoli di volerlo salvare. Grazie ai loro veti infatti si è evitata la legittimazione di una ennesima aggressione “umanitaria”  da parte della Nato contro un Paese sovrano, come successo nel marzo del 2011 contro la Libia,  le cui conseguenze devastanti sono oggi sotto gli occhi di tutti!

Anche allora avete fornito al “mondo” utili coperture propagandistiche per giustificare bombardamenti e attacchi militari, accusando Gheddafi di orribili stragi di civili e stupri di massa ottenuti distribuendo fiumi di Viagra ai soldati governativi, salvo poi riconoscere, a distruzione del paese avvenuta, che si trattava di fatti non provati o falsità evidenti.

Riguardo alla Siria, avete sponsorizzato una mostra fatta di foto di cadaveri torturati anonimi, di cui  non era possibile accertare identità e circostanze della morte. Foto attribuite a un fantomatico agente siriano “Caesar” di cui non siete stati in grado di fornire né il nome né altre indicazioni, alimentando il generale sospetto che si tratti di pura invenzione.

In altra circostanza avete pubblicato dossier attribuibili all’opposizione armata terrorista e jihadista siriana, in cui si parla senza prove del fantomatico numero di 13.000 impiccati- tutti rigorosamente anonimi – nelle carceri siriane.

Siate certi che queste “informazioni”, prive di riscontri e caratterizzate da una evidente faziosità, sono accolte da un numero crescente di cittadini con sempre maggiore scetticismo, e sempre un maggior numero di persone apprezza il comportamento di Russia, Cina e altri Paesi. Grazie a loro la Siria, malgrado gli attacchi e la devastazione da parte di migliaia di mercenari armati, addestrati e finanziati dalle petromonarchie e dall’impero Usa, è riuscita a difendere e mantenere la sua integrità e sovranità.

Ripensateci ed agite con maggiore responsabilità e dignità.


Cordiali saluti
Vincenzo Brandi, Stefania Russo della Rete No War Roma.




COMUNICATO STAMPA                                                               
CS028-2017 

SIRIA, ALTRO VERGOGNOSO VETO DI RUSSIA E CINA AL CONSIGLIO DI SICUREZZA 

Russia e Cina hanno per l'ennesima volta usato il loro potere di veto all'interno del Consiglio di sicurezza per bloccare, il 28 febbraio, una risoluzione che avrebbe contribuito ad accertare le responsabilità per l'uso e la produzione di armi chimiche da parte di tutti gli attori coinvolti nel conflitto in Siria. 

"Ponendo il veto alla risoluzione, Russia e Cina hanno mostrato un palese disprezzo per la vita di milioni di siriani. Entrambi i paesi fanno parte della Convenzione sulle armi chimiche e anche per questo non c'è alcuna scusa per il loro comportamento", ha dichiarato Sherine Tadros, direttrice dell'ufficio di Amnesty International presso le Nazioni Unite. 

"Da sei anni la Russia, sostenuta dalla Cina, blocca le decisioni del Consiglio di sicurezza riguardanti il governo siriano. Questo atteggiamento impedisce la giustizia e rafforza la tendenza di tutte le parti coinvolte nel conflitto a ignorare il diritto internazionale. Il messaggio della comunità internazionale è che, quando si parla di Siria, non esiste alcuna linea rossa", ha aggiunto Tadros. 

Dall'inizio della crisi siriana, la Russia ha fatto ricorso per sette volte al diritto di veto. La risoluzione del 28 febbraio proponeva sanzioni nei confronti di singole persone collegate alla produzione di armi chimiche in Siria e un embargo su tutti i materiali che potrebbero essere usati per produrle in futuro. 

La proposta su cui Russia e Cina hanno posto il veto faceva seguito alla risoluzione 2118 del settembre 2013, redatta da Russia e Usa, che impone misure sulla base del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite sul "trasferimento non autorizzato di armi chimiche e su ogni uso di armi chimiche, da parte di chiunque, nella Repubblica araba siriana". 

Nell'agosto 2015 il Consiglio di sicurezza aveva anche adottato all'unanimità la risoluzione 2235, che aveva istituito un Meccanismo d'indagine congiunto per identificare i responsabili degli attacchi con armi chimiche in Siria. Da allora, il Meccanismo è giunto alla conclusione che tanto il governo siriano quanto il gruppo armato Stato islamico hanno compiuto attacchi con armi chimiche. 

"Il vergognoso atteggiamento della Russia è un ulteriore esempio di come Mosca usi il potere di veto per garantire al suo alleato, il governo siriano, che eviterà di subire conseguenze per i suoi crimini di guerra e contro l'umanità. Ora è di fondamentale importanza che il neo-nominato segretario generale Onu e gli stati membri del Consiglio di sicurezza agiscano con fermezza quando alcuni stati impediscono l'approvazione di risoluzioni per impedire o porre fine a crimini di guerra. Il Consiglio di sicurezza è diventato un luogo in cui fare sfoggio di posizioni politiche e il popolo siriano ne sta pagando il prezzo definito", ha concluso Tadros. 

FINE DEL COMUNICATO                                                       
Roma, 1 marzo 2017 

Per interviste: 
Amnesty International Italia – Ufficio Stampa 
Tel. 06 4490224 – cell. 348 6974361, e-mail: press@...


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Mostra “Caesar”: cosa ci tocca vedere a Milano. Il sindaco Sala ha nulla da dire?

Comunicato del Comitato Contro La Guerra Milano sulla mostra “Nome in codice Caesar”

Da venerdì 3 marzo giunge anche a Milano la mostra “Nome in codice Caesar: detenuti siriani vittime di tortura”, con il Patrocinio del Comune di Milano.

La stessa mostra era stata proposta, la scorsa primavera, alla Camera e al Senato della Repubblica, ma non accettata, poiché serve solo a “scatenare reazioni emotive facilmente strumentalizzabili”, aggiungiamo noi, finalizzate ad accusare il legittimo Governo della Repubblica Araba di Siria di “crimini contro l’umanità”.

I promotori di queste campagne, sono gli stessi che hanno giustificato e fiancheggiato i bombardamenti all’Iraq e alla Libia, motivati con “i falsi”, ampiamente dimostrati, dei bimbi Kuwaitiani uccisi nelle incubatrici da Saddam Hussein, o delle fosse comuni di Gheddafi e altre falsità, ormai conosciute in tutto il mondo, fino ad arrivare alle “famose” provette di antrace mostrate all’ONU dall’allora Segretario di Stato USA, Generale Colin Powell, di cui, persino lo stesso ex Primo Ministro britannico, Tony Blair, dovette scusarsi di fronte al mondo.

Tra i principali finanziatori di “Caesar” compare lo stesso Qatar, paese che, con Arabia Saudita e Turchia, è tra i principali sponsor delle bande armate islamiste della cosiddetta “opposizione siriana”, ISIS inclusa (a cui l’appoggio di questi paesi è ora conclamato), che dal 2011 hanno messo a ferro e fuoco la Siria e il vicino Iraq, provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi in esodo verso l’Europa.

Per approfondimenti sulla mostra “Caesar” si legga il report di SibiaLiria e L’Antidiplomatico (Report sull’attendibilità delle “Foto di Caesar” e sulla relativa mostra – goo.gl/A0YDg8).

Questi approfondimenti legittimano il sospetto che molte di esse non raffigurino “ribelli uccisi da Assad”, ma “poliziotti e soldati uccisi dai ribelli”.

E’ preoccupante il sostegno che la mostra ha ricevuto dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, è inoltre oltraggioso e dannoso il Patrocinio del Comune di Milano, città simbolo della lotta per la Liberazione dal nazifascismo.

Chiediamo, quindi, spiegazioni all’Amministrazione del Comune di Milano, segnatamente nelle figure del Sindaco Sala e dell’Assessore Majorino, delle ragioni per cui hanno deciso di patrocinare questa mostra, vista la scarsa credibilità della stessa ed anche visto che all’interno della mostra si sono tenuti dibattiti dove hanno avuto modo di pontificare soggetti ripresi in trasmissioni televisive e più volte fotografati in manifestazioni di piazza a fianco di elementi jihadisti, come ad esempio Haisam Sakhanh (https://youtu.be/8VXykI1OGjQ), appena condannato all’ergastolo dalla procura di Stoccolma, poiché colpevole di una esecuzione sommaria, nel corso della quale venivano  assassinati 7 prigionieri, soldati di leva dell’esercito regolare siriano; la condanna all’ergastolo è stata inflitta poiché è stata dimostrata l’aggravante della particolare ferocia e crudeltà del crimine, che pone questo episodio fuori dal diritto internazionale. Si consideri che Sakhanh appare in molte fotografie con armi di ogni tipo. Infine riteniamo opportuno che, dopo questa offesa alla città, l’Amministrazione del Comune di Milano porga le sue scuse, prendendo atto della leggerezza con cui ha agito in questa occasione, laddove le scuse non arrivassero, sarebbe lecito pensare che, come gli amici di Sakhanh, anche l’Amministrazione Comunale sia fortemente condizionata dai rapporti che il Qatar intrattiene con settori economico-finanziari della città di Milano.




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Siria, la grande lite tra gli archeologi 

«Collaborazionista chi va da Assad»

Convegni a Damasco, lettere e email infuocate, accuse in Italia, Gran Bretagna, America
E il decano degli scavi siriani Paolo Matthiae finisce sotto accusa. Lui: «Esigo le scuse»

di Lorenzo Cremonesi, 7 febbraio 2017

Archeologi in Siria: che fare? Riprendere a scavare come nulla fosse stato, oppure rifiutare di collaborare con un regime macchiato di crimini orribili? «Sino a prova contraria, ciò che resta dei siti è ancora al suo posto e solo le autorità e gli archeologi siriani rimasti possono cercare di restaurarli dopo i vandalismi dell’Isis. Ecco perché è nostro compito aiutarli al meglio», ci spiega pragmatico e disincantato l’italiano Paolo Matthiae, il celebre scopritore delle tavolette di Ebla che a 77 anni, di cui circa 50 trascorsi a scavare in Siria, resta il decano dei tanti studiosi che da tutto il mondo hanno operato nel Paese. A lui si affiancano i colleghi (non sono pochi in Italia e all’estero) disposti a scendere a patti con il regime di Assad pur di ritornare.
«Assolutamente no. Impossibile far finta che non sia accaduto nulla. Non si tratta con la dittatura. Si passerebbe per collaborazionisti di un regime sanguinario, repressivo, macellaio che cerca anche nel ritorno degli archeologi stranieri un modo per riacquistare legittimità agli occhi della sua popolazione e sul teatro internazionale. Tornare significa diventare complici dei massacratori», replicano i contrari, tra cui Marc Lebeau, noto studioso di Bruxelles scopritore del sito di Tell Beydar, e Annie Sartre Fauriat, anch’essa ricercatrice del Vicino Oriente, oltre a diversi nomi celebri come Piotr Steinkeller, che insegna a Harvard e Cambridge e Gonzalo Rubio della Pennsylvania State University. Le loro lettere aperte di condanna al«collaborazionismo» dividono gli accademici. Tra i critici non mancano gli italiani come Maria Giovanna Biga, della Sapienza di Roma, la quale con Matthiae ha intavolato uno scambio non proprio amichevole di email di chiarificazione-accusa, in realtà destinato a riacuire lo scontro.
Punto di partenza di questa vera e propria «guerra tra archeologi» è l’ormai noto convegno tenuto a Damasco l’11 e 12 dicembre scorsi per volere del ministero delle Antichità siriane assieme a quello del Turismo con l’intenzione di riprendere i lavori e restaurare i siti danneggiati. Il regime per facilitare l’arrivo degli studiosi dall’estero non ha richiesto visti, in più ha organizzato i trasporti in Siria. Tra gli italiani, Giorgio Buccellati, noto per i suoi scavi a Urkesh, ha steso una delle più rilevanti relazioni in cui magnifica gli interventi delle autorità locali a salvaguardia dei reperti, specie a Palmira. «Non ho potuto esserci per motivi famigliari, ma ci sarei andato molto volentieri e comunque ho inviato la mia relazione», dice Matthiae.
Ma critiche durissime arrivano dai colleghi siriani espatriati per non cadere nelle mani della polizia segreta di Assad. Sette di loro hanno firmato uno degli appelli più noti per il boicottaggio. «Impossibile lavorare in Siria. Il regime continua a reprimere e uccidere. Oltre il 70 per cento di noi è fuggito all’estero, restano solo quelli asserviti. Inoltre i bombardamenti indiscriminati russi e dell’aviazione di Damasco hanno provocato più danni all’archeologia e al patrimonio storico che non tutti i vandalismi dell’Isis messi assieme», ci dice un archeologo di Aleppo. 
Un dato questo confermato da altri colleghi scappati in Europa: quelle stesse autorità che oggi vorrebbero presentarsi come paladine del ripristino del retaggio culturale ne sono state in effetti i peggiori vandali. Le bombe siro-russe sarebbero cadute copiose sui tesori di Palmira, Ebla, Krak dei Cavalieri, sui centri storici di Ariha, Idlib, Homs, Hama, e sulle parti più antiche di Aleppo a partire dal mercato coperto. Per cercare un possibile compromesso, un gruppo di archeologi «critici» ha smussato i toni, proponendo una «carta etica» per chi opera in regioni controllate dalle dittature. Ma la polemica resta aspra. Commenta Matthiae: «Concordo con l’80 per cento di quel documento. Ma le accuse contro di me sono state troppo offensive. Esigo scuse formali prima di firmarlo».

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La guerra in Siria ora si combatte tra gli archeologi

Il belga Marc Lebeau e i suoi seguaci: no ai rapporti con Assad. Matthiae: politicizzazione devastante

di Francesca Paci, 19/01/2017 (Ultima modifica il 27/01/2017)

Qual è il momento giusto per occuparsi delle antichità archeologiche in una guerra come quella siriana in cui, giunto nel 2014 a quota 191 mila, l’Onu ha rinunciato a contare le vittime per concentrarsi sugli oltre 5 milioni di profughi? La domanda, nient’affatto oziosa di fronte alla maggiore crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale, spacca da un mese la comunità degli studiosi internazionali, accomunati dall’amore per la terra ospite di ben 6 siti Unesco ma divisi oggi su come e con chi cooperare per proteggerli.  

 

A Palmira  
Il casus belli risale al 10 dicembre scorso, giorno del ritorno dell’Isis a Palmira precedentemente liberata e celebrata dall’orchestra del teatro Mariinskij di San Pietroburgo, quando a Damasco s’incontrano una ventina di specialisti di vari paesi per ragionare insieme sulle sorti del patrimonio archeologico siriano. Damasco significa Bashar al Assad e per diversi accademici, che pure avevano lavorato sotto di lui prima del 2011, la partecipazione dei colleghi equivale a un «deplorevole» sostegno politico al suo regime nel momento in cui, dopo 5 anni di bombardamenti seguiti alla inizialmente pacifica richiesta di riforme, sta sferrando l’ultimo decisivo e cruentissimo assalto alla Aleppo ribelle.  

 

«E’ impossibile far finta che non sia accaduto niente mentre infuria la guerra civile, dobbiamo attendere e rispettare la lotta del popolo siriano» ci spiega da Bruxelles l’archeologo Marc Lebeau, direttore europeo degli scavi di Tell Beydar e promotore di una lettera di fuoco contro il meeting di Damasco. Frequenta la Siria dal 1975, era lì anche quando nel 1982 Hafez al Assad radeva al suolo Hama. Adesso, giura, è diverso: «Chi si occupa del vicino Oriente ne conosce bene l’assenza di democrazia, ma ci sono molte scale di grigi nelle violazioni dei diritti umani. Di Hama abbiamo saputo solo molto tempo dopo, oggi invece vediamo in diretta il massacro dei civili. E soprattutto, diversamente da quanto accaduto a dicembre, gli archeologi di prima non erano in contatto con il regime né erano coinvolti nella propaganda». 

 

L’implicita assimilazione con gli artisti graditi a Hitler nella Berlino degli Anni 30 ha scatenato l’indignazione dei luminari additati dal j’accuse di Lebeau, del mensile «L’Histoire», di Annie Sartre Fauriat e di altri studiosi firmatari della Carta Etica per l’Archeologia e l’Assiriologia del Vicino Oriente pubblicata martedì sul sito del Penn Cultural Heritage Center. Ora è guerra.  

 

Sul campo  
«Se è il momento giusto per l’archeologia? Si è già tardato troppo - tuona Paolo Matthiae, decano della Siria a cui si deve la scoperta di Ebla -. E’ grave che la comunità internazionale abbia isolato la Direzione generale delle antichità di Damasco, impeccabile e valorosa nell’aver salvato dai musei di tutto il paese 300 mila preziosi oggetti di cui ora, con tono neo-coloniale, la Francia si dice pronta a prendere la custodia». E i morti? I raid? Il professor Matthiae tiene al ruolo dello studioso: «Questa polemica avrà conseguenze serie perché ha portato a quella politicizzazione dell’archeologia che io ho sempre evitato sin dalla fondazione dell’Icaane, dove hanno collaborato iraniani e iracheni, israeliani e palestinesi, turchi e ciprioti. Noi studiosi del Vicino Oriente sappiamo bene quanto già gravato sia da logiche politiche e dovremmo prevenirne ulteriori». 

 

Eppure, replicano gli altri, parlare di Siria nel 2017 non può che essere politica. Perché, insiste Lebeau, «il 75% degli alti responsabili della Direzione generale delle antichità siriane ha lasciato il paese» e perché «stando all’Onu, l’80% delle vittime dipende dai bombardamenti lealisti ma anche la distruzione dei beni archeologici, da Aleppo ad Homs, è frutto dei raid». Sulla sua linea è la storica de La Sapienza e a lungo epigrafista a Ebla Maria Giovanna Biga, convinta che l’impegno per i civili preceda quello per le antichità, in Siria come in Yemen: «Molti miei studenti siriani hanno la famiglia là. Ci sono zone non bombardate tipo Tell Mozan, dov’è possibile curare il patrimonio archeologico. Ma altre sono sotto tiro, Aleppo prima e ora Idlib o Tell Mardikh. La Direzione generale delle antichità siriane dovrebbe chiedere al suo governo la fine dei raid. Non sono politicizzata, confidavo negli Assad, Asmaa aveva fatto molto per Ebla. Ma non hanno ascoltato il loro popolo».  

 

I puristi ribaltano su chi li giudica degli opportunisti alla corte di Assad e del suo sponsor Putin l’accusa di covare motivi personali o professionali. L’archeologo emerito Pierre Leriche era al famigerato incontro. Anzi, l’ha organizzato: «Sostenere che ci fosse dietro il governo di Damasco è assurdo, significa ricalcare la posizione propagandistica del governo francese sulla Siria. Dietro c’era solo chi lavora da sempre in Siria e vuole sostenere l’eroico direttore generale delle antichità siriane Maamoun Abdulkarim, riconosciuto dall’Unesco e acclamato anche a Strasburgo la settimana scorsa per aver salvato 13 mila pezzi solo a Deir Ezzor. L’organizzazione nasce in tandem con l’amministrazione delle antichità, tra i cui bravi funzionari ce ne sono anche di non in linea con il governo. La data poi, era stata decisa in estate quando nessuno poteva prevedere Aleppo».  

 

“Nessuna propaganda”  
Come Leriche anche lo scopritore di Urkesh, Giorgio Buccellati, era in Siria il 10 dicembre. E lo rivendica: «Anziché polemizzare bisognerebbe raccontare il sacrificio dei dipendenti delle antichità siriane per il patrimonio del loro paese, nella difesa del quale sono morti almeno in 15. Non c’erano ministri all’incontro di Damasco, è venuto solo un sottosegretario a darci il benvenuto. E la tv che aspettava fuori non ci ha fatto domande». Fine della storia? È improbabile, perché le domande difficili sulla Siria in agonia non finiranno presto.



(русский / english / italiano)

APPELLI INTERNAZIONALI DAL DONBASS

1) DOMENICA 5 MARZO GIORNATA INTERNAZIONALE DI MOBILITAZIONE
Manifestazioni a Venezia e Napoli
2) PETIZIONE per la condanna delle azioni delle autorità ucraine e del presidente Petro Poroshenko
Ukraine, stop the bloody war in Donbass! / To the United Nations Human Rights Council
3) APPELLO ai leader mondiali perché pongano un freno al massacro che continua ai danni della popolazione civile del Donbass
Jugocoord Onlus aderisce ed invita tutti ad aderire
4) VERSO LA CAROVANA ANTIFASCISTA 2017


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MANIFESTAZIONE INTERNAZIONALE CONTRO I CRIMINI DI POROSHENKO

5 marzo 2017
PRESIDIO A VENEZIA (stazione Santa Lucia [dalle ore 15:00]) 
PRESIDIO A NAPOLI (via Toledo [dalle ore 10:00])

Il 5 marzo, contemporaneamente, in tante piazze europee, si svolgerà un evento a carattere internazionale: saranno ricordati i bambini del Donbass, vittime della politica genocida ucraina. Per i crimini di Poroshenko contro l’umanità verrà inoltrata richiesta di deferimento al Tribunale Internazionale. Noi saremo a Venezia e a Napoli per dire NO al massacro dei civili in Donbass. 
Oggi come ieri il fascismo non passerà!
Coordinamento Ucraina Antifascista

Link eventi:
https://www.facebook.com/events/164964614009651/
https://www.facebook.com/events/1642160719412729/
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МЕЖДУНАРОДНАЯ МАНИФЕСТАЦИЯ ПРОТИВ ПРЕСТУПЛЕНИЙ ПОРОШЕНКО

Мероприятия пройдут в Венеции - ж-д вокзал Санта Лучия и в Неаполе - улица Толедо

5марта - на многих площадях Европы, ОДНОВРЕМЕННО пройдет мероприятие международного значения : будут помянуты дети Донбасса, павшие жертвами украинской политики геноцида. В Международный Трибунал будут направлены требования о рассмотрении всех противочеловечных преступлений, совершенных Порошенко и его правительством. 
Мы скажем наше НЕТ массовым убийствам гражданского населения Донбасса в Венеции и Неаполе. 
Сегодня, как и вчера - ФАШИЗМ НЕ ПРОЙДЕТ!  
Координационный центр Антифашистская Украина.
https://www.facebook.com/events/164964614009651/
https://www.facebook.com/events/1642160719412729/



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“Come abitante dell'Europa aggiungo la mia firma per associarmi alla denuncia delle violazioni dei diritti umani da parte dell'Ucraina nel Donbass”. Così si esprimono i cittadini dell'Unione Europea, autori di una petizione online, segnalata dai compagni del Partito Comunista di Ucraina, che è indirizzata al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e che ha già raccolto migliaia di adesioni.
A supporto dell'iniziativa, è stato creato anche il progetto internet 101life.net, dove è contenuto l'elenco con i nomi e le fotografie degli oltre 100 bambini morti in conseguenza dell'aggressione nazista sostenuta da USA/UE/NATO, insieme al testo della petizione che condanna le azioni delle autorità ucraine e del presidente Petro Poroshenko.
Questi cittadini dell'UE chiedono alla comunità internazionale di premere sulle autorità ufficiali di Kiev, perché interrompano i combattimenti nell'est dell'Ucraina e risolvano il problema del conflitto interno al paese mediante la ricerca del consenso nazionale. 


Pétition - Droits de l'homme / #101life: 

Ukraine, stop the bloody war in Donbass!

14/02/2017  

À l'attention : To the United Nations Human Rights Council

We, unindifferent inhabitants of Europe,

expressing deep concern about the situation of prolonged armed conflict, that has been going on for over 2 years in the Eastern part of Europe, sincerely wishing the senseless bloodshed to stop and peace, order in the European continent to be restored as soon as possible, guided by a desire to lend support in defense of unalienable rights and liberties of Donbass people, appear with the following address:

In 2014, as a response to a coup in Kyiv, the peaceful protest demonstrations were organized by millions of Ukrainian people calling for self-elected Kyiv authorities to comply with the laws of Ukraine. New leadership of Ukraine reacted to the actions of Ukrainian citizens by unleashing of an undeclared war – the so-called anti-terrorist operation. In a moment millions of civilians, who attempted to resist happening lawlessness, were deprived of their basic human’s civil and political rights: the right to life, freedom to physical integrity, right to personal security, right to protection from inhuman treatment, right to health, right to freedom of movement, right to freedom of opinion and expression, and many other unalienable rights recognized by the world community.

Ukrainian propaganda machine systematically tries to represent in front of us people, who are not afraid to express their opinion about the coup in Kyiv in 2014, as the terrorists and militants. 

Ukrainian authorities meticulously conceal and hide everything that happens in Donbass from the international community, withheld information about the blockade and the shelling of schools and hospitals. The mass media of the European Union member States, in their turn, also don’t not provide the society with an objective picture of the events taking place in Donbass, thereby they connive the marginal nationalist groups, which are in power in Ukraine.

Only because of individuals of our fellow citizens, who are not afraid of sanctions by Ukraine and who personally visited the territory of Donbass, we have found out the information about all the adversities, which inhabitants of this region have been rubbing through for the last 2 years.


According to eyewitnesses, it is clear that Ukraine "state" is waging war against its own citizens: against children, the elderly, women - millions of civilians, who are going through the inhuman ordeals and excessive suffering without any opportunity to leave their houses, which come under fire; against people, whose rights must be protected by the civilized world community and primarily by our governments.

Now we know that economic and transport blockade of Donbass, alongside with the unceasing battle actions, leads to starvation and suffering of the socially vulnerable citizens, who have found themselves on the brink of survival. Having got no opportunity to produce and export products, industrial giants have to stop production, leaving thousands of workers without a livelihood. The social facilities, such as schools and hospitals, regularly come under the shelling. Erected by the Ukrainian authorities, borders and checkpoints factitiously have separated a part of the territory of the state, and these actions have led to the impossibility of the people of Donbass to be full citizens of their country. 

As a result of actions of the central government of Ukraine, thousands of families have been separated: children and their parents can not see one another; the marriages are breaking down, unable to weather the separation of loved ones. In addition, Kyiv authorities have stopped social payments and by this they have actually abandoned hundreds of thousands of pensioners, mothers, the disabled and others with state-guaranteed right to social security to their own fate.

Having learned about such outrages of Ukrainian authorities, we can no longer bear to watch our governments and international organizations stay inactive or providing passive assistance to the crimes of Ukrainian authorities. 

We can not remain silent, and we responsibly declare:
We are convinced that the people of Donetsk and Luhansk regions are not extremists, terrorists or criminals. These are people that require respect for fundamental human rights, which are based on the fundamental principles of humanism: right to life, right to physical integrity, right to personal security, right to protection from inhuman treatment, right to health, for the observance of which we stand!

We believe that the war in Donbass can be stopped only by the peaceful means, 
through the negotiations and a national consensus, which is possible only with the active impartial assistance of European states and the entire world community.

We are certain that every person has the right to information, to freedom of speech and belief and, therefore, we demand that our governments stop the information blockade.

We call on Ukraine to stop the bloody war in Donbass, and the governments of our countries to lend active assistance for the withdrawal of the Ukrainian troops by the President Poroshenko P.A., for the peace negotiations and establishing a lasting peace in the territory of Donbass.

In accordance with Article 1 of the Charter of the United Nations, the actual organization is intended to achieve international cooperation in promoting and encouraging respect for human rights and fundamental freedoms for all without distinction as to race, sex, language or religion. 
This is our common aim as people and citizens in the XXI century. Therefore, we can not ignore what is happening in close proximity to us and we urge the United Nations to pay attention to the flagrant violations of human rights in Ukraine.

I, an inhabitant of Europe, append the signature under this petition to show my commitment to the information stated in petition and join to the complaint to the United Nations Human Rights Council, regarding the human rights violations by Ukraine in Donbass.




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ORIG.: Совместное обращение председателей Народных Советов ДНР и ЛНР к мировым лидерам (ЯНВАРЬ 31, 2017) 
Председатели Народных Советов ДНР и ЛНР Денис Пушилин и Владимир Дегтяренко сообщили, что с сегодняшнего дня организован сбор подписей жителей Республик и дополнительных свидетельств действий Украины по усугублению гуманитарной катастрофы под их совместных обращением к мировым лидерам...


Jugocoord Onlus aderisce ed invita tutti ad aderire al seguente APPELLO al Presidente della Federazione Russa Putin, al Presidente degli Stati Uniti d’America Trump e alla Cancelliera della Repubblica Federale Tedesca Merkel perché pongano un freno al massacro contro la popolazione civile del Donbass da parte del regime neonazista ucraino e del suo esercito:


APPELLO URGENTE!

I Presidenti dei Consigli del Popolo, Denis #Pushilin e Vladimir #Degtjarenko, hanno riferito di aver organizzato un appello con raccolta di firme, tra gli abitanti delle Repubbliche Popolari, per denunciare la situazione gravissima nelle città del Donbass sottoposte ai bombardamenti dell’esercito ucraino. 

Situazione che rischia di diventare un vero e proprio disastro umanitario. 

Questo appello sarà consegnato al Presidente della Federazione Russa Vladimir #Putin, al Presidente degli Stati Uniti d’America Donald #Trump e alla Cancelliera della Repubblica Federale Tedesca Angela #Merkel.

“Dichiarazione dei Presidenti dei Consigli Popolari della LNR e della DNR Vladimir Degtjarenko e Denis Pushilin”

Le autorità ucraine continuano il genocidio della popolazione del Donbass.
Gli attacchi e i bombardamenti continui sulla linea di contatto hanno danneggiato una serie di infrastrutture sociali, industriali e edifici residenziali. Alla fine del 2016, come risultato del sabotaggio da parte dell’esercito di Kiev, l’80% della LNR è stata lasciata senza energia elettrica. Si trova sotto la minaccia continua di sabotaggio del sistema idraulico e di distribuzione del gas per il riscaldamento.

Più volte ci sono stati tentativi ucraini di fermare il flusso di acqua dall'impianto di filtraggio occidentale (sito industriale "Carbon") di Petrovsky nel territorio della LNR. 

A causa di ciò circa 400.000 persone sono state colpite dalla carenza di acqua potabile nelle città di #Lugansk#Alchevsk#Stakhanov#Bryanka#Pervomaisk e di un certo numero di altri insediamenti. 

I distretti della DNR hanno dovuto collegarsi alla rete di alimentazione della città di Yasinovataya e molti insediamenti circostanti sono ancora senza acqua. 

Parte di Makeyevka è ancora a secco. La struttura di pompaggio dell'acqua dal fiume Kalmius è stata sottoposta al fuoco di artiglieria. Pervomaysk è scollegata dalla rete del gas. Il malfunzionamento di queste strutture mette in pericolo più di 500.000 residenti.
L’esercito ucraino ha deliberatamente scelto come obiettivi le strutture industriali civili la cui distruzione può provocare un disastro ecologico nella regione. 

Sotto costante fuoco di artiglieria si trova l’impianto di filtraggio di Donetsk in cui ci sono stoccati reagenti chimici pericolosi. Sono più di 500.000 le persone che vivono nei distretti di quest’area limitrofa al confine Ucraino. 

La situazione è simile, a causa di sostanze potenzialmente pericolose, nell’impianto di “fenolo” Dzerzhinsk vicino al villaggio Novgorod e nell'impianto di "stirene" vicino alla città di Gorlovka.
Inoltre l'Ucraina non ha fatto nulla per ripristinare il sistema bancario, a causa del quale non vi è alcuna possibilità di trasferimenti di denaro. I cittadini delle Repubbliche non sono dotati di pensioni e prestazioni sociali. Questa restrizione colpisce soprattutto i pensionati e le categorie più socialmente vulnerabili (circa il 30%) della popolazione.
Vi chiediamo di intervenire presso il Presidente dell’Ucraina, Poroshenko, per fermare le attività criminali contro il popolo del Donbass. 

Fate smettere di sparare contro i civili!

Fate smettere il blocco economico!

Questo deve essere fatto prima che sia troppo tardi! 

Ancora siamo il tempo a fermare il disastro ambientale e umanitario!

Stop a Poroshenko! Salvare la gente del Donbass!


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CAROVANA ANTIFASCISTA 2017
Il Primo Maggio di nuovo a Luganksk!

[La Banda Bassotti presenta l'iniziativa della Carovana Antifascista per il Donbass alla Rosa-Luxemburg-Konferenz di Berlino]
Берлин: в поддержку жителей Донбасса (17 Январь 2017.)

1.2.2017: USB e Banda Bassotti in collegamento video
Video conferenza dal Donbass: "sono a rischio le vite di 500 mila persone" (01/02/2017)
Parlamentare del Lugansk: "Puo' essere bombardato in queste ore un impianto che contiene al suo interno sostanze chimiche con possibili fuoriuscite di scorie nocive. Sono a rischio 500 mila cittadini che vivono nella zona"...
in collegamento con la federazione sindacale di Lugansk, Donbass
__ CAMPAGNA PER IL DONBASS __
Donbass : la guerra in europa con il nazifascismo che rialza la testa e uccide di nuovo (Unione Sindacale Di Base, 1.2.2017)
Da due giorni sono riprese le azioni di attacco delle bande naziste e delle truppe ucraine contro i territori delle repubbliche popolari del Donbass.
Sono state bombardate centrali elettriche e idriche che hanno lasciato senza acqua potabile, al buio e senza riscaldamento centinaia di migliaia di persone in presenza di temperature proibitive.
Questa mattina nella sede Usb è stato organizzato un collegamento in videoconferenza con il sindacato della repubblica Popolare di Lugansk . 
Usb, insieme al gruppo musicale della Banda Bassotti, lancia la Carovana di Solidarietà con il Popolo del Donbass che si batte per l'autodeterminazione del popolo contro il nazifascismo.
1° Maggio 2017 a Lugansk e Donetsk con una delegazione di Usb e la Banda Bassotti.

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BANDA BASSOTTI - La Brigata Internazionale - Official Trailer (rizomafilmproduzioni,14 ott 2016)
Trailer del documentario sulla Banda Bassotti con accenni al Donbass. Dal 23 Ottobre il film in anteprima su:
https://vimeo.com/ondemand/bandabassotti
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=tNmdUt4dwrY



(italiano / français)

Guerre mediatique

1) Les chauffards du bobard (Pierre Rimbert / LMD)
2) « Post-vérité » et « fake news » : fausses clartés et points aveugles (P. Michel / Acrimed)


vedi anche:

La propaganda occidentale contro le fake news (La Tana dell'Orso, 23 feb 2017)

L’ennesima bufala dei “bombardamenti con il Cloro” (di Francesco Santoianni, 20.2.2017)
Brucia ancora ai media mainstream la liberazione di Aleppo. Che ora rispondono diffondendo la “notizia”– patrocinata da un Rapporto di Human Rights Watch (HRW) – del Cloro che, a dicembre, sarebbe stato sganciato dall’aviazione russa e siriana sui quartieri di  Aleppo presidiati dai “ribelli”...

Cosa ne sa Laura Boldrini della corretta informazione (Pandora TV, 10.2.2017)

Fake news. Su Internet sono gratis, su Repubblica le paghi (di Redazione Contropiano, 10 febbraio 2017)
... Nei giorni scorsi è circolato un rapporto di Amnesty International che, tra le altre cose, accusava Assad di aver fatto impiccare almeno 13.000 prigionieri... Repubblica non sapeva proprio come "provare" anche fotograficamente una simile notizia ed è ricorsa a un metodo semplice quanto truffaldino: ha preso una foto utilizzata tre anni fa da un giornale russo...

Il sapore “orwelliano” di Decodex, il motore di ricerca di Le Monde (di Jacques Sapir, 9 febbraio 2017)
Il sito web del quotidiano Le Monde ha lanciato nei giorni scorsi, uno “strumento” chiamato “Decodex“, che dovrebbe consentire agli utenti dei diversi siti di discernere la verità dalla menzogna...


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Le MONDE diplomatique, janvier 2017, page 2

Les chauffards du bobard


Depuis la défaite de Mme Hillary Clinton à l’élection présidentielle, les chefferies éditoriales de New York, Londres ou Paris découvrent une effarante vérité : les médias mentent. Pas eux, bien sûr : les autres. Des journaux en ligne proches de la droite radicale américaine, d’obscurs blogs créés en Macédoine, des « trolls » qui publient à la pelle des fausses nouvelles (fake news) : la ministre de la justice aurait ordonné d’« effacer immédiatement tous les tatouages représentant le drapeau confédéré », le pape soutiendrait M. Donald Trump, Mme Clinton dirigerait un réseau pédophile basé dans l’arrière-salle de la pizzeria Comet Ping Pong à Washington... Ces boniments relayés par Facebook, Twitter et Google auraient altéré le jugement des esprits simples qui ne lisent pas chaque jour le New York Times.
Il n’en fallait pas davantage à la presse vertueuse pour entrer en résistance. « C’est une menace pour la pertinence et l’utilité même de notre profession, estime la reporter-vedette de Cable News Network (CNN) Christiane Amanpour le 22 novembre 2016. Le journalisme et la démocratie sont en danger de mort. » Un avis partagé par le New York Times, dont un éditorial-fleuve intitulé « Vérité et mensonges à l’ère Trump » (10 décembre 2016) incrimine les réseaux sociaux et déplore l’indifférence populaire à l’égard des informations fiables — cruelle ironie, la version numérique de ce texte était illustrée par une publicité pour un site de fake newsannonçant la mort de l’acteur Alec Baldwin. À en croire le Washington Post (1), l’épidémie de fausses nouvelles provient plutôt d’une « campagne de propagande sophistiquée » pilotée par la Russie ; mais son enquête repose sur des sources si peu fiables qu’elle est à son tour dénoncée comme un « cas chimiquement pur de “fake news” » par le journaliste Glenn Greenwald (The Intercept, 26 novembre 2016).
C’est entendu : avant l’entrée en campagne de M. Trump, la démocratie et la vérité triomphaient. Certes, les médias vivaient grâce à la publicité qui promet le bien-être aux buveurs de Coca-Cola, et relayaient les « actualités » fabriquées par des agences de communication. Mais les « fausses nouvelles » s’appelaient « informations », puisqu’elles étaient publiées de bonne foi par des journalistes professionnels.
Ceux qui trompaient la Terre entière en décembre 1989 avec les faux charniers de Timişoara, en Roumanie ; ceux qui diffusaient sans vérification, en octobre 1990, la fable des soldats irakiens détruisant des couveuses à la maternité de Koweït afin de préparer l’opinion à une intervention militaire ; ceux qui révélaient à la « une » du Monde (8 et 10 avril 1999) le plan « Fer à cheval » manigancé par les Serbes pour liquider les Kosovars — une invention des services secrets allemands destinée à légitimer les bombardements sur Belgrade. Sans oublier les éminences du New York Times, du Washington Post ou du Wall Street Journal qui relayèrent en 2003 les preuves imaginaires de la présence d’armes de destruction massive en Irak pour ouvrir la voie à la guerre.
À présent, leur monopole de l’influence s’effrite, et ils fulminent : les poids lourds de la désinformation s’indignent que des chauffards du bobard roulent les lecteurs sans permis.

Pierre Rimbert


(1) Craig Timberg, « Russian propaganda effort helped spread “fake news” during election, experts say », The Washington Post, 24 novembre 2016.


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« Post-vérité » et « fake news » : fausses clartés et points aveugles

PATRICK MICHEL, 24 Fév 2017


Apparu dans les années 2000 et remis au goût du jour dans les suites du Brexit puis de l’élection de Donald Trump, le concept a fini par s’imposer : nous vivrions actuellement dans l’ère de la « post-vérité », dans laquelle la vérité a perdu sa valeur de référence dans le débat public, au profit des croyances et des émotions suscitées ou encouragées par les fausses nouvelles devenues virales grâce aux réseaux sociaux. Sans doute la diffusion de fausses nouvelles est-elle une réalité, mais la façon dont certains journalistes des grands médias, et en particulier les cadres des rédactions, posent le problème, ne nous en apprend pas tant sur l’idée bancale de « post-vérité » que sur les croyances de ces mêmes journalistes et les points aveugles de la conception du rôle qu’ils jouent dans les événements politiques en général, et dans la situation actuelle en particulier.


Concepts flous, utilisations orientées

L’expression « post-vérité » (post-truth politics en version originale), apparue dès les années 2000 [1] connaît actuellement une deuxième vie, tellement riche qu’elle a été désignée « mot de l’année 2016 » par le dictionnaire Oxford. C’est Katharine Viner, rédactrice en chef « Informations et Médias » du quotidien britannique The Guardian, qui l’a remis au goût du jour, en l’actualisant, dans un éditorial du 12 juillet 2016. Au lendemain du Brexit, cette journaliste spécialiste des questions médiatiques donne ainsi un nouveau cadre à l’expression : les électeurs, trompés par de fausses nouvelles (fake news), ont voté pour le Brexit alors même que les médias favorables au maintien de la Grande-Bretagne dans l’Union européenne leur exposaient à longueur de colonnes et d’émissions les faits qui auraient dû les convaincre de voter « remain ».

Avoir la vérité de son côté ne suffit plus, nous dit-on, à persuader les électeurs, davantage enclins à suivre celles et ceux qui font appel à leurs émotions et à leurs croyances personnelles [2].

Cette utilisation de l’expression est celle qu’on retrouve depuis dans la grande majorité des médias dominants, avec une fréquence accrue après les élections « surprises » de Donald Trump aux États-Unis, et de François Fillon puis Benoît Hamon aux primaires de leurs camps respectifs en France. Chaque défaite électorale de l’option préférentielle des médias dominants (Hillary Clinton, Alain Juppé [3], Manuel Valls [4]) semble alors confirmer le diagnostic.

Dans un dossier consacré au sujet, un article de Libération résume le lien présumé (auquel son auteure ne semble pas souscrire complètement) entre fausses informations, crédulité du public et résultats électoraux : « Les médias dits traditionnels vérifient, contredisent, rétablissent les faits. Pour quels effets ? Après le Brexit, Trump est élu… Un faux tweet fait-il une vraie élection ? Mal informés voire désinformés, les électeurs voteraient pour Donald Trump ou Marine Le Pen. »

L’auteure de cet article est l’une des rares à prendre la précaution du conditionnel pour exposer cette théorie. Or celle-ci, reprise au moins implicitement dans nombre de contributions médiatiques au sujet de la « post-vérité » [5], souffre d’un point aveugle important : la réalité d’un changement de la crédulité du public est pour le moins mal étayée. En effet, on ne peut qu’être curieux de savoir ce qui a bien pu modifier à ce point le rapport que le public entretient avec la vérité. Pour se limiter à la question des élections, on pourrait se demander lesquelles ont été remportées par des candidats faisant campagne autour de faits (forcément vrais), et lesquelles ont été remportées par ceux qui auraient fait appel à l’émotion et à la croyance (forcément irrationnelles). Mais ces questions ne sont jamais posées sérieusement. Tout au plus peut-on apprendre que l’émergence de nouveaux moyens de diffusion de l’information a augmenté le nombre de personnes exposées à des fausses nouvelles. Ce qui conduit logiquement à l’idée que les réseaux sociaux doivent être contrôlés, ou au moins régulés [6].

 

Fausses nouvelles, fabrications ou mauvais journalisme

Les esprits mal tournés, et ceux disposant d’un peu de mémoire et de quelques archives, feront également remarquer que la diffusion de fausses nouvelles n’est pas apparue avec la création des réseaux sociaux : si les médias dits traditionnels vérifient, contredisent et rétablissent les faits, il ne fait aucun doute qu’il leur arrive également de diffuser des mensonges, et plus fréquemment encore des informations biaisées ou tronquées. C’est ce que rappelle l’article du Monde Diplomatique dans lequel Pierre Rimbert liste les principales fabrications médiatiques sur les questions internationales des trente dernières années, des faux charniers de Timişoara aux preuves imaginaires de la présence d’armes de destruction massive en Irak. C’est ce que nous a rappelé récemment l’affaire de la fillette sauvée par des CRS dans une voiture en feu à Bobigny : une information diffusée par la préfecture et reprise sans vérification (et sans conditionnel) par, entre autres, Le ParisienLe Journal du dimanche ou encore Valeurs actuelles, alors qu’il a rapidement été établi que c’était un jeune manifestant qui avait sorti la fillette de la voiture, et que cette dernière n’était pas encore en feu.

Pour reprendre le cas du Guardian, on aura noté que l’éditorial de Katharine Viner a suscité bien plus de reprise et de commentaires que l’article du journaliste Glenn Greenwald qui dénonçait la falsification d’une interview de Julian Assange par le quotidien britannique. Le même Greenwald, ancien journaliste du Guardian à l’origine des premières publications de « l’affaire » Edward Snowden et aujourd’hui directeur du site d’information The Intercept, exposait aussi récemment deux autres fabrications parues dans le quotidien américain The Washington Post, grand pourfendeur de la post-vérité et des « fake news », qui dispute la place de « quotidien de référence » outre-Atlantique au New York Times [7]. Greenwald relevait également que les articles dans lesquels apparaissent ces fabrications sont très profitables au journal qui les publie puisqu’ils génèrent beaucoup de trafic sur son site. Surprise : la course à l’audience et aux publications spectaculaires pourrait donc être à l’origine de la diffusion de fausses nouvelles, y compris au sein des médias traditionnels… Quant aux correctifs ajoutés après coup, qui reconnaissent la fausseté des informations centrales des articles originaux, ils n’ont pas été relayés par les journalistes du « Post » sur leur compte Twitter, pas plus que leurs tweets diffusant les articles originaux n’ont été supprimés.

En France aussi, il arrive que des journalistes professionnels diffusent de fausses informations : par exemple sur les circonstances de la mort d’Adama Traoré ou les prétendus mensonges d’une interne en médecine critiquant la ministre de la Santé. Ou lorsque l’AFP reprend les fausses informations du Washington Post dans une dépêche qui donnera lieu à plusieurs articles, dont celui du Monde, qui lui-même sera par la suite corrigé discrètement [8].

Mais, comme le note Greenwald, ceux qui distinguent la catégorie de « fake news » de celle de « mauvais articles » le font à dessein. Dans le lexique de la rubrique « Les Décodeurs » du Monde, déjà cité plus haut, une « fake news » est ainsi un « faux prenant l’apparence d’un article de presse ». Cette distinction fondée sur l’intentionnalité, souvent difficile à déterminer, de la personne qui produit l’information, permet surtout d’immuniser par avance le journalisme professionnel qui pourrait ainsi être à l’origine de mauvais articles, mais jamais ou très rarement de « fake news ».

Quoi qu’il en soit, il incombe aux tenants de la notion de « post-vérité » de répondre aux questions suivantes : pourquoi les fabrications des médias traditionnels n’ont-elles pas présenté dans le passé, et ne présentent-elles pas aujourd’hui le même type de menace que les « fake news » dont on s’inquiète tant ? Et comment expliquer que le public, autrefois rationnel et raisonnable, soit devenu aussi hermétique aux faits, vérifications et explications fournis par les médias traditionnels ? L’explication qui prend uniquement en compte le rôle de diffusion des réseaux sociaux semble un peu courte, a fortiori si l’on s’intéresse aux audiences massives de certaines émissions d’information (environ 8 millions de téléspectateurs combinés chaque soir pour les journaux télévisés de 20 heures de TF1 et France 2), ou que l’on remarque le poids croissant des productions de médias mainstream dans les contenus partagés sur Facebook ou Twitter. Notons ici que, selon l’ACPM, les cinq sites d’information les plus consultés en France étaient, en mai 2016, LeMonde.fr, LeFigaro.fr, 20minutes.fr, LeParisien.fr et Bfmtv.com [9]. Soit une écrasante domination des médias « traditionnels »…

 

Derrière la « post-vérité » : une conception particulière du rôle du journaliste

À bien y regarder, l’ère de la « post-vérité » ne se singularise donc pas essentiellement par une attitude radicalement différente du public par rapport à la vérité (qui reste à démontrer), mais bien par la perception par les journalistes que l’opinion ne les suit plus. On pourrait même donner une assez bonne définition de l’ère de la « post-vérité » comme période au cours de laquelle les électeurs votent contre les options électorales soutenues par la majorité des grands médias. Et ce n’est pas un hasard si une grande partie des articles [10] traitant de « fake news » ou de « post-vérité » font un lien direct avec les événements électoraux récents, preuves douloureuses, administrées à plusieurs reprises en 2016, que les médias ne font pas l’élection, en tout cas certainement pas tout seuls [11].

Ce qui semble poindre derrière l’idée de la disparition de la vérité comme valeur référence du combat politique est une certaine angoisse devant l’impossibilité pour certains journalistes de remplir le rôle qu’ils semblent s’assigner : permettre aux électeurs de voter correctement. Il est donc naturel que Céline Pigale, directrice de la rédaction de BFM-TV, résume ainsi les enjeux [12] : « Il faut rétablir, il faut obtenir que les gens nous croient. » Ce que l’on peut traduire ainsi : « Lorsque les citoyens-électeurs ne nous écoutent pas, ils votent n’importe comment ; il est donc impératif qu’ils nous écoutent et nous croient à nouveau. »

Cette conception du rôle du journalisme comme responsable de la certification des faits pertinents, mais aussi de leurs interprétations acceptables, est celle qui fait tenir aux éditorialistes leurs sempiternels discours sur le « réalisme », « le pragmatisme », l’inquiétante « montée des populisme », etc. C’est cette conception qui était la cible de l’article de Frédéric Lordon que nous avions recensé : si les médias professionnels ont une responsabilité dans les évolutions politiques des dernières décennies, c’est bien celle d’avoir, au nom d’un rôle prescriptif rarement revendiqué mais néanmoins assumé, marginalisé avec beaucoup de constance et d’application un certain nombre d’options politiques qui sortent du « cercle de la raison », et d’avoir rendu une immense partie de l’espace médiatique impraticable pour les tenants de ces options [13].

 

Une crise de confiance : mais confiance en qui ?

Or les options admises semblent intéresser un public de moins en moins nombreux, mais pour des raisons qui ne sont pas fondamentalement liées à leur traitement médiatique ou à celui de leurs concurrentes exclues. Et l’on est frappé de voir la victoire de Donald Trump analysée principalement comme un échec des médias qui avaient pris parti pour son adversaire, et qui n’avaient pas su prédire le résultat de l’élection en raison d’une déconnexion d’avec une large part des électeurs américains : cette analyse, modèle d’auto-centrisme aveuglé, néglige à peu près tous les facteurs politiques, économiques et sociaux qui ont pu pousser les électeurs à voter pour le candidat républicain – aussi bien les aspects de son programme et de son positionnement politique qui ont pu trouver un écho auprès des électeurs, que ceux qui les ont rebutés dans le programme de son adversaire et dans le bilan de la présidence Obama qu’elle défendait. Autant d’éléments, régulièrement écartés des discussions « post-vérité » [14]. Mais il est vrai que la prise en compte de ces éléments pourraient amener à soulever des questions autrement plus fâcheuses : « Et si ces gens qui ne nous écoutent plus avaient en fait quelques bonnes raisons pour cela ? »

Et l’analyse autocentrée se poursuit par cette esquisse de solution : en reprenant contact avec les « vrais gens », avec la France (ou l’Amérique) « profonde », les médias restaureront leur crédibilité et la confiance que leur accorde le public. Malheureusement, il apparaît qu’un projet comme celui du Monde, qui annonce « une “task-force” de six à huit journalistes lancés à la rencontre de “la France de la colère et du rejet” » [15] a bien peu de chance d’atteindre cet objectif. La raison en est aussi simple que difficile à entendre de la part de journalistes qui, souvent généreux, prétendent « rétablir la confiance » à coup de faits et d’enquêtes : tant que la quasi-totalité des grands médias restera dans la sphère d’influence des pouvoirs politique et économique, les journalistes resteront souvent victimes, qu’ils le méritent ou non, du discrédit et de la contestation qui frappent les oligarchies économiques et le microcosme politique. Autrement dit : la défiance et la critique à l’égard des journalistes et des informations se nourrissent de raisons diverses et nombreuses qui sont également, voire essentiellement extra-médiatiques.

Sans doute notre association s’intéresse-t-elle surtout à la façon dont la discussion – thèmes possibles à aborder et opinions possibles à défendre – est fermement encadrée dans une grande partie de la production médiatique mainstream : « pragmatisme » et « réalisme » versus « populisme » et « utopie ». Mais nous tentons de ne pas nous laisser griser par notre enthousiasme : ce n’est pas l’efficacité grandissante de cette critique qui explique prioritairement la perte de crédit des médias dits professionnels. Il semble plutôt qu’après plusieurs décennies catastrophiques aux plans politique, social, économique et environnemental, les principaux pouvoirs suscitent de plus en plus de défiance, ce qui se répercute quasi mécaniquement sur les satellites médiatiques de ces pouvoirs.

 

Restaurer la confiance : l’énergie dispersée du désespoir

C’est assez dire que la capacité de restaurer leur crédit ne dépend pas des seuls médias. Sans doute, traquer les fausses informations, comme le font par exemple les « Décodeurs » du Monde, est-il utile, voire indispensable. Il ne s’agit alors que de rehausser le travail ordinaire des journalistes d’information : vérifier, recouper et, quand il le faut, corriger. Mais ce serait une illusion d’attribuer des vertus quasi miraculeuses à ces tentatives de reconquête.

Cela ne signifie pas que rien ne dépend du monde médiatique. Mais la capacité de faire revenir la confiance, et donc le public, en particulier pour la presse écrite qui continue de perdre des lecteurs à un rythme soutenu, repose notamment sur le développement de médias indépendants des pouvoirs économique et politique [16] et plus généralement d’une transformation démocratique de l’ensemble de l’espace médiatique : une transformation dont la nécessité est éludée par les journalistes et les chefferies éditoriales qui animent le débat médiatique sur la « post-vérité ».

Or, outre l’idée de la « reconnexion » au terrain, symbolisée par l’expérience militaro-journalistique de la « task-force » du Monde, on voit se diffuser la conviction que c’est en exposant les « fakes news » que les « fact-checkeurs » des médias dominants renverseront la vapeur. Là encore, et peut-être de façon encore plus visible, ces louables intentions révèlent le rôle que les chefs de rédaction assignent au journalisme : informer, certes, mais pour encadrer.

Tel est le rôle assigné au dispositif annoncé par Facebook en France, sur la base de ceux existant en Allemagne et aux USA, et rapporté dans un article des Échos : n’importe quel utilisateur du réseau social y trouvant un article relayant une information suspecte pourrait la signaler, et des journalistes soumettraient l’article à une vérification, puis y accoleraient si nécessaire un label « intox », qui diminuerait la visibilité de l’article sur le réseau social, ainsi qu’un article correctif. Les journalistes préposés à ce « fact-checking » ne seraient pas rémunérés par Facebook, mais par leur rédaction [17

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Guerra a cannonate

1) Le colombe armate dell’Europa (Manlio Dinucci su il manifesto, 21 febbraio 2017) 
2) Un voto che prepara la guerra (Giulietto Chiesa su SputnikNews, 20.02.2017)
3) A sinistra dirimente è la guerra (Tommaso Di Francesco su il manifesto, 19 febbraio 2017)
4) La NATO in marcia verso Est (Corrispondenza dalla Lituania di Julius Anulis per la “Pravda”)
5) Altro che obsoleta, la Nato con Mattis si allarga a sud con un «Hub» di guerra (Manlio Dinucci su il manifesto, 16 febbraio 2017) 
6) Missioni militari. 1,5 miliardi per mostrare i muscoli in giro per il mondo (Alessandro Avvisato, 15 febbraio 2017)
7) Guantanamo (Cuba), 4-6 maggio 2017: SEMINARIO INTERNAZIONALE CONTRO LE BASI MILITARI STRANIERE


Read also:

TORCHBEARER OF THE WEST (Berlin calls to replace the US as the West's "torchbearer", GFP 2017/02/14)
In the run-up to the Munich Security Conference this weekend, leading German foreign policy experts are calling on the EU to reposition itself on the world stage, replacing the United States as the West's "torchbearer." Since Washington's change of government, the United States no longer "qualifies as the symbol of the West's political and moral leadership," according to Wolfgang Ischinger, Chair of the Munich Security Conference. It is therefore up to Europe "to make up for this loss." ... "We Europeans" could become an "impressive political and military power," Ischinger cajoled...


=== 1 ===


L’arte della guerra
 
Le colombe armate dell’Europa 

Manlio Dinucci
  

Ulteriori passi nel «rafforzamento dell’Alleanza» sono stati decisi dai ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles nel Consiglio Nord Atlantico. Anzitutto sul fronte orientale, col dispiegamento di nuove «forze di deterrenza» in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, unito ad una accresciuta presenza Nato in tutta l’Europa orientale con esercitazioni terrestri e navali. 

A giugno saranno pienamente operativi quattro battaglioni multinazionali da schierare nella regione. Sarà allo stesso tempo accresciuta la presenza navale Nato nel Mar Nero. 

Viene inoltre avviata la creazione di un comando multinazionale delle forze speciali, formato inizialmente da quelle belghe, danesi e olandesi. 

Il Consiglio Nord Atlantico loda infine la Georgia per i progressi nel percorso che la farà entrare nella Alleanza, divenendo il terzo paese Nato (insieme a Estonia e Lettonia) direttamente al confine con la Russia. 

Sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale in particolare attraverso il confronto Russia-Nato in Siria, il Consiglio Nord Atlantico annuncia una serie di misure per «contrastare le minacce provenienti dal Medioriente e Nordafrica e per proiettare stabilità oltre i nostri confini». Presso il Comando della forza congiunta alleata a Napoli, viene costituito l’Hub per il Sud, con un personale di circa 100 militari. Esso avrà il compito di «valutare le minacce provenienti dalla regione e affrontarle insieme a nazioni e organizzazioni partner». 

Disporrà di aerei-spia Awacs e di droni che diverranno presto operativi a Sigonella. Per le operazioni militari è già pronta la «Forza di risposta» Nato di 40mila uomini, in particolare la sua «Forza di punta ad altissima prontezza operativa». 

L’Hub per il Sud – spiega il segretario generale Stoltenberg – accrescerà la capacità della Nato di «prevedere e prevenire le crisi». In altre parole, una volta che esso avrà «previsto» una crisi in Medioriente, in Nordafrica o altrove, la Nato potrà effettuare un intervento militare «preventivo». L’Alleanza Atlantica al completo adotta, in tal modo, la dottrina del «falco» Bush sulla guerra «preventiva». 

I primi a volere un rafforzamento della Nato, anzitutto in funzione anti-Russia, sono in questo momento i governi europei dell’Alleanza, quelli che in genere si presentano in veste di «colombe». Temono infatti di essere scavalcati o emarginati se l’amministrazione Trump aprisse un negoziato diretto con Mosca. 

Particolarmente attivi i governi dell’Est. Varsavia, non accontentandosi della 3a Brigata corazzata inviata in Polonia dall’amministrazione Obama, chiede ora a Washington, per bocca dell’autorevole Kaczynski, di essere coperta dall’«ombrello nucleare» Usa, ossia di avere sul proprio suolo armi nucleari statunitensi puntate sulla Russia. 

Kiev ha rilanciato l’offensiva nel Donbass contro i russi di Ucraina, sia attraverso pesanti bombardamenti, sia attraverso l’assassinio sistematico di capi della resistenza in attentati dietro cui vi sono anche servizi segreti occidentali. Contemporaneamente, il presidente Poroshenko ha annunciato un referendum per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. 

A dargli man forte è andato il premier greco Alexis Tsipras che, in visita ufficiale a Kiev l’8-9 febbraio, ha espresso al presidente Poroshenko «il fermo appoggio della Grecia alla sovranità, integrità territoriale e indipendenza dell’Ucraina» e, di conseguenza, il non-riconoscimento di quella che Kiev definisce «l’illegale annessione russa della Crimea». L’incontro, ha dichiarato Tsipras, gettando le basi per «anni di stretta cooperazione tra Grecia e Ucraina», contribuirà a «conseguire la pace nella regione».
 
(il manifesto, 21 febbraio 2017) 



=== 2 ===


Un voto che prepara la guerra

20.02.2017
Giulietto Chiesa

“Nella mia qualità di Presidente sono guidato dalla volontà del mio popolo e indirò un referendum sulla questione dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato”. Con queste parole Poroshenko annunciava, il 9 febbraio scorso, le intenzioni sue e dei suoi burattinai per “chiedere” il cerchio del colpo di stato che lo portò al potere a Kiev nel febbraio 2014.

La citazione testuale, nello strano silenzio di tutti i media occidentali, venne pubblicata dall'importante quotidiano tedesco Frankfurter allgemeine Zeitung. Ed era a corredo della notizia di un recente sondaggio d'opinione, secondo il quale il 54% degli ucraini sarebbe ora favorevole a un immediato ingresso nella Nato. Il condizionale è d'obbligo, ma la cifra potrebbe essere credibile se si tiene conto del martellamento propagandistico cui gli ucraini sono stati sottoposti negli ultimi tre anni da tutti i media del regime (cioè da tutti i media).
Il contenuto di un tale martellamento non è stato diverso, in sostanza, da quello subito dalle opinioni pubbliche di tutti i paesi occidentali, e i suoi contenuti sono noti: la causa di tutti i mali dell'Ucraina, remoti, passati, presenti, è la Russia (inclusa l'Unione Sovietica); la Russia ha aggredito l'Ucraina e l'ha invasa; la Russia ha "annesso" con la forza la Crimea; la Russia ha preso il Donbass etc.
Se si tiene conto che l'ultimo sondaggio prima del colpo di stato a Kiev del 22 febbraio 2014, aveva detto che i favorevoli a un ingresso dell'Ucraina nella Nato erano soltanto il 16%, si può misurare l'efficacia di un tale martellamento. Del resto identico a quello cui sono stati sottoposti i cittadini di Estonia, Lettonia, Lituania, già membri della Nato e convinti in maggioranza di una cosa del tutto assurda e priva di elementi di supporto, secondo cui la Russia di Putin sarebbe in procinto di invaderli.
Ma il punto non è questo. Il punto è che il governo fantoccio di Kiev ha già ri-avviato la guerra contro le due repubbliche di Donetsk e di Lugansk, in plateale violazione degli accordi di Minsk 1 e 2, bombardando i centri abitati, moltiplicando gli attentati terroristici. Ultimi in ordine di tempo l'assassinio di Mikhail Tolstykh (Givi)comandante del Battaglione Somalia dell'esercito della DNR, quello del capo di Stato Maggiore dell'esercito popolare di Lugansk, colonnello Oleg Anashenko, e quello del colonnello Arsen Pavlov, delle forze armate del Donetsk, dello scorso 16 ottobre. A queste provocazioni terroristiche si aggiungono quelle, anch'esso sanguinose, sventate dai servizi russi, contro la Crimea.
Il proposito è chiaro ed è perfino pubblicamente e ripetutamente proclamato. Come ha detto recentemente il ministro di Kiev per le "regioni temporaneamente occupate", Jurij Grymciak, "noi riteniamo che nel prossimo futuro, un anno e mezzo all'incirca, noi ci riprenderemo i territori (del Donbass e della Crimea, ndr) quando il loro mantenimento si rivelerà troppo costoso per la Federazione Russa".
Sbalordisce il silenzio dell'Europa di fronte a queste dichiarazioni, che rivelano le intenzioni di Kiev di non rispettare, né ora né mai, gli accordi siglati a Minsk, che prevedono un negoziato preliminare con le Repubbliche che si sono proclamate indipendenti, e che escludono la legittimità di una ripresa delle azioni belliche nei loro confronti. Un silenzio che non solo protegge l'aggressione, ma che indica la totale irresponsabilità verso le conseguenze. E' evidente infatti che l'isteria artificialmente creata nei confronti della Russia, sommata a un voto di adesione alla Nato, creerebbe una miscela esplosiva non disinnescabile. Una offensiva ben preparata (e tacitamente approvata dalla Nato) contro la DNR e la LNR metterebbe la Russia nella situazione di dover decidere se lasciare massacrare i russi delle due repubbliche, oppure se reagire. Per non parlare della Crimea che, in quanto parte integrante della Federazione Russa, è impensabile possa essere abbandonata a un destino di tragedia.
A quel punto ogni azione del Cremlino, diversa dallo scenario preparato da Kiev e dagli europei occidentali verrebbe qualificata come "aggressione". Ma non più soltanto come aggressione della Russia contro l'Ucraina (fake news ripetute anche dai nostri media italiani) come, bensì come aggressione della Russia contro la Nato. La "logica" di questa concatenazione di eventi dovrebbe balzare agli occhi a qualunque persona responsabile. Fidarsi dei nazisti di Kiev e dei generali Stranamore che guidano la Nato è cosa insensata. Fidarsi della CIA, che ha organizzato il colpo di stato nazista a Kiev e che sta organizzando l'impeachment contro Trump (il quale a sua volta, ha idee assai confuse sulla gestione di questa crisi, tant'è vero che ha fatto dichiarare al suo portavoce l'augurio che la Russia restituisca la Crimea ai nazisti), significa far precipitare la situazione. Come dice il già citato Grymciak, i tempi sono brevi: un anno e mezzo-due.
Infatti Petro Poroshenko, proprio il 9 febbraio, annuncava l'inizio di una esercitazione militare senza precedenti in territorio ucraino, con la partecipazione di ingenti forze della Nato, segnatamente di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Canada. Decine di convogli militari, e di treni speciali sono in movimento in tutta l'Europa centrale: direzione Ucraina. Solo un cieco potrebbe non connettere i punti di questo disegno. L'America di Trump non mostra segni di rinsavimento rispetto a quella di Obama-Clinton. L'Unione Europea tiene bordone. C'è solo una cosa da fare: impedire l'ingresso dell'Ucraina nazista nella Nato. Sappiamo che il governo italiano non muoverà un dito in questa direzione. È dunque un compito del popolo e dei suoi rappresentanti ancora non avvelenati dalla manipolazione dei dementi che spingono verso la guerra. Gli ucraini possono votare quello che vogliono, assumendosene collettivamente la responsabilità. Ma l'Italia ha un voto dirimente per decidere se questa Ucraina può o non può entrare nella Nato. Occorre fare tutto il possibile per costringere il governo a opporre il proprio diniego. Non si tratta qui di uscire dalla Nato, si tratta di impedire che la Nato ci trascini in una guerra insensata e mostruosa, dove molti di noi moriranno. Poiché è di questo che stiamo parlando.


=== 3 ===


A sinistra dirimente è la guerra

il manifesto, 19 febbraio 2017

di Tommaso Di Francesco
La Nato incrollabile. Il vice-presidente Usa Mike Pence in Europa a rassicurare sul rifondato Patto atlantico. Come dimenticare che la guerra è entrata nel dna della sinistra che si è fatta governo?
«Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la guerra, ma prima o poi la guerra si interesserà sicuramente a te»: non sappiamo a chi attribuire questa massima ma certamente ha una attualità sconcertante. Parliamo del silenzio assordante e sempre più affluente sulla condizione della crisi mondiale che attraverso la guerra mostra il suo vero volto, internazionale quanto domestico.
Accade sotto i nostri occhi che, al di là degli annunci ondivaghi, teatrali quanto sprezzanti, alla fine la scelta del nuovo presidente di destra degli Stati uniti d’America Donald Trump sia quella di considerare l’Alleanza atlantica come baluardo «incrollabile».
Lo ha trasmesso ieri il vice-presidente Usa Mike Pence in visita in Europa dove è venuto a rassicurare sulla condivisione del rifondato Patto atlantico. Quello che ha inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia portandoli da decenni in tutte le guerre devastanti che l’Occidente ha consumato non solo in Medio Oriente e che si allarga a est sulla frontiera russa con truppe, sistemi d’arma, scudo antimissile che monta testate nucleari.
E prima lo aveva affermato due giorni fa il nuovo capo del Pentagono Jim Mattis, non solo ribadendo «amicizia incrollabile» ma chiedendo – bene accolto dagli alleati – un aumento della spesa per la difesa, del 2% del Pil, ai Paesi europei dell’Alleanza atlantica.
Così l’Italia che è «solo» all’1,1% del Pil in speseper la difesa, per un equivalente di 55 milioni di euro al giorno, potrà serenamente arrivare a circa 100 milioni di euro al giorno. Perché l’Unione europea, dalla Merkel alla Mogherini rispondono che sì, «la Nato va rafforzata» e certo anche «l’Ue e l’Onu». La Nato che resta istituzionalmente sotto comando militare dello Stato maggiore americano. Mentre Mike Pence l’Ue nemmeno la nomina.
Allora, vista la crisi drammatica dell’Unione europea che non a caso ha perso con la Brexit la sua fetta atlantica, forse è meglio riflettere. Perché al punto in cui siamo appare evidente che più atlantismo vuol dire solo meno europeismo. Infatti è la Nato che resta «incrollabile», che aumenta il suo bilancio, che si allarga a est, che riempie di basi il Vecchio continente, che si allunga a Sud. Mentre è in forse l’esistenza dell’Unione europea. Sullo sfondo c’è certo la crisi ucraina. Ma come dimenticare che nel 2013 sarebbe stata possibile una diversa soluzione di quella crisi, prima economica e poi politica, se su piazza Majdan fosse arrivata la Commissione di Bruxelles a trattare le condizioni della crisi economica simile a quella greca. Invece arrivarono il capo della Cia John Brennan, il vice presidente democratico Joe Biden e il repubblicano anti-trumpista McCain, a fare comizi e ad arringare folle per buona parte guidate dall’estrema destra xenofoba ucraina. Aprendo un precipizio, dall’impunita strage di Odessa, all’annesione russa della Crimea, alla guerra civile in Donbass. Un precipizio su cui la Nato ha soffiato e soffia con passione. A Est e a Sud. Come in Libia dove, alla fine del memorandum trattato con l’Italia, di fronte alle divisioni del paese e alla rottura con il generale Haftar, il «nostro» premier Sarraj, che non controlla neanche Tripoli, richiama in soccorso proprio la Nato. Lo stesso organismo militare che ha distrutto con i raid aerei il Paese nel marzo 2011.
La guerra è distruzione di vite umane e risorse, è seminagione di odio, è dominio-imperio degli spazi economici e finanziari con la violenza militare; è attivazione della asimmetrica (e strumentale) spirale terroristica. La fuga disperata di milioni di esseri umani che chiamiamo migranti è epocale perché corrisponde all’epoca delle guerre occidentali in Medio Oriente, che hanno distrutto tre stati, l’Iraq, la Libia e la Siria, fondamentali per gli equilibri mondiali; ed è epocale perché corrisponde alla rapina epocale, da parte delle multinazionali, delle ricchezze dell’immensa Africa dell’interno. Ora di fronte a chi fugge dalle guerre e dalla «miseria da rapina» l’Europa, nonostante le evidenti responsabilità, erige muri e militarizza i propri confini. Fino alla soluzione del blocco navale militare e alla pratica di esternalizzare l’accoglienza dei profughi a Paesi esperti in tortura e campi di concentramento. Ecco la nuova governance: la guerra e gli universi concentrazionari.
Nelle stanze domestiche, solo pochi giorni fa in Italia si è consumato un vero e proprio «golpe» da parte del governo Gentiloni (fotocopia di Renzi) che ha approvato un disegno di legge per implementare il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale». Di fatto si istituzionalizza la guerra con l’assegnare alle Forze armate missioni che stravolgono la Costituzione: gli «interessi vitali» del Paese (invece della patria, come da art.52 della Costituzione); il contributo alla difesa collettiva della Nato e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo; la gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento; e, dulcis in fundo, si affida alle Forze armate sul piano interno «la salvaguardia delle libere istituzioni…con compiti specifici in casi di straordinaria necessità e urgenza». Non si tratta di spalare la neve. Siamo alla istituzionalizzazione della «guerra umanitaria» che dai Balcani, all’Afghanistan – dove le truppe italiane sono nel contingente Nato in una inutile quanto sanguinosa guerra da 16 anni – fino all’Iraq e alla Libia non solo non hanno risolto le crisi internazionali ma le hanno aggravate.
Come dimenticare che la guerra sia entrata negli ultimi 25 anni prepotentemente nel dna della sinistra che si è fatta governo? Fino a diventare bipartisan? E come sorprendersi se una nuova destra nazional-populista cresca sui disastri sociali che la guerra e lo sfruttamento di risorse e ambiente hanno prodotto?
A sinistra dirimente è la guerra. È l’assunzione della parola d’ordine della pace costituente. Il rifiuto della guerra e la difesa dell’articolo 11 della costituzione non vanno in appendice alla consapevolezza individuale e collettiva, ma al primo posto. Non c’è alternativa se non si mobilita una nuova umanità contro lo stato di guerra delle cose presenti.
il manifesto, 19 febbraio 2017

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La NATO in marcia verso Est

17 Febbraio 2017
Corrispondenza dalla Lituania di Julius Anulis per la “Pravda” | da kprf.ru
Traduzione dal russo di Mauro Gemma

La creazione di quattro battaglioni multinazionali in Lituania, Lettonia, Estonia e Polonia sono già stati pianificati per il 2017. La Germania assumerà il comando del battaglione della NATO in Lituania, gli Stati Uniti saranno al comando in Polonia, i britannici in Estonia e i canadesi in Lettonia.

La Lituania ha dato ufficialmente il benvenuto al primo battaglione militare internazionale della base avanzata della NATO. Alla cerimonia nella città di Rukla (distretto di Jonava) il presidente lituano, la bellicosa Grybauskaité ha evidenziato che i reparti internazionali opereranno come forza di deterrenza.

La dislocazione dei soldati della Bundeswehr sul territorio della Lituania, secondo la leadership locale, è un segnale di fiducia verso la Germania. Ma il parere della gente non importa a nessuno. E non c'è stato un referendum sulla presenza delle truppe straniere nel paese. E' in atto un'evidente violazione della Costituzione. E' ciò che ricordano le forze progressiste della sinistra nelle manifestazioni e nelle azioni di protesta.

Nella cittadina di Rukla sono già state rinnovate le caserme, i dormitori e le aree attrezzate in cui si suppone saranno collocati i container delle forze della NATO e le attrezzature militari. In seguito si prevede di trasformare tutto ciò in una moderna cittadella militare, eretta non lontano dalla capitale Vilnius.

Dal febbraio 2017 è iniziato il dispiegamento principale delle truppe straniere. E' previsto che tutte le unità del battaglione delle forze avanzate della NATO arriveranno in Lituania, in piena capacità operativa, entro la metà di giugno. Il battaglione potrà così prendere immediatamente parte all'esercitazione “Spada di ferro”.

Nel 2017-2018 nel battaglione serviranno militari di Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Croazia e Francia. La Germania, al comando del battaglione, partecipa con circa 600 soldati, mentre gli altri paesi ne forniranno tra 200 e 250. Ma in tutto, in Lituania, dovrebbero essere dislocati 1.200 uomini e la NATO si è detta disponibile ad aumentare il contingente delle sue forze avanzate.

I militari portano con loro un equipaggiamento militare pesante: 13 carri armati Leopard-2, 38 veicoli per la fanteria, artiglieria, forze di difesa aerea a corto raggio, blindati CV90, Boxer, Fennek, ecc.

La Lituania fornirà supporto al battaglione della NATO. Il ministero della Difesa del paese spenderà solo nel 2017 8 milioni di euro per il mantenimento e la formazione del contingente militare straniero.

Nel 2018 la spesa per la difesa della Lituania raggiungerà il 2% del PIL, vale a dire circa 1 miliardo di euro. I leader dei partiti politici parlamentari si sono accordati di aumentare fino al 2,5% del PIL, entro il 2020, le spese per la difesa. E perché no, anche per la guerra? Nell'agosto dello scorso anno è stato firmato con la Germania un accordo per l'acquisto di BMP Boxer per un ammontare di 386 milioni di euro: è il più grande contratto nell'intera storia dell'esercito lituano. Le forze armate lituane acquistano anche obici tedeschi semoventi, autocarri, e i soldati da molti anni utilizzano fucili automatici G-36.

I propagandisti della NATO sono convinti che le unità militari dell'alleanza sul fianco est saranno in grado di “evitare il conflitto, frenando il potenziale aggressore”. Ma la Russia ha ripetutamente dichiarato di non avere alcuna ambizione territoriale nella regione del Mar Baltico, e che sono le forze dell'Alleanza a costituire una minaccia alla sicurezza della Russia.

“Siate vigili!”, esclamò negli ultimi istanti della sua vita l'antifascista ceco Julius Fučík. Non è meno vero anche nei nostri giorni quando l'occupazione strisciante sta inghiottendo i paesi dell'Europa orientale.


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Altro che obsoleta, la Nato con Mattis 
si allarga a sud con un «Hub» di guerra 

Manlio Dinucci
  

Alla riunione del Consiglio Nord Atlantico, apertasi ieri a Bruxelles, la ministra Pinotti e gli altri ministri europei della Difesa hanno tirato un sospiro di sollievo: la Nato non è «obsoleta», come aveva detto il presidente Trump. Nella sua prima dichiarazione ufficiale ieri a Bruxelles, il nuovo segretario statunitense alla Difesa, Jim Mattis, ha assicurato che la Nato resta «la base fondamentale per gli Stati uniti». 

È «l’alleanza militare che nella storia ha avuto il maggior successo», ha detto ai giornalisti mentre era in volo per Bruxelles, portando come prova dell’impegno statunitense nella Alleanza il fatto che l’unico comando Nato con quartier generale negli Stati uniti è quello del Comandante supremo alleato per la trasformazione (Sact), carica già ricoperta dallo stesso Mattis. Il Sact, responsabile del Comitato militare (la più alta autorità militare della Nato), «promuove e controlla la continua trasformazione delle forze e capacità della Alleanza». 

Negli ultimi 20 anni, ha sottolineato Mattis, la Nato si è trasformata (ha infatti inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Urss e tre della ex Jugoslavia), ma «deve continuare a trasformarsi per adattarsi a ciò che è avvenuto nel 2014, anno di svolta in cui le nostre speranze di una qualche partnership con la Russia si sono dimostrate infruttuose». Occorre per questo  «essere certi che il legame transatlantico resti forte». 

A riprova di ciò, il segretario generale della Nato Stoltenberg, nella sua dichiarazione congiunta con il segretario Mattis, ha confermato ieri che «truppe ed equipaggiamenti Usa stanno arrivando in Polonia e nei paesi baltici, dimostrando chiaramente la determinazione degli Stati uniti di stare a fianco dell’Europa in questi tempi travagliati».

Sotto comando degli Stati uniti (cui spetta la carica del Comandante supremo alleato in Europa), la Nato continua continua ad allargarsi ad Est, a rafforzare lo schieramento sul fronte orientale in funzione anti-Russia, nonostante le dichiarate intenzioni del presidente Trump di aprire un negoziato con Mosca. 

Allo stesso tempo, la Nato potenzia il fronte meridionale con nuovi dispositivi militari. «Oggi decideremo di costituire un nuovo Hub per il Sud presso il nostro Comando della forza congiunta a Napoli», ha annunciato Stoltenberg, sottolineando che «questo ci permetterà di valutare e affrontare le minacce provenienti dalla regione, a complemento del lavoro svolto dalla nostra nuova Divisione di intelligence costituita qui al quartier generale Nato».

Con grande soddisfazione della ministra  Pinotti, aumenta l’importanza dell’Italia in quella che Stoltenberg, aprendo il Consiglio Nord Atlantico, ha definito «proiezione di stabilità oltre i nostri confini». Il nuovo «Hub per il Sud», che verrà realizzato a Napoli, costituirà la base operativa per la proiezione di forze terrestri, aeree e navali in una «regione» dai contorni indefiniti, comprendente Nordafrica e Medioriente ma anche aree al di là di queste. È disponibile per tali operazioni la «Forza di risposta» della Nato, aumentata a 40mila uomini, in particolare la sua  «Forza di punta ad altissima prontezza operativa», che può essere proiettata in 48 ore «ovunque in qualsiasi momento». 

Il nuovo «Hub per il Sud», realizzato presso il Comando della forza congiunta alleata con quartier generale a Lago Patria (Napoli), sarà agli ordini dell’agguerrita ammiraglia statunitense Michelle Howard che, oltre ad essere a capo del Comando Nato, è comandante delle Forze navali Usa per l’Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa. Quindi anche il nuovo «Hub per il Sud» rientrerà nella catena di comando del Pentagono.

Tutto questo costa. Mattis ha ribadito la richiesta perentoria che tutti gli alleati europei portino la spesa per la «difesa» ad almeno il 2% del Pil. Solo cinque paesi Nato hanno raggiunto o superato tale livello: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia. 

L’Italia è indietro con «appena» l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: secondo i dati ufficiali Nato, la spesa italiana per la «difesa» è aumentata nel 2015-2016 da 17.642 a 19.980 milioni di euro, equivalenti in media a 55 milioni di euro al giorno. La spesa militare effettiva è molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende le missioni militari all’estero, finanziate con un fondo specifico presso il Ministero dell’economia e delle finanze, né il costo di importanti armamenti finanziati anche dalla Legge di stabilità. 

Stoltenberg, felice, annuncia che finalmente la Nato «ha voltato pagina», accrescendo la spesa militare nel 2015-2016 del 3,8% in termini reali, ossia di circa 10 miliardi di dollari. La ministra Pinotti è fiduciosa che l’Italia arriverà al 2%, ossia a spendere 100 milioni di euro al giorno per la «difesa». 

Aumenterà la disoccupazione, ma avremo la soddisfazione di avere a Napoli il nuovo «Hub per il Sud».
 
(il manifesto, 16 febbraio 2017)


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http://contropiano.org/news/politica-news/2017/02/15/missioni-militari-15-miliardi-mostrare-muscoli-giro-mondo-088947

Missioni militari. 1,5 miliardi per mostrare i muscoli in giro per il mondo


di Alessandro Avvisato, 15 febbraio 2017

Nel 2017 il contingente italiano di militari in Iraq sarà secondo solo a quello statunitense. A deciderlo è stato il governo Gentiloni, che ha deciso di aumentarlo fino a 1.497 militari, nell’ambito della “Coalizione dei volenterosi” per la lotta contro l'Isis. I militari italiani avranno anche compiti di ‘force protection’ nell’area di Mosul, in particolare per quanto riguarda la diga, appaltata alla societa’ Trevi. Lo stanziamento previsto per il 2017 e’ di 300,7 milioni. Il contingente militare in Iraq supera quello ancora operativo in Afghanistan.

Ma non c'è solo l'Iraq, c'è anche la Libia dove è stata avviata l'operazione ‘Ippocrate’, intorno all’ospedale da campo di Misurata. Oltre al personale sanitario, ci saranno infatti dei militari con compiti di ‘Force protection’. In tutto saranno impiegati fino a 300 uomini e lo stanziamento per il 2017 e’ di 43,6 milioni. Per fronteggiare l’immigrazione clandestina e assistere la Guardia costiera libica, lo stanziamento e’ di ulteriori 3,6 milioni. Per proteggere il traffico mercantile e le piattaforme petrolifere antistanti la costa libica (operazione Mare sicuro), lo stanziamento e’ di 84 milioni con 700 uomini. Per l’operazione Sophia-Eunavformed contro gli scafisti nel Mediterraneo lo stanziamento è di 43,1 milioni per 585 uomini.

In questo modo le spese complessive dell'Italia per le missioni militari all’estero nel 2017, saliranno a 1,13 miliardi, ai quali vanno aggiunti 295 milioni per la cooperazione che affianca i militari nei teatri di guerra. Gli uomini impiegati nelle missioni militari all'estero saranno 7.459 militari e 167 agenti delle forze di polizia. 

Occorre poi tenere conto che il prossimo anno altri 140 militari partiranno per la Lettonia nell'ambito dello stanziamento di un contingente della Nato. Verrà inoltre rafforzata anche la presenza in altre operazioni in Europa, delle quali quella più numerosa vede impegnati 550 soldati italiani in Kosovo.

Enrico Piovesana, su Il Fatto del 30 gennaio, sottolinea anche il triplicare dello stanziamento (da 5 a 15 milioni) per le operazioni d’intelligence a supporto delle missioni condotte dagli agenti operativi dell’Agenzia di informazione e sicurezza esterna (Aise), attivi soprattutto in Libia, Iraq e Afghanistan. L’incremento è legato alla novità (introdotta un anno fa da Renzi) dell’impiego di assetti militari (forze speciali) a supporto delle operazioni d’intelligence per operazioni segrete.

Secondo l'Osservatorio sulle Spese Militari italiane, nel 2017 verranno spesi 1,28 miliardi di euro contro gli 1,19 miliardi del 2016. Soldi destinati a finanziare l’impiego di 7.600 uomini, 1.300 mezzi terrestri, 54 mezzi aerei e 13 navali in decine di missioni attive in 22 Paesi, nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Indiano. 

Da troppo tempo su tutto questo si assiste ad un assordante silenzio, sia in Parlamento che fuori. Sarà il caso che le realtà antimilitariste, antimperialiste, tornino a battere un colpo contro le missioni militari? E non è solo una questione di spese, sono la natura e gli obiettivi di queste missioni che dovrebbero inquietare. Soprattutto quando diventano la proiezione della politica dei fatti compiuti dai quali è sembra rognoso recedere.



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Seminario Internazionale contro le basi militari straniere (4-6 maggio 2017)

17 Febbraio 2017

L'invito del Consiglio Mondiale della Pace (CMP)

da cebrapaz.org.br – Traduzione di Marx21.it

Il Consiglio Mondiale della Pace (CMP) ha lanciato un appello alla partecipazione al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, che si svolgerà a Guantanamo, Cuba, tra il 4 e il 6 maggio 2017. Oltre che dal CMP, l'importante evento è organizzato dal Movimento Cubano per la Pace e la Sovranità dei Popoli (MovPaz) e dall'Istituto Cubano di Amicizia con i Popoli. Tra i promotori vanno segnalati l'Organizzazione della Solidarietà ai Popoli di Asia, Africa e America Latina (OSPAAL), il Centro Martin Luther King Jr. e il Centro di Riflessione Oscar Arnulfo Romero. Anche tutte le entità antimperialiste che fanno parte del CMP promuovono la campagna globale contro le basi “avamposti dell'imperialismo” I contatti per le informazioni riguardanti la partecipazione all'evento sono indicati nel comunicato di MovPaz in cebrapaz.org.br.

Invito alla partecipazione al Seminario Internazionale per la Pace e contro le Basi Militari Straniere, a Guantanamo

All'inizio di quest'anno, sulla base dei nostri più recenti incontri e Assemblea, abbiamo nuovamente esaminato le sfide che i popoli di tutto il mondo affrontano nel rafforzamento della lotta antimperialista per la pace. Tra le sfide che continuano e si intensificano abbiamo messo in evidenza soprattutto la diffusione delle basi straniere al servizio dell'agenda imperialista degli Stati Uniti e delle altre potenze dell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

Per questa ragione il Consiglio Mondiale della Pace (CMP) si unisce al Movimento per la Pace e la Sovranità dei Popoli (MovPaz) nell'invitare tutte le forze di giustizia e di pace, che difendono la sovranità delle nazioni e si oppongono alla logica della minaccia e della guerra imposta dall'imperialismo al pianeta, al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, tra il 4 e il 6 maggio 2017.

Il luogo in cui si svolgerà il seminario è profondamente simbolico: Guantanamo, Cuba, che ha parte del suo territorio occupata da una base navale degli USA da oltre un secolo. E' la base più antica del mondo, ancora sotto controllo statunitense contro la volontà espressa dal popolo cubano.

Rafforziamo, così, la nostra campagna globale contro le basi militari straniere, chiamando anche a una mobilitazione coordinata in vari paesi e in tutti i continenti, con azioni che esprimano in modo inequivocabile la nostra richiesta di smantellamento di questi avamposti dell'imperialismo, che violano la sovranità dei popoli e cercano di sottometterli in qualsiasi modo.

Ci opponiamo a tutte le forme di manifestazione della minaccia imperialista contro i popoli, di cui le basi militari straniere sono tra le principali. Dall'Africa all'America Latina, dalle Malvine al Giappone, chiediamo finalmente la chiusura delle basi militari imperialiste!

E' per questo che, ancora una volta, abbiamo invitato attivisti e organizzazioni della pace a mobilitarsi e a partecipare al V Seminario Internazionale della Pace e per l'Abolizione delle Basi Militari Straniere, denunciando queste postazioni imperialiste. Troviamoci a Guantanamo!

Socorro Gomes
Presidenta del Consiglio Mondiale della Pace





Prossime iniziative antifasciste

* Modena 19/2: FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
Forlì 20/2: NOI RICORDIAMO TUTTO… 
Trieste 22/2: GIORNO DEL RICORDO, LA STORIA CAPOVOLTA
Roma 24/2: GUERRIGLIA PARTIGIANA A ROMA
Roma 3/3: DONBASS - I NERI FILI DELLA MEMORIA RIMOSSA


=== Modena, domenica 19 febbraio 2017
alle ore 15.30 nella Sala Ulivi dell’Archivio Storico della Resistenza
FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
intervento di Alessandra Kersevan
organizza: Rete Antifascista Modenese



=== Forlì, lunedì 20 febbraio 2017
alle 18:30 presso la Sala Foro Boario, piazza Foro Boario 7
NOI RICORDIAMO TUTTO… Per una lettura storicamente corretta delle questioni nord-orientali
ne parliamo con Alessandra Kersevan, ricercatrice storica
organizzano ANPI e UDU



=== Trieste, mercoledì 22 febbraio 2017
alle ore 17:00 in via Tarabochia 3, presso la sala di Rifondazione Comunista, primo piano
GIORNO DEL RICORDO, LA STORIA CAPOVOLTA
Intervengono:
Alessandra Kersevan, La criminalizzazione della ricerca storica;
Claudia Cernigoi, Chi nega cosa;
Sandi Volk, Chi ricorda la Repubblica nata dalla Resistenza



=== Roma, venerdì 24 febbraio 2017
alle ore 18.30 presso Baccelli d’Idee in via Orciano Pisano 9

(ex scuola Baccelli a Montecucco dietro l’AMA) 

l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sezione Trullo-Magliana “Franco Bartolini” di Roma, in occasione della festa del tesseramento 2017, presenterà il libro:

"GUERRIGLIA PARTIGIANA A ROMA. Gap comunisti, Gap socialisti e Sac azioniste nella Capitale 1943-’44" di Davide Conti, Odradek 2017

Ne discutiamo con l’autore e storico Davide Conti, con il partigiano dei GAP di Roma Nando Cavaterra, e con lo scrittore ed editore della Red Star Press Cristiano Armati.

Sarà l’occasione per ribadire e ricordare perché la città di Roma merita una medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza, di cui è ancora in attesa di assegnazione.
Vogliamo qui citare solo alcuni dati: duecentosettantuno giorni di occupazione nazista, migliaia di caduti civili e militari, quasi quattromila partigiani inquadrati nelle organizzazioni armate, centinaia di azioni di guerra e sabotaggio compiute quotidianamente. Questa è stata la Resistenza a Romauna guerriglia urbana di nove mesi organizzata dalle forze antifasciste e resa possibile dall’appoggio della popolazione civile.
 

Le drammatiche vicende della «Città Aperta», iniziate con i seicento caduti a Porta San Paolo e chiuse dalla strage di La Storta, furono caratterizzate da una guerra partigiana che rifiutò l’ordine nazista su Roma e fece della Resistenza armata la leva storica «costituente» in grado di conferire ai cittadini un nuovo protagonismo all’interno della sfera pubblica, facendo della guerriglia urbana una delle radici fondamentali della Repubblica.

All’interno del perimetro urbano della capitale, il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito d’azione, si dotarono di reparti armati che diedero vita ad un conflitto asimmetrico in grado di infliggere all’esercito nazista gravi danni strategici e pesanti perdite materiali.

In ogni zona della città, centinaia di azioni di guerriglia e sabotaggio vennero realizzate dai partigiani lungo tutti i nove mesi di occupazione, confliggendo apertamente contro l’ordine pubblico criminale dei nazifascisti gestito attraverso la pratica militare della «guerra ai civili» fatta di rastrellamenti e deportazioni (carabinieri, ebrei, quartieri popolari), di stragi (Pietralata, Forte Bravetta, Fosse Ardeatine, La Storta) e di “camere di tortura” (via Tasso e le Pensioni Oltremare e Jaccarino).

Le otto zone in cui i tre partiti della sinistra del CLN divisero la capitale divennero campo di battaglia accidentato e pericoloso per nazisti e fascisti grazie alla solidarietà, al sostegno fattuale e all’appoggio ideale della popolazione che permise ai partigiani di ricevere protezione e collaborazione in tutti i quartieri della città e di combattere un nemico molto più forte per numero, armamento e risorse.

 

Davide Conti, storico. È consulente dell'Archivio Storico del Senato della Repubblica presso cui ha curato il riordino degli archivi personali dei membri dei GAP centrali Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini. Ha pubblicato: L’occupazione italiana dei Balcani (Odradek 2008); Alle radici del sindacato. La fondazione della Cgil e le carte del congresso costitutivo del 1906 (Ediesse 2010); Criminali di guerra italiani (Odradek 2011); L'anima nera della Repubblica. Storia del Msi, (Laterza 2013); La Resistenza di Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini dai GAP alle Missioni Alleate, (Senato della Repubblica 2016).

Nando Cavaterra, partigiano. Ex combattente della Resistenza romana nel quartiere di Centocelle, inquadrato nei Gap dell’ VIII zona. Attualmente è membro del Comitato Provinciale dell’ANPI di Roma. 

Cristiano Armati, scrittore ed editore. Impegnato nell’industria editoriale dal 1999, lavora per Coniglio Editore, Newton Compton, Castelvecchi e Perrone prima di tentare di assaltare il cielo con la casa editrice Red Star Press, che contribuisce a fondare nel 2012 e che vanta nel suo catalogo diversi libri dedicati alla Resistenza. Ha scritto fra gli altri i romanzi Rospi acidi e baci con la lingua L’amore che ho cercato, la narrativa non finzionale di Roma criminaleItalia criminaleCuori rossi La scintilla.


=== Roma, venerdì 3 marzo 2017 

alle ore 17:30 alla Casa della Memoria e della Storia, Via San Francesco di Sales 5


Presentazione del libro 

"DONBASS - i neri fili della memoria rimossa"

di Silvio Marconi


intervengono: Silvio Marconi, Giovanni Russo Spena, Davide Conti, Fabrizio De Sanctis
organizza: ANPI prov. Roma
scarica la locandina: 

Silvio Marconi 
DONBASS - I NERI FILI DELLA MEMORIA RIMOSSA
Roma: Ed. Croce, 2016

"Donbass, i neri fili della memoria rimossa" vuole essere un contributo alla rottura di una operazione di rimozione storica che si compie non solo nel caso dell'Ucraina, ma più in generale su aspetti rilevanti di vicende europee la cui eredità è tutt'altro che estinta. Grazie alla "guerra fredda", agli interessi delle élites conservatrici occidentali, alle complicità fra mandanti ed esecutori dei crimini dei nazisti e dei loro collaborazionisti e settori degli apparati istituzionali occidentali post-1945, una coltre di silenzio e mistificazione è calata su molti aspetti di quei crimini, il che ha permesso scandalose impunità e riesumazioni di personaggi assurti ad eroi. È il problema dell'Ucraina, che i media e le cancellerie occidentali fanno finta di non vedere. Importante, poi, è il fatto che spezzando quella rimozione, risulta che il caso del Donbass e del nero filo che collega i neonazisti attuali all'opera contro le genti di quella terra e i collaborazionisti ucraini dei nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, riguarda direttamente noi Italiani: in quella guerra di 70 anni fa partecipammo all'aggressione nazifascista all'URSS e occupammo per un certo periodo proprio il Donbass. Introduzione di Giovanni Russo Spena.
http://www.edizionicroce.com/libro.asp?idlibro=733

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Donbass, i neri fili della memoria rimossa


di Silvio Marconi

Sono sempre stato convinto, condividendo in questo le idee di autorevoli storici come Le Goff, Braudel, ecc., che la falsificazione e mistificazione della Storia sia stata e sia uno degli strumenti essenziali per la realizzazione delle fondamenta di qualsiasi progetto di oppressione, di aggressione, di guerra, di etnocidio, di genocidio e che, conseguentemente, lo studio ed il disvelamento non solo della realtà storica ma dei processi di sua mistificazione, dei loro autori e dei loro scopi, rappresenti un elemento imprescindibile di qualsiasi battaglia contro quei progetti disumani, se non ci si vuole affidare alla sloganistica generica, al richiamo a semplici emozioni o alla demagogia.

Quando quella mistificazione si presenta non solo e non tanto sotto la veste della aperta falsificazione (che pure è sempre componente di tale processo) ma come rimozione voluta di aspetti “scomodi” della Storia e soprattutto di quella Storia che si ama presentare come “propria”, come fondante la “propria” identità, a cui abbeverarsi per forgiare miti e realtà, comportamenti collettivi e decisioni politiche, linee educative e tendenze mediatiche, paradossalmente il danno è maggiore e più profondo perché tende a dilatarsi nei decenni e talora nei secoli, pronto a farsi alimento di qualsiasi infamia sciovinista, militarista, razzista, revisionista, di qualsiasi demagogia mobilitante, di qualsiasi banalizzazione tesa a creare confusione voluta.

Il 2 maggio 2014, i neonazisti ucraini bruciarono vive almeno 45 persone nella Casa dei Sindacati di Odessa, mentre a Kiev, nuovi leaders affermatisi grazie a quegli eventi di Maidan (in realtà un vero golpe etero diretto da ambienti NATO) in cui tali forze neonaziste erano state determinanti e che venivano presentati ciecamente dai media italiani come “rivoluzione democratica”, avevano iniziato un processo che li avrebbe portati rapidamente ad integrare quei neonazisti nelle forze armate ucraine, a rispondere alle manifestazioni di chi si opponeva alla svolta di Maidan con tanks e bombardamenti, innescando una guerra civile, a distruggere i monumenti ai caduti nella lotta contro l’invasore nazifascista del 1941-1943, ad assumere esplicitamente come riferimenti mitico-eroici i collaborazionisti ucraini dei nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Era per me chiaro, proprio sulla base delle mie analisi sui processi di rimozione e falsificazione storica ( Banditi e banditori, Manni, Lecce, 2000; Reti mediterranee, Gamberetti, Roma, 2002; Il nemico che non c’è, Dell’Albero/COME, Milano, 2006), che quel laboratorio di neonazismo in cui si stava trasformando l’Ucraina, sotto gli auspici e con la complicità dell’intero Occidente, basava il suo agire ancora una volta su quei processi di rimozione e falsificazione storica e che al tempo stesso si doveva non solo all’azione di media embedded e di settori politici UE ma anche all’azione pluridecennale di processi appartenenti a quella categoria il fatto che tale laboratorio di neonazismo era largamente sottovalutato in Italia.

Sottovalutato volutamente dagli ambienti più direttamente succubi rispetto al volere di NATO, UE, governi occidentali, ma anche, forse non volutamente, da buona parte delle forze antifasciste e democratiche, dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni culturali antirazziste, da tanti che si proclamano “rivoluzionari” o anche “innovatori” nel modo di far politica. Dietro quella sottovalutazione grave, che oltre tutto lascia e lasciava spazio a confusioni “rosso-brune” (che mascherano il volto fascista dietro l’anti-americanismo) ed a simpatie esplicitamente dimostrate verso settori dei neonazisti di Kiev da parte di esponenti di partiti italiani che si dicono “democratici” (come il PD Pittella con “Pravy Sektor”) ci fosse anche stavolta una operazione di rimozione complessa, articolata e prolungata, iniziata non nel 2014, né al momento della dissoluzione dell’URSS, ma decenni fa. Una rimozione  di molteplici aspetti storici delle vicende ucraine in generale e del loro rapporto, ancor più nascosto, con la Storia stessa del nostro Paese.

La ricerca che dal maggio 2014 al febbraio 2016 ha portato infine alla pubblicazione del mio nuovo libro Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016) si è quindi incentrata su alcuni di quegli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati, per mettere a disposizione di chi non accetta i frutti orrendi del laboratorio neonazista ucraino e del suo ruolo nelle strategie dei circoli neoliberisti occidentali più radicali strumenti di approfondimento, e quindi di lotta, posto che smascherare quelle rimozioni, analizzare quegli elementi volutamente censurati rappresenta uno degli elementi imprescindibili per opporsi alle strategie ed alle tattiche di chi ne è l’autore e li usa per realizzare, fra l’altro, quel laboratorio neonazista ucraino e non solo (si pensi alla situazione nei Paesi Baltici, in Polonia, in Turchia, ecc.).

Se si vuole collocare la realtà attuale ucraina nel suo vero contesto, innanzi tutto storico prima ancora che geopolitico, ed in rapporto con una tendenza alla costruzione sistematica della “russofobia” (così ben analizzata da Guy Mettan nel suo recentissimo Russofobia. Mille anni di diffidenza; Sandro teti editore, Roma, 2016) va prima di tutto notato che gli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati relativi all’Ucraina e specificamente alla realtà del Donbass sono molti e riguardano anche ambiti storici antichi, come il fatto che in realtà Kiev, lungi dall’essere “cuore della patria ucraina” è il luogo dove nasce nel IX secolo d.C. …il primo stato proto-russo, la Rus’ di Kiev, appunto,  cristianizzata a cavallo fra X e XI secolo dal Principe Vladimir, che il simbolo scelto dai “nazionalisti” ucraini (detto “tridente”) è in realtà un girifalco, uccello che rappresentava lo stemma araldico della famiglia del suddetto Principe Vladimir della Rus’ di Kiev  e che quella Galizia culla del “nazionalismo ucraino”, del collaborazionismo coi nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e del neonazismo ucraino attuale non solo appartiene all’Ucraina solo grazie alle annessioni all’URSS realizzate dal tanto odiato Stalin, che la sottrasse alla Polonia (ricompensata con territori ad Ovest, ex-tedeschi, dopo la sconfitta del nazismo), non solo era abitata prevalentemente da Polacchi ed Ebrei prima delle stragi che nazisti e collaborazionisti ucraini vi compirono dal 1941, ma, nella sua fase di sudditanza all’Impero Austro-ungarico, prima, ed in quella di occupazione germanica durante la Prima Guerra Mondiale, poi, fu teatro della costruzione di quel “nazionalismo” ucraino (inizialmente chiamato “ruteno”, termine che in realtà nel Medioevo significava “della Rus”, ossia…”russo”!) che nacque come strumento della cultura e della politica germano-centrica contro lo zarismo russo e sulla base delle concezioni del nazionalismo-romanticismo germanico.

Sebbene, però, questi ed altri elementi relativi alle fasi storiche fra il Medioevo e la Prima Guerra Mondiale non vadano affatto trascurati ed anzi vadano ulteriormente portati alla luce per combattere la disinformazione ed il pressappochismo e siano citati nel libro, esso si concentra su altri aspetti, più recenti e significativamente proiettati sull’oggi. In primo luogo sul ruolo dell’Italia nelle politiche di conquista, rapina e massacro di impronta germanica in quella che da poco più di 150 anni si suole chiamare “Ucraina” come parte del progetto di espansione genocida tedesca ad Est. Ruolo che trova i suoi germi concettuali e concreti addirittura in politiche italiane largamente antecedenti alla presa stessa del potere in Germania da parte del nazismo, sia relative alle pratiche coloniali di annientamento e sfruttamento (in Eritrea, in Libia, poi in Etiopia e Somalia), sia a quelle di snazionalizzazione e deculturazione delle minoranze attuate nel SudTirolo e nelle aree slovene del Friuli-Venezia Giulia dal 1919, sia allo stabilirsi di strutture italiane finalizzate allo sfruttamento economico nei territori austroungarici dopo la vittoria italiana del 1918, inclusi appunto territori galiziani.

Ruolo che si intreccia con l’ideologia antisemita ed antirussa (prima ancora che antibolscevica), della Chiesa cattolica, che del resto dopo la frattura con quella ortodossa del 1054, è motore significativo di aggressioni alla Russia ed agli Ortodossi, fin da quando papa Gregorio VII (1073-1085) promuove l’azione del feudalesimo tedesco contro le genti russe in funzione di una loro auspicata conversione forzata al Cattolicesimo, fin da quando nel 1220, con questa scusa, i Cavalieri teutonici aggrediscono la terra russa (e vi vengono battuti nel 1242 dalle forze guidate da Aleksandr nevskji), fin da quando la Chiesa cattolica patrocina “crociate” dei cattolici polacco-lituani contro gli Ortodossi russi per tutto il XIII secolo o quando, nel 1596, il regno cattolico polacco-lituano impone alla Chiesa Ortodossa delle regioni galiziano-voliniane di sottomettersi all’autorità papale (nascita del fenomeno “uniate”) o nel 1612 si spinge ad attaccare la città di Mosca.

Una pratica ideologica che continua nei secoli seguenti, con l’appoggio di vescovi cattolici (fra cui quello di Tulle nel 1854 che dichiara relativamente agli Ortodossi russi: “vi sono uomini che rispondono al nome di cristiani più pericolosi per la Chiesa che i pagani stessi) e dell’arcivescovo di Parigi Sibourg (che la definisce “guerra contro l’eresia ortodossa”) alla Guerra di Crimea contro la Russia e si proietta fino alle “apparizioni di Fatima” in cui la madonna chiederebbe la “conversione della Russia” (mesi prima che avvenga la Rivoluzione bolscevica!!!) e prende vigore dal 1918 nella campagna contro il bolscevismo definito sì ateo ma spesso anche “giudeo” (identificazione che sarà cara ai nazisti….).

Ruolo che, però, trova la sua massima e piena realizzazione col e nel fascismo, ancora una volta sia sul piano teorico che pratico, fino a fare da base alla realtà della partecipazione italiana alla guerra hitleriana di aggressione all’URSS, con uno specifico ruolo proprio in Ucraina.

Su questo piano sono molti i miti da sfatare e lo si può fare, se solo lo si vuole, agevolmente, se si interconnettono a rete elementi contenuti in studi realizzati da Del Boca, Conti, Focardi, Oliva, Pisanty, Rochat e soprattutto Schlemmer e li si arricchiscono di analisi comparate (come si è cercato di fare nel mio testo) con frammenti di verità conservati in quel che resta nell’Archivio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito italiano (al netto delle depredazioni angloamericane e soprattutto di un “provvidenziale” incendio di parte cospicua dei documenti avvenuto il 23 aprile 1945….), con contraddizioni palesi fra schegge di memoria contenute in testi diversi di reduci italiani della Campagna di Russia, a partire da quello del comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), generale Messe, e con altro materiale reperibile da varie fonti.

Il primo mito da sfatare è quello che l’Italia fu trascinata nella Campagna di Russia da Hitler. In realtà Hitler preferiva vedere l’Italia concentrarsi sul fronte africano e fu Mussolini che ripetutamente ed insistentemente chiese di poter far partecipare truppe italiane all’aggressione all’URSS, con due scopi dichiarati: avere un ruolo nella “crociata antibolscevica” ed ottenere territori e risorse da sfruttare. Scopi che già esplicitano che la partecipazione italiana aveva caratteristiche di fondo non diverse da quelle naziste, perché l’intervento italiano si configura sia come “guerra ideologica” che come “guerra di rapina” e porta con sé in entrambi gli aspetti la necessità evidente di praticare una strategia di massacro ed affama mento.

Il secondo mito da sfatare è quello di una massa di soldati ed ufficiali italiani gettati nella carneficina del fronte orientale senza convinzione e senza concezioni radicali; lettere, testimonianze, memorie confermano invece che l’ideologia nazista del Mein Kampf  (testo largamente diffuso negli ambienti colti e soprattutto giovanili italiani da cui proveniva la maggioranza degli ufficiali) era ampiamente nota ed accettata, che gerarchie ecclesiastiche e parroci di campagna “caricarono” i soldati di un senso sacrale della lotta contro il “bolscevismo ateo”, che l’antisemitismo diffuso dal 1938 attraverso una panoplia di strumenti mediatici aveva largamente attecchito e che erano condivise (anche dallo stesso Messe) concezioni care ai nazisti che ebbero traduzione pratica in ordini e pratiche di massacro, come quella che identificava “boslcevichi” ed “ebrei”, destinandoli alla eliminazione.

Il terzo mito da sfatare, collegato al secondo, è quello degli “Italiani brava gente”, ossia di una contrapposizione fra i “cattivi tedeschi” ed i “buoni italiani”, che in realtà è significativamente una estensione della menzogna tedesca che contrapponeva e per decenni ha contrapposto i “cattivi SS” ai “buoni soldati della Wehrmacht”. In realtà, certamente i gruppi speciali di sterminatori (einsatzgruppen) e le SS commisero sul fronte orientale e soprattutto in URSS crimini insuperabili per orrore e quantità, ma la Wehrmacht non fu affatto “innocente”, partecipando attivamente ai massacri di Ebrei, partigiani, comunisti, civili in genere, alle deportazioni e schiavizzazioni di massa, alle rapine e distruzioni sistematiche, all’annientamento per fame dei prigionieri di guerra. Le truppe italiane (e non solo i reparti di camicie nere come la Legione Tagliamento) non si resero responsabili di una quantità e qualità di crimini equiparabile a quelli tedeschi ma presentarli in massa come “brava gente” è una menzogna densa di conseguenze. I reparti italiani, che operarono in Russia sempre sotto il comando tedesco, erano reduci da crimini di guerra terribili in Etiopia (e in Libia prima ancora del fascismo!), in Grecia, in Albania e soprattutto in Yugoslavia; in URSS parteciparono ai rastrellamenti, crearono campi di concentramento per prigionieri di guerra (affamandoli), consegnarono ai tedeschi per destinarli a sicura morte partigiani, comunisti, Ebrei, civili rastrellati, praticarono distruzioni e rappresaglie e se non poterono rapinare su vasta scala (ed usare come programmato le risorse agricole ucraine per sfamare gli Italiani e migliaia di prigionieri russi per le miniere sarde) è solo perché i tedeschi non vollero spartire il bottino  e la rapina con gli Italiani e questi ultimi furono costretti a servirsi solo….dei pacchi da inviare a casa (volutamente aumentati di peso….).

Truppe, ufficiali italiani, perfino la Polizia Politica fascista erano a conoscenza dei crimini enormi che i nazisti commettevano, con l’appoggio dei collaborazionisti locali, ma non vi fu una reazione istituzionale di alcun tipo e si proseguì tranquillamente a cooperare con gli autori e garantire condizioni perché molti di quei crimini avvenissero.

Da tante lettere di semplici soldati, sottufficiali ed ufficiali italiani impegnati sul fronte russo 8e specificamente, per tanti mesi, proprio in Ucraina) emerge entusismo nella partecipazione ad una “impresa” che viene vissuta come “crociata contro il bolscevismo ateo”, come “campagna per portare la superiore civiltà romana ai barbari delle steppe russe”, come “lotta alle sanguisughe giudee”.

Per non parlare della “cameratesca” complicità durante l’invasione nazifascista all’URSS fra reparti nazisti e reparti maggiormente ideologizzati delle truppe italiane, come quella X MAS che fu di stanza a Mariupol o della Legione Tagliamento, i cui superstiti dopo la ritirata dalla Russia formarono il nerbo dell’omonimo reparto repubblichino che si distinse dopo l’8 settembre 1943 nella repressione antipartigiana, nelle stragi in Italia.

L’altro aspetto affrontato nel libro è il ruolo dei collaborazionisti ucraini in rapporto sia coi Tedeschi che con gli Italiani. Anche qui ci sono miti da sfatare, tanto più gravi in quanto sono oggi rilanciati ufficialmente dalla giunta oligarco-fascista di Kiev, primo fra i quali il considerare tali collaborazionisti come “nazionalisti ucraini”. Erano invece tanto poco veri “nazionalisti” che non evitarono né di essere arruolati a migliaia come guardiani dei lager nazisti, operando nei centri polacchi di Sobibor, Treblinka, Majdanek, ecc. ma perfino nella Risiera di San Sabba a Trieste, né di combattere al servizio dei nazisti in aree che nulla avevano a che vedere con l’Ucraina, come la Slovacchia o l’Italia settentrionale.

Erano soprattutto autori di crimini in questo caso assolutamente equiparabili a quelli nazisti, sia in termini di crudeltà degli aguzzini che di stragi di massa di Ebrei, Polacchi (oltre 200.000 trucidati solo in Galizia e Volinia dai collaborazionisti ucraini), prigionieri sovietici, partigiani, civili sospettati di aiutarli, sia di rapina ai danni delle vittime e dei propri concittadini. Anche in questo caso, un aspetto volutamente dimenticato è che vi fu organica cooperazione di simili bande di criminali anche con le truppe italiane, in particolare proprio nel Donbass, visto che esso fu il teatro di impiego del CSIR nel 1941 (mentre quando gli Italiani estesero la partecipazione e crearono un’armata, l’ARMIR, nel 1942 essa venne schierata sul Don) e che Stalino (l’attuale Donetsk) era la sede del Comando Italiano, oltre che uno dei luoghi di deportazione ancora nel 1942-43 in lager per prigionieri di guerra sovietici gestiti da Italiani e che di stragi efferate di migliaia di civili compiute dai nazisti.

Si arriva perfino al paradosso che gli attestati di “benemerenza” da parte di criminali collaborazionisti ucraini verso ufficiali italiani vengono usati nel dopoguerra per inventare un rapporto positivo di alcuni di costoro (accusati dai Sovietici di crimini di guerra e mai processati in Italia) con l’insieme della popolazione locale, mentre si nascondono i propositi di ufficiali italiani (come il col. Piccinini) che propongono lo sgombero totale della popolazione da località del Donbass come Rykovo perché “infestata da bolscevichi”!

Ancora, alla fine della guerra, se tante decine di migliaia di collaborazionisti ucraini dei nazisti, compresi i membri della famigerata XIV Divisione SS “Galizien”, riusciranno a sfuggire alla giusta punizione sovietica arrendendosi agli Angloamericani e verranno perfino fatti emigrare in Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada, ciò avviene con la complicità sia di esponenti anticomunisti come il generale polacco Anders (che certifica falsamente la cittadinanza polacca di tutti i membri di quella divisione), sia di ambienti vaticani e di conventi in territorio italiano. Saranno quei collaborazionisti che nella “diaspora”, per decenni, durante la Guerra Fredda, alleveranno figli e nipoti ai disvalori, ai simboli, ai riti del collaborazionismo, della russofobia, del nazismo, forniranno reclute alla rete di spie e sabotatori occidentali contro l’URSS che vedeva nella sua leadership l’ex-capo dei servizi segreti nazisti sul fronte orientale, Gehlen, daranno vita, dopo la dissoluzione elstiniana dell’URSS, ai nuclei dei movimenti di destra radicale nell’Ucraina diventata indipendente ed i cui confini, tanto “sacri” per chi si definisce “nazionalista” e pratica lo sport della russofobia, includono territori che proprio l’URSS dell’aborrito Stalin aggregò all’Ucraina sottraendoli a Polonia, Slovacchia e Ungheria!

Solo se si ricostruisce questa trama storica, di cui si è dato in questa sede qualche cenno, si può, allora, comprendere cosa sta avvenendo in Ucraina in questi ultimi anni. Non è un caso se la NATO ha scelto l’Ucraina, ed in diversa misura Paesi Baltici in cui si negano i diritti civili a chi è discendente di Russi, si distruggono i monumenti antinazisti, si esaltano come eroi anche in questo caso i collaborazionisti dei nazisti (co-autori anche in quelle terre di stragi di Ebrei, Russi e prigionieri sovietici…), come laboratorio principale per riattivare su larga scala quella russofobia criminale che fu una delle molle non solo del fascismo, dell’hitlerismo, dei suoi collaborazionisti orientali (baltici, ucraini, croati, ecc.) e di tanti regimi fascisteggianti europei (da quello stesso polacco a quello ungherese, ad esempio) ma per decenni delle cosiddette “democrazie occidentali” pre-Seconda Guerra Mondiale, da quella britannica a quella statunitense.

Una russofobia che, come si è detto, affonda nella Storia, anch’essa, ben al di là dello stesso antibolscevismo e dello stesso atteggiamento della Chiesa cattolica ed ha esempi lampanti quali il disprezzo di Voltaire e quello di Napoleone per quelli che definiva assieme “tartari” e “barbari del Nord” e che si intreccia ovviamente, dalla Rivoluzione di Ottobre in poi, con l’odio assoluto verso il Paese reo di aver portato a compimento la prima costruzione di un esperimento sociale non asservito alla logica del capitale occidentale.

A quella russofobia di sfondo, fa riscontro, dalla fase in cui fascismo e poi più ancora nazismo furono scelti dal capitale internazionale (inclusi settori di quello USA, come Ford) come strumenti di distruzione delle velleità di giustizia sociale redistributiva del proletariato europeo, appunto l’uso del nazifascismo come strumento estremo per imporre la volontà del capitale monopolistico, ieri, globalizzato, oggi, anche a costo di vedersi sfuggire di mano quegli strumenti esattamente come accade in altro modo e per altro verso con gli integralismi religiosi estremistici (alimentati in passato contro i nazionalismi laici e marxisteggianti o, ancora una volta, contro la vecchia URSS) e vederseli trasformare in soggetti autonomi capaci di mordere anche la mano di chi li ha allevati, come già avvenne negli anni ’30 proprio con fascismo e nazismo.

Se, quindi, in Ucraina come altrove (ma con le debite differenze da non sottovalutare) la rete dei fili neri della ragnatela dell’oppressione pseudo-nazionalista, sciovinista, fascista, intrisa di mistificazione storica, affonda le sue radici perfino in lontani passati proto-borghesi, come ci insegnava Gramsci parlando del Risorgimento italiano, dinanzi ad essa, ai ragni che la tessono, alle conseguenze nefaste che ne scaturiscono non ha senso domandarsi quale livello di affidabilità rivoluzionaria, quale dose di progettualità socialisteggiante, quale tasso di eredità classista abbiano le forze che ad essa si oppongono, fermo restando ogni rifiuto indispensabile di qualsiasi contaminazione “rosso-bruna”. Chi si opponeva ieri all’invasione ed alle rapine di Napoleone (anche quando era perfino più retrogrado dello stesso Napoleone, ma difendeva la sua terra), chi si è opposto all’orrore nazifascista (si trattasse di un liberale britannico convertitosi per necessità all’antifascismo o di un bolscevico russo convertitosi all’alleanza con i “capitalisti” inglesi per altrettanta necessità, di un ufficiale sovietico recuperato dal fondo di un gulag staliniano o di un ufficiale monarchico italiano pronto a non tradire i suoi compagni di lotta comunisti sotto le torture a Via Tasso, di un minatore del Donbass sabotatore della produzione asservita ai Tedeschi o di un resistente gaullista francese, ecc.), chi si oppone oggi ai nuovi laboratori in cui quell’orrore si vuole riprodurre (si tratti di un miliziano cosacco del Donbass o di un antifascista milanese, di un antinazista tedesco o di un comunista ucraino costretto alla illegalità, di un aderente all’ANPI di Roma o di un Polacco che scende in piazza contro il regime, di un Siriano che si batte contro l’ISIS foraggiata dal fascista Erdogan o di un pilota russo che lo appoggia, ecc.) e non si fa adescare da fascisti e razzisti, antisemiti e provocatori mascherati da “antiamericani” e perfino da “filoputiniani” fa storicamente parte della risposta necessaria a quella ragnatela: una rete del colore del sangue che affermava, afferma ed affermerà che la memoria non si deve rimuovere e la lotta prosegue, in forme sempre diverse, contro lo stesso orrore di sempre.

Silvio Marconi, 9 luglio 2016



(srpskohrvatski / italiano)

N.B. Tra le forze politiche comuniste esistenti nell'area jugoslava, il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) è quella che segue la tradizione "filosovietica", da cui la Jugoslavia di Tito si allontanò nel 1948, come è esplicitato al termine della intervista che riportiamo di seguito. Per una più ampia panoramica delle formazioni comuniste in Serbia e nelle altre repubbliche ex-federate rimandiamo alla nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/politica.htm

Isto pogledaj / guarda anche:

25 GODINA SKOJ-a Svečana Akademija
Svečana akademija povodom 25 godina od obnove SKOJ-a – http://www.skoj.org.rs/
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=zTaXeiBJYjI

Zeljko Veselinović, coordinatore del sindacato SLOGA (federato alla Federazione Sindacale Mondiale / FSM) e candidato alle elezioni della presidenza della Serbia per la lista "IL LAVORATORE NON È MERCE", interviene di fronte alla platea dell'organizzazione giovanile del Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia. Dietro di lui, tra le altre, la bandiera della RFSJ. L'iniziativa si è aperta con il canto dell'inno jugoslavo "Hej Slaveni":

Veselinović: Srbiju treba vratiti u vreme kada su radnici bili gospoda
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=KLb-cBt58yU
Svecana akademija SKOJA
VIDEO: https://www.facebook.com/joint.unionsserbianunity/videos/1221907344553401/

Веселиновић: Србију треба вратити у време када су радници били господа
REPORT: http://sloga.org.rs/veselinovic-srbiju-treba-vratiti-u-vreme-kada-su-radnici-bili-gospoda/

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www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 13-02-17 - n. 620

NKPJ: La nostra tradizione poggia sull'internazionalismo proletario

International Communist Press (ICP) | sol.org.tr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Speciale intervista della International Communist Press con Aleksandar Banjanac, Segretario Generale del Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ)

13/02/2017

ICP: Di recente assistiamo alla riproduzione di forme di nazionalismo serbo. Il Partito Radicale Serbo del criminale di guerra Vojislav Seselj ha ottenuto 22 seggi alle ultime elezioni parlamentari. Dall'altra parte, il governo della Serbia ha cercato di ripristinare l'onorabilità di collaboratori nazisti quali Milan Nedic. Il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) ha avviato una serie di proteste per resistere a questi tentativi e per contrastare l'esistenza di organizzazioni fasciste nelle università. In che modo il vostro Partito intende continuare l'azione anti-nazionalista?

Aleksandar Banjanac: Dalla creazione del nostro Partito in poi, ci siamo sempre opposti a ogni forma di sciovinismo, fascismo e discriminazione.
In Serbia, così come nelle repubbliche post-jugoslave, il nazionalismo è stata l'ideologia che ha legittimato le classi dirigenti e gli obiettivi imperialisti. Questa idea ha diviso la classe operaia su base etnica, portandola a un crollo sociale e materiale. Inoltre, ha aperto la strada alla restaurazione dell'onorabilità di collaborazionisti nazisti e del revisionismo.
Noi cerchiamo sempre di disvelare e mostrare il terreno su cui attecchisce il nazionalismo. Abbiamo sostenuto la nostra posizione nelle proteste contro la restaurazione dell'onorabilità di nemici pubblici vissuti ai tempi della seconda guerra mondiale. Presentiamo questa posizione nel nostro programma di Partito, nei nostri comunicati, nelle discussioni pubbliche e nelle riunioni di partito.

ICP: Durante quest'anno si svolgeranno probabilmente in Serbia le elezioni presidenziali e forse quelle parlamentari. Quale sarà la posizione di NKPJ?

Aleksandar Banjanac: Il Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia mostrerà una posizione organizzata, presentando il presidente del sindacato "Sloga", compagno Željka Veselinović, come candidato. Sloga è l'unico sindacato affiliato alla Federazione sindacale mondiale, FSM-WFTU, in Serbia. Prima delle elezioni verrà presentato un programma elettorale articolato in dieci punti. Tra i nostri bersagli presi di mira nei dieci punti: le collaborazioni con il FMI, la Banca Mondiale, la UE e la NATO, così come le politiche di privatizzazione e le politiche nazionaliste. E' ancora prematuro parlare di elezioni parlamentari.
Il sistema elettorale della Serbia non consente parità di condizioni per i partecipanti. Senza una copertura finanziaria sufficiente, si incontrano problemi; grazie alla collaborazione con Sloga ci auguriamo di superare l'ostacolo.
Ci aspettiamo un salto di qualità in nome della classe operaia nelle elezioni e anche il creare delle forme organizzative più forti tra i nostri membri e alleati.

ICP: Pochi giorni fa, un treno che viaggiava sulla linea ferroviaria da poco ristabilita tra Belgrado e Mitrovica nel Kosovo, è stato fermato dai funzionari kosovari a causa dello slogan scritto sui convogli in 21 lingue: "Kosovo è Serbia", cosa che ha causato una nuova crisi politica. Quali sono le vostre previsioni sull'evoluzione del clima politico sul Kosovo?

AB: La "Repubblica del Kosovo" è una base NATO proprio nel centro dei Balcani. I discorsi sul "Kosovo indipendente" sono il risultato della guerra espansionista, di occupazione e di intervento contro la Repubblica Socialista della Jugoslavia da parte delle forze NATO nel 1999.
Allo stesso tempo, questo intervento significa l'occupazione del Kosovo e Metohija, che è una regione di importanza strategica. D'altra parte, i Balcani sono sotto il controllo delle forze Usa da così tanto tempo. Una delle più grandi basi americane in questa regione è "Bondstil", situata in Uroševca, Kosovo. Di recente sono emerse sulla stampa prove dell'esistenza di una prigione di guerra all'interno della base. In altre parole, possiamo parlare della Guantanamo europea. Inoltre, è previsto un nuovo aiuto militare da parte del governo di Trump in Kosovo.
Entrambi i governi di Kosovo e Belgrado sono asserviti alla NATO in egual misura. Il fatto del treno, orchestrato dal governo serbo, era pura propaganda pre-elettorale. Allo stesso tempo, vale come graduale riconoscimento del Kosovo da parte del governo, che è diretto dall'imperialismo occidentale. La situazione attuale può solo surriscaldare il nazionalismo serbo e quello albanese a discapito dei serbi in Kosovo. Queste attività non sono utili a nessuno, tranne che a loro. Si dimostrano le incapacità dei rispettivi governi.
L'occupazione imperialista deve volgere al termine. Sostenere la pace e la realizzazione della solidarietà tra i popoli albanesi e serbi non è utile alla NATO. Entrambe le parti sono vittime della NATO. I popoli dei Balcani saranno in grado di determinare il proprio futuro solo se i Balcani gli apparterranno.

ICP: La posizione della Russia in Ucraina ha portato la UE a levare delle sanzioni contro la Russia. Allo stesso tempo la Russia ha annunciato la realizzazione di un gasdotto turco, un progetto che include la Serbia nel suo percorso. Poco dopo, il presidente russo Vladimir Putin ha visitato Belgrado, con la rivista della parata militare congiunta degli eserciti russo e serbo. Il governo della Serbia è stato criticato di mostrare un eccesso di senso pratico nel processo di negoziazione in corso sul lato opposto, con l'UE. Qual è il vostro commento sulla posizione del governo serbo riguardo a queste relazioni?

AB: Sì, il governo della Serbia ha mostrato un atteggiamento "pragmatico", sostenendo le bande fasciste e l'illegittimo Presidente Poroshenko, mentre negoziava con la Russia. Anche l'Unione europea è stata criticata per non premere abbastanza sulla Serbia. Questa è chiaramente una prova del predominio della UE sul governo.
Subito dopo la visita di Putin a Belgrado e la parata militare, il governo è stato costretto a rendere una dichiarazione alla NATO, rendendo noti accordi coperti. Questi accordi forniscono una serie di priorità alla NATO in entrambi i campi militari e civili. In uno stato di guerra, dovremo dare il controllo delle nostre basi, ospedali e aeroporti alla NATO.
Non abbiamo bisogno di un tale pragmatismo. Uno dei nostri modi di dire, recita: "se non nutri il tuo esercito, nutri un altro esercito".

ICP: Qualche tempo fa, il NKPJ ha tenuto il suo congresso. Una delle decisioni più importanti prese nel congresso è stata l'obiettivo del ringiovanimento, scommettendo sulla vostra organizzazione giovanile, SKOJ. Qual è l'obiettivo atteso in NKPJ per questa transizione?

AB: L'obiettivo di svecchiamento era un progetto pianificato da molti anni. Si è concretizzato nel nostro V Congresso straordinario. Sono stato eletto come nuovo Segretario generale del nostro Partito nello stesso Congresso e la mia età non supera ancora i 34 anni. Abbiamo anche compagni più giovani nella Segreteria, nell'Ufficio politico e nel Comitato centrale. Siamo uno dei rari partiti nella regione con una così giovane dirigenza.
Nonostante tutte le difficoltà e le limitazioni, puntiamo a realizzare un potente partito dei lavoratori. Abbiamo bisogno di un NKPJ che sia in grado di rispondere alle esigenze dei lavoratori. Abbiamo bisogno di organizzare i giovani e indurli a staccarsi dal sistema di sfruttamento e a considerare il socialismo non come un periodo nostalgico ma come unica alternativa contro il capitalismo. Finché il NKPJ si basa sui giovani, i giovani si baseranno sul partito.

ICP: Perché considerate la Jugoslavia, oggi divisa in molti stati diversi, come scala politica, invece che la Serbia?

AB: Prima di tutto, anche se la Jugoslavia è divisa in più parti, anche se manipolata e le sue risorse sono sottratte, noi non pensiamo che abbia perso il suo significato storico.
Siamo l'unico partito che affronta la questione nazionale con l'identità jugoslava. Abbiamo la volontà di risolvere questo problema attraverso la ridefinizione di tutti i popoli nella regione nel suo complesso. Un altro problema passato, era l'esistenza di confini interni dentro la Jugoslavia. E' stato uno dei motivi principali della guerra che si è verificato subito dopo la dissoluzione.
Inoltre, è evidente che dal '90 la pace non è stata stabilita nella regione. Frizioni tra i popoli e i governi dei paesi della ex Jugoslavia, spesso si surriscaldano.
L'intervento dell'imperialismo occidentale divide il nostro Paese in termini economici, militari, nazionali, sociali ed educativi. Dopo lo scioglimento, hanno anche esportato le loro politiche per i nuovi governi.
Usando il termine di Jugoslavia, noi presentiamo la sua effettiva legittimità. Oltre ad utilizzare questo termine, denunciamo l'occupazione della NATO. Insistiamo sul fatto che tutte le forze progressiste devono mostrare una posizione congiunta contro questa occupazione.
Persone che ancora oggi si definiscono con l'identità jugoslava, esistono. Esse condannano il clima politico attuale e danno il loro sostegno al nostro Partito.

ICP: Il vostro Partito ha una posizione diversa dalla Lega dei comunisti della Jugoslavia rispetto l'URSS e l'ideale del socialismo. Qual è l'eredità per il NKPJ?

AB: Giusto, abbiamo una posizione molto diversa dalla Lega dei comunisti della Jugoslavia. Questa presa di posizione poggia principalmente su principi riguardanti la costruzione del socialismo.
Poiché abbiamo fatto nostra la posizione del Partito Comunista di Jugoslavia, diciamo che la Lega dei Comunisti, istituita dopo il 1948, cambiando il nome del Partito, è stata una mutazione opportunista e revisionista, che ha voltato le spalle al movimento comunista internazionale.
Dopo il XX Congresso, anche in URSS si è avviato un periodo revisionista. Tuttavia, allo stesso tempo, hanno mostrato un'opposizione realistica contro l'imperialismo durante la Guerra Fredda. La Jugoslavia ha scelto di rimanere neutrale in questa guerra di classe. Come dice Lenin, ogni terza via respinge la seconda. Così la terza via jugoslava ha rifiutato di opporsi alla principale questione: quindi, la Jugoslavia di Tito ha diretto il movimento dei Non Allineati. Da questa posizione, la Jugoslavia si è allineata all'imperialismo e ha istituito la "piccola NATO", collaborando con la Turchia e la Grecia negli anni '50.
Tito e i quadri di Partito avevano organizzato la guerra di sovranità nazionale, eroicamente e trionfando con una rivoluzione. Il ruolo di Tito in questo periodo storico non può essere svalutato. Ma, purtroppo, non sostennero la rivoluzione che avevano stabilito. Al contrario, hanno giocato il ruolo di "cavallo di Troia" all'interno del movimento comunista internazionale e si sono diretti verso la restaurazione del capitalismo.
La nostra tradizione si basa sul Partito socialdemocratico e successori: il Partito Comunista di Jugoslavia, che ha sostenuto le rivendicazioni dell'internazionalismo proletario, la III Internazionale, il Cominform e il socialismo scientifico fino al 1948.




L’arte della guerra
Il Libro (del golpe) Bianco 

Manlio Dinucci
  
Mentre i riflettori mediatici erano puntati su Sanremo, dove si è esibita anche la ministra della Difesa Roberta Pinotti cantando le lodi delle missioni militari che «riportano la pace», il Consiglio dei ministri ha approvato il 10 febbraio il disegno di legge che consentirà l’implementazione del «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, delegando al governo «la revisione del modello operativo delle Forze armate». 

Revisione, in senso «migliorativo», di quello attuato nelle guerre cui l’Italia ha partecipato dal 1991, violando la propria Costituzione. Dopo essere passato per 25 anni da un governo all’altro, con la complicità di un parlamento quasi del tutto acconsenziente o inerte che non lo mai discusso in quanto tale, ora sta per diventare legge dello Stato. Un golpe bianco, che sta passando sotto silenzio. 

Alle Forze armate vengono assegnate quattro missioni, che stravolgono completamente la Costituzione. La difesa della Patria stabilita dall’Art. 52 viene riformulata, nella prima missione, quale difesa degli «
interessi vitali del Paese». Da qui la seconda missione: «contributo alla difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese»

Il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, stabilito dall’Art. 11, viene sostituito nella terza missione dalla  
«gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento, al fine di garantire la pace e la legalità internazionale»

Il Libro Bianco demolisce in tal modo i pilastri costituzionali della Repubblica italiana, che viene riconfigurata quale potenza che si arroga il diritto di intervenire militarmente nelle aree prospicienti il Mediterraneo – Nordafrica, Medioriente, Balcani – a sostegno dei propri interessi economici e strategici, e , al di fuori di tali aree, ovunque nel mondo siano in gioco gli interessi dell’Occidente rappresentati dalla Nato sotto comando degli Stati uniti. 

Funzionale a tutto questo è la Legge quadro entrata in vigore nel 2016, che istituzionalizza le missioni militari all’estero, costituendo per il loro finanziamento un fondo specifico presso il Ministero dell’economia e delle finanze. 

Infine, come quarta missione, si affida alle Forze armate sul piano interno la «salvaguardia delle libere istituzioni», con «compiti specifici in casi di straordinaria necessità ed urgenza», formula vaga che si presta a misure autoritarie e a strategie eversive. 

Il nuovo modello accresce fortemente i poteri del Capo di stato maggiore della difesa anche sotto il profilo tecnico-amministrativo e, allo stesso tempo, apre le porte delle Forze armate a «dirigenti provenienti dal settore privato» che potranno 
ricoprire gli incarichi di Segretario generale, responsabile dell’area tecnico-amministrativa della Difesa, e di Direttore nazionale degli armamenti. Incarichi chiave che permetteranno ai potenti gruppi dell’industria militare di entrare con funzioni dirigenti nelle Forze armate e di pilotarle secondo i loro interessi legati alla guerra. 

L’industria militare viene definita nel Libro Bianco 
«pilastro del Sistema Paese» poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati». 

Non resta che riscrivere l’Art. 1 della Costituzione, precisando che la nostra è una repubblica, un tempo democratica, fondata sul lavoro dell’industria bellica.
 
(il manifesto, 14 febbraio 2017)   

Il giorno 02 feb 2017, alle ore 18:50, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:


Il velo “umanitario” sulle missioni militari all’estero va strappato


di Sergio Cararo

Il vice presidente della Commissione Difesa, on. Massimo Artini (ex M5S), ha replicato con un lungo e articolato commento al nostro articolo di venerdi – ovviamente e fortemente critico – verso la legge approvata a luglio 2016 ed entrata in vigore il 31 dicembre 2016. Ci contesta una lettura negativa di un impianto legislativo a suo dire positivo. A noi così non sembra affatto, e non sembra esserlo stato neanche per 41 senatori che si sono astenuti o votato direttamente contro (al Senato l'astensione vale come voto contrario, ndr).

La legge quadro sulle missioni militari all'estero, infatti è stata approvata al Senato con 194 sì, un no e 40 astenuti, tra questi ultimi i senatori del M5S e alcuni del gruppo misto. Il voto contrario alla legge e' stato della senatrice Paola De Pin (anche lei ex M5S).

La legge disciplina (art. 1) «la partecipazione delle forze armate, delle forze di polizia … e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene» (in particolare, come ben si comprende, la NATO e la Ue), toglie (art. 2) al Parlamento, che può intervenire solo con generici “atti d'indirizzo”, la facoltà di approvare o respingere, in modo vincolante, le missioni militari, e dà, viceversa, al Governo (art. 2 e art. 3), pieni poteri nella realizzazione e nella conduzione delle missioni di guerra del nostro Paese. 

All'apparenza la Legge prevede che la decisione di spedire militari in teatri di guerra adottata dal governo, vada inviata al Parlamento, il quale con appropriati atti di indirizzo, può dare luce verde o meno alla missione. Tale autorizzazione può essere sottoposta a condizioni. Dal momento che si è in presenza del totale coinvolgimento dei due rami del Parlamento, se non venisse dato l’assenso dai deputati e senatori, la missione internazionale non si potrebbe realizzare. Probabilmente, su questo impianto, a luglio 2016, quando la legge è stata approvata, il governo già riteneva che il Senato non ci sarebbe più stato in base alla controriforma costituzionale che il paese ha respinto a maggioranza il 4 dicembre con il referendum. Avevano insomma fatto i conti senza l'oste e venduto la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.

Un risultato è stato comunque raggiunto dal governo. Le missioni militari all'estero non dovranno essere rinnovate (anche economicamente) ogni sei mesi ma saranno una decisione strategica che può essere revocata solo con un atto politico del governo. Nè ci sembra che la gravità della Legge sulle missioni militari possa essere attenuata da una delle operazioni più insidiose che abbiamo denunciato negli anni scorsi: i cosiddetti Corpi civili di pace che potranno affiancare le missioni militari vere e proprie. Su questo vedi un articolo pubblicato tempo addietro.

E' una lettura catastrofista e pregiudiziale della legge? Per dimostrare che su questo pesano e fanno la differenza i presupposti di partenza, è interessante vedere come invece i “laboratori” legati agli apparati di potere hanno dato la loro lettura delle legge stessa.

Ad esempio secondo la fondazione Astrid:“La legge quadro in questo senso costituisce un vero e proprio salto di qualità nella governance della nostra politica estera e di difesa”. Prendiamo ancora a prestito le valutazioni positive espresse dall'Astrid che, come noi coglie il dato secondo cui questa legge cerca di sanare le molteplici contraddizioni manifestatesi nella politica militare italiana dalla prima guerra del Golfo nel 1991. “L’importanza della cooperazione internazionale nelle missioni di peace-keeping, peace-making e peace-enforcement si è andata affermando soprattutto negli ultimi venti anni. Lo spartiacque può essere considerato la prima guerra del Golfo chevide operare, sotto l’egida di una risoluzione Onu, una coalizione di 34 nazioni, tra cui l’Italia, guidata dagli Stati Uniti”. Non solo. Lo stesso think thank ammette che quelle contraddizioni andavano sanate con un apparato legislativo che adeguasse la proiezione militare dell'Italia al nuovo scenario nelle relazioni internazionali: “Da allora, a causa di contesti internazionali sempre più complessi e di vincoli costituzionali molto stringenti, tale paradigma cooperativo si è rapidamente imposto come la principale modalità di intervento delle nostre Forze armate all’estero. Di fronte al moltiplicarsi degli eventi che hanno richiesto una partecipazione dell’Italia a missioni internazionali si è dunque reso necessario il rinnovamento di un quadro normativo che rimaneva troppo legato alle logiche rigide e bipolari della guerra fredda”.

L'on. Artini, di cui apprezziamo l'attenzione per il nostro articolo, ragiona su un presupposto diverso e distante dal nostro. In questa legge vede una razionalizzazione dell'impianto legislativo sulle missioni militari all'estero, noi ci siamo battuti sistematicamente contro l'idea e le decisioni di partecipare alle missioni militari italiane nei teatri di guerra. Perchè di questo si è trattato. Adesso ci sono 300 militari in Libia “per proteggere la costruzione di un ospedale a Misurata” e 1300 militari in Iraq “per proteggere la ristrutturazione della diga a Mosul”. Tremiamo all'idea che una azienda italiana vinca l'appalto per la costruzione di una autostrada in Siria o in qualche altro paese in guerra.

Negli anni scorsi, la cortina fumogena “umanitaria” in Jugoslavia, Libia, ha nascosto orrori e decisioni politicamente vergognose dei nostri governi. Quella poi dell'intervento militare in Afghanistan e Iraq è quanto ha somigliato di più ad una partecipazione vera e propria ad una guerra di aggressione ad altri Stati. E su questo non c'è alcuna mediazione possibile, né in parlamento né fuori. Su questo presupposto, e proprio per questo, abbiamo fatto a sportellate e poi rotto con i senatori e i deputati della sinistra al tempo del secondo governo Prodi. Purtroppo e per fortuna abbiamo buona memoria e senso della coerenza.

18 gennaio 2017



Il giorno 13 gen 2017, alle ore 18:00, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:

http://contropiano.org/news/politica-news/2017/01/13/litalia-si-dota-della-legge-la-guerra-087877

L’Italia si dota della Legge per la guerra


di Sergio Cararo

Piuttosto in sordina, il 31 dicembre scorso è entrata in vigore la Legge quadro sulle missioni militari all'estero. La legge era già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale fin dal 1̊ agosto; ma ne era stata rimandata l'attuazione a fine anno, tranne che per la disposizione all'integrazione del Copasir, cioè dell'organismo di controllo sulle attività dei servizi segreti (venuto fuori come problema in occasione delle “missioni coperte” in Libia), anche se valido solo per la legislatura in corso.
L'Italia si è così dotata di una legge organica dello Stato per l'invio di contingenti militari all'estero che dovrebbe azzerare le contraddizioni di incostituzionalità sul ricorso alle azioni militari contro, verso o in altri paesi vincolate al rispetto dell'art.11. Infatti il nostro ordinamento fino ad oggi prevedeva solo la disciplina della "guerra". Ma lo stato di guerra deve essere deliberato dalle Camere, che conferiscono al Governo i poteri necessari (art. 78 Cost.), mentre la dichiarazione di guerra è prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87, 9° comma). ll tutto nei limiti sanciti dall'art. 11 Cost., che vieta la guerra di aggressione e consente l'uso della violenza bellica solo in ipotesi ben determinate (la difesa).
La storia di questi ultimi venticinque anni, con numerose operazioni militari all'estero e il coinvolgimento dell'Italia in teatri di guerra (Iraq, Afghanistan, Jugoslavia ma anche Somalia, Libano etc.), ha reso inevitabile una legge organica che legittimasse sul piano legale la partecipazione dei militari italiani a guerre e operazioni militari in altri paesi.
La Legge individua la tipologia di missioni, i principi generali da osservare e detta disposizioni circa il procedimento da seguire. La newsletter Affari Internazionali ne offre una sintesi molto utile:


a) Le missioni militari all'estero, sia di peace-keeping che di peace-emforcement, sono in primo luogo quelle con il mandato delle Nazioni Unite, ma aadesso lo sono anche quelle istituite nell'ambito delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia è membro, comprese quelle dell'Unione Europea;


2) La Nato non è menzionata espressamente, ma è automaticamente inclusa. La Legge poi si riferisce anche alle missioni istituite nelle coalition of willing, cioè coalizione create su una crisi specifica sulla base di decisioni unilaterali dei paesi che vi aderiscono, infine si riferisce alle missioni "finalizzate ad eccezionali interventi umanitari".


3) La Legge specifica che l'invio di militari fuori dal territorio nazionale può avvenire in ottemperanza di obblighi di alleanze, o in base ad accordi internazionali o intergovernativi, o per eccezionali interventi umanitari, purché l'impiego avvenga nel rispetto della legalità internazionale e delle disposizioni e finalità costituzionali (che a questo punto vengono aggirate dalla legge stessa)


“Resterebbe da chiarire il significato di accordi intergovernativi e come questi si differenzino dagli accordi internazionali. Si tratta di accordi sottoscritti dall'esecutivo o addirittura di accordi segreti?” si interroga Affari Internazionali. “In parte tali dubbi dovrebbero essere fugati dai paletti volti a scongiurare una deriva interventista. Le missioni devono avvenire nel quadro del rispetto: a) dei principi stabiliti dall'art. 11 Cost., b) del diritto internazionale generale, c) del diritto internazionale umanitario, d) del diritto penale internazionale”.
Quanto al procedimento per la partecipazione alle missioni internazionali, viene reso centrale il ruolo del Parlamento, razionalizzando una prassi, qualche volta in verità disattesa, che faceva precedere l'invio del contingente militare all'estero da una discussione parlamentare. Ma spesso la ratifica parlamentare avveniva a posteriori, in occasione della conversione in legge del decreto-legge (DL) di finanziamento della missione.
L'iter disegnato dalla L. 145/2016 è il seguente: la partecipazione alle missioni militari è deliberata dal Consiglio dei ministri, Cdm, previa comunicazione al Presidente della Repubblica ed eventuale convocazione del Consiglio supremo di difesa.
La Legge quadro mette mano anche ad un'altra spinosa questione, ossia se ai militari impegnati nelle missioni debba essere applicato il codice penale militare di pace o il codice penale militare di guerra. Anche la soluzione indicata lascia aperta tutte le strade. La nuova legge dispone che sia applicabile il codice penale militare di pace, ma il governo potrebbe deliberare l'applicabilità di quello di guerra per una specifica missione. In tal caso è però necessario un provvedimento legislativo e il governo deve presentare al Parlamento un apposito disegno di legge. 

 

E' dalla partecipazione alla prima Guerra del Golfo (1991) che si pone il problema di conformare la legislazione italiana al ripetuto ricorso alla guerra "nella risoluzione delle controversie internazionali" che di volta in volta è stata mascherata con acronimi sempre più improbabili: operazione di polizia internazionale, guerra umanitaria, protezione di civili, difesa preventiva etc. etc. Operazioni militari che hanno visto negli anni migliaia e migliaia di soldati italiani prendere parte a guerre in altri paesi e miliardi di euro spesi per parteciparvi. Quando le furberie sulla guerra diventano una Legge organica dello Stato, vuole dire che il punto di non ritorno si è avvicinato ancora di un altra spanna.
 

13 gennaio 2017





(english / deutsch.
Il nuovo presidente della Repubblica Federale Tedesca è una vecchia conoscenza. Durante la guerra di aggressione contro la Jugoslavia era Ministro degli Esteri, ed i servizi segreti militari (BND) sono stati a lungo sotto la sua supervisione. Fanatico delle politiche recessive della UE in economia, questo esemplare del revanscismo gran-tedesco è in prima fila da un paio d'anni nel sostegno alla rinascita del nazismo in Ucraina. Gravi le sue responsabilità anche in Medio Oriente, dove a molti anni di oscillazioni nella scelta dei referenti politici è seguito, infine, lo sdoganamento di settori jihadisti e terroristi come "Ahrar al Sham" in Siria. È il campione perfetto, insomma, della Unione Europea realmente esistente. [a cura di Italo Slavo]

--- DEUTSCH ---


Präsidiable Politik
 
13.02.2017
BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Frank-Walter Steinmeier, designierter Präsident der Bundesrepublik Deutschland, verkörpert wie kaum ein zweiter die Berliner Expansionspolitik der vergangenen zwei Jahrzehnte vom Kosovokrieg bis zur Einmischung in den Syrienkrieg. Den Überfall auf Jugoslawien vom Frühjahr 1999, mit dem Deutschland unter Bruch des Völkerrechts in seinen ersten Angriffskrieg nach 1945 zog, begleitete Steinmeier als Staatssekretär im Bundeskanzleramt. Danach beteiligte er sich als Kanzleramtschef am Kampf um Zugriff auf die riesigen russischen Erdgasvorräte, um sodann als Außenminister mit dem Streben nach EU-Assoziierung der Ukraine Russland machtpolitisch massiv zurückzudrängen. Dabei nahm er einen Umsturz in Kiew unter Beteiligung von Faschisten in Kauf. Lange hat auch der "Anti-Terror-Krieg" Steinmeiers Wirken geprägt; im Kanzleramt war er an führender Stelle in die Folterkooperation mit der CIA involviert. Der nächste Bundespräsident hat im Herbst 2002 dazu beigetragen, die Freilassung eines unschuldigen Mannes aus Bremen aus dem US-Folterlager Guantanamo nach Deutschland zu verhindern. Zudem trug er Mitverantwortung für Verhöre deutscher Verdächtiger in syrischen und libanesischen Foltergefängnissen. Zuletzt hat Steinmeier einer jihadistischen Miliz, die von der deutschen Justiz als Terrororganisation eingestuft wird, politische Rückendeckung gewährt.
Unter Bruch des Völkerrechts
Die erste große außenpolitische Operation, in die Frank-Walter Steinmeier involviert war - damals noch als Staatssekretär im Bundeskanzleramt und als Beauftragter für die Nachrichtendienste des Bundes unter Kanzler Gerhard Schröder -, war der Angriffskrieg gegen Jugoslawien im Frühjahr 1999. Über den Überfall auf Jugoslawien hat später Schröder selbst geurteilt, es sei ein "Verstoß gegen das Völkerrecht" gewesen: "Da haben wir unsere Flugzeuge, unsere Tornados nach Serbien geschickt, und die haben zusammen mit der NATO einen souveränen Staat gebombt - ohne dass es einen Sicherheitsratsbeschluß gegeben hätte."[1] Als Staatssekretär im Kanzleramt ist Steinmeier damals eng in die Vorbereitung und das Führen des Krieges involviert gewesen. Als Geheimdienst-Beauftragtem kann ihm zudem nicht entgangen sein, dass der Bundesnachrichtendienst (BND) die damaligen Berichte über angebliche jugoslawische Massaker, mit denen die Bundesregierung den Krieg legitimierte, klar als Kriegslügen einstufte; ein Journalist mit guten Kenntnissen über den Dienst berichtete bereits im April 1999, "viele der Geschichten über angebliche Massengräber und Greueltaten der Serben" würden "von Pullach als nachrichtendienstliche Desinformation bewertet, mit denen Politik gemacht" werde.[2] Zu denen, die damals Politik machten, gehörte Steinmeier; die Erkenntnisse des BND hielten ihn nicht von der Unterstützung des Krieges ab.
Mit Faschisten und Oligarchen
Nach dem Kosovokrieg hat für das Bundeskanzleramt, in dem Steinmeier ab Juli 1999 als Chef amtierte, rasch die Russlandpolitik erhebliche Bedeutung erlangt. Hatte der Kosovokrieg nicht nur Jugoslawien, sondern zugleich mit Belgrad auch dessen traditionellen Partner Moskau empfindlich geschwächt, so strebte Berlin nun nach Zugriff auf die riesigen russischen Erdgasressourcen. Dazu war eine Phase der Kooperation mit Russland unumgänglich. Schröder hatte die Erdgaskoooperation in seiner Amtszeit als Ministerpräsident Niedersachsens (1990 bis 1998) gemeinsam mit einem seiner engsten damaligen Mitarbeiter, Frank-Walter Steinmeier, eingeleitet (german-foreign-policy.com berichtete [3]); beide setzten sie nun im Berliner Kanzleramt fort. In den folgenden Jahren ist es Berlin - auch dank Steinmeier, der 2005 an die Spitze des Auswärtigen Amt wechseltes - gelungen, deutschen Konzernen eine starke Stellung in der russischen Erdgasproduktion und beim Transport des Rohstoffs per Pipeline in Richtung EU zu sichern.[4] Das hat den damaligen Außenminister nicht davon abgehalten, ab 2007 die Weichen in Richtung EU-Assoziierung der Ukraine zu stellen, um den deutschen Einflussbereich auf Kosten Russlands nach Osten auszudehnen. Den Umsturz in Kiew im Februar 2014 hat Steinmeier - nach vierjähriger Zeit in der Opposition - dann wieder als Außenminister begleitet. Um Moskau zurückzudrängen, hat er unter anderem den Führer einer faschistischen ukrainischen Partei [5] sowie berüchtigte ukrainische Oligarchen [6] zu akzeptierten Verhandlungspartnern aufgewertet. Die Folgen für die Ukraine sind bekannt.
Verschleppung und Folter
Jenseits der deutschen Expansion nach Ost- und Südosteuropa ist für Steinmeier - vor allem in seiner Amtszeit als Kanzleramtschef - der sogenannte Anti-Terror-Krieg prägend gewesen. In die systematische Verschleppung von Verdächtigen durch die CIA in geheime Folterkeller in Europa, Afrika und Asien waren von Oktober 2001 an per Zuarbeit auch deutsche Stellen involviert; darüber hinaus nahmen BND-Agenten, andere Geheimdienstler und Polizisten mehrfach an Verhören verschleppter Deutscher teil.[7] Steinmeier, damals im Kanzleramt zuständig für den BND, war zudem als Teilnehmer der Kanzleramts-"Sicherheitsrunden" immer wieder in den Komplex von Verschleppung und Folter involviert. Über die Berliner Kollaboration mit der CIA hat sich später etwa der liberale Schweizer Politiker Dick Marty in seiner Funktion als Sonderermittler des Europarats zu den kriminellen Geheimdienstmachenschaften beklagt.[8] Einer Entscheidung der Bundesregierung, die Steinmeier mit verantwortete, verdankt der Bremer Murat Kurnaz vier Jahre Internierung im US-Folterlager Guantanamo. Kurnaz, der 2001 von US-Stellen verschleppt, gefoltert und in Guantanamo festgehalten worden war, sollte nach dem Willen der US-Regierung im Herbst 2002 nach Deutschland überstellt werden; die US-Behörden waren zu der Erkenntnis gekommen, er habe sich nichts zuschulden kommen lassen. Bei einer Besprechung im Kanzleramt wurde am 29. Oktober 2002 unter Steinmeiers Mitwirkung entschieden, Kurnaz nicht aus den Vereinigten Staaten einreisen zu lassen. Das sei sogar "bei US-Seite auf Unverständnis" gestoßen, hielt der BND wenig später fest. Die Kanzleramtsentscheidung führte dazu, dass Kurnaz erst am 24. August 2006 aus der US-Folterhaft freikam: nach dem Regierungswechsel in Berlin.[9]
Geheimdienstkooperation mit Syrien
Von aktuellem Interesse ist, dass der BND - unter der Oberaufsicht des Kanzleramtschefs - Anfang 2002 in Gespräche mit der syrischen Auslandsspionage über einen Ausbau der geheimdienstlichen Zusammenarbeit eintrat. Dabei ging es - neben der Abwehr unerwünschter Migration - ebenfalls vorrangig um den "Anti-Terror-Krieg". Die Kooperation mit Damaskus war selbst im Kanzleramt nicht unumstritten, weil die syrischen Dienste für ihre Folterpraktiken berüchtigt waren; so berichtete etwa der damalige Kanzleramts-Referent für Internationalen Terrorismus, Guido Steinberg, er habe vor einer engeren Zusammenarbeit mit Syrien "wegen der dort praktizierten Menschenrechtsverletzungen gewarnt".[10] Unter seinem Chef Steinmeier schlug das Kanzleramt die Warnungen jedoch in den Wind, baute die Kooperation aus - und entsandte von Oktober bis Dezember 2002 mehrmals Geheimdienstler und Polizisten nach Damaskus und in das damals unter starkem syrischen Einfluss stehende Beirut, um dort an Verhören in Foltergefängnissen inhaftierter Deutscher teilzunehmen (german-foreign-policy.com berichtete [11]). Er habe es damals für "notwendig" erachtet, "dem jungen Präsidenten Assad Wege der Zusammenarbeit mit dem Westen aufzuzeigen", erklärte Steinmeier kürzlich.[12] Seit dem Sommer 2011 zieht Berlin allerdings die syrischen Folterpraktiken, aus denen es zuvor Profit zu schlagen versuchte, heran, um das Streben nach einem Umsturz in Damaskus zu legitimieren.
Rückendeckung für Jihadisten
Dabei hat das Auswärtige Amt unter Steinmeier in Syrien zuletzt Jihadisten den Rücken gestärkt, die es zuvor sogar unter faktischer Billigung von Folter bekämpft hatte. Anfang 2016 etwa setzte Steinmeier sich persönlich dafür ein, die salafistisch-jihadistische Miliz Ahrar al Sham zur Verhandlungspartnerin in Friedensgesprächen aufzuwerten. Ahrar al Sham kooperiert eng mit dem syrischen Ableger von Al Qaida, dem Hauptfeind im früheren "Anti-Terror-Krieg". Die deutsche Justiz stuft die Miliz entsprechend als Terrororganisation ein und stellt daher die Unterstützung für sie unter Strafe (german-foreign-policy.com berichtete [13]). Der Sache nach trifft die Einstufung einen wichtigen Aspekt der Syrienpolitik des Auswärtigen Amts unter seinem einstigen Minister, dem künftigen Bundespräsidenten.

[1] Gerd Schumann: "Weil ich es selbst gemacht habe". junge Welt 24.04.2014.
[2] Hans Leyendecker, in: Süddeutsche Zeitung 14.04.1999.
[3] S. dazu 4.500 Kilometer um Berlin.
[4] S. dazu Deutsch-russische Leuchtturmprojekte und Die Umgehung der Ukraine.
[5] S. dazu Vom Stigma befreit.
[6] S. dazu Die Restauration der Oligarchen (IV)Steinmeier und die Oligarchen und Zauberlehrlinge (III).
[7] S. dazu Oktober 2001Mitwisser und Profiteure und Kein Eingeständnis.
[8] S. dazu Abgleiten in die Barbarei (II).
[9] S. dazu Perioden des "Anti-Terror-Kriegs".
[10] S. dazu Deutsch-syrischer Herbst.
[11] S. dazu Die FoltererUnd warten noch immer und Steinmeier und seine Komplizen.
[12] Steinmeier kritisiert Trumps Folter-Lob. www.n-tv.de 27.01.2017.
[13] S. dazu Steinmeier und das Oberlandesgericht und Terrorunterstützer.

--- ENGLISH ---

A President's Policy
 
2017/02/13
BERLIN
 
(Own report) - Frank-Walter Steinmeier, President-elect of the Federal Republic of Germany is the epitome of the past two decades of Berlin's expansionist policy - from the war over Kosovo to intervention in the Syrian war. As State Secretary in the Federal Chancellery, Steinmeier was implicated in the aggression against Yugoslavia in the spring of 1999, with which Germany, in violation of international law, entered its first war of aggression since 1945. As head of the Federal Chancellery, he had participated in the struggle to obtain access to Russia's vast natural gas reserves. As Foreign Minister, he was massively striving to roll back Russia's political influence by associating Ukraine with the EU, even condoning a coup - with fascist participation - in Kiev. Steinmeier's activities had also been influenced by the so-called war on terror. In the Chancellery, he played a leading role in cooperation with the CIA's torture program. In the fall of 2002, he helped to prevent an innocent native of Bremen from being released to Germany from the US Guantanamo torture camp. He was complicit in the interrogation of German suspects in Syrian and Lebanese torture chambers. Just recently, Steinmeier provided political support to a jihadist militia, classified a terror organization by the German judiciary.
Violating International Law
The war of aggression against Yugoslavia in the spring of 1999 was the first major foreign policy operation, in which Frank-Walter Steinmeier was involved - at the time as State Secretary in the Federal Chancellery and as Coordinator for the Federal Intelligence Services under Chancellor Gerhard Schröder. Schröder, himself, later called the aggression against Yugoslavia a "violation of international law." "We dispatched our planes and Tornados to Serbia and, together with NATO; they bombed a sovereign country - without authorization from the Security Council."[1] As State Secretary in the Chancellery, Steinmeier had been deeply involved in preparing and waging that war. As Commissioner for the intelligence services, he must have been aware that the reports of alleged Yugoslav massacres, with which the German government justified the war, had been clearly classified by the Federal Intelligence Service (BND) as war propaganda. A journalist, well informed on the intelligence services, had reported already in April 1999 that, "Pullach [the BND Headquarters] considers many of the stories of mass graves and atrocities allegedly committed by Serbs to be intelligence-related disinformation for the purpose of making policy."[2] Steinmeier was one of those politicians, and the BND's findings did not prevent him from supporting the war.
With Fascists and Oligarchs
Following the war over Kosovo, Russia quickly became a major policy issue for the Chancellery, headed by Steinmeier, beginning in July 1999. The war over Kosovo had not only significantly weakened Belgrade but also its traditional partner Moscow. Berlin was now striving to obtain access to Russia's vast natural gas reserves, necessitating a period of cooperation with Russia. As Prime Minster in Lower Saxony (1990 - 1998), Schröder had initiated the natural gas cooperation together with one of his closest collaborators at the time, Frank-Walter Steinmeier. (german-foreign-policy.com reported.[3]) Both continued this cooperation in the German Chancellery. In the years that followed - thanks also to Steinmeier, who became foreign minister in 2005 - Berlin was able to secure a strong position for German companies in the production of Russian gas and its pipeline transport to the EU.[4] Starting in 2007, this did not prevent the foreign minister, at the time, to set the course for Ukraine's EU association, aimed at expanding Germany's sphere of influence eastward, at Russia's expense. After four years in the opposition, Steinmeier - again, foreign minster - was implicated in the Kiev coup in February 2014. To curb Russia's influence, he also promoted the leader of one of Ukraine's fascist parties [5] and infamous Ukrainian oligarchs [6] to acceptable negotiating partners. The consequences, this has had on Ukraine, are well known.
Kidnapping and Torture
Beyond Germany's expansion into eastern and southeastern Europe, the so-called war on terror was formative for Steinmeier - particularly during his incumbency as head of the German Chancellery. Beginning in October 2001, German government agencies had provided the legwork for the CIA's systematic kidnapping of suspects, taking them to secret torture chambers in Europe, Africa, and Asia. BND agents and other secret services and police officials were even on hand during interrogations of kidnapped German suspects.[7] At the time, Steinmeier, as the BND supervisor in the chancellery, as well as a participant in the chancellery's "security round tables," was repeatedly involved in the issues of kidnapping and torture. Later, the liberal Swiss politician, Dick Marty, serving as the European Council's special investigator into the crimes committed by the secret services, complained of Berlin's collaboration with the CIA.[8] A native of Bremen, Murat Kurnaz, owes four of his years of incarceration at the Guantánamo torture camp to a German government decision, Steinmeier helped formulate. In the fall of 2002, the US government had wanted to release Kurnaz - who had been kidnapped, in 2001, by US officials, tortured and held captive in Guantanámo - to German custody. The US officials had drawn the conclusion that Kurnaz was innocent. After consultations in the chancellery with Steinmeier participating, it was decided October 29, 2002, not to permit Kurnaz' entry into Germany from the United States. A short time later, the BND noted that this decision had "even caused stupefaction among the Americans." The chancellery's decision meant that Kurnaz was only released from the US torture chamber on August 24, 2006, after a change in government in Berlin.[9]
Intelligence Service Cooperation with Syria
The fact that, in early 2002, the BND - under the supervision of the head of the chancellery - had entered talks with the Syrian foreign intelligence service on expanding their intelligence-gathering cooperation is also currently of interest. Alongside the question of blocking undesirable migration to Germany, the talks centered particularly on the "war on terror." However, cooperation with Damascus was not uncontested, even in the chancellery, because of the Syrian services' being notorious for using torture. Guido Steinberg, at the time, consultant to the chancellery on questions of international terrorism, reported that he had warned against too close of a cooperation with Syria "because of their practice of human rights violations."[10] Under Steinmeier's direction, the chancellery ignored these warnings, expanded their cooperation - and between October and December 2002 - repeatedly sent intelligence and police officials to Damascus and Beirut (at the time under strong Syrian influence) to be on hand at interrogations of German prisoners in torture chambers. (german-foreign-policy.com reported.[11]) Steinmeier recently declared that he had deemed it "necessary" to "point out to the young President Assad ways to cooperate with the West."[12] However, since the summer of 2011, Berlin has been denouncing the use of torture - from which it had earlier benefitted - to help legitimize the pursuit of a coup in Damascus.
Backing for Jihadis
Recently, in Syria, Steinmeier's foreign ministry had supported jihadis, it had previously been fighting, even under de facto endorsement of torture. In early 2016, for example, Steinmeier was personally engaged in embellishing the Salafist Ahrar al Sham jihadi militia, to make it presentable as a partner for the peace talks. Ahrar al Sham is a close partner of the Syrian al Qaeda subsidiary, the main enemy in the previous "war on terror." Germany's justice system has accordingly classified that militia a "terrorist organization," outlawing any support it may be given. (german-foreign-policy.com reported.[13]) In fact, that classification corresponds to an important aspect of the German Foreign Ministry's policy toward Syria under its former minister - the future President of Germany.

[1] Gerd Schumann: "Weil ich es selbst gemacht habe". junge Welt 24.04.2014.
[2] Hans Leyendecker, in: Süddeutsche Zeitung 14.04.1999.
[3] See 4,500 Kilometers around Berlin.
[4] See German-Russian Flagship Projects and Die Umgehung der Ukraine.
[5] See Vom Stigma befreit.
[6] See The Restoration of the Oligarchs (IV)Steinmeier and the Oligarchs and Zauberlehrlinge (III).
[7] See Oktober 2001Mitwisser und Profiteure and Kein Eingeständnis.
[8] See Sinking into Barbarism (II).
[9] See Perioden des "Anti-Terror-Kriegs".
[10] See Deutsch-syrischer Herbst.
[11] See The TorturersAnd Still Waiting and Steinmeier and His Accomplices.
[12] Steinmeier kritisiert Trumps Folter-Lob. www.n-tv.de 27.01.2017.
[13] See Steinmeier und das Oberlandesgericht and Terrorunterstützer.



GIORNO DEL RICORDO 2017

1) DA FASSINO AD APPENDINO, TORINO CAPITALE DEL MARTIROLOGIO FASCISTA
– 2017: Appendino consegna la medaglia alla memoria del milite fascista Filippo Polito ad un suo congiunto in camicia nera
– 2004-2016: Piero Fassino tra i principali ispiratori della Legge che consente di onorare la memoria dei nazifascisti uccisi sul confine orientale
2) GIOVANNI INO MERCANTI, MARTIRE DELLE FOIBE JUGOSLAVE. Peccato sia stato un fascista legionario di Spagna (a cura di Fabio Muzzolon)
3) Personaggi: GIANNI OLIVA, PAOLO POLIDORI (a cura di Claudia Cernigoi)
4) La Conf. stampa organizzata dall'on. Pellegrino il 9/2/2017 e le sue conseguenze. SOLIDARIETÀ AD ALESSANDRA KERSEVAN
5) ANCORA DISINFORMAZIONE SU PORZÛS (Marzolo Occupata / Centro di documentazione Comandante Giacca)
6) CON IL «GIORNO DEL RICORDO» COSÌ COM’È TORNANO LE ESALTAZIONI DEL FASCISMO (Saverio Ferrari, Marinella Mandelli)
7) ALTRI LINK


PROSSIME INIZIATIVE:

Arcore (MB), domenica 12 febbraio 2017
NUOVA LOGISTICA: alle ore 10.30 c/o ARCI BLOB, Via Casati 31, 20862 Arcore (MB)
(a pochissimi passi dalla stazione ferroviaria di Arcore)
OPERAZIONE FOIBE TRA STORIA E MITO
intervento di Claudia Cernigoi
Dopo le pressioni della destra più o meno estrema, il Comune di Arcore ha deciso di levare il patrocinio all’iniziativa che l’Anpi di Arcore aveva inizialmente organizzato con Claudia Cernigoi. Questo ha comportato la rinuncia di Anpi ad organizzare l’iniziativa…
nuovo evento FB // vecchio evento FB


Modena, domenica 19 febbraio 2017
alle ore 15.30 nella Sala Ulivi dell’Archivio Storico della Resistenza
FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
intervento di Alessandra Kersevan
organizza: Rete Antifascista Modenese



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DA FASSINO AD APPENDINO, TORINO CAPITALE DEL MARTIROLOGIO FASCISTA

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Il 10 febbraio 2017 a Torino, in Comune, è stata consegnata a un congiunto – presente in camicia nera – la medaglia attribuita dal Presidente della Repubblica Mattarella a una "vittima delle foibe", Filippo Polito, in realtà appartenente alle forze armate fasciste della RSI, volontario, e operante nella Zona d'Operazioni del Litorale Adriatico in cui le forze armate della RSI erano sotto il comando diretto dei tedeschi. L'ANPI di Torino ha giustamente protestato. Il caso ricorda molto quello del parmense Paride Mori. Ma molti altri casi simili si sono verificati sulla base della legge n.92/2004 già nei primi dieci anni di applicazione dal 2005 al 2015: in merito si veda lo studio di Sandi Volk TRUFFE, FUFFE E FASCISTI... I “PREMIATI” DEL GIORNO DEL RICORDO. UN BILANCIO PROVVISORIO
Di seguito il Comunicato stampa della Presidenza dell'ANPI Provinciale di Torino:

10 Febbraio 2017

COMUNICATO STAMPA

Chi è Filippo Polito?

Ai famigliari di Filippo Polito è stata conferita una medaglia d'onore alla memoria dal Presidente della Repubblica il giorno 10 febbraio nella sala del Consiglio Comunale di Torino.

Il suo nome compare in parecchi elenchi:

1) Caduti e dispersi della Repubblica Sociale Italiana, a cura di L'Altra Verità

2) Albo caduti e dispersi della Repubblica Sociale Italiana, della Fondazione RSI, Istituto Storico

3) Elenco “Livio Valentini” caduti Repubblica Sociale Italiana

4) Concittadini Caduti infoibati o diversamente massacrati in tempo di guerra e da guerra terminata, comunicato di “Destra Per Reggio”, 10-2-2016

Negli elenchi compare la data di nascita, 18-8-1923 ad Ardore (RC), il ruolo di Guardia di Polizia Repubblicana, residente a Trieste, la data di morte in Trieste (2-5-1945), la qualità di disperso o deportato; in un solo caso risulta deceduto il 31-12-1945 come prigioniero Borovnica, Lubiana (Albo della Fondazione RSI).

L'articolo 3 comma 3 della Legge 30 marzo 2004 n. 92 recita: “Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia”.

Poiché il territorio dell'attuale Friuli-Venezia Giulia, l'Istria e la cosiddetta Provincia di Lubiana facevano parte all'epoca della Zona d'Operazioni Litorale Adriatico (ZOLA), costituita dai nazisti dopo l'8 settembre ‘43 e amministrata direttamente da un Supremo Commissario nazista nominato da Hitler, in cui la stessa RSI non aveva alcun potere e in cui le sue formazioni armate potevano entrare e operare solo ed esclusivamente con il permesso e sotto la direzione dei tedeschi, l'adesione alla RSI, in quanto agli ordini dei nazisti non può considerarsi “a servizio dell'Italia”.

La partecipazione volontaria alla RSI risulta dal fatto che il 12 novembre del '43 il Supremo Commissario nazista dispose che l'arruolamento nelle formazioni della RSI poteva avvenire solo “sulla base di presentazione volontaria” (“Il Piccolo”, 12 novembre '43, pagina 1).

Risultano pertanto due condizioni (il carattere volontarie e l'attività collaborazionista) che sulla base della legge ostano alla concessione della “insegna metallica con relativo diploma”.

Poiché la legge richiama una vicenda tragica, che comprende le foibe, e riguarda l'insieme dell'esodo e della complessa vicenda dei confini orientali, riteniamo che l'attribuzione della medaglia a Filippo Polito combattente volontario, a fianco dei nazisti, in terre da loro occupate, vada rivista.

La giornata del ricordo non può prestarsi ad utilizzi politici, in particolare da parte di risorgenti nostalgie fasciste, né può costituire riconoscimento di quanti hanno operato contro le libertà e a fianco delle barbarie naziste.

La Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza, esclude dal panorama della democrazia ogni fascismo e il Giorno del Ricordo è una solennità civile della nostra democrazia.

Torino 10 febbraio 2017

La Presidenza dell'A.N.P.I. Provinciale

Maria Grazia Sestero

Palmiro Gonzato (Partigiano)

Cesare Alvazzi Dal Frate (Partigiano)

Renato Appiano


Leggi anche:

Foibe, polemiche dell'Anpi a Torino sulla medaglia a Filippo Polito, volontario della Rsi (di Federica Cravero, 10 febbraio 2017)
In Sala rossa il riconoscimento agli eredi, ma gli ex partigiani attaccano: "Ha combattuto con i nazisti". E l'erede si presenta in camicia nera
http://torino.repubblica.it/cronaca/2017/02/10/news/foibe_polemiche_sulla_medaglia_a_filippo_polito-158012734/


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Sulle questioni del confine orientale Chiara Appendino persegue pedissequamente la linea dettata dal Partito Democratico e addirittura inaugurata dal suo predecessore a Sindaco, Piero Fassino.

<< L'aggressione fascista alla Jugoslavia non poté giustificare né la perdita dei territori né l'esodo degli istriani. >>
(Fassino in conferenza stampa a Trieste, 5 febbraio 2004)

<< L'espansionismo slavo ... nel vivo della lotta antifascista si era manifestato in comportamenti e linguaggi propri delle contese territoriali e nazionalistiche, presenti da decenni in quelle aree. Lo schema della lotta fra fascismo e antifascismo si mostrò inadeguato... >>
(Fassino: «Il Pci con gli esuli istriani sbagliò», su L'Unita', 06.02.2004 – https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/3167 )

<< Il segretario dei Ds Piero Fassino si è detto d'accordo sull'istituzione della giornata della memoria per gli esuli istriani, fiumani e dalmati, per superare "ogni forma di reticenza e rimozione... >>
(La Repubblica, 9 febbraio 2004 – https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/3170 )

<< Quello che avrei voluto dire il 6 febbraio di due anni fa a Fassino e Violante quando vennero a Trieste per aderire alla proposta di Roberto Menia (An) di istituire il 10 febbraio la giornata del ricordo dell'esodo e per attribuire al Pci di allora colpe ed errori di valutazione... >>
(Galliano Fogar su Il Manifesto del 10 febbraio 2006 – https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/4765 )

<< Ci stupisce che politici della statura di Fassino e di Violante abbiano aderito all'iniziativa di Alleanza Nazionale quando essi sanno benissimo che il presidente del consiglio Berlusconi considera questa ricorrenza come il giorno della «pulizia etnica comunista», dimenticando che le foibe e l'esodo dei giuliano-dalmati costituiscono una diretta eredità del ventennio fascista e dell'occupazione italiana dei Balcani durante la Seconda guerra mondiale. >>
(Angelo Del Boca su Il Manifesto del 14 febbraio 2006 – https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/4765 )

<< Riguardo alla data, Fassino ha spiegato che loro avevano pensato al 20 marzo (data dell’ultimo viaggio del Tuscania, la nave che trasportò gli esuli dall’Istria in Italia), mentre le federazioni degli esuli avevano proposto il 10 febbraio (data della firma del trattato di pace del 1947); loro accolgono questa proposta di “giorno della memoria dell’esodo” perché l’enormità delle sofferenza patite dagli italiani non permette una disputa tra le date, la storia del paese deve essere patrimonio comune, in quanto “siamo tutti figli della storia”. >>
(Claudia Cernigoi: "Ricordiamo la genesi del Giorno del Ricordo", febbraio 2009 – http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-ricordando_la_genesi_del_%93giorno_del_ricordo%94..php )

<< Nel lontano 1997, quando ancora erano pochi coloro che si occupavano di foibe, ebbi modo di consegnare personalmente all'allora non so che ruolo ricopriva Piero Fassino, una mia analisi sulle falsità a proposito di foibe diffuse all'epoca dal mancato golpista (con Borghese) Marco Pirina, che in collaborazione con l'avvocato piduista Augusto Sinagra ed al magistrato che si faceva intervistare dal Secolo d'Italia Giuseppe Pititto, stava organizzando il processo contro gli "infoibatori" (poi conclusosi in una bolla di sapone, com'era prevedibile, ma che ci fece tribolare per diversi anni). Quindi Fassino non può dire di non sapere, ciò che fa lo fa perché ha consapevolmente scelto di farlo. >>
Claudia Cernigoi, 12.2.2016 

<< Non ha lasciato spazio il sindaco Fassino agli attacchi che puntuali, anche quest’anno hanno cercato di inquinare il «Giorno del ricordo». Fassino si è accodato con queste parole all’allarme lanciato da Antonio Vatta, presidente della Consulta regionale dell’Anvgd... Fassino ha sottolineato che «siamo qui per riaffermare l’inaccettabilità di ogni forma di negazionismo e di riscrittura della storia. E per riaffermare che al ricordo si deve accompagnare l’impegno di evitare che tragedie simili si ripetano, cosa non scontata come dimostra la storia recente». Il sindaco di Torino ha ribadito che dopo anni di silenzio «si è presa coscienza che una nazione ha il dovere di assumere sulle proprie spalle ogni pagina della sua storia e non c’è pagina che possa esser cancellata e negata. Chi fu ucciso nelle foibe e chi fu cacciato dalla sua terra lo fu solo perché italiano in quella che fu un’operazione di pulizia etnica»  >>
(La Stampa, 10/02/2016 – http://www.lastampa.it/2016/02/10/cronaca/fassino-vergognoso-lattacco-dellanpi-alla-giornata-del-ricordo-EWPD3Zkk3RCvTFpI7pF76O/pagina.html )


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24.01.2017

Ino, martire delle foibe. Una via avrà il suo nome

Il sindaco Diego Ruzza assicura che Zevio intitolerà una via a Giovanni Ino Mercanti, martire delle foibe jugoslave. «La prima strada ultimata nelle nuove lottizzazioni porterà il nome del martire», promette il primo cittadino, dopo aver appreso del triste destino subìto da Mercanti.

In paese c’è già una via genericamente intitolata Martiri delle foibe, inaugurata qualche anno fa probabilmente senza sapere che nelle voragini istriane era finito anche uno zeviano. Eppure il nome di Ino compare nella lunga lista dei nomi dei Caduti durante la guerra, scolpiti su una lastra di marmo bianco che da decenni campeggia nell’androne del castello-municio. Mercanti fu tra i primi a sperimentare i grandi inghiottitoi a strapiombo in cui, fra il 1943 e il 1947, furono gettati, vivi o morti, circa 10mila italiani. Era il 13 settembre del 1943 quando il cadavere dell'uomo finì in una voragine di Dignano Pola, in Croazia, paese oggi denominato Voidian.

La vicenda del martire è stata tolta dal dimenticatoio grazie a una ricerca appena conclusa da Maria Rosa Bonamini, insegnante alla scuola media Altichiero, ora in pensione. La professoressa ha attinto il più possibile da fonti dirette. Da Giuseppe Bazzoni, da Filippo Avesani, nel frattempo scomparso, e dai discendenti di Mercanti.

Da Boscochiesanuova dove vivevano, papà Michele e mamma Eleonora Campedelli, con i loro quattro figli - Ines, Amerigo, Zeffira e, appunto, Ino - si trasferirono a Zevio nel 1911. Dopo un po’ Ino andò a vivere con la sorella Ines, sposatasi con Giuseppe Malgarise, titolare fino alla fine degli anni ’50 di un’osteria in piazza Santa Toscana, che all’epoca si chiamava piazza Vittorio Emanuele.

Grazie al suo carattere vivace, gioviale e un po’ mattacchione, Ino andò a gestire l’osteria all’Omo, dal nome della pianta ritenuta emblema della libertà, che i soldati di Napoleone piantavano nei crocicchi stradali, compreso il trivio per Volon tra le vie Stefano da Zevio e corso Cavour. Nel suo locale, Ino organizzava lunghi tornei di bocce e programmava feste in onore della patrona del paese, Santa Toscana. La professoressa Bonamini spiega che nel 1936, con Raffaello Conti, Angelo Dall’Oca Bianca, Giuseppe Sinibaldi, Zelio Grella e altri, Ino partì per la guerra civile in Spagna, in aiuto al «generalissimo» Francisco Franco, che si rifaceva all’ideologia fascista. Ritornò a Zevio nel 1940, e ripartì poi per lavoro per la Slovenia, a Villa del Nevoso (ora Iliska Bistrica), località all'epoca compresa nei confini italiani.

«Su come sia andata successivamente, i parenti hanno scarsissime notizia, essendo fra l’altro passati 70 anni e tre generazioni», annota la professoressa. Che aggiunge: «Comunque dagli elementi emersi, sembra certo che Ino fu barbaramente ucciso dai soldati titini», dal nome di Tito, il capo dei partigiani comunisti jugoslavi che successivamente diventerà governatore dello Stato. Bonamini rivela particolari terribili sulla fine di Mercanti: «Probabilmente morì dopo un'agonia di due giorni, per essere stato crocefisso a testa in giù ed evirato in un bosco a una decina di chilometri a nord di Pola. Il suo cadavere fu infine fatto sparire nelle foibe». A guerra ultimata i famigliari fecero l'impossibile per ottenere dettagli sulla spaventosa fine del congiunto. E produssero tutte le pratiche necessarie alla restituzione dei resti.

La sorella Zaira approfondì le ricerche recandosi in Jugoslavia. Qualcuno le indicò il luogo in cui trovare il cadavere del fratello, con l'avvertenza di non fermarsi e farsi riconoscere, visto che era ancora presente il regime comunista. Tanta ostinata ricerca della verità sfociò, nel 1962, nel recupero delle spoglie del martire, ora sepolte nel cimitero del capoluogo.

Enzo Sonato, apprezzato poeta, scrittore e politico zeviano scomparso qualche decennio fa, ha lasciato un amaro componimento che riassume l'oblio che ha avvolto tante vite spezzate dalla volontà di predominio dell'uomo sull'uomo: «Chi legge il tuo nome/ Chi legge il tuo nome/ il trentunesimo di ottanta/ nella lunga fila/ dei nomi neri/ sulla lapide bianca/ del monumento ai morti in guerra?/ C'è forse chi arriva al quinto/ un giorno che non abbia fretta».

Piero Taddei

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Da: Fabio Muzzolon <fabio.muzzolon  @  alice.it>
Oggetto: a Zevio una via a un fascista infoibato
Data: 9 febbraio 2017 16:17:57 CET
A: corriere <lettere@corriere>, corrierediverona@..., jugocoord

Con richiesta di pubblicazione. Per il Corriere, all'attenzione di Alessandro Fulloni

A Zevio, centro di 15.000 abitanti a Sud-Est di Verona, si vuole dedicare una via a un fascista che aveva anche combattuto in Spagna a  fianco del Generalissimo Franco e finì poi dentro una foiba a Dignano d'Istria. Una via dunque tutta per il "martire", oltre alla già esistente via  Martiri delle Foibe...

INO, MARTIRE  ZEVIANO  DELLE FOIBE

Ringrazio il giornalista di  Zevio de “L’Arena” e la professoressa ricercatrice per aver messo in luce l’episodio di un infoibato zeviano, che non conoscevo. Se mi è permesso provo a sottolineare alcuni punti.
1.    “Il cadavere finì in una voragine di Dignano”. Dignano, in croato Vodnjan, è in effetti uno dei centri dell’Istria dove la comunità italiana (o istro-veneta) è tuttora più presente e culturalmente vivace, come del resto lo fu durante il comunismo.
2.    “Era il 13 settembre 1943 quando il cadavere finì” in una foiba. Si era cioè al vertice di una guerra atroce, mossa nel ‘41 dall’esercito italiano contro la Jugoslavia, al termine della quale lo Stato vicino contò oltre un milione di morti.
3.    “Fra il ‘43 e il ’47 furono gettati circa 10.000 italiani”. Il maggior studioso italiano Raoul Pupo, moderato, prof.all’Università di Trieste parla di 4 o 5.000. La loro identificazione è avvenuta finora per alcune centinaia. Mi rendo conto che non è facile capire la verità, ed è anche difficile stabilire se fossero italiani o slavi: in Istria c’è una varietà estrema di mistilingue; inoltre nel precedente periodo di annessione italiana dopo la prima guerra, tutti i nomi slavi, tedeschi e perfino veneti e friulani vennero italianizzati con la forza. 
4.    “Scattò l’esodo verso l’Italia di 350.000 persone”, anche se sembra cifra eccessiva, giustamente Taddei non dice “italiani”, perché tra loro ci furono anche genti di lingue e cognomi slavi, uniti dal desiderio di cercare fortuna all’estero, come anche dalle Venezie partirono in massa. A differenza di altri Stati socialisti la Jugoslavia permetteva l’emigrazione.
5.    “Nel ’36... Ino partì per la guerra civile in Spagna, in aiuto al generalissimo Franco, che si rifaceva all’ideologia fascista”. Quindi come riconosce onestamente il cronista, il nostro martire non era propriamente un italiano estraneo all’agone politico del tempo, ma un fascista combattente.
6.    “La pulizia etnica di Tito punta a eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti”.
Si deduce che essendo volta a epurazioni di carattere politico non si può chiamare  pulizia etnica.

Fabio Muzzolon, S.G. Lupatoto


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PERSONAGGI

a cura di Claudia Cernigoi, 11.2.2017

GIANNI OLIVA E LE FOIBE
sul Piccolo di ieri, l'articolo in pagina cultura sul Giorno del ricordo è stato scritto da Gianni Oliva, che è considerato uno storico "serio" e non un "negazionista" cui deve essere impedito di parlare.
La serietà di Oliva si manifesta, ad esempio, nel suo "Foibe" del 2002, quando parla di Giuseppe Cernecca, segretario generale del comune di Gimino, che nel settembre del 1943 fu arrestato dai partigiani e di lui non si seppe più nulla. Scrive che Cernecca sarebbe stato lapidato e poi decapitato e che le prove della “lapidazione di Cernecca” risulterebbero “dall’autopsia effettuata”. Ora, stando che la stessa figlia ha più volte ribadito che il corpo del padre non fu mai ritrovato, sarebbe davvero interessante sapere di quale autopsia parli lo storico Oliva.
Quando poi parla della foiba di Basovizza riporta un passo del romanzo “La foiba grande” di Carlo Sgorlon, che essendo romanzo è appunto opera di fantasia, fatto che Oliva non specifica quando cita: “Nella foiba di Basovizza, vicina a Trieste, era stato buttato un feudatario odioso, un uomo carico di delitti, al tempo del patriarca di Aquileia, Marquardo, cui allora l’Istria apparteneva”.
Peccato che il patriarca Marquardo rimase in carica dal 1365 al 1381 (anno in cui morì) e che la “foiba” di Basovizza non è una cavità naturale ma un pozzo di ispezione di miniera, scavato dalla ditta Skoda tra il 1901 ed il 1908. Se non si può pretendere da Sgorlon, che ha scritto un romanzo, coerenza dal punto di vista storico, invece uno storico dovrebbe, prima di dare alle stampe un’opera (sia pure di divulgazione) scientifica, verificare che ciò che scrive abbia attinenza col vero e non limitarsi a citare brani tratti di qua e di là senza un minimo di controllo.

IL LEGHISTA PAOLO POLIDORI
...in un post di ieri [10.2.2017] ha descritto gli "infoibamenti" nel pozzo di Basovizza con un pathos ed una ricchezza di particolari tale da far pensare che vi abbia assistito.
Peccato che tutta la descrizione che fa è falsa dalla prima all'ultima parola.
Non solo per il fatto che in quel luogo non sono state gettate "centinaia di persone" nel maggio 1945, ma perché il suo illazionare che i prigionieri sarebbero stati legati uno ad uno col filo di ferro e poi, sparando al primo della fila, sarebbero precipitati a decine nel pozzo, è una cosa fisicamente impossibile considerando le dimensioni dell'apertura del pozzo, come vedete nella foto (tratta dagli archivi comunali).
Così come è una mera menzogna il fatto che fosse stato gettato sopra i cadaveri un cane nero, mitologia che è nata perché UNA volta in UNA foiba fu trovato anche un cane nero (che probabilmente vi era caduto per sbaglio) e da questo i propagandisti hanno creato la leggenda che si tratta di un'usanza balcanica di spregio per i morti (ovviamente anche questo non ha alcun fondamento di verità).
Ma Polidori non è contento di inventare cose di sana pianta (o, forse, scopiazzando nel web di qua e di là scegliendo le bufale più accattivanti per lui ed il suo pubblico), alla fine di questa serie di bugie ha il coraggio di attaccare, con parole che dovrebbero far vergognare chiunque abbia il senso della decenza, una studiosa come Alessandra Kersevan che ha passato anni ad analizzare documenti e fare ricerca storica, e che se parla lo fa con cogn

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