Informazione
1) Oskar Lafontaine: La supremazia tedesca in Europa. Jean-Luc Mélanchon ha scritto un pamphlet intitolato «Le hareng de Bismarck» (L’aringa di Bismarck)...
2) “Kernel Europa”. Un nucleo centrale franco-tedesco per una Ue a due velocità (di Sergio Cararo)
http://www.marx21.it/internazionale/europa/25876-tragedia-greca.html
Agli egemoni contabili e maestri di disciplina della diplomazia tedesca è bastata una notte di consultazioni ad oltranza a Bruxelles sul Grexit, per distruggere tutto il capitale che una „Germania migliore“ aveva maturato in decenni.
A causa loro su tutti i media del mondo è ritornato il tedesco cattivo, arrogante e odioso. Ha il viso del ministro delle finanze Schäuble, un tecnico in carrozzella, neppure membro del Parlamento europeo, che al posto del taglio del debito lancia un ultimatum ai greci, alla maniera dei nazisti.
La Germania vuole la capitolazione della Grecia e anche il cambio di regime. Schäuble-Merkel & Gabriel hanno nostalgia dei vecchi e corrotti leader greci di Nea Demokratia e del Pasok. Vogliono la testa di Tsipras.
I mass media tedeschi mainstream fanno finta di meravigliarsi. Si chiedono come mai sempre più cittadini nel mondo ritengono i tedeschi spietati. Gli stessi hanno plasmato nel tempo , la solida maggioranza silenziosa che approva le misure draconiane ispirate dal ministro delle finanze.
Il popolo della rete, invece, chiede le dimissioni di Schäuble (utenti di Twitter: Hashtag #This/sACoup). Sale la marea di cittadini che non accettano il prussianesimo di ritorno della classe politica attuale, espresso dal governo di coalizione CDU-CSU-SPD, che rischia di fare a pezzi l´Europa per la terza volta. Il diktat alla Grecia ha fatto assurgere la Germania ad arrogante potenza dominatrice dalla quale bisogna ben guardarsi e, in ultima istanza, iniziare una rivolta pacifica ma ferma, contro questa dominazione.
È dalla caduta del muro di Berlino che si avverte un cambiamento nella strategia politica della classe dominante. Questa ha plasmato man mano un´opinione pubblica che ritiene il progetto europeo dei padri costituenti superato dai fatti. Una maggioranza silenziosa trasversale ritiene che la Germania si è lasciata trascinare nell´euro e nell´unità europea a causa del senso di colpa per la seconda guerra mondiale. Iniziarono Kohl e Genscher annettendo a tambur battente la DDR, proseguirono giocando un ruolo importante nello smembramento della Jugoslavia, rallentarono l´impegno verso l´integrazione progressiva dei Paesi EU e mostrarono eccessivo impegno nel cooptare nuovi adepti: i paesi dell´est europeo. Anche se la Merkel lo dissimula, nei fatti è il ritorno della „questione tedesca“. Dopo 25 anni di camuffamenti la classe politica attuale si fa riconoscere come discendente in linea diretta dagli Junker prussiani. Come questi, Merkel-Gabriel & co. accompagnano le spinte espansionistiche della loro Volkswirtschaft a una violenta svolta conservatrice. In Europa la Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che aveva avuto la Prussia nell´unificazione della Germania. L´amore dei tedeschi per Bismarck viene adeguatamente nutrito e alimentato dai mass-media.
L´ex cancelliere Schröder in una intervista allo Spiegel di alcune settimane fa magnificava il talento politico del cancelliere di ferro assertore di una autorità statale che portò ai limiti della dittatura. Usò la forza determinante dell´esercito nelle relazioni internazionali, represse senza molto successo cattolici e socialisti e rese inevitabile il conflitto con la Francia. Con la vittoria sulla Francia realizzò l´unità spirituale e politica della Germania sotto la guida della Prussia e ottenne il conferimento trionfale a Guglielmo I della corona del nuovo impero germanico proclamato a Versailles nel gennaio del 1871. I francesi rabbrividiscono solo a ricordarsi di tutto questo. Oggi la Germania tenta di giocare la carta della prussianizzazione dell´Europa.
Nel maggio 2014 a Stralsund, durante la consultazione Germania-Francia, la cancelliera mandava un perfido messaggio a un esterrefatto Hollande, attraverso un regalo spiritualmente limitato: un barile di aringhe di marchio Bismarck. Il messaggio subliminale era: come ai tempi di Bismarck, la Francia lotta contro la sua inferiorità di fronte al suo vicino dell´est. E, come all´epoca, è un cancelliere „di bronzo“ che governa a Berlino. Quindi francesi!, accettate la nostra superiorità senza fare tante storie. Solo una mente gretta può sacrificare con tanta perfidia, per solo tornaconto economico tedesco, i valori europei che furono i fondamentali della Rivoluzione Francese: Liberté-Egalité-Fraternité. La Merkel non sa che farsene del progetto europeo dei padri fondatori, figuriamoci che se ne fa della politica e della cultura francese. Le sono proprio estranee.
L´imperialismo pedagogico della Merkel, ha i suoi principi, le sue regole educative che vengono somministrate agli „scolaretti europei“ (1). Al momento opportuno, per la Germania, queste vengono imposte con rigore e disciplina prussiani. Compiti a casa lei li chiama, ma la riforma del mercato del lavoro e le privatizzazioni selvagge sono un vero cappio al collo per i popoli della zona euro dell´area mediterranea.
La richiesta/ordine di realizzare la riforma del mercato del lavoro (in Italia chiamata col concetto italianissimo di Jobs Act) sul modello Hartz IV in Germania, nei fatti ovunque significa cancellazione di diritti conquistati dai lavoratori europei con decenni di dure lotte e colpire duramente i loro organi di rappresentanza: i sindacati. Viene spontaneo chiedersi: ma cosa hanno fatto di male i lavoratori europei e i loro sindacati alla Merkel e alla Germania, per dover espiare colpe commesse da politici corrotti e creditori (speculatori!) cinici e senza scrupoli?
Le privatizzazioni selvagge verranno realizzate per volere della Troika, dice la regina d´Europa troneggiante su un barile di aringhe-Bismarck di Stralsund. Saranno gli investitori (alias: i pescecani della finanza e delle imprese multinazionali) che andranno a sequestrare nei paesi indebitati, non le imprese decotte e fuori mercato, ma quello che resta di pignorabile, compresi i pochi gioielli di famiglia, se non sono stati già venduti.
La Germania della Merkel è pronta a „proteggere“, nel senso di dichiarare questi Paesi loro Protettorati. Noi europei siamo „fortunati“ ad avere una regina ben intenzionata nei nostri confronti. Da brava pedagogista della „Gestalt“, vuole plasmare con le sue mani il continente. Per fare questo ha bisogno di più tempo, per questo nel 2017 vuole candidarsi per la quarta volta. Se fallisce l´euro, fallisce l´Europa!, continua a ripetere come un mantra la cancelliera. È chiaro come il sole che l´euro non deve fallire perché è questo che ha garantito l´esportazione dei prodotti tedeschi nell´eurozona. Un ritorno al marco e la conseguente rivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nel mondo. E se prendesse piede l´appello lanciato dal popolo della rete di boicottare i prodotti tedeschi? (Hashtag #BoykottGermany).
L`Europa ha bisogno di un nuovo contratto sociale. Tocca alla Germania farsi promotrice di consenso tra i 28 membri dell´Unione, esercitando con saggezza e lungimiranza l´egemonia mite che le competerebbe, evitando di dare ordini perentori che offendono la dignità dei popoli. Il paese più ricco dovrebbe impegnarsi per quelli che soffrono la crisi. Ottantadue milioni di cittadini dovrebbero pretendere dalla classe politica di assumersi la responsabilità di salvare l´Europa dopo averla affondata due volte nel passato. Ma la classe politica attuale, sembra non voglia essere legittimata a svolgere questo ruolo di potenza mite. È prigioniera di un´opinione pubblica reazionaria che minaccia di votare contro nelle elezioni. Ma questa opinione pubblica l´hanno forgiata loro, giorno dopo giorno, coi loro discorsi, prese di posizione, in parlamento, in TV e nei giornali, per nascondere che l´euro (ritenuto inutile e controproducente per la Germania dall´ex socialdemocratico ed ex membro del Direttorio della Deutsche Bundesbank Thilo Sarrazin e dai milioni di suoi „adoratori“ e lettori dei suoi libri!) si è rivelato in realtà il più importante strumento di dominio, controllo e sopraffazione per la Germania. È l´euro che ha permesso la metamorfosi del progetto europeo, passato dal perseguimento di una Germania europea voluto dai padri costituenti e da alcune centinaia di milioni di cittadini europei, in una aborrita Europa tedesca. Manca, fino ad oggi, un´alternativa alla politica ordoliberale della Merkel e di Schäuble. Il partito che fu di Willy Brandt dovrebbe uscire dall´angolo nel quale si cacciò approvando l´Agenda 2010. La sinistra tedesca, tutta-anche i Linke, dovrebbe entrare nell´ordine delle idee che il nazionalismo delle esportazioni grava sulle spalle die vicini e che non deve cercare il consenso degli elettori su questo tema. Steinmeier e Gabriel non sembrano intenzionati a inaugurare una nuova stagione politica in Europa. Sono attualmente succubi del programma del padronato che nei fatti crea spazio per il ritorno dell´imperialismo tedesco in Europa e nel mondo. Dovrebbero rifiutare la dominazione tedesca in Europa, voluta dagli americani. Finché i tedeschi saranno vassalli degli Statunitensi, l´Europa sarà serva di interessi economici che si sovrappongono o sono in contrasto con i propri. Basta pensare allo scandalo NSA e all´approvazione in sordina del TTIP. È come essere diventati sordi e muti di fronte a un pericolo che sta distruggendo il processo unitario europeo e che allontana le classi politiche dai popoli.
Già ora la regina d´Europa siede sul cumulo di rovine del progetto europeo perseguito da 70 anni. Perseverando, i cocci non saranno più riparabili.
VITTORIO STANO, Hannover
Note:
(1) Scolaretti europei. Il più diligente di questi è Renzi. Con la Merkel esordí regalandole la maglietta di Gomez, attaccante della Fiorentina. Il semestre europeo lo condusse in maniera scialba. La Merkel lo apprezza perché è innocuo. Anche Renzi si atteggia ad educatore. È esilarante la sua uscita in televisione davanti a una lavagnetta antidiluviana, munito di bacchetta e gessetto bianco. Voleva spiegare agli italiani la ricchezza culturale del Belpaese e l´attualità della Cultura Umanistica. Alla lavagna aveva scritto: Cultura Umanista. Nella sua retorica ampollosa e vuota ripeteva diverse volte Cultura Umanista...Qualcuno gli ha spiegato, in seguito, che si dice Cultura Umanistica. Quindi lo scolaretto che si atteggia a maestrino, impari l´italiano! Per questo presidente del consiglio i problemi del Paese sono più grandi di lui. Renzi è a digiuno di politica monetaria. Con la sua strategia improvvisata, in questa fase storica, è una minaccia nazionale. Fino a poco tempo fa si occupava di sensi unici e zone pedonali in quella di Firenze. Non è adatto a governare un Paese di 60 milioni di cittadini in un periodo in cui tremano i polsi , nel governare la crisi, ai pesi massimi della politica mondiale. Ciò che oggi vale per Tsipras, domani varrà per Renzi. Dovrebbe dimettersi e fare posto a chi ha più esperienza di lui.
Oramai è evidente che nella Unione Europea un solo parlamento è sovrano, cioè può decidere sulla base dei mandati ricevuti da chi lo ha eletto, ed è ovviamente quello della Germania. Tutte le altre assemblee dei rappresentanti, seppure in diversa misura, sono sottoposte al vincolo della compatibilità delle proprie decisioni con quelle delle istituzioni europee.
Spesso gli europeisti ingenui spiegano che il male dell'Europa sarebbe l'unione monetaria in assenza di una unione politica. È una sciocchezza. L'attuale sistema europeo è prima di tutto un sistema politico ove si prendono decisioni politiche. La scelta di affamare e poi sottomettere la Grecia ad un memorandum devastatore e anche antieconomico, come ricorda l'insospettabile Fondo Monetario Internazionale, è stata squisitamente politica. Il sistema di potere europeo doveva punire il governo che aveva osato contrastarlo e ancora di più il popolo, che con oltre il 60% aveva detto no ai suoi diktat.
Giusto quindi il paragone con il trattato di Versailles, che per ragioni politiche nel 1919 impose alla Germania dei vincoli insostenibili sul piano economico. Non è dunque vero che l'Europa politica non esista e che bisognerebbe costruirla per contrastare lo strapotere dei mercati. L'Europa politica esiste, è quella che ha schiacciato la Grecia e che le ha imposto un governo coloniale. L'Europa politica esiste: è un protettorato della Germania che adotta le politiche di austerità prima di tutto perché esse servono all'interno del paese guida. I salari dei lavoratori tedeschi sono compressi da anni, se c' è un paese dove ingiustizie sociali e corruzione son cresciuti a dismisura questo è proprio la Germania. Le classi dirigenti tedesche han bisogno come il pane dell'austerità, prima di tutto per controllare il proprio popolo e per questo devono poi imporla a tutta l'Europa.
Le istituzioni, i trattati, la gestione concreta del potere europeo sono la costituzionalizzazione delle politiche liberiste di austerità in tutto il continente. La moneta unica a sua volta è il veicolo materiale delle politiche di austerità, non è separabile da esse, come ci ha ricordato il ministro tedesco Schauble.
Ma la moneta unica ha anche una enorme funzione ideologica. Se nel sistema autoritario europeo vediamo delinearsi il più pericoloso attacco alla democrazia dal 1945 ad oggi, nell'ideologia della moneta unica vediamo risorgere i mostri dell'identità razziale.
L'euro è sempre più venduto come una moneta razzista. Chi la possiede o, anche senza possederne, sta in uno stato che l'adotta, vive nella parte giusta del mondo. L'euro è la moneta dei ricchi e austeri popoli del Nord, non vorranno i fannulloni e corrotti meridionali abbandonarla per finire in Africa? Questo il messaggio subliminale della minaccia di Grexit rivolta al governo Tsipras, che di fronte ad essa, invece che raccogliere la sfida, si è arreso.
L'Euro è la moneta dei popoli superiori e quelli inferiori devono perciò meritarla. Come stupirci che di fronte a questo eurorazzismo distillato dalle élites e dai mass media, poi ci siano coloro che fanno i pogrom contro i migranti? Tutto si tiene. Il ricatto contro i popoli, o euro e austerità o l'Africa, finora ha funzionato anche perché le principali correnti politiche di governo se ne sono fatte portatrici. Le grandi famiglie democristiana e socialdemocratica sono al governo in tutta Europa e l'unico governo estraneo ad esse, quello di Syriza, è stato per l'appunto umiliato.
D'altra parte le borghesie nazionali non esistono più, in particolare nei paesi debitori come Italia, Spagna Grecia. I resti dei vertici delle classi imprenditoriali di questi paesi sono oramai parti e appendici del sistema finanziario multinazionale.
Si delinea così la vera Troika che governa l'Europa, che si regge su tre gambe. Quella della Germania, quella delle borghesie europee transnazionali, quella del sistema di potere dei partiti popolare e socialdemocratico. È un potere ed un progetto politico europeo quello che ha massacrato e usato come cavia la Grecia. Un potere che vuol governare l'Europa con austerità e liberismo e per questo è disposto a cancellare molto della democrazia.
Non tutto? Certo sino ad ora, ma come insegna la storia quando si imbocca la via autoritaria non si sa mai dove ci sia il punto di arresto. Un fascismo bianco liberaleggiante e tecnocratico, o uno brutale e apertamente razzista? Nella Germania del 1930 non si poteva prevedere cosa sarebbe successo. Ma i mostri son già tutti in campo e la loro fabbrica sta nell'umiliazione della democrazia contenuta in ogni atto del sistema politico europeo
La vicenda greca ci consegna un lezione chiarissima. Questa Europa non è riformabile, o la si accetta così come è sperando che non esageri in dittatura. Oppure si organizza la resistenza per rompere la moneta unica e tutto il sistema politico UE e ricostruire su nuove basi la democrazia e lo stato sociale. Tertium non datur.
Proprio di questa sua irriformabilità il sistema di potere europeo a trazione tedesca ha finora fatto largo uso per vincere tante battaglie. O mangi sta minestra o salti dalla finestra sta oramai scritto nella bandiera azzurra stellata che sventola nei pubblici edifici. Ma se, come sempre è avvenuto nel passato, fosse proprio l'irriformabilità del potere la causa della sua sconfitta finale? Su questo devono contare le resistenze alla Troika che si stanno organizzando in ogni paese.
Giorgio Cremaschi
Ma i fatti hanno la testa dura. Questo intervento di Dino Greco, ultimo direttore di Liberazione, apparsa su http://www.controlacrisi.org, segna una prima presa d'atto che l'Unione Europea non è riformabile e che vada superata con una rottura. Un passo non fa un cammino, certamente. Com'è noto, a noi la strada del "nazionalismo democratico" sembra decisamente troppo stretta e costellata di possibili equivoci; ed è altrettanto noto che ci sembra decisamente più realistica quella di una libera comunità di Stati sul modello dell'Alba latino-americana.
Ma un passo nella direzione giusta è sempre da salutare con rispetto e attenzione. Perché, quantomeno, non aggiunge un altro metro sulla strada che porta al suicidio.
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La cosa più semplice, diretta e, purtroppo, definitiva l’ha detta Lucio Carracciolo (direttore di Limes), quando ha scritto che dopo l’accordo della capitolazione “la Grecia cessa di esistere come Stato indipendente”.
Non ancora nella forma, ma certo nella sostanza. “Restano i Greci”, ma espropriati di tutto: della giurisdizione politica, economica, sociale.
Ciò perché l’intesa ha il carattere, neppure dissimulato, di una resa senza condizioni.
E’ davvero come se il board dell’Ue fosse entrato ad Atene alla guida dei tanks col mandato di non fare prigionieri e il signor Schauble avesse infine messo il suo sigillo sull’occupazione sbattendo sulla bilancia la “spada di Brenno”.
Il congegno del diktat è concepito per prefigurare una colonizzazione stabile del paese, la sua trasformazione in un protettorato su cui veglia la resuscitata troika, i cui funzionari, prima ripudiati dal governo greco, torneranno come cani da guardia a controllare l’attuazione di ogni singolo punto dell’accordo, prima ancora che su di esso si pronunci (pletoricamente) il parlamento preso in ostaggio insieme al popolo di Grecia.
Evito di riassumere qui l’impressionante incalzare del diktat, i contenuti scolpiti nelle 7 pagine del nuovo memorandum. Alla condizione però che essi siano tenuti ben presenti. Perché c’è un antico vizio, nella sinistra, ed è la tendenza a rimuovere le sconfitte (in questo caso la drammatica materialità di quell’intesa) per “buttarla in politica” e assolversi dall’urgenza di una rielaborazione critica delle proprie tesi.
Di questa pessima abitudine ha in questi giorni libero corso una versione ancor più paradossale, quella secondo cui l’accordo è una tagliola talmente pesante da non potere essere applicata: dunque - sento dire - è come se non esistesse!
Invece l’accordo esiste eccome, come esistono i pretoriani (gli euroburocrati di Bruxelles e Berlino) che vegliano al minuto su ciascun atto legislativo al fine di garantirne la meticolosa applicazione.
Vorrei essere chiaro su un punto preliminare: la questione non si pone in termini di “tradimento”, scorciatoia fuorviante di ogni querelle che annega il dibattito a sinistra in un mare di inutili e autolesionistici insulti.
Tsipras non è Vidkun Quisling. Semmai è una figura tragica che i fatti rischiano di trasformare nell’esecutore testamentario del referendum.
Alla radice dell’esito del lungo braccio di ferro c’è un errore (fatale) di comprensione teorica della realtà dell’Unione europea, errore del quale la stessa sinistra radicale italiana divide la paternità.
L’errore è consistito (consiste?) nel ritenere che con la Commissione europea, con la Bce, con il Fmi sia possibile negoziare la fine (o almeno l’attenuazione) dell’austerity.
Un po’ come se una vittima dei “cravattari” si illudesse di potere concordare con i propri aguzzini la fine dell’usura.
Ricordo, per inciso, che quasi tutta la sinistra italiana aveva creduto che le dimissioni di Varoufakis, intervenute dopo la vittoria nel referendum e prima che se ne conoscessero le reali ragioni, potessero essere un viatico positivo per l’accordo, quasi che ad impedirlo fosse ormai soltanto un conflitto di caratteri fra i ministri delle finanze greco e tedesco!
Il fatto che non si dovrebbe mai dimenticare è che l’austerity non è altro che la principale missione politica delle classi dominanti europee (privatizzazione integrale, abolizione del welfare, deflazione salariale, concentrazione di potere e ricchezza, mercatismo assoluto, ecc.). E che l’architettura congegnata per rendere inespugnabile questo modo dell’accumulazione, dell’appropriazione privata, dell’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro non può essere incrinata con il consenso dei suoi artefici che in quel caso vedrebbero messa in discussione la propria ragione di esistenza.
Non avere compreso l’irriducibilità del proprio antagonista ha fatto ritenere che la ragionevolezza delle proprie posizioni, il carattere manifestamente ingiusto e per giunta inefficace delle misure imposte sino ad allora alla Grecia potesse dischiudere la porta ad un’intesa positiva. Nulla di più illusorio.
La trattativa si è svolta su un binario a senso unico, con la dichiarazione condivisa che i trattati europei, a partire dalla moneta, non erano in discussione, e che l’accordo si sarebbe potuto raggiungere solo entro e non al di fuori del perimetro dato.
Poi, una volta scoperto che davanti c’era un muro invalicabile si è detto che la sproporzione nei rapporti di forza era talmente grande da non consentire un esito diverso e che la firma era obbligata.
Ma che i rapporti di forza fossero questi e non altri era ben noto a tutti sin dall’inizio, anche quando si davano per certe la fine dell’austerity e la sconfitta della troika.
E allora? Il fatto è che ad una ipotesi alternativa, ad un’altra via d’uscita, che mettesse in conto di non firmare la capitolazione anche a prezzo di subire l’uscita dall’euro non si è mai pensato, se non in chiave di tattica negoziale (Varoufakis), anch’essa rigettata dalla maggioranza della segreteria di Syriza.
La convinzione che non esistesse una via d’uscita ha fatto sì che la straripante vittoria dell’oki sia stata paradossalmente usata non per sfidare la troika, ma per rendere le armi, senza nulla più negoziare, sotto il ricatto della “grexit” brandito dalla Germania come una clava.
L’accordo (per usare le stesse parole con cui Tsipras commentò le proposte dell’Ue appena prima della resa) è “umiliazione e disastro”, un taglieggiamento dai contenuti violentemente recessivi, un percorso che conduce esattamente là dove la Grecia è stata portata dagli altri memorandum.
Un accordo che distrugge Syriza (o ne muta in radice la natura) perché il vulnus democratico inferto al partito è fortissimo e alquanto difficile da riassorbire.
E’ questo un fatto incontrovertibile che nessuna acrobazia dialettica può relativizzare: mentre la maggioranza del comitato centrale del partito (e non solo la sinistra) respingeva l’accordo il suo segretario andava da un’altra parte, costruendo una nuova maggioranza parlamentare necessaria per approvare l’intesa col voto decisivo degli oligarchi di Potami, dei corrotti del Pasok e della destra di Nuova democrazia.
Ma c’è di più: ora si sta spiegando che l’accordo fotocopia dei precedenti, contro i quali Syriza è nata, ha combattuto e vinto, lascia dischiusa una strada: quello che fino ad un giorno prima era considerato un obbrobrio indifendibile e una taglia insopportabile sul popolo greco diventa una “non sconfitta” che può rilanciare la lotta interna.
Il governo greco oggi simula un’autonomia che in realtà non gli è concessa.
Ecco, io credo che c’è una cosa peggiore del disfattismo ed è la capacità (di cui la sinistra italiana ha credenziali da master universitario) di trasformare le sconfitte in vittorie, il che equivale a non elaborarne e a non apprenderne la lezione, rimanendo prigionieri di una sorta di coazione a ripetere, a percorrere le strade di sempre anche se senza via d’uscita.
E allora?
Nei confronti di Syriza, di Tsipras, del popolo greco tutta la sinistra italiana ha un enorme debito di riconoscenza. Da soli, contro il moloch europeo, hanno saputo ribellarsi e mettere a nudo la violenza cieca del potere incardinato nelle istituzioni continentali, hanno disvelato la natura degli interessi che esso rappresenta mostrandone sino in fondo il carattere predatorio, hanno strappato le lenti deformanti con le quali certo progressismo aveva educato a guardare all’Europa.
Ma hanno anche dimostrato, a loro spese e a memoria di tutti, che quella immensa prova di coraggio e di generosità non basta, perché il meccanismo infernale che hanno combattuto pensando di piegarlo non è emendabile, non è riformabile dall’interno.
La questione di cui occorre prendere finalmente atto è che l’Ue, i trattati che ne formano l’ossatura e la moneta sono esattamente la stessa cosa, per concatenazione logica e simbolizzazione reciproca; e che l’euro è l’instrumentum regni, la tecnicalità monetaria di una politica socialmente reazionaria, di una inaudita oppressione di classe che trascina con sé una drammatica fuoriuscita dalla democrazia.
L’epilogo della vicenda greca dimostra che l’intera configurazione della formazione economico-sociale europea è una “gabbia d’acciaio” dalle cui maglie non si esce se non rompendola.
Vedo che cominciano a capirlo in molti: da Paul Krugman (che da quando se n’è convinto non scrive più su Repubblica) a Oskar Lafontaine, da James Galbraith a Stefano Fassina (che da quando si è affrancato dalla morsa del Pd dice persino cose sensate).
Ebbene, ho l’impressione che l’analisi materialistica della reale essenza dell’Ue noi fatichiamo ancora a compierla, per affidarci, nella pratica (che gramscianamente rivela il nostro reale ambito teorico) a pur generose illusioni volontaristiche.
E’ come se fossimo prigionieri di una sorta di blocco del pensiero, di conformistica adesione all’idea che fuori dall’euro non c’è che il disastro, la degenerazione nazionalistica, la caduta in un buco nero e un’inevitabile deriva reazionaria: anche noi, in certo qual modo, siamo succubi di un nostro “there is no alternative”.
Sicché nessun memorandum, neppure l’inevitabile avvitamento della crisi su se stessa, neppure la distruzione sempre più evidente di ogni aspetto della sovranità nazionale, sono riusciti a sciogliere in noi il timor panico per un’ipotesi che si configuri come vera rottura delle regole del gioco imposte dal capitale, per un salto di paradigma che non ci consegni sistematicamente alla sconfitta.
Eppure chi, se non i comunisti, dovrebbe essere capace di pensiero creativo, dunque “divergente”, tale da rompere continuamente gli schemi dell’esperienza e pensare il non già pensato.
L’elaborazione di una diversa proposta è oggi per noi (per l’esistenza stessa di una sinistra italiana) una necessità vitale. Altrimenti i già zoppicanti tentativi di rendere credibile e fare vivere l’Altra Europa e di immaginare “costituenti” della sinistra antiliberista nascono senza futuro, già con dentro inoculato il virus della dissoluzione.
L’Europa di cui abbiamo discusso sino a ieri e nelle cui coordinate si è mossa la nostra strategia è morta e sepolta. Continuare ad investire sulla sua riformabilità, alimentare questo equivoco significa condannarsi ad un suicidio politico che si compirebbe definitivamente con la firma del TTIP e con l’entrata in vigore del fiscal compact.
Diciamolo in questo modo: se la conclusione della partita greca viene considerata una “contingente necessità” siamo tutti in un cul de sac. Perché nessuno avrà la forza di provarci più.
Un’ultima considerazione su un tema che è spesso tornato nelle nostre discussioni.
Dovrebbe essere ormai chiaro (anche questo è un apprendimento da non buttare) che proprio questa Europa è la più feconda culla del peggior nazionalismo.
Come ha scritto recentemente Marco Bascetta, nella fase più dura dello scontro fra Grecia e Germania il giudizio ricorrente nella stampa tedesca era che il popolo greco è “naturalmente infido”, culturalmente “inquinante”, “moralmente riprovevole”, “parassita”, e – nei casi peggiori – “miscuglio bastardo di Slavi, Turchi e Albanesi”, “altro che età di Pericle”, dunque.
Siamo a pochi passi – ammoniva Bascetta – dal confine invalicabile della dottrina razziale.
Questa è l’altra non meno pericolosa faccia del nazionalismo: il revanscismo sciovinistico tedesco, il bozzolo reazionario coltivato nell’involucro dell’Ue, la costruzione stabile di una gerarchia inossidabile di Stati con in testa la Germania come dominus per vocazione da una parte e i subalterni per costrizione dall’altra.
C’è una strada stretta che noi dobbiamo percorrere. Quella che impone, ad ogni costo, il recupero di una sovranità nazionale da incardinare su una strategia di riunificazione e difesa del lavoro e su una nuova tessitura solidaristica capace di trascendere i confini nazionali per costruire, su una proposta finalmente chiara, una trama democratica che l’attuale assetto dei poteri europei impedisce in radice.
Si tratta, per dirla con le parole di Mimmo Porcaro, di elaborare un nazionalismo democratico, lavorista, solidarista e antirazzista, diametralmente opposto alle farneticazioni reazionarie di Salvini. Senza questo cimento temo che sarà il capataz leghista ad avere la meglio. L’uscita dall’euro prima o poi ci sarà comunque, per autocombustione, ma a quel punto non saremo certo noi a determinarne la direzione.
Ministro dei Beni e delle Attività Culturali
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
Via del Collegio Romano, 27 00186 Roma
Gentile Onorevole Ministro Franceschini,
non senza un profondo sconforto abbiamo letto la Sua lettera di risposta e non senza sgomenta perplessità abbiamo appreso le intenzioni del Governo in merito al Memoriale italiano ad Auschwitz.
Nell’incontro del 15 luglio scorso con il Direttore Generale di Gabinetto il Cons. Daniele Ravenna che gentilmente ha accolto una delegazione dei firmatari dell’Appello internazionale per salvare il Memoriale Italiano nel Blocco 21 del Campo di Auschwitz, alla presenza della Dott.ssa Susanna Boschetti dell’Ufficio del Consigliere Diplomatico, abbiamo espresso le ragioni della nostra insoddisfazione per non aver ricevuto risposta in merito alle questioni poste e alle decisioni prese.
A fronte della ormai nota complessità della triste e annosa vicenda del Memoriale, ci sembra a dir poco inverosimile la decisione del Governo che, alla luce di presunte crescenti pressioni esercitate dalle autorità polacche, mai rese ufficialmente note, ha ritenuto necessario avviare le procedure per la rimozione del Memoriale e la realizzazione di un nuovo allestimento museale del Blocco 21. Appare tanto inverosimile quanto inammissibile ridurre il Memoriale Italiano, un’opera di testimonianza e di inestimabile valore culturale ed artistico, ad una questione di carattere museografico, di allestimento, di tecniche e spazi espositivi, come si dice.
E’ a dir poco ovvia, se non banale, la considerazione che le opere d’arte, nel loro naturale contesto architettonico, sono tutte figlie del loro tempo e non devono rispondere a rinnovati criteri museali ma che, semmai, quando fruibili, restano fonte di riflessione e dibattito nel tempo. Non per questo vengono trasferite, decontestualizzate, censurate. Per fare un paragone che, alla luce delle attuali vicende internazionali forse rende ragione dell’assurdità e della gravità del caso, è come se d’autorità venisse imposta la censura e la dislocazione dei capolavori di Fidia dal British Museum di Londra, asportati e trafugati due secoli orsono, non per riportare quei capolavori ad Atene, ma perché non corrispondenti alle nuove linee guida del Museo. Si aggiunga che il Memoriale, a differenza del Frontone del Partenone, è concepito per il Blocco 21 del Campo di Sterminio di Auschwitz e rimane indissolubilmente legato al tragico contesto originario per il quale è stato progettato. Nella sciagurata ipotesi del trasferimento rimarrà, a futura memoria, uno strappo indelebile della forma e dei contenuti che il Memoriale rappresenta, lacerazione che sarà resa ancora più evidente da un’eventuale ricostruzione artificiale del contesto, una sorta di Disneyland di Auschwitz.
Il vero scandalo sarà collocare il Memoriale Italiano, con le parole di Primo Levi, la musica di Luigi Nono, l’architettura di Lodovico Belgioioso, le pitture di Pupino Samonà, la regia di Nelo Risi, al fianco del più grande centro commerciale di Firenze con l’inevitabile trasformazione dell’opera da luogo della Memoria a fantoccio della “pop art”, contraddicendo lo spirito, l’origine, la finalità dell’opera stessa, snaturandola e svuotandola di senso e contenuto; il vero scandalo sarà trasferire il Memoriale nella periferia di Firenze nell’EX 3 di Gavinana di fianco a grandi magazzini commerciali, luogo che sembrerebbe aver già subito ben due clamorosi fallimenti come sito per ospitare arte contemporanea.
Ciò detto, nella chiusura e nella ventilata rimozione del Memoriale Italiano da Auschwitz, che Lei sembra avallare, intravediamo una questione ben più complessa, un cattivo intento che riapre il dibattito sul valore della Storia, della Memoria e dell’Arte come veicoli di trasmissione; avvertiamo l’intenzione di rimuovere, insieme al monumento, i contenuti simbolici che il Memoriale rappresenta, il substrato comune della Resistenza e della lotta partigiana ed antifascista, la cui legittima eredità sono la Costituzione e la Repubblica Italiana; l’intenzione di minimizzare la realtà incontrovertibile della liberazione del Campo da parte della valorosa Armata Rossa Sovietica.
Il Memoriale riproduce la triste storia di tutte le vittime del nazifascismo - tutti gli italiani, donne e uomini ebrei, rom, omosessuali, dissidenti politici, deportati nei campi di concentramento nazisti - non di una parte di essi, come sembra in atto. La Memoria è, e deve rimanere, unita e collettiva. In questo senso appaiono ingiustificabili giudizi ed espressioni del tipo “padiglione della vergogna”, “ padiglione più triste”, “al confronto degli altri fa inorridire per quanto sia inutile”, così come inammissibile appare il ripensamento di chi un tempo partecipò attivamente alla realizzazione del Memoriale e che oggi sembra rinnegare l’opera dei padri, partecipando alla sua eliminazione.
La verità è che quest’opera, sradicata dal contesto del campo di Auschwitz potrebbe andare per sempre distrutta, e Lei, nella qualità istituzionale che ricopre, potrebbe essersi reso corresponsabile di avere contribuito alla grave frantumazione del significato che il Memoriale custodisce: la memoria nazionale della deportazione nazifascista e della Resistenza. La conseguenza di questa infausta vicenda è che il Memoriale Italiano, che evoca tutte le vittime del nazifascismo, sembra aver perso la sua funzione di baluardo dei diritti umani, contro ogni forma di discriminazione. I risultati sono lo sgretolamento e la perdita di significato della Memoria, divenuta commemorazione di maniera.
Tutto ciò avviene mentre è in atto una violenta recrudescenza in Italia e in Europa di antisemitismo e di razzismo contro i Rom, gli immigrati, la diversità.
Dietro all’affermazione della non corrispondenza del Memoriale ai criteri museografici vigenti si potrebbe celare il problema che l’opera non sia gradita alle Autorità Polacche. In questo caso, vista la delicatezza dell’argomento e la grave decisione che ne consegue, sarebbe doveroso, ed è ciò che Le chiediamo, che venissero illustrate con dettaglio le ragioni di questa ipotesi insieme alla fonte, se esistono. Allo stato registriamo solo le parole espresse dal Sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri Verrecchia su La Repubblica del 29 gennaio 2015: “È la presenza nell'opera di richiami artistici al comunismo, oggi considerati fuori legge in Polonia, ad aver indotto la chiusura del Blocco 21”. Ora, al cospetto di questa dichiarazione che suscita un moto di indignazione a chi identifica il Memoriale parte fondante della Storia Patria, Lei dovrebbe spiegare come il Governo Italiano, che è il Suo Governo, possa accettare questi presunti assurdi desiderata del Governo Polacco e chiarire come una legge del genere possa trovare ospitalità nell’Europa che si è data una Carta dei Diritti Fondamentali, fra i quali diritti è riconosciuta la libertà di accesso alle opere d’arte.
In realtà, non risulta, allo stato, alcuna pronuncia ufficiale del Governo Polacco in merito al fatto che il Memoriale non debba trovare ospitalità ad Auschwitz in ragione di una legge dello Stato. L’Ambasciatore Polacco, intervistato lo scorso 30/11 su Radio Uno nella trasmissione Voci dal Mondo, ha fatto ricadere la responsabilità della chiusura dell’opera solo sui rinnovati criteri museali, senza sollevare alcuna obiezione di natura governativa, cosa peraltro ribadita durante un nostro incontro all’Ambasciata di Polonia.
A fronte di queste preoccupanti incertezze sulle reali motivazioni del trasferimento dell’opera, le ragioni per salvare il Memoriale Italiano e per bloccare il suo trasferimento dal Blocco 21 del Campo di Sterminio di Auschwitz sono a chiare e note. Sono espresse, fra gli altri, nei pareri del Consiglio Superiore, che opera sotto la Sua egida, che ha votato all’unanimità in decisa e ferma opposizione allo spostamento del Memoriale; sono precisate nei pareri dell’Accademia di Belle Arti di Brera, del Dipartimento di Architettura dell’Università di Palermo e dell’Accademia di Cracovia raccolti e pubblicati nel Volume “Il Memoriale Italiano ad Auschwitz” ; sono elencate nell’ Appello internazionale per salvare il Memoriale; sono esposte, con grande sintesi e chiarezza, nelle tre interrogazioni presentate dall’On. Serena Pellegrino (Atto n. 4-07473), dalla Senatrice d’Adda (Atto n. 4-03375) e dal Sen. Pietro Liuzzi (Atto 4-03864), sottoscritte da oltre settanta parlamentari. Nelle interrogazioni si chiede al Presidente del Consiglio, al Ministro degli Esteri e a Lei, nella qualità di Ministro dei Beni Culturali, l’immediato accesso al Memoriale, il suo restauro e la conservazione in loco, unitamente ad un riadattamento che possa corrispondere ai nuovi criteri museali. Nel merito di queste interrogazione, il cui fine è la salvaguardia del Memoriale, scopo che travalica ogni interesse personalistico e politico di parte, Lei ha preferito non rispondere, tacendo così ogni Sua responsabilità e del Suo Governo sulla conservazione del monumento.
In conclusione, richiamando alla Sua attenzione le tre interrogazioni parlamentari che hanno ricevuto risposta dopo molto tempo, cioè quando la sbagliata decisione diveniva esecutiva - risposta che spiega le modalità dello spostamento ma non entra nel merito della ragione della gravissima decisione di chiudere l’accesso al pubblico e di rimuovere dal Blocco 21 il Memoriale italiano - chiediamo a Lei e per Suo tramite al Governo:
- di rendere pubbliche le ragioni che hanno portato il Governo Polacco e il Museo di Auschwitz alla decisione di censurare e trasferire il Memoriale e di fornire la relativa documentazione ufficiale;
- di rendere pubbliche le ragioni che hanno portato il Governo Italiano ad accettare la decisione delle Autorità Polacche di censurare e trasferire il Memoriale e di fornire la relativa documentazione ufficiale;
- di trovare, in collaborazione con il Ministro degli Esteri e il Presidente del Consiglio, la volontà di aprire una seria iniziativa diplomatica e culturale con il Governo Polacco e con l’Amministrazione del Museo di Auschwitz finalizzata a rivalorizzare il Padiglione Italiano e a bloccare ogni operazione di trasferimento del Memoriale;
- di verificare se le pur lodevoli intenzioni del Comune di Firenze e della Regione Toscana di accogliere il Memoriale possano essere destinate a miglior sorte, contribuendo a salvare l’opera dove sta;
- di non sottrarre la Sua presenza e la Sua responsabilità e di non stimolare operazioni volte a derubricare le interrogazioni parlamentari in essere, ma di affrontare il dibattito aperto e leale;
- di inserire, per motivi di trasparenza, nella “Commissione per il restauro del Blocco 21 del Museo di Auschwitz_Birkenau e per il nuovo allestimento del percorso espositivo” e in ogni altra eventuale Commissione ed attività da svolgersi, rappresentanti di tutte le vittime del nazifascismo, nessuna esclusa, e non di una sola componente, come risulterebbe allo stato;
- di bandire pubbliche gare per la progettazione e per i lavori di restauro del Memoriale nel Blocco 21, anche nella malaugurata ipotesi del trasferimento.
Nella rimozione del Memoriale si ravvedono possibili violazioni dei Diritti Umani, del Diritto Internazionale, del Diritto di Proprietà Intellettuale e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nonché una violazione della Convenzione Internazionale per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale dell’UNESCO e un crimine di distruzione di beni culturali ed artistici. In attesa di una nuova decisione del Governo Italiano, ci rimettiamo pertanto alle autorità internazionali competenti, che sono a conoscenza del problema, affinché si adoperino perché il Memoriale non venga rimosso dal Blocco 21 del Campo di Sterminio di Auschwitz, sua parte integrante, e che venga immediatamente riaperto al pubblico, restaurato e integrato con apparati didattici esplicativi e congrui.
Sia caro a Lei, Ministro, il Memoriale Italiano, quanto a coloro - parlamentari, storici, accademici, intellettuali e associazioni di varie estrazioni - che hanno sottoscritto l'appello internazionale per la conservazione in situ dell’opera. Non si dimentichi che l’Italia, con il suo Fascismo, ha contribuito in modo non marginale all’aggressione militare, alla deportazione e morte di cittadini inermi. Non si soffochi il dibattito in essere con operazioni che possono apparire non trasparenti e revisioniste, la posta in gioco è troppo alta. Si tratta forse dell’opera d’arte del Novecento più importante per la definizione della storia e dell’identità del popolo italiano. Trovi, insomma, anche Lei il coraggio di battersi per modificare il corso degli eventi e contribuisca a mettere fine all' insopportabile elenco di giustificazioni, non credibili, che hanno portato negli anni all’improvvida e scellerata decisione di deportare il Memoriale Italiano.
Confidando nella Sua solidarietà e rinnovando l'invito a ricevere una delegazione di Gherush92, Le invio i più cordiali saluti a nome mio e dei firmatari dell’Appello per il Memoriale Italiano ad Auschwitz
Arch. Valentina Sereni
La Presidente
Gherush92 Committee for Human Rights (ECOSOC)
gherush92 @ gmail.com
* APPELLO ALL’ANPI per l'abrogazione della Legge n.92/2004 istitutiva del "Giorno del Ricordo"
Il #Giornodelricordo: dieci anni di medaglificio fascista. Un bilancio agghiacciante.
1. Un presidente piccolo piccolo
Quest’anno il Giorno del Ricordo non è passato proprio liscio liscio.
Prima, la campagna sui falsi fotografici che abbiamo lanciato su Giap è arrivata sui media mainstream sia in Italia (L’Espresso) sia in Slovenia (Mladina).
In seguito, la notizia del conferimento dell’onorificenza ai congiunti del volontario del Battaglione «Mussolini» Paride Mori ha scoperchiato un vaso di Pandora. Poche settimane dopo il 10 febbraio, il Corriere ha pubblicato un articolo a firma di Alessandro Fulloni («Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo»), in cui si parla di ben trecento onorificenze – sulle mille assegnate a partire dal 2005 – attribuite a militari inquadrati nelle formazioni collaborazioniste della RSI.
A livello nazionale la notizia ha destato un certo scalpore, ma chi ha la memoria lunga e l’abitudine a guardare oltre il cortile di casa propria, ricorda bene che già nel 2007 era successo un discreto casino.
All’epoca Napolitano pronunciò un discorso passato alla storia, o perlomeno alla cronaca. Discorso che, tra le altre cose, conteneva la plateale manipolazione di un passo dello storico Raoul Pupo:
Pupo: «Il quadro che si offre all’analisi storica è dunque decisamente articolato, perché nei fatti dell’autunno del 1943 sembrano intrecciarsi più logiche: giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e faide paesane, oltre a un disegno di sradicamento del potere italiano – attraverso la decimazione e l’intimidazione della classe dirigente – come precondizione per spianare la via a un contropotere partigiano che si presentasse in primo luogo come vendicatore dei torti, individuali e storici, subiti dai croati dell’Istria.»
Napolitano: «Così, si è scritto, in uno sforzo di analisi più distaccata, che già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia.»
Lo sradicamento del potere italiano diventava tout court sradicamento della presenza italiana; l’Istria diventava l’intera Venezia Giulia; scomparivano il contropotere partigiano e, soprattutto, i torti subiti dai croati.
Dopodiché, Napolitano consegnò la medaglia di acciaio brunito con la scritta «La Repubblica italiana ricorda» al figlio o al nipote di Vincenzo Serrentino, ultimo prefetto di Zara.
Il Presidente croato Stjepan Mesić non prese bene né il discorso di Napolitano (soprattutto per il revanscismo che traspariva da un passaggio sul confine del ’47) né l’onorificenza consegnata a Serrentino.
Infatti, chi è ‘sto Serrentino, che su Wikipedia, fino a stamane, era catalogato tra le “vittime delle dittature comuniste”?
Durante l’occupazione nazifascista della Jugoslavia, Serrentino fu uno dei tre componenti del Tribunale Straordinario della Dalmazia, un organo “giudiziario” alle dirette dipendenze del Governatore Bastianini, creato a scopo repressivo per terrorizzare la popolazione civile in funzione antipartigiana.
Il tribunale comminò decine di condanne a morte, eseguite seduta stante, dopo processi lampo indiscriminati, basati sul principio della responsabilità collettiva. Per tale motivo Serrentino venne catturato a Trieste dai partigiani jugoslavi nel 1945, processato come criminale di guerra, e fucilato a Sebenico nel 1947.
Non solo: persino la commissione italiana per i crimini di guerra, istituita con lo scopo preciso di insabbiare, insabbiare, insabbiare, nel 1946 inserì Serrentino nella lista dei (pochi) criminali deferiti all’autorità militare.
Ma come, si chiederanno i meno informati, le medaglie non devono andare ai parenti degli “infoibati”? Serrentino non è mica finito in una foiba…
Beata ingenuità. Il termine “foibe”, come scrivono Pupo & Spazzali in un loro rinomato libro (Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003), «va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale». Si usa “foibe” per intendere «le violenze di massa a danni di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatasi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime.» E anche se a parere dei due storici «sarebbe più appropriato parlare di “deportati” e “uccisi” per indicare tutte le vittime della repressione», ormai tutti parlano di “foibe” e “infoibati”, e quindi pure loro si adeguano.
Anche Gianni Oliva dice che il termine ha «un carattere simbolico» e il suo uso «va accompagnato dall’avvertenza che buona parte delle vittime (probabilmente la maggior parte) non è stata eliminata nelle foibe» (Foibe, Mondadori, Milano 2002).
A questo punto, un lettore attento potrebbe domandarsi:
«Ma se persino gli storici più citati nel dibattito mainstream, quelli ospitati da Vespa, dicono che le vittime sono alcune migliaia di cui la maggior parte è morta in altre circostanze, dove vanno a finire gli italiani gettati “a decine di migliaia” nelle foibe ancora vivi e legati l’uno all’altro con fil di ferro di cui ho letto su Facebook e/o sentito dire da Giorgia Meloni?»
Bella domanda, sarebbe bello sentirla fare più spesso. Quando la sentono, i fascisti “sopperiscono” alla mancanza di fonti e di prove… urlando. E qui vale la pena ripescare un epigramma di Beppe Fenoglio:
[LXIV] A BALBO
Balbo oratore, delle due l’una:
o rinforzi il concetto o indebolisci la voce.
2. Aguzzini nella nebbia
Il caso di Serrentino non è certo stato l’unico prima di Mori. Nonostante la fitta nebbia che circonda l’edificio del GdR (una via di mezzo tra la nebbia di The others di Amenabar e quella di The mist di Stephen King), alcuni storici come Sandi Volk e Milovan Pisarri sono riusciti, negli anni, a recuperare i nomi di decine di “decorati” e hanno scoperto parecchie cose. Tre esempi di decorati:
Luciani Bruno, riconoscimento ricevuto nel 2007. Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 231, f. br. 24206):
«[…] Il giorno 27 novembre 1944 venne arrestata Varich Wilma dagli agenti Ciarlenco e Luciani, membri della polizia di Collotti, e venne portata nel carcere in via Bellosguardo. Qui venne interrogata. Venne legata al tavolo, picchiata e presa a pugni; questo venne fatto dal brigadiere Ciarlenco. Vedendo i torturatori che non aveva intenzione di dire nulla, cominciarono a bruciarle le mani, le gambe e le guance con l’elettricità. Dopo un’ora fu portata in cella. Il giorno successivo fu trasportata nel carcere presso i Gesuiti. Dopo ottanta giorni fu nuovamente interrogata e torturata nel carcere in via Cologna, poi trasferita al Coroneo e dopo due mesi fu internata in Germania.»
Privileggi Iginio, riconoscimento ricevuto nel 2007. Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 214, f. br. 21168):
«[…] Il giorno 2 febbraio 1944 arrestarono Pribetić Ivan, che venne portato in carcere, maltrattato e picchiato; venne picchiato in particolare dal fascista Privileggi. Lo stresso giorno si recarono a Nova Vasi e arrestarono Viggintin Petar, che venne portato a Parenzo e ucciso con una mitragliatrice poco distante dall’abitazione di Mate Vlašić. Nel corso di questa esecuzione vennero riconosciuti i fascisti Kovačič Mario e Destilatis Ennio. In quell’occasione diedero fuoco alla casa di Vlašić Mate, e quando Vlašić Petar tentò di spegnere l’incendio, i fascisti lo presero e lo portarono al cimitero, dove venne ucciso con una raffica di mitragliatrice. A quest’esecuzione parteciparono Privileggi Iginio e Ramarro Luigi. Allo stesso modo uccisero sempre a Nova Vasi Brnobić Ivan e sua moglie Vitkorija, Orahovac Antun, Jerovac Mate, Radin Gašpare, Sorčič Bruno (…).
Il criminale sopraindicato è stato liquidato dalle nostre autorità come risulta dal rapporto della Commissione per i crimini di guerra in Istria numero 389.»
Stefanutti Romeo, riconoscimento ricevuto nel 2006 e nel 2007. Dal suo dossier (AJ, fondo 110, busta 230, f. br. 24016):
«I fascisti di diverse guarnigioni, e in particolare di quella di Oprtalj, commisero nel corso del 1944 nel territorio di Buzet una serie di crimini nei confronti della pacifica popolazione locale, con lo scopo di annientarla e di appropriarsi dei loro beni. La Commissione per i crimini di guerra in Istria ha accertato che in quel periodo critico, il milite Stefanutti Romeo partecipò personalmente ai crimini di seguito descritti […] Dalla fine del gennaio 1944 fino alla fine del giugno dello stesso anno, nel territorio di Buzet, senza alcun motivo vennero uccisi i seguenti civili: Grizančić Mate, Grizančić Andjelo (questi venne portato al cimitero nel paese di Salež dove gli vennero cavati gli occhi, tagliate le orecchie, mentre il suo corpo venne martoriato con il coltello; poi fu fucilato), Zonta Miha, Zonta Antun, una certa Ana di Zrenja il cui cognome non si conosce (venne sgozzata), Pruhar Ivan, Mušković Antuna (venne ucciso mentre badava ai suoi tacchini, che vennero poi rubati dai fascisti), Kodelij Antun e Prodan Antun; inoltre, saccheggiarono e incendiarono 14 abitazioni, mentre arrestarono due persone e li mandarono nei campi in Germania.»
La lista più completa e aggiornata dei decorati si trova qui (pdf).
Eppure il testo della legge istitutiva del Giorno del Ricordo sembra chiaro:
«Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia.»
Com’è possibile che i militari della RSI, collaborazionisti degli occupatori nazisti, ricevano l’onorificenza? Vuoi vedere che…
3. Salvate il camerata Barbagli
Inopinatamente, una traccia ce la dà l’uomo che si fa chiamare Presbite, che si è più volte dichiarato persona informata dei fatti, in una discussione avvenuta nei meandri di Wikipedia:
«La prima formulazione era già contenuta all’interno del primissimo progetto di legge (quello presentato solo da aennini). La finalità era quella di evitare che si presentasse a chiedere la decorazione uno che era morto mentre combatteva per le formazioni inquadrate nell’EPLJ! E allora hanno messo questa formula “a fisarmonica”, presa paro paro dal primo progetto. In questa maniera è vero che non possono essere premiati quelli – per esempio – delle SS italiane, ma quelli sono già dannati e stradannati e gli ex missini tutto sommato sapevano benissimo che fin lì non potevano spingersi. Loro volevano proprio cercare di “salvare” quelli dalla RSI morti infoibati (quelli in combattimento non possono essere decorati).»
E in effetti, leggendo gli atti del dibattito parlamentare sulla legge istitutiva del Giorno del Ricordo, il punto di maggior contrasto tra coloro che votarono a favore risulta essere stato proprio quello riguardante la possibilità di conferire la decorazione ai repubblichini. Nella sua relazione introduttiva, Roberto Menia disse esplicitamente che si sarebbe dovuto dare un riconoscimento ai volontari del Btg. “Mussolini” e della X Mas. Tale possibilità fu contestata dall’ Ulivo, che però non riuscì a far passare i propri emendamenti. L’ultimo intervento al Senato fu quello di Marcello Basso, che disse:
«[…] intervengo sul provvedimento “Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, perché turbato dalla lettura dei Resoconti pervenutici dalla Camera dei deputati; perché scosso dal fatto che negli interventi dei deputati, ma anche dei senatori, della destra non ci sia alcun riferimento alla guerra di aggressione dell’Italia fascista e della Germania nazista alle popolazioni della Iugoslavia, anche da parte di chi, lo voglio dire, autorevole rappresentante della Lega, andava in tempi assolutamente recenti in pellegrinaggio da Milošević; perché scandalizzato dal fatto che nella relazione al provvedimento l’onorevole Menia citi in positivo l’opera dei reparti della X MAS e del Battaglione bersaglieri Mussolini sul confine orientale; scorato, altresì, dal fatto che non emerga sforzo alcuno per capire il contesto storico che ha originato la grande tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; preoccupato – anche questo voglio dire – da talune recrudescenze irredentiste. Si parte, magari come fa il senatore Servello, dalla richiesta della restituzione dei beni agli esuli, per poi magari pretendere la restituzione dei territori.»
Oggi sappiamo che i timori espressi da Basso erano più che fondati. Lo sapevamo già allora, a dire il vero. Lo sapevamo fin dal 1996, quando Menia, presentando la sua primissima proposta di legge, disse in aula:
«I partigiani titini, a seguito dell’8 settembre 1943, per circa sessanta giorni infierirono su quanto d’italiano vi era in quella terra della frontiera orientale. Ributtati nelle loro zone di origine dalle armi tedesche e da quelle della Repubblica sociale italiana, tornarono con la fine della guerra e, dal maggio 1945 – padroni incontrastati della situazione – completarono le loro vendette con altri massacri, con altre stragi.»Ci chiediamo allora perché a suo tempo Basso e altri dubbiosi avessero comunque votato a favore. La risposta probabilmente è: ordine di scuderia. Perché il Giorno del Ricordo è stato il punto d’arrivo di un progetto di lungo corso, di un patteggiamento di Fassino e Violante direttamente con Fini e Menia.
Gli “ex comunisti” del PDS volevano costruire nientemeno che la “memoria condivisa”.
I “post fascisti” volevano semplicemente riabilitare i repubblichini.E’ del tutto evidente che la posizione dei primi fosse perdente, oltre che stupida, sbagliata e incompatibile con i principi dell’antifascismo, e quindi coi fondamenti stessi della Repubblica. La posizione dei secondi invece è del tutto coerente con la storia da cui provengono. Solo l’ottusità – o il cinismo – della classe politica del centrosinistra può spiegare la decisione di svendere in quel modo i principi dell’antifascismo, calpestando il buon senso e qualunque serietà nell’approccio al tema del rapporto storia-memoria: la memoria non è e non può essere condivisa, è un fatto individuale o di gruppo. Solo nei regimi totalitari c’è una memoria condivisa di stato.
Il tentativo di imporre una memoria condivisa ha avuto effetti devastanti su tutta la vita del Paese, a cominciare dal mondo della scuola. Grazie al Giorno del Ricordo, scuole e musei sono obbligati per legge – e da pressioni politiche – a organizzare iniziative con associazioni di esuli come l’ANVGD e l’Unione degli Istriani. In questa intervista al gruppo musicale neofascista La Compagnia dell’anello, il frontman Bortoluzzi racconta che nelle scuole si fanno cantare ai bambini le canzoni revansciste della band:
«Una delle più grosse soddisfazioni rimane però il ricevere le richieste dello spartito di Di là dall’acqua da parte di insegnanti che fanno cantare ai cori delle scuole la nostra canzone.»Insomma si sono fatti passare come sacerdoti di una verità “di tutti” i detentori di una memoria che fino a pochi anni fa era confinata all’estrema destra.
Ricordiamo che, come non manca di far notare Bortoluzzi, un verso di Di là dall’acqua – «Perché in Dalmazia non ti sembri strano / anche le pietre parlano italiano» – è usato da Simone Cristicchi nel suo spettacolo Magazzino 18.
4. The mist
Ma torniamo alle onorificenze ai repubblichini. Chi ne ha deciso concretamente l’assegnazione? La legge affida questo compito a una commissione formata da 10 persone:
– quattro sono militari degli uffici storici degli stati maggiori delle forze armate (esercito, marina, aeronautica, arma dei carabinieri);
– quattro sono rappresentanti delle associazioni degli esuli;
– uno è nominato dalla presidenza del consiglio;
– uno è nominato dal ministero degli interni.
Pare che sia prassi consolidata che i due membri di nomina politica siano anch’essi dei militari.
I nomi dei membri della commissione non sono di pubblico dominio. Nemmeno i nomi dei decorati lo sono. Scartabellando sul sito del Ministero della Difesa, si possono comunque trovare i nomi dei militari degli uffici storici (aggiornati al 15-3-2012):
Col. Antonio Zarcone, C.V. Francesco Loriga, Col. Vittorio Cencini e Col. Paolo Aceto, come si può vedere da qui.
Invece qui scopriamo che nel 2012 il presidente della commissione era l’Ammiraglio di Squadra Alessandro Picchio, e qui che il Gen. Riccardo Basile è stato membro della commissione fino alla sua morte nel 2014.
Dal sito dell’ ANVGD veniamo a sapere il nome di uno dei rappresentanti degli esuli: Marino Micich.
Sugli altri nomi nebbia fitta. C’è un’interrogazione parlamentare in corso, a cui finora non è stata data risposta. Nebbia ancora più fitta avvolge i lavori di questa commissione e le procedure di conferimento delle insegne. Tutte le richieste sono state accolte? Come si è deciso quali accogliere? Come sono avvenute le verifiche?
Inoltre, secondo la legge, le richieste sarebbero dovute arrivare entro dieci anni dall’entrata in vigore della legge stessa (quindi entro aprile del 2014). Le insegne e i diplomi consegnati lo scorso febbraio in occasione del Giorno del Ricordo dovrebbero dunque essere stati gli ultimi. Allora la commissione è sciolta? E la documentazione, come previsto, è stata già versata all’Archivio di Stato?
5. Ritorneremo!
La medaglia e la pergamena invece sono questi: http://www.wumingfoundation.com/giap/wp-content/uploads/2015/04/Mori-Paride-riconoscimento-al-fascista.jpg
Come si può notare, nella pergamena compaiono anche i nomi delle “province perdute”: Pola, Fiume, Zara. È come se un’onorificenza britannica riportasse Dublin, Bombay, Rhodesia. Anche questo aspetto revanscista era ampiamente prevedibile e previsto. Nel 2003 Menia, presentando la sua terza proposta di legge, disse in aula:
«Ci sono pagine, nella storia dei popoli e degli uomini, che grondano di dolore e di ingiustizia. Oltre cinquant’anni fa con il Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, reso esecutivo dal decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato n. 1430 del 1947, si scrisse una di quelle pagine. Essa sancì la mutilazione territoriale delle terre orientali d’Italia e la perdita della gran parte della Venezia Giulia e della Dalmazia […]»Concetto peraltro ribadito anche da Napolitano nel suo discorso del 2007:
«Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”»Per uno di quei giochi strani che fa la vita, mentre gli “ex comunisti” del PDS si appiattivano completamente sulla vulgata della propaganda neofascista triestina, elaborata a partire dagli anni Quaranta e sdoganata a livello nazionale a partire dagli anni novanta, per ascoltare qualcosa di ragionevole in quegli anni bisognava rivolgersi a uno storico come Galliano Fogar, partigiano azionista, e senza dubbio oppositore della Jugoslavia di Tito (sottolineatura nostra):
«Non è un caso che il 10 febbraio preso dalla destra come simbolo della tragedia (ma foibe ed esodo sono due cose distinte) è la data della sigla del Trattato di Pace di Parigi. Ma questi signori non spiegano chel’Italia era sul banco degli imputati e che la gran parte dell’Istria e Fiume furono perdute non certo per colpa dei partigiani ma per le precise colpe del fascismo e della sua violenta opera snazionalizzatrice prima e per l’invasione della Jugoslavia poi.»6. The end
E oggi? Il bilancio, a dieci anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, è agghiacciante. Tra foto farlocche, onorificenze a nazifascisti assortiti, e discorsi ufficiali privi di qualunque fondamento storico, il GdR sembra essere diventato uno dei pilastri dell’identità nazionale italiana, a suggello di un ripugnante “patteggiamento della memoria” tra “ex comunisti” e “post fascisti”. L’epitome perfetta del paese reale.
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* Nicoletta Bourbaki è il nome usato da un gruppo di inchiesta su Wikipedia e le manipolazioni storiche in rete, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo omaggia Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983.
Lettera al Direttore della Gazzetta di Parma
Sulla revoca della medaglia a Paride Mori
Egregio Direttore,
se settant’anni fa avessero vinto i fascisti, gli antifascisti non potrebbero dire e scrivere liberamente; ma hanno vinto gli antifascisti e così anche i fascisti possono dire e scrivere liberamente ciò che vogliono. Compreso sostenere che il fascista parmense Paride Mori è stato una specie di eroe e che è una vergogna che il Governo pochi giorni fa abbia fatto – parzialmente in realtà – marcia indietro rispetto all’attribuzione a Mori il 10 febbraio u.s. dell’onorificenza della Repubblica come “infoibato” (o assimilato).
Com’è noto, come nessuno storico mette in discussione, all’inizio d’aprile 1941 l’esercito italiano fascista del Re e di Mussolini aggredì, insieme con la Germania nazista, la Jugoslavia senza che la Jugoslavia avesse fatto alcun male all’Italia, ne invase e tenne occupati diversi territori, con metodi (secondo la Commissione per i crimini di guerra delle Nazioni Unite) feroci e crudeli non meno di quelli nazisti. Di qui la rivolta popolare contro l’Italia fascista, lo sviluppo impetuoso del movimento partigiano con le formazioni repubblicane e comuniste guidate da Tito, impegnate nella più grande guerra popolare antinazifascista in Europa.
E la guerra fu tale per cui il 1° maggio 1945 Trieste fu liberata dai nazifascisti – liberata, non occupata – da parte dell’Esecito Popolare di Liberazione Jugoslavo alleato degli anglo-americani e dei sovietici, così come gli anglo-americani liberarono – liberarono, non occuparono – la Sicilia, Roma, ecc.
Dopo l’8 settembre ’43 nell’Italia del Nord i Tedeschi avevano creato lo stato fantoccio chiamato Repubblica Sociale Italiana (RSI) con a capo Mussolini. I militari della RSI nelle zone di questo Stato al confine nordorientale con la Jugoslavia erano sotto il comando diretto della Germania nazista. Fra questi militari ci fu anche il parmense, volontario, capitano del Battaglione dei bersaglieri “Mussolini”, Paride Mori. Anche a prescindere dalle circostanze precise in cui il Mori morì, se in combattimento coi partigiani o no, e a prescindere dai suoi ideali personali, poichè un conto è la moralità degli individui e un conto è la moralità delle cause (Bobbio), Mori ha fatto volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia. E la legge 92/2004 al comma 3 dell’art.3 esclude espressamente che possano avere il riconoscimento della Repubblica coloro che “facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia“.
Questo è il motivo vero per cui a Paride Mori, fascista repubblichino volontario combattente sotto il comando della Germania nazista, non può essere attribuita l’onorificenza della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista. Prima ancora che per il fatto di essere egli caduto in combattimento coi partigiani anzichè in un agguato come sostenuto da famigliari e amici. La Presidenza del Consiglio nel revocare la medaglia per Mori ha addotto il motivo della morte in combattimento anzichè non in combattimento. Ma la Presidenza del Consiglio dovrebbe addurre innanzitutto l’altro motivo, quello dell’essere stato, Mori, combattente al servizio della Germania nazista. Da questo punto di vista ci sarebbero probabilmente tante altre medaglie, alcune centinaia di medaglie, della Repubblica da revocare come quella attribuita a Paride Mori nel 2015.
Giovanni Caggiati
Parma, 26 aprile 2015
(pubblicato sulla Gazzetta di Parma del 4 maggio 2015)
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In questo 8 Maggio 2015, la nostra compagna, la storica Annie Lacroix-Riz, torna per www.initiative-communiste.frsul ruolo dell’Unione Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale.
Annie Lacroix-Riz, professore emerito di storia contemporanea, Parigi 7
Maggio 2015
Due anni dopo la sua vittoria sulla Wehrmacht e il nazismo, inizia ufficialmente la “guerra fredda”, l’Armata Rossa, cara a tutti i popoli europei fin dal giugno 1941, si trasformò per l’”Ovest” in una minaccia [1]. Oggi la storiografia francese, la sua mutazione filoamericana vecchia di trent’anni compiuti, si è dedicata alla calunnia pubblica dell’URSS sia per la fase del patto di non aggressione tedesco-sovietico che ormai anche per quella della “Grande Guerra Patriottica”. I nostri manuali, equiparando il nazismo e il comunismo, surclassano gli storici dell’Europa dell’Est riciclati in Occidente. I grandi media, che incensano gli “storici dei consensi” [2] per lo “spirito libero da ogni settarismo”[3], hanno trasformato lo sbarco “americano” (anglo-americano, Commonwealth incluso) del 6 giugno 1944 nell’evento militare decisivo (Leggi qui). Martellamento efficace. I sondaggi IFOP sul rispettivo contributo dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti alla condotta militare della Seconda Guerra Mondiale, o “alla vittoria sui nazisti” si sono, tra il maggio 1945 e il maggio 2015, direttamente invertiti: 57% per l’URSS alla prima data (20% per gli Stati Uniti); 54% per gli Stati Uniti oggi, fino al 59% tra quelli sotto i 35 anni [4], vittime principali della rottura dell’insegnamento della disciplina storica.
Questa inversione politica stabilisce il doppio trionfo in Francia dell’egemonia americana e un’inquietante russofobia dal 1917, limitata per decenni dall’esistenza di un potente partito comunista presente sul terreno della storia, ma notevolmente accentuata dal crollo dell’Unione Sovietica. Essa non è correlata alla tabella che si ha sulle fonti originali del ruolo svolto dall’URSS durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dal sabotaggio dell’Accordo franco-anglo-polacco al patto tedesco-sovietico
Ciò che fece l’Unione Sovietica quando il Blitzkrieg schiacciò l’Europa (settembre 1939 – maggio 1941) ha attirato negli ultimi decenni molti lavori scientifici, in particolare anglofoni [5]. Essi si ricollegano in generale alla tesi, fermamente sostenuta tra la guerra e il 1960, dai prestigiosi Lewis B. Namier, AJP Taylor (storici) e dal giornalista Alexander Werth [6], il padre di Nicolas, che simboleggia tanto la russofilia di guerra e del dopoguerra quanto suo figlio incarna la russofobia contemporanea.
L’argomento in questione è semplice e reale. L’ostinazione franco-britannica, sostenuta dagli Stati Uniti [7], nella politica di capitolazione alle potenze fasciste denominata “Appeasement” ha rovinato il progetto sovietico, chiaramente enunciato nel 1933-1934, di “sicurezza collettiva” dei paesi europei, dell’Est e dell’Ovest, minacciato anche dalla politica di espansione del Reich tedesco. Lo stroncamento sul nascere dei patti franco-sovietico e ceco-sovietico (2 e il 16 maggio 1935), e il rifiuto ostinato occidentale del “l’alliance de revers”, di cui la prima guerra mondiale aveva dimostrato l’efficacia, porta contro l’URSS gli accordi di Monaco per i quali, nella notte del 29-30 settembre 1938, Parigi, Londra, Berlino e Roma smembrarono la Cecoslovacchia (consegnando i Sudeti alla Germania dal 1° ottobre 1938). Dopo l’assalto finale del 14-15 marzo 1939 (satellizzazione della Slovacchia e annessione di Boemia e Moravia), condotto dalla Wehrmacht contro il moncone dell’ex alleato principale ufficiale della Francia, l’URSS isolata fu costretta a mantenere una rigorosa linea, nonostante la leggenda di una “svolta” politica estera franco-britannica, lasciando al Reich “mano libera in Oriente”: questa espressione familiare per tutti gli “Apaiseurs” francesi, inglesi e altri (tra cui il ministro della Guerra e presidente del Consiglio, il radicale Edouard Daladier) è stata comunemente utilizzata nelle trattazioni del 1938-1939 tra i ministri degli esteri francese e tedesco, Georges Bonnet e Ribbentrop. L’URSS si rassegnò a firmare il patto tedesco-sovietico del 23 agosto 1939 che la risparmiava temporaneamente. [8]
Così finì la missione franco-britannica inviata a Mosca dall’11 al 24 Agosto 1939 per calmare le opinioni che esigevano dal 15 marzo, il fronte comune con l’URSS che questa proponeva. Mosca, iniziatrice dei negoziati tripartiti dopo il colpo di Stato che metteva fine alla Cecoslovacchia, chiedeva la ricostituzione dell’alleanza difensiva automatica e reciproca del 1914. L’accordo militare avrebbe dovuto associare la Polonia e la Romania, feudi del “cordone sanitario” antibolscevico dal 1919 di cui Parigi e Londra avevano nel marzo-aprile 1939 “garantito” unilateralmente i confini (senza la minima intenzione di difenderli né con attrezzature né con l’invio di truppe) e gli Stati baltici, vitali per la difesa della “Russia Europea” (Augostin-Anthony Palasse, addetto militare francese) [9].
Dopo mesi di tergiversazioni offensive per i russi e mortali per i confini dei paesi europei, Londra e Parigi delegarono nei confronti dei capi militari sovietici l’ammiraglio britannico Reginald Drax e il generale francese Joseph Doumenc. Questi due oscuri ufficiali, “richiedenti” partiti “a mani vuote” (Doumenc) con una nave mercantile molto lenta (cinque giorni di traversata), erano stati incaricati di far portare ai sovietici esclusivamente il cappello della “farsa di Mosca”: l’obiettivo era, si illudeva Londra, al momento in cui il Reich avesse ammassato le sue truppe ai confini della Polonia per l’assalto imminente, di “lasciare la Germania sotto la minaccia di un patto militare anglo-franco-sovietico e guadagnare così l’autunno o l’inverno ritardando la guerra”. Quando il Commissario di Guerra e comandante in capo dell’Armata Rossa Kliment Vorošilov, “preciso, diretto”, propose ai due emissari impotenti, il 12 agosto, “l’esame concreto dei piani di operazioni contro il blocco degli Stati aggressori” e presentato i suoi pieni poteri, essi confessarono di non essere abilitati a firmare un accordo militare.
Parigi e Londra erano determinati a non fornire alcuna assistenza economica o militare ai loro “alleati” dell’Est. Avevano delegato il compito all’URSS rendendoglielo assolutamente impossibile: Varsavia (soprattutto) e Bucarest (che dagli anni 1920 avevano concluso accordi politici e militari reciproci rivolti esclusivamente contro l’URSS) avevano rifiutato il diritto di passaggio (con i loro tutori occidentali) all’Armata Rossa. Ma questa clausola era la conditio sine qua non geografica del suo intervento, dal momento che l’URSS non aveva alcuna frontiera comune con la Germania dal trattato di Versailles. Avendo “garantito” senza consultare la Polonia (che non voleva da loro “garanzie”), Francia e Regno Unito si vincolarono al preteso veto, incoraggiando alla vista di tutti, Sovietici inclusi, la cricca filo-tedesca che regnava a Varsavia. Degno emulo del suo “alleato” tedesco in materia di antisemitismo, il capo del “regime di colonnelli polacchi”, il colonnello Jozef Beck, uomo di punta di Hitler e Ribbentrop che si erano serviti di lui, tra gli altri, come delegato e informatore alla Società delle Nazioni ufficialmente abbandonata dal Reich nel mese d’ottobre del 1933, essendo stato la “iena” o “avvoltoio” (termine utilizzato da tutte le cancellerie straniere, tra cui l’AuswärtigesAmt, Ministero degli Affari Esteri), complice dello smembramento tedesco della Cecoslovacchia del 1938.
La sua vendetta insaziabile contro Praga – la stessa di quella del suo predecessore e capo Pilsudski – aveva guadagnato alla Polonia la mancetta, effimera, della concessione del territorio della Slesia di Teschen strappato alla Cecoslovacchia dopo Monaco: la ricompensa dei suoi misfatti durò meno di un anno fino all’invasione tedesca. Con la Wehrmacht alle porte, Beck invocò, lirico, “il testamento” di Pilsudski, “Con i tedeschi rischiamo di perdere la nostra libertà, con i russi, perdiamo la nostra anima”. [10]
Il dossier aveva altre molle, meno spirituali. La Polonia aveva preso ai Sovietici nel 1920-21 con l’aiuto militare francese (Maxime Weygande, aiutato in particolare da De Gaulle) la Galizia orientale dell’ex impero russo, popolata da Ucraini e Bielorussi (l’attuale Ucraina occidentale). Cieco, più che mai dopo il 1933, agli appetiti territoriali tedeschi, perseguitando allegramente le popolazioni maggioritarie, non-polacche, essa tremava al fatto che l’Armata Rossa aveva preso il controllo di questi territori a meno di 150 Km a Est della “linea Curzon”: questo limite etnico tra Polonia e Russia era stato fissato nel dicembre 1919 dal Ministero degli Esteri britannico, certo di cacciare presto dal potere i bolscevichi e mettere a disposizione dei “Bianchi” queste zone, poiché l’intento era quello di cedere le ricchezze del Caucaso (Bakou e Grozny) alla Royal Dutch Shell di Sir Henry Deterding: questo araldo dell’anticomunismo, petroliere, finanziatore di tutti i complotti “ceceni” del periodo tra le due guerre fino alla sua morte (4 febbraio 1939) e grande fornitore di petrolio al III Reich, apprezzava tanto questo regime e i suoi capi che risiedette a Berlino dopo il suo ritiro ufficiale nel 1936.
Varsavia aveva firmato con Berlino, il 26 gennaio 1934, una “dichiarazione di non-aggressione e d’amicizia”, chiamato “trattato tedesco-polacco” concluso per dieci anni. Redatto dall’AuswärtigesAmt, questo pezzo di carta le interdiceva formalmente, tra gli altri obblighi, ogni accordo con l’URSS e con i suoi vicini slavi: essa applicava scrupolosamente da parte sua tutte le condizioni, in primis russofobe e antisemite, di un testo che s’inseriva nel dispositivo generale di preparazione, in bella vista dei suoi “alleati” occidentali, della sua liquidazione territoriale. La Romania temeva di perdere la Bessarabia che aveva preso ai Russi nel 1918 e conservato dopo (ufficialmente, nel 1924) solo grazie al sostegno della Francia, capofila ufficiale insieme a Londra, dell’antibolscevismo mondiale. Comunque bisogna dire che essa aveva più paura del Reich che della cricca dei colonnelli storicamente attaccati alla tutela austriaca e prussiana. L’URSS non ottenne dagli Apaiseurs francesi e inglesi “garanzie” delle frontiere dei Paesi Baltici, la cui “indipendenza” dal 1919-1920 era tutta al servizio della realizzazione del “cordone sanitario”. Parigi e Londra ridacchiarono prontamente alle sue richieste dopo il marzo-aprile 1939: in compagnia degli ambasciatori americani, essi accusarono Mosca di pensare solo a “bolscevizzare” questi satelliti del Reich [11].
L’URSS dopo il marzo e soprattutto il maggio 1939 fu corteggiata da Berlino, che logicamente preferiva una guerra su un fronte, avendo quella su due fronti portato alla disfatta. La Germania promise, appena prima di prendersi la Polonia, di rispettare la sua “sfera d’influenza” in Galizia orientale, nel Baltico e in Bessarabia. Mosca cedette alle pressanti istanze all’ultimo momento (Geoffrey Roberts lo ha dimostrato nei suoi primi lavori) e non alle fantasie immaginarie della “rivoluzione mondiale”, mito del “Drang nachWesten” (marcia verso l’Ovest), creato per far dimenticare la sola marcia che ha avuto luogo, quella tedesca verso l’Est [12]. Londra e Parigi continuavano a lusingare Berlino [13], l’Unione Sovietica rifiutava d’”essere implicata da sola nel conflitto con la Germania”: questa era la sua unica preoccupazione, come ha confessato, nel maggio 1939, Lord Halifax, segretario del Ministero degli Esteri britannico e sostenitore dell’Apaisement britannico [14]. Il 23 agosto 1939, alla firma del patto di non-aggressione tedesco-sovietico, l’”Occidente” finse stupore, come Churchill, davanti al “nuovo disastro che esplode sul mondo come una bomba” [15]: è così che il capo della coalizione antisovietica dopo il 1918, che aveva abdicato all’Apaisement abbastanza presto, denunciò il volta-faccia, il tradimento, la lunga menzogna dell’antifascismo del nuovo “alleato” di Berlino.
L’indignazione, finta, faceva parte dell’impostura. Diplomatici e addetti militari francesi e inglesi di stanza a Mosca giocavano alle Cassandre dopo l’arrivo degli hitleriani al potere, a partire dal 1933. Per colpa della Triplice Intesa e quindi dell’alleanza di opposizioni difensive e formali, se si fossero ripetute regolarmente da quel momento, l’URSS sarebbe stata costretta ad affrontare immediatamente Berlino: questo per lei era l’unico mezzo per guadagnare la “tregua” (Roberts), indispensabile per mettere sul piede di guerra nel modo meno imperfetto possibile, la sua economia e il suo esercito di fronte ad un avversario tedesco in quel momento ancora molto superiore. I più solerti ma molto realistici arci-antibolscevichi, questi informatori consapevoli ribadirono il loro avvertimento fino all’ultimo giorno [16], e annunciarono anche che il patto non modificava i problemi. Il 29 agosto 1939, il tenente-colonello Charles-Antoine Luguet, addetto diplomatico d’aviazione a Mosca e futuro eroe gollista della squadriglia Normandie-Niémen, certifica (come Doumenc) la buona fede di Vorošilov e descrive Stalin come “glorioso successore […] di Alexandre Nevsky e di Pietro I°”: “il trattato è stato pubblicato” scrisse “completato da una convenzione segreta, che definisce a distanza delle frontiere sovietiche una linea che le truppe tedesche non devono oltrepassare e che sarà considerata dall’URSS una sorta di sua posizione di copertura” [17]. Un “protocollo segreto” integra in effetti la Polonia orientale e gli Stati baltici nella “sfera d’influenza” dell’URSS [18], avente come obiettivo immediato di migliorare le condizioni e la durata della sua mobilitazione, e di occupare un terreno che venne, durante gli ultimi preparativi dell’assalto tedesco, sottratto alla Wehrmacht.
Francesi e Inglesi non mancheranno di osservare, dopo l’evento, che l’Armata Rossa entrò in Polonia (il 17 settembre 1939) solo dopo la disfatta ufficiale di questa, poi in Bessarabia e nei Paesi Baltici se non nel giugno 1940, dopo la Débâcle della Francia [19].
L’URSS in pace durante la guerra
La Germania aprì il conflitto generale il 1° settembre 1939, in assenza dell’Intesa che nel settembre 1914 aveva salvato la Francia dall’invasione totale. Michael Carley incrimina l’Apaisement nato dalla “paura della vittoria contro il fascismo” dei privilegiati inglesi e francesi, allarmati dal fatto che il ruolo dirigente promesso all’URSS in una guerra contro la Germania avrebbe esteso il suo sistema a tutti i belligeranti: egli considera “l’anticomunismo”, decisivo in ogni fase chiave dal 1934-35, come “una causa importante della Seconda Guerra mondiale” [20].
Il 17 settembre, l’URSS, travolta dall’avanzata tedesca in Polonia, che era stata sconfitta in meno di 24 ore – per la Francia ci sarebbero volute meno di 48 ore – proclamò la sua “neutralità” nel conflitto e occupò la Galizia orientale. Essa esigette in settembre-ottobre da Berlino “garanzie” per i paesi baltici: questa “occupazione “mascherata” fu accolta con rassegnazione” da parte dell’Inghilterra. Questa aveva assecondato il Reich nel suo piano d’assalto marittimo contro l’URSS, firmando con esso “il trattato navale” del 18 Giugno 1935, che autorizzava la costruzione di una marina di guerra tedesca pari al 35% di quella britannica, questo accordo bilaterale aveva lasciato alla Germania “mano libera” nel Baltico (Finkel e Leibovitz). Ma Londra era ormai preoccupata tanto per l’espansione tedesca che per “la spinta russa in Europa” [21].
Dopo aver richiesto alla Finlandia, alleato da lunga data di Berlino che minacciava la sicurezza di Leningrado, una rettifica di frontiera (con sostanziale compensazione territoriale), che venne respinta, l’Unione Sovietica entrò alla fine di novembre 1939 nella “Guerra d’Inverno”. I tamburi della propaganda si scatenarono: la Francia singhiozzava così come il Vaticano e il mondo intero (capitalistico) per la piccola vittima ed esaltò il suo valore contro una Armata Rossa inetta. Weygand e Daladier seguiti da Reynaud pianificano, “sognano” e “delirano”, su una guerra contro l’URSS nel Grande Nord e poi nel Caucaso [22], allo stesso tempo in cui continuavano a sabotare, come i capi dell’esercito, il “fronte Nord-Est”: pomposo soprannome del confine francese con la Germania, dove, precisamente, non c’era alcun “fronte”. L’Inghilterra sacrificata all’ideologia anticomunista, così utile in ogni circostanza, applaudì al compromesso sovietico-finlandese del 12 marzo 1940. Si congratulò in seguito con la nuova avanzata dell’Armata Rossa consecutiva all’ignominioso crollo francese, ossia, dell’occupazione a metà giugno 1940 dei Paesi Baltici, alla fine di giugno della Bessarabia-Nord Bucovina. Poi, in attesa della tappa successiva del conflitto generale, inviò a Mosca Stafford Cripps, l’unico filosovietico di un establishment britannico volto all’antisovietismo tanto delirante almeno quanto quello delle élites francesi [23].
Nella crisi aperta nel giugno 1940, le relazioni dei cosiddetti “Alleati” tedeschi e sovietici giungono alla rottura a novembre, come sapevano tutte le capitali “occidentali”. “Tra il 1939 e il 1941”, l’URSS aveva notevolmente sviluppato i suoi armamenti terrestri e aerei e portato l’Armata Rossa “da 100 a 300 divisioni” (“da 2 a 5.000.000 di uomini”), ammassati “lungo o in prossimità dei suoi confini occidentali.”[24]
La vittoria militare di un paese indebolito
Il 22 giugno 1941 il Reich lanciò l’attacco annunciato dal settembre 1940 dall’assembramento delle sue truppe in Romania “satellite”, noto a tutte le capitali straniere – e all’Unione Sovietica, Stalin compreso: l’ultimo libro di Roberts fa definitivamente giustizia della leggenda di uno Stalin stordito e paralizzato dall’assalto del suo caro Hitler. Nicolas Werth postula il “crollo militare del 1941” al quale sarebbe succeduto (nel 1942-1943) “un [misterioso] sussulto del regime e della società” [25], ma a Vichy il generale Paul Doyen, capo delegazione francese alla Commissione tedesca d’Armistizio, annunciò il 16 luglio 1941 la morte del Blitzkrieg e quindi la sconfitta tedesca molto probabile se l’incredibile resistenza sovietica fosse durata, come tutto faceva prevedere: “Se il Terzo Reich riporta in Russia certi successi strategici, la svolta presa dalle operazioni non risponde affatto all’idea che si erano fatti i suoi leader. Essi non si aspettavano una resistenza talmente feroce del soldato russo, un fanatismo così appassionato della popolazione, una guerriglia talmente estenuante nelle retrovie, perdite così gravi, il più completo vuoto davanti all’invasore, difficoltà così notevoli di rifornimento e comunicazione […] Senza pensare al cibo di domani, il russo incendia col lanciafiamme il suo raccolto, fa saltare i suoi villaggi, distrugge il suo materiale rotabile, sabota le sue aziende”[26]. Il Vaticano, la migliore rete di intelligence globale, si allarmò fin dai primi di settembre davanti l’ambasciatore di Francia delle difficoltà “dei Tedeschi” e insieme “di come Stalin sarebbe stato chiamato a organizzare la pace di concerto con Churchill e Roosevelt” [27]: così egli pose “il punto di svolta della guerra” prima dell’arresto della Wehrmacht a Mosca (fine ottobre) e ben prima di Stalingrado. L’insieme dei circoli “bene informati”, militari e civili, condivideva questo giudizio, e nello stesso momento. [28]
Fu così confermato fin dall’invasione il giudizio, che faceva Palasse da quando arrivò (fine 1937) e soprattutto dal 1938 sulla “situazione morale” e la potenza militare sovietiche. L’Armata Rossa, epurata dopo la repressione del mese di giugno 1937, dal “complotto Tuchacevskij” ordito dal maresciallo sovietico con l’alto comando della Wehrmacht, svelato e non creato da Stalin [29], progrediva costantemente. I suoi legami con il popolo generavano un “patriottismo” inaudito: lo stato dell’esercito, l’addestramento militare dei soldati e della popolazione, per primi i giovani, e la propaganda efficace “manteneva[no] tese le energie del paese e gli diede[ro] l’orgoglio delle gesta compiute dai suoi […] e l’incrollabile fiducia nella [sua] forza difensiva.”[30] C’erano, come tutti gli altri osservatori militari rilevarono dopo l’agosto 1938 le perdite giapponesi negli scontri sulla frontiera tra URSS, Cina e Corea [31]. La qualità, così attestata, dell’Armata Rossa guidata da Zhukov, servì da lezione a Tokyo: a dispetto di Hitler, il Giappone firmò a Mosca 13 Aprile 1941 un “patto di neutralità”, che ha rispettato fino alla fine della guerra. Il prudente ritiro giapponese liberò l’URSS dalla sua ossessione, dopo l’attacco contro la Manciuria (1931) e poi di tutta la Cina (1937), di una guerra su due fronti [32].
Dopo un 60° anniversario storicamente avventato dello sbarco anglo-americano in Normandia e un 70° ancora peggiore, ricordiamo che lo sforzo militare dal giugno 1941 fu quasi esclusivamente sovietico. Il Reich imperiale era stato sconfitto nel 1917-1918 in Occidente, in particolare dalla Francia, che aveva dovuto la sua sopravvivenza o la sua non invasione all’alleanza degli opposti o al “rullo compressore” russo e in nessun caso alla “battaglia della Marna”, operazione di “comunicazione” di inusuale longevità. Come ricordato nel marzo 1939 da Robert Vansittart, Sottosegretario di Stato permanente del Ministero degli Esteri britannico, che era stato a lungo “operatore di pace” e germanofilo come i suoi coetanei: “La Francia non avrebbe avuto la minima possibilità di sopravvivenza nel 1914 se non ci fosse stato un fronte orientale”.[33] Il Reich hitleriano, fermato a partire dall’estate del 1941 nei suoi successi ininterrotti dal 1938-1939, fu sconfitto nel 1943-1945 in Oriente dalla sola Armata Rossa.
Dopo l’agosto-settembre 1941, Stalin aveva richiesto continuamente ma invano, per alleggerire l’enorme pressione tedesca, l’apertura di un “secondo fronte” occidentale ricostituendo di fatto l’alliance de revers della Prima Guerra Mondiale: l’invio di divisioni alleate in URSS e, soprattutto, uno sbarco sulle coste francesi. Dovette accontentarsi delle lodi di Churchill, ben presto seguite da quelle di Roosevelt, per “l’eroismo delle forze combattenti sovietiche” e di un “prestito” americano, rimborsabile nel dopoguerra. Uno storico sovietico ha stimato l’ammontare complessivo a 5 miliardi di rubli (uno storico americano a 11), cioè il “4% del reddito nazionale” sovietico degli anni 1941-1945 [34]. Roberts ha ricordato che questo contributo economico degli Stati Uniti allo sforzo sovietico non fu solamente modesto, ma che esso fu accordato per la sua quasi totalità solo dopo la straordinaria impresa di Stalingrado – cioè, quando gli Stati Uniti ebbero acquisito la certezza definitiva che l’Armata Rossa avrebbe trionfato, entro un periodo di tempo limitato, sugli invasori. L’ostinato rifiuto del secondo fronte e l’emarginazione dell’URSS nelle relazioni inter-alleate, nonostante la sua presenza ornamentale a Teheran nel novembre del 1943 [35], sono evidenziate da tutti i tipi di fonti e dalla corrispondenza di guerra Stalin-Churchill-Roosevelt. Gli obiettivi e le manovre degli anglo-americani, guidati da Washington, legittimamente riproposero la paura sovietica di tornare al “cordone sanitario” e alle “mani libere in Oriente”.
La questione delle forze in Europa si acuì quando la capitolazione di von Paulus a Stalingrado (2 febbraio 1943) mise all’ordine del giorno le condizioni per la pace futura. Washington contava sulla sua egemonia finanziaria per sfuggire alle norme militari di risoluzione dei conflitti. Roosevelt rifiutava quindi sistematicamente di negoziare sugli “scopi militari” che Stalin aveva presentato a Churchill nel luglio 1941, vale a dire il ritorno ai confini europei dell’ex impero, recuperati nel 1939-1940: l’ottenimento di una “sfera di influenza” sovietica che restringeva quella americana, che non poteva subire alcun limite [36] (questa regola dell’imperialismo dominante fu rigorosamente applicata contro Londra: Washington emise un veto anche formale contro i suoi rivali imperialisti inglesi). Il miliardario Harriman, ereditiere di un immenso impero finanziario, ambasciatore a Mosca dal 1943 al 1945 e futuro campione del Piano Marshall e dell’Unione Europea, annunciò al Dipartimento di Stato, nel febbraio-marzo 1944, che l’URSS devastata non avrebbe ricavato alcun vantaggio, neanche territoriale dalla sua vittoria. “Impoverita dalla guerra e alla ricerca della nostra assistenza economica […] una delle nostre principali leve per orientare una azione politica compatibile con i nostri principi”, non avrebbe la forza di invadere dall’Est dell’Europa. Ridotta in miseria per le sue distruzioni, sarebbe obbligata a soddisfare una promessa di aiuto finanziario degli Stati Uniti per il dopoguerra, che ci permetterà di “evitare lo sviluppo di una sfera di influenza dell’Unione Sovietica sull’Europa orientale e i Balcani”. [37]
Ma non teneva conto delle conseguenze a breve termine di Stalingrado, dove si erano scontrati dal luglio 1942 “due eserciti di oltre un milione di uomini”. L’esercito sovietico ha vinto questa “feroce battaglia”, seguita con passione ogni giorno da tutta l’Europa occupata, che “superava in violenza tutte quelle della Prima Guerra mondiale […] per ogni casa, ogni torre d’acqua, ogni cantina, ogni pezzo di rovina”. La sua vittoria “mise l’URSS sulla via della potenza mondiale” come quella “di Poltava nel 1709 [contro la Svezia] aveva trasformato la Russia in potenza europea”. [38]
L’apertura del “secondo fronte” si trascinò fino al giugno 1944, quando l’avanzata dell’Armata Rossa oltre i confini del luglio 1940 dell’Unione Sovietica liberata esigeva la ripartizione di fatto delle “sfere d’influenza” che Roosevelt e i suoi avevano rifiutato di diritto. La conferenza di Yalta che, nel febbraio del 1945, ha rappresentato l’acme, molto provvisoria, delle acquisizioni dell’URSS, belligerante decisivo, non è il risultato dell’astuzia di Stalin che spoglia la Polonia martire contro un Churchill impotente e un Roosevelt morente, ma dei rapporti di forza militari del momento [39]. Ormai, si era in procinto di cadere nell’inseguimento della resa negoziata della Wehrmacht “alle forze armate anglo-americane e riposizionamento delle forze in Oriente”: alla fine di marzo, “26 divisioni tedesche rimanevano sul fronte occidentale” (per evacuare dai porti del Nord le truppe verso i “buoni” nemici così indulgenti) “contro 170 divisioni sul fronte orientale” dove i combattimenti imperversano fino alla fine. I guadagni di Yalta realizzati sulla carta sarebbero stati poi rimessi puntualmente in discussione, a cominciare dal principio dei 10 miliardi di dollari di “riparazioni”, il 50% del totale (per perdite stimate in diverse centinaia di miliardi, tra 200 e 600).
Il bilancio dell’operazione Sunrise, l’esempio meno sconosciuto dei tentativi di inversione dei fronti che si succedettero senza sosta dopo il 1943, nell’alleanza “Occidente”-Reich contro i Soviet e con febbrile intensità dal 1944, irritò Mosca. Roosevelt aveva affidato al capo europeo dell’Ufficio dei Servizi Strategici (precursore della CIA), installato dopo il novembre del 1942 a Berna per preparare l’avvenire dell’Europa in generale, e della Germania in particolare, il finanziere Allen Dulles, associato come il suo fratello maggiore, il John Foster di “Dulles, Sullivan e Cromwell”, uno dei principali uffici americani d’affari internazionali, intimamente legato al capitale finanziario tedesco. Dulles, futuro capo della CIA di Eisenhower e Kennedy (ed eroe del fiasco cubano della “Baia dei Porci”), negoziò nel marzo-aprile del 1945, con il generale delle SS Karl Wolff, “capo dello stato-maggiore personale di Himmler” responsabile dell’“assassinio di 300.000 ebrei”, la capitolazione dell’esercito Kesselring in Italia. Questo avvenne, in assenza dei Sovietici, il 2 maggio 1945[40].
Era pertanto politicamente escluso che Berlino cadesse nell’immediato nelle mani degli Occidentali: dal 25 aprile al 3 maggio, la penultima “sanguinosa battaglia” (Praga, luogo dell’ultima, cadde solo il 9 maggio) [41] uccise ancora 300.000 soldati sovietici. L’equivalente cioè del totale delle vittime americane, “unicamente militari”, dei fronti europei e giapponesi dal dicembre 1941 ad agosto 1945[42].
La guerra tedesca di sterminio
Secondo Jean-Jacques Becker, “a parte (sic) che si è dispiegata in aree molto più ampie, a parte il costo esagerato dei metodi di combattimento obsoleti dell’esercito sovietico, sul piano strettamente militare, la Seconda Guerra è stata un po’ meno violenta della prima”[43]. Questo confronto tra le due guerre mondiali, altamente fantasioso, imputa anche all’URSS, accusa che è diventata corrente nella storiografia dominante francese, l’enormità delle sue perdite (oltre la metà dei 50 milioni del totale generale 1939-1945) nella guerra di sterminioche il Terzo Reich aveva programmato per liquidare, oltre agli ebrei, dai 30 ai 50 milioni di slavi[44]. La Wehrmacht, roccaforte pangermanista che era stata facilmente nazificata e che riteneva “i russi ‘asiatici’ degni del disprezzo più assoluto” [45], ne fu l’artefice principale: la sua ferocia anti-slava, antisemita e anti-bolscevica, descritta al processo di Norimberga (1945-1946), brevemente ricordata in Germania da esposizioni itineranti dalla fine del 20° secolo [46] e ormai, Francia inclusa, sepolta nel silenzio, privò l’URSS delle “leggi della guerra” (Convenzioni dell’AIA del 1907). Nel momento in cui si osa tutto, la propaganda mediatica la ritiene una cosa logica, in quanto l’URSS non ha firmato la Convenzione: non la firmarono allora neanche, la Grecia, la Jugoslavia, la Polonia, l’Europa occidentale, oggetto, nell’estate del 1944, degli ordini del Comandante in Capo “Ovest” della Wehrmacht, von Rundstedt, estendendo a questa zona i metodi di guerra dell’Est, origine delle atrocità commesse in Italia e in Francia, a Oradour-sur-Glane, che erano state sistematicamente praticate fin dall’inizio, a decine di migliaia di casi, sul fronte Orientale[47]?
Testimoniano la barbarie pangermanista, di cui i nazisti hanno preso l’eredità, gli ordini firmati dai capi della Wehrmacht, Keitel e soci: il decreto detto “del commissario” dell’8 giugno 1941 ordinò l’esecuzione dei “commissari politici” comunisti integrati nell’Armata Rossa; l’ordine di “non fare prigionieri” causò l’esecuzione sul campo di battaglia, a combattimenti terminati, di 600.000 prigionieri di guerra, e fu esteso nel mese di luglio ai “civili nemici”; von Reichenau firmò l’ordine di “sterminio definitivo del sistema giudaico-bolscevico”, ecc. [48]. 3,3 milioni di prigionieri di guerra, cioè più dei 2/3 del totale, subirono nel 1941-1942 la “morte programmata” per fame e sete (80%), tifo, lavoro schiavistico. I prigionieri, classificati come “comunisti fanatici”, consegnati dalla Wehrmacht alle SS, furono le cavie della prima gassificazione con lo Zyklon B ad Auschwitz nel dicembre del 1941 [49].
L’esercito tedesco era con le SS e la polizia tedesca “ordinaria” un agente particolarmente attivo della distruzione dei civili, ebrei e non ebrei. Essa aiutò le SS Einsatzgruppen responsabili delle “operazioni mobili di abbattimento” (Hilberg), come quello del Gruppo C nel burrone di Babi Yar, alla fine di settembre del 1941, dieci giorni dopo l’entrata delle sue truppe a Kiev (quasi 34 000 morti): fu uno degli innumerevoli massacri perpetrati con degli “ausiliari” polacchi, baltici (lettoni e lituani) e ucraini [50], descritti dallo struggente Libro nero sullo sterminio scellerato degli ebrei da parte degli invasori fascisti tedeschi nelle regioni temporaneamente occupati dell’URSS e nei campi di sterminio in Polonia durante la guerra del 1941-1945 [51]. Slavi ed ebrei (1,1 milioni su 3,3) perirono nelle decine di migliaia di Oradour-sur-Glane e nei campi di sterminio e di lavoro. I 900 giorni di assedio di Leningrado (luglio 1941 – gennaio 1943), con Stalingrado simbolo supremo della sofferenza e dell’eroismo sovietico, dove morirono un milione di abitanti su 2.5, di cui “più di 600.000” durante la carestia dell’inverno del 1941-1942. “1.700 città, 70.000 villaggi e 32.000 imprese industriali furono distrutte”. Un milione di Ostarbeiter (“lavoratori dell’Est”, sovietici), deportati in Occidente furono sfiniti o annientati dal lavoro e le sevizie delle SS e dei “kapò” nei “kommandos” dei campi di concentramento, miniere e fabbriche dei Konzerne e delle filiali dei gruppi stranieri, come Ford, che fabbricò (come Opel-General Motors) tonnellate di camion (tedeschi) per il fronte orientale [52].
L’8 maggio 1945, l’URSS esangue aveva già perso il beneficio della “Grande Alleanza” che aveva imposto agli anglo-americani l’enorme contributo del suo popolo, sotto le armi o no, all’eclatante vittoria degli Stati Uniti, prevista da Doyen nel suo testo del 16 luglio 1941, dove pronosticava la disfatta tedesca. Il cosiddetto “contenimento” (Containment), della “Guerra fredda” fu in realtà e da subito un “ripristino” (rollback), ora messo in luce da alcuni lavori scientifici. Ormai sotto l’egida di Washington, con rapida associazione alle imprese delle zone occidentali della Germania, questa linea era ritornata, anche prima della fine della guerra in Europa, con la “Prima Guerra fredda”, politica di liquidazione dei Soviet, del “cordone sanitario” o della “Santa Alleanza” che Londra e Parigi avevano diretto, in compagnia di Berlino, dal 1918 al 1939 [53].
[1] Annie Lacroix-Riz, « 1947-1948. Du Kominform au “coup de Prague”, l’Occident eut-il peur des Soviets et du communisme? », Historiens et géographes (HG) n° 324, agosto-settembre 1989, p. 219-243.
[2] Diana Pinto, « L’Amérique dans les livres d’histoire et de géographie des classes terminales françaises », HG n° 303, marzo 1985, p. 611-620; citazione, Robert Soucy, storico americano del fascismo francese, e Lacroix-Riz, L’histoire contemporaine toujours sous influence, Paris, Delga-Le temps des cerises, 2012.
[3]Le Figaro, 11 gennaio 2007, recensione di Olivier Wieviorka, Histoire du débarquement en Normandie : Des origines à la libération de Paris 1941-1944, Paris, Seuil, 2007, opera incensata dai media e dalle istituzioni ufficiali come quella che nega l’interesse militare della Resistenza e che omette la sua componente comunista, Histoire de la Résistance : 1940-1945, Paris, Perrin, 2013.
[4] Sondaggi 1944-1945 e 2004, Lacroix-Riz, « Le débarquement du 6 juin 1944 du mythe d’aujourd’hui à la réalité historique », http://www.lafauteadiderot.net/Le-debarquement-du-6-juin-1944-du, giugno 2014; 7 mai 2015, http://www.metronews.fr/info/sondage-exclusif-8-mai-1945-a-qui-les-francais-disent-ils-merci-pour-la-victoire-sur-les-nazis/moef!FRK7nFX0GWZds/
[5] Geoffrey Roberts, The Unholy Alliance : Stalin’s pact with Hitler, Londra, Tauris, 1989; The Soviet Union and the origins of the Second World War. Russo-German Relations and the Road to War, 1933-1941, New York, Saint Martin’s Press, 1995; e soprattutto, Stalin’s Wars: From World War to Cold War, 1939-1953. New Haven & London: Yale University Press, 2006, tradotto, Les guerres de Staline, Paris, Delga, 2014; Gabriel Gorodetsky, Soviet Foreign Policy, 1917-1991 : a retrospective, Londres, Frank Cass, 1993 (da cui Teddy J. Uldricks, « Soviet Security in the 1930s »); Michael J. Carley, 1939, the alliance that never was and the coming of World War 2, Chicago, Ivan R. Dee, 1999 (tradotto in francese, PU de Montréal, 2001); Hugh Ragsdale, The Soviets, the Munich Crisis, and the Coming of World War II, Cambridge, Cambridge UP, 2004; Jonathan Haslam, The Soviet Union and the struggle for collective security in Europe, 1933-1939, Londra, Macmillan Press Ltd, 1984, più timido.
[6] Lewis B. Namier, Diplomatic Prelude 1938-1939, Macmillan, Londra, 1948; A.J.P. Taylor, The origins of the Second World War, Middlesex, Penguin Books,1961; Alexander Werth, La Russieen guerre, 2 vol., Paris, Stock, 1964 (riedizione, Paris, Tallandier, 2011).
[7] Arnold Offner, American Appeasement : United States Foreign Policy and Germany 1933-1939, New York, W.W. Norton & C°, 1969; The origins of the Second World War : American Foreign Policy, 1914-1941, New York, Praeger, 1975.
[8] Roberts, op. cit. e «From détente to partition : Soviet-Polish Relations and the origins of the Nazi-Soviet pact, 1938-1939» in Christoph Koch, ed., Gab eseinen Stalin-Hitler-Pakt? Charakter, Bedeutung und Deutung des deutsch-sowjetischen Nichtangriffsvertrags vom 23. August 1939 » (« Y eut-il eu un pacte Staline-Hitler? Caractère, signification et interprétation du pacte de non-agression germano-soviétique»), Francoforte, Peter Lang, 2015, p. 89-106; Lacroix-Riz, Le choix de la défaite : les élites françaises dans les années 1930, et De Munich à Vichy, l’assassinat de la 3e République, 1938-1940, Parigi, Armand Colin, 2010 (2e édition) et 2008; e « La France entre accord avec le Reich et alliance tripartite, de Munich au pacte de non-agression germano-soviétique (octobre 1938-23 août 1939) », in Koch, ed., Stalin-Hitler-Pakt?, p. 35-88; Ivan Maïski, Qui aidait Hitler? Souvenirs de l’ancien ambassadeur d’URSS en Grande-Bretagne, Parigi, Delga, 2014; basato sugli archivi (soviétici) concordanti.
[9] Lettere 585/S a Édouard Daladier (ministro della Guerra), Mosca, 5 giugno 1939, 7 N, 3123, archivi Armée de terre (SHAT), e riferimenti dalla n. 7.
[10] Rapporti Doumenc e Willaume (sottolineati nel testo) sulle loro missioni, 7 N, 3185, SHAT. Sul ruolo della Polonia, réf. n. 7 e Lacroix-Riz, « Polen in der außenpolitischen Strategie Frankreichs (Oktober 1938-August 1939) », comunicazione al colloquio sulla campagna di Polonia, Varsavia, 15-17 ottobre 2009, Atti non apparsi, Polenundwir, n° 3, 2014, p. 11-17 (versione francese, «La Pologne dans la stratégie politique et militaire de la France (octobre 1938-août 1939)», www.historiographie.info).
[11] Archivi MAE (e Documents diplomatiques français), SHAT, e riferimenti dalla n. 7.
[12] Piano d’espansione sovietico a Ovest creato dal pubblicista d’estrema destra Ernst Nolte, appoggiato da Yves Santamaria, Le pacte germano-soviétique, Bruxelles, Complexe, 1999, opera redatta senza la minima consultazione d’archivio, che fa da riferimento sulla questione alla storiografia dominante francese.
[13] N. 3, Robert A. Parker, Chamberlain and the Appeasement : British policy and the coming of the Second World War,, Londra, Macmillan Press Ltd, 1993, e Alvin Finkel e Clement Leibovitz, The Chamberlain-Hitler Collusion, Rendlesham, Merlin Press, 1997.
[14] Halifax, 6 maggio 1939, Documents on British Foreign Policy (DBFP), 3nd Series, V, p. 411.
[15] Churchill, memorie, vol. I, The gathering storm, Boston, Houghton Mifflin Company, 1948, p. 346.
[16] 7 N, 3185-3186, SHAT. Dopo il 1933 : serie URSS Quai d’Orsay (MAE);DDF; attachés militare in URSS da SHAT; DBFP, ecc. e tutte le op. cit.
[17] Lettere D. 463 a Guy de la Chambre, ministro dell’Aria, Mosca, 29 agosto 1939, 7 N, 3186, SHAT.
[18] Lituania annessa al Reich fin dal secondo protocollo del 28 settembre 1939, Roberts, Soviet Union.
[19] Tél. Palasse, Mosca, 14 maggio 1940, 5 N, 581, SHAT, et Roberts, Soviet Union, p. 122-126.
[20] Carley, 1939, p. 256-257;Finkel, Leibovitz e Lacroix-Riz,op. cit.
[21] Lettere 771 di Charles Corbin, ambasciatore a Londra, 28 ottobre 1939, URSS 1930-1940, 962, archivi del ministero degli Affari esteri (MAE).
[22] Jean-Baptiste Duroselle, L’Abîme 1939-1945, Parigi, Imprimerie nationale, 1983, cap. IV. Lacroix-Riz, op. cit. e Le Vatican, l’Europe et le Reich 1914-1944, Parigi, Armand Colin, 2010, cap. 10.
[23] Gabriel Gorodetsky, Stafford Cripps’ mission to Moscow, 1940-42, Cambridge, Cambridge UP,1984., Maïski, Qui aidait Hitler?