Informazione


REPLICA AL COMUNICATO DEL PRESIDENTE A.N.P.I. SU SREBRENICA

La ricezione della nota a firma Carlo Smuraglia, presidente nazionale A.N.P.I., contenuta nel bollettino ANPINews n.170 (14-21/7/2015), costringe a una presa di distanza netta ed esplicita


Il lungo comunicato di Smuraglia [riprodotto di seguito] ripropone in acritica sequela tutti i luoghi comuni e le informazioni tendenziose, esagerate e/o false costruite e fatte circolare dal luglio 1995 ad oggi, alle quali abbiamo in numerose occasioni ribattuto con contestazioni e critiche documentate e analitiche, una cui sintesi è reperibile nel documento tradotto proprio in occasione di questo ventennale:

Stefan Karganovic, Aleksandar Pavic (Srebrenica Historical Project): SREBRENICA 1995-­‐2015: Solamente i fatti...
Nel merito osserviamo quanto segue:
- in vista della presa di controllo di Srebrenica da parte dell'esercito della Repubblica Serba di Bosnia, la città fu evacuata da migliaia di donne, vecchi e bambini (*); non citarlo e viceversa affermare che "i Serbi ... chiesero la consegna di tutti gli uomini validi ... per evacuarli e portarli in altri campi" è una inversione dei fatti storici;
- non solo i numeri del massacro, ma anche il fatto ben noto che i civili che lo richiedevano siano stati evacuati dalla città prima della presa di controllo, contraddice chi parla di "genocidio"; quindi dilungarsi su questa terminologia è demagogico e mira a rincarare il linciaggio morale della parte serbo-bosniaca. Bene ha fatto la Russia a porre il veto sulla bozza di Risoluzione presentata dalla Gran Bretagna a tale scopo;
- il nuovissimo e rozzo scandalo mediatico della "fornitura di benzina", se depurato del pregiudizio isterico antiserbo, altro non è che la evidenza di una operazione concordata tra serbi e ONU per la evacuazione dei civili dalla città;
- sulle persone uccise contestualmente alla presa di controllo di Srebrenica da parte dell'esercito della Repubblica Serba di Bosnia, si offrono numeri gonfiati (vedi documento di cui sopra), si immaginano modalità inutilmente truculente ("massacrati, prima con le forme più barbariche ... uccisi a randellate o a colpi di ascia"), si aggiungono dettagli falsi (le donne stuprate);
- "Le scene ... di ciò che avvenne all'interno della città, anche sulle donne, delle quali molte furono violentate o subirono feroci torture, furono fotografate persino dai satelliti": chiediamo a Carlo Smuraglia di rendere pubbliche queste foto satellitari degli stupri e delle torture di cui parla;  
- l'idea di una Srebrenica trasformata in un "grande campo di concentramento" è un inedito, che supera le peggiori esagerazioni della stampa nostrana;
- su ragioni e dinamica della presa di controllo di Srebrenica da parte dell'esercito della Repubblica Serba di Bosnia, si consideri che tale operazione fu consentita dall'ONU a seguito di accordi (perciò l'accusa di "abbandono" da parte del contingente olandese), come dimostra proprio l'evacuazione dei civili;
- i morti ammazzati nell'operazione furono in parte causati da scontri tra le due fazioni (armati musulmano-bosniaci erano rimasti in gran numero nell'enclave anche se abbandonati e traditi dai loro stessi leader, si veda il documentario "Una città tradita") e in parte – ma ben meno di ottomila – soggetti ad azioni vendicative da parte di serbi, soprattutto locali;
- in merito a quest'ultimo punto, ciò che viene infatti regolarmente omesso nelle narrazioni "alla Smuraglia" è che negli anni precedenti la città, benchè dichiarata "zona protetta ONU" e sulla carta smilitarizzata, era stata usata come base per le milizie musulmano-bosniache comandate da Naser Oric, che soprattutto nel 1992-1993 con diverse incursioni in quartieri e sobborghi a prevalente popolazione serba avevano causato circa 4000 morti massacrati nelle maniere più incredibili (**).

A cosa sia servita "Srebrenica", cioè la provocazione di un evento militarmente anomalo (fuga degli stati maggiori musulmani, "abbandono" ONU, presa di controllo serba senza osservatori indipendenti) e la sua successiva manipolazione mediatica, è presto detto:
1) a "coprire mediaticamente" la presa di controllo delle Krajine da parte dell'esercito della Croazia di Tudjman: questa, si, una vera e propria pulizia etnica (mezzo milione di serbi autoctoni scacciati o uccisi), forse l'unica perfettamente riuscita nelle guerre jugoslave 1991-1999, della quale pure cade il ventennale questo mese – ma non ne sentiremo parlare da Smuraglia né sui TG;
2) a "preparare mediaticamente" l'attacco finale contro i serbi di Bosnia: dopo un nuovo eclatante "casus belli" – la seconda strage del mercato di Markale a Sarajevo, 28 agosto, organizzata dai servizi segreti bosgnacchi di Rasim Delic in collaborazione con la NATO (cfr. Michele Gambino su "Avvenimenti" del 20/9/1995 e Tommaso Di Francesco sul "Manifesto" del 3/10/1995) – all'inizio di settembre 1995 la NATO attacca i serbi con bombardamenti all'uranio impoverito su tutto il territorio da questi controllato in Bosnia. 
Seguiranno gli Accordi di Dayton e seguirà la fuga di altre decine di migliaia di residenti serbi da Sarajevo.

Lo stile del comunicato di Smuraglia ci indigna profondamente, poiché richiami altisonanti a diritti umani e moralità nei rapporti internazionali sono in effetti utilizzati per stigmatizzare una e una sola delle parti in conflitto in Bosnia. La ripetizione numerose volte, nella nota di Smuraglia, del concetto di "barbarie" affibbiato al popolo serbo, ci appare in contrasto con le ragioni fondative dell'A.N.P.I., visto che da questa parte dell'Adriatico troppe volte abbiamo sentito fare appello alla nostra presunta superiore civiltà per scatenare in epoca moderna guerre di stampo razzista.
La mancanza di verifica delle informazioni e soprattutto la pervicace opposizione ad ogni possibilità per "il nemico" (serbo) di esporre la sua versione dei fatti sorprende e amareggia soprattutto quando viene da un avvocato come Smuraglia, che ben conosce il significato della espressione "audiatur et altera pars".
Inoltre, ci scandalizza che tutto questo sia utilizzato da Smuraglia per dichiarare in conclusione "scaduta" la sovranità degli Stati, una tesi troppe volte usata per giustificare le "missioni umanitarie" della NATO negli ultimi 20 anni.

Va rilevato come la recente cerimonia tenutasi al centro memoriale di Potocari (Srebrenica) per il ventennale, alla quale hanno preso parte Bill Clinton e Madleine Albright con tutta la loro corte composta da politicanti occidentali ed altri servili apprendisti, ha avuto il suo apice nel tentativo di linciaggio fisico del presidente della Repubblica di Serbia, benché quest'ultimo si fosse recato lì proprio in uno sforzo generoso di riconciliazione, nonostante il linciaggio morale cui la Serbia e i serbi continuano ad essere sottoposti da parte dei commentatori e benpensanti di turno.

Sulla questione jugoslava e serba oramai da un quarto di secolo si alternano incomprensioni e campagne diffamatorie delle quali si rendono protagonisti soprattutto esponenti di spicco della sinistra di derivazione antifascista. Poiché abbiamo già conosciuto direttamente le conseguenze di queste retoriche, le riteniamo non più tollerabili. Certamente non ci sono parti in causa "perfettamente innocenti" nella guerra civile bosniaca; tuttavia le rappresentazioni unilaterali e disinformate–disinformanti non fanno altro che favorire politicamente e sobillare gli estremismi delle parti in conflitto, contribuendo allo scempio dei valori della Resistenza antifascista e multinazionale, su cui un paese come la Jugoslavia era stato fondato. 
D'altronde, nelle incongruenze e omissioni della narrazione di Smuraglia riconosciamo la stessa filigrana delle incongruenze e delle omissioni su cui si basa la violenta campagna mediatica rilanciata in questi giorni. Di tale campagna conosciamo alla perfezione le ragioni politiche e militari attuali, così come negli anni Novanta ci era chiara l'intenzione occidentale di squartare quel paese colpendone proprio, in primis, il collante antifascista e multietnico. A Smuraglia da questo punto di vista vorremmo concedere la buona fede, cioè le buone intenzioni; ma, si sa, di buone intenzioni è lastricato l'inferno. 

Andrea Martocchia
segretario, Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS

(*) Alcuni video della evacuazione:

(**) Le foto nel libro "SREBRENICA. Come sono andate veramente le cose"

Altra documentazione consigliata:

* DOCU-FILM: Srebrenica - Una città tradita (Izdani grad / A town betrayed – Norway 2009-2010 / 59min)
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=RUuhSGnLvv8  ili:  http://www.youtube.com/watch?v=3_TxfVLSXmI
Discussion: https://www.cnj.it/documentazione/srebrenica.htm#links

* la nostra pagina dedicata alla campagna di disinformazione strategica su Srebrenica
https://www.cnj.it/documentazione/srebrenica.htm


--- Di seguito la Nota di Carlo Smuraglia:

Srebrenica: un terrificante, barbarico, vergognoso massacro

Per chi non conoscesse o non ricordasse, Srebrenica è una cittadina della Bosnia orientale, circondata dai monti. Abitata essenzialmente da mussulmani, fu presa di mira dai Serbi, che non potevano tollerare una simile vicinanza di religioni e di razze. Poiché le intenzioni apparivano chiare, Srebrenica fu dichiarata “zona protetta” dall’ONU e furono inviati sul posto, per garantire la sicurezza, i Caschi Blu dell’ONU, tre compagnie, per un totale di 600 militari olandesi. La gente, sia pure con non poche preoccupazioni e angosce, si sentiva protetta, ma sbagliava perché per alcuni dei “grandi” del mondo (USA, Francia, Gran Bretagna) la partita era già chiusa, riconoscendosi il diritto dei Serbi al predominio sull’intera zona.
Fu così che Srebrenica, sotto gli occhi del mondo, peraltro assai distratto, diventò progressivamente un grande campo di concentramento, in cui furono praticati abusi e torture, fra le più barbariche.
Nel luglio 1995, i Serbi decisero di entrare a Srebrenica in forze, chiesero la consegna di tutti gli uomini validi e la benzina necessaria per evacuarli e portarli in altri campi. Ebbero gli uomini ed ebbero trentamila litri di benzina, proprio dai Caschi Blu, che preferirono non fare domande.
Le scene della evacuazione e della destinazione a specifici campi, nonché quelle di ciò che avvenne all’interno della città, anche sulle donne, delle quali molte furono violentate o subirono feroci torture, furono fotografate perfino dai satelliti, ma nessuno intervenne.
Gli uomini furono letteralmente massacrati, prima con le forme più barbariche (molti furono uccisi a randellate o a colpi di ascia) e poi, per accelerare i tempi, fucilati. Ottomila vittime all’incirca, ma di circa milleduecento non sono stati ancora trovati i corpi. Un certo numero di resti è stato tumulato tre giorni fa, in occasione della giornata di ricordo. Insomma un orrendo massacro, risoltosi in una vera e propria “pulizia etnica”.

Il mondo tacque, distratto da altre vicende e da altri interessi o rinchiuso nei propri egoismi. I “grandi” non alzarono un dito perché, alla fine, si trattava di qualcosa che avevano già ritenuto ineluttabile e sui modi non valeva la pena di intervenire.
Difficili furono perfino le ricerche dei responsabili; la Corte di Giustizia dell’Aja riuscì a processare e condannare 14 persone, ma si stentò molto ad ottenerne la consegna. Due responsabili di primo piano attendono ancora oggi il verdetto.
Si è discusso tardivamente, se si sia trattato di un massacro o di un vero e proprio “genocidio”. Non si tratta di una questione etimologica; i massacri, purtroppo, possono avvenire e sono avvenuti nel corso della seconda guerra mondiale, per tanti motivi, sempre abietti e disumani; ma il genocidio è qualcosa di più, è la volontà di eliminare un popolo, una razza, se possibile, di fare insomma quella che è stata definito una “pulizia etnica”. Il Tribunale penale dell’Aia e la relativa Corte d’Appello hanno affermato trattarsi di un genocidio, ma l’ONU non è ancora riuscita a riconoscerlo. Anche in questo periodo è stata presentata una nuova mozione a riguardo, ma è stato subito posto il veto, per esempio, dalla Russia.
Questa vicenda terribile si presta a considerazioni molto amare: dove eravamo, tutti, l’11 luglio del 1995? Quanti hanno saputo e non si sono neppure troppo commossi (in fondo, si è pensato, erano mussulmani); le grandi potenze hanno obbedito a interessi nei quali non c’è posto per i diritti umani; l’ONU, come spesso accade, non è servita a nulla (anzi le sue truppe hanno perfino consegnato la benzina ai massacratori e non hanno alzato un dito per difendere “l’area protetta”).
Come questo possa avvenire in un mondo che pretende di essere “civile” è veramente incredibile e inquietante. Certo, numericamente, sono accaduti fatti ancora più gravi in Africa (basterebbe ricordare il milione di Tutsi uccisi in Ruanda); ma, a prescindere dal fatto che l’Africa è più lontana e spesso i fatti arrivano alla nostra conoscenza tardivamente e male, anche lì non ci furono interventi validi dell’ONU, né alcuno si oppose concretamente al massacro. Dunque, non è questione di numeri, ma della concreta possibilità che tremende vicende di questo tipo si verifichino ovunque, anche a due passi da casa nostra, nella predominanza di interessi poco edificanti e tra il rassegnato e disinformato silenzio dei popoli.
Eppure, esiste dal 1948 una “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, emanata dall’ONU e accolta con entusiasmo da quanti pensarono che bastasse una dichiarazione così solenne e unitaria, poco dopo l’esperienza di un’altra tremenda guerra mondiale, ad esorcizzare ogni pericolo.
Ne hanno fatto strazio, di questi diritti umani, in tanti e in tanti Paesi, per cui Srebrenica è oggi divenuta un simbolo di una realtà che raccoglie, oltre alla barbarie degli autori del “genocidio” , anche il cinismo dei potenti, la loro obbedienza talora ad interessi poco commendevoli e non rispettosi della persona umana, l’inefficienza e l’incapacità dell’ONU ad essere un organismo capace di dirimere i conflitti internazionali e di prevenire o impedire la barbarie.
Ancora una volta, bisogna alzare la voce, ognuno col suo Governo e col suo Parlamento e tutti con l’ONU, perché la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo diventi davvero un documento imprescindibile capace di sottrarre l’umanità alla discrezionalità delle scelte e degli interessi dei poteri forti, al predominio, di tanti tipi di fondamentalismi, che avanza.
Srebrenica ci ricorda che siamo in pericolo, non solo in Africa, in Medio Oriente, nel Mediterraneo ma anche qui, nei nostri Paesi, nella nostra “Europa unita”, perché non riusciamo a sconfiggere, in realtà, mali terribili come il fondamentalismo, la xenofobia, il razzismo, le disuguaglianze.

E bisogna alzare la voce anche nei confronti dell’ONU: riformiamola, se necessario, ma rendiamola davvero utile e al servizio della umanità. Da ogni governo dovremmo pretendere che a questo fine si adoperi, nell’arengo internazionale, con decisione e fermezza.
Infine, bisogna svolgere una grande azione di informazione e conoscenza del valore immenso che è insito nei “diritti umani”. Bisogna che essi siano davvero sacri, nell’interesse di tutti; occorre che là dove essi vengono colpiti intervenga sempre la giustizia, non riconoscendo, né primazia di poteri, né confini invalicabili rappresentati dalla sovranità degli Stati. Vicende come quella di Srebrenica non devono essere più concepibili, in nessuna parte del mondo, quale che sia la religione, la razza, l’etnia delle vittime; e se, nonostante tutto, questi fatti riescono ad accadere, bisogna che la punizione arrivi presto e con durezza, con l’impegno di tutti gli Stati a consegnare i responsabili, appunto, alla giustizia e con una precisa assunzione di responsabilità da parte di tutti coloro cui compete.
Parole al vento? Spero di no. Ma ancora una volta non si tratta di pretendere da altri che facciano il loro dovere; il valore fondamentale dei diritti umani esige uno schieramento in loro difesa da parte di tutti, in prima linea. Se ciò avvenisse, la proclamazione dei Diritti Universali dell’Uomo, diventerebbe finalmente un imperativo categorico cui a nessuno sarebbe consentito di sottrarsi.




[Auf Deutsch: 
Das Brüsseler Abkommen (Deutscher Durchmarsch gegen Griechenland – GFP 15/7/2015)
BERLIN/ROM - Die Ergebnisse des Brüsseler Abkommens über Griechenland werden in mehreren Ländern West- und Südeuropas als Vorzeichen eines kommenden Zusammenbruchs der kontinentalen Nachkriegsordnung und einer Rückkehr Deutschlands zur offen auftretenden Diktatorialmacht gewertet. Während sozialdemokratische Beobachter eine Beruhigung der Widersprüche nicht ausschließen wollen, sprechen unter anderem konservative Medien in Südeuropa von einer Neuauflage deutscher Herrschaftsambitionen, die sowohl den Ersten wie den Zweiten Weltkrieg maßgeblich bestimmten oder ausgelöst haben. Im Zentrum der Befürchtungen stehen die Folgen der französisch-italienischen Unterwerfung bei den Verhandlungen in Brüssel, wo es Paris nicht gelang, das deutsche Souveränitätsdiktat gegen Griechenland abzuwehren, während Rom einen solchen Versuch ernsthaft nicht unternahm. Sowohl Italien wie Frankreich müssen fürchten, die nächsten Opfer der deutschen Finanzdiktatur zu werden, und konkurrieren um die erhoffte Aufnahme in ein nordeuropäisches Kerneuropa, über dessen Teilnehmer Berlin entscheiden wird, sollte es zu dem für möglich gehaltenen Bündnisbruch kommen. Die jetzigen Ereignisse gehen auf zielgerichtete Bemühungen der deutschen Außenpolitik in den 1990er Jahren zurück und stehen in unmittelbarem Zusammenhang mit der territorialen Erweiterung der ökonomischen Basis Deutschlands durch die sogenannte Wiedervereinigung...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59160

Siehe auch: 
Warnung vor Kerneuropa (Konflikt zwischen Berlin und Washington um das EU-Diktat gegen Athen – GFP 16/7/2015)
BERLIN/WASHINGTON/ATHEN (Eigener Bericht) - Der deutsche Durchmarsch beim EU-Diktat gegen Griechenland erschüttert jetzt auch das transatlantische Verhältnis... 
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59161 ]



The Brussels Agreement
 

2015/07/15

BERLIN/ROME/PARIS
 
(Own report) - In several western and southern European countries, the agreement on Greece reached in Brussels signals a looming collapse of the continental post-war order and Germany's revival as an ostentatious dictatorial power. Whereas social-democratic observers do not exclude an attenuation of the contradictions, southern European conservative media are among those who speak of a revival of German hegemonic ambitions, which had largely determined or triggered the First and Second World Wars. The consequences of the French-Italian submission during negotiations in Brussels are generating those fears, because Paris had not succeeded to and Rome had not even seriously attempted to thwart the German dictates of sovereignty over Greece. Both, Italy and France are aware of the dangers of becoming the next victim of German financial dictatorship. They are competing for admission in a northern European core Europe, whose membership will be decided by Berlin, in the case of a possible collapse of the European Union. Current events are directly linked to German foreign policy endeavors in the 1990s and the territorial expansion of Germany's economic basis through the so-called reunification.

The Burden of History

Commentators of diverse political orientations speak of a revival of German hegemonic ambitions. In Italy, for example, following the negotiations in Brussels, the liberal "La Repubblica" carried the headline "Greece has its back to the wall" and noted, "the Eurogroup" is "in the hands of German hawks." Athens is confronted with "a series of dictates, one harsher then the other." "Hawks are triumphantly circling in the European skies," the article continues, "and impose an impossible ultimatum on Tsipras similar to the one Austria imposed on the Serbs, which triggered the First World War."[1] "The end of innocence has been reached, because everyone [in the EU, gfp.com] knows, without a doubt, who the real ring master is," the Italian conservative "Il Messaggero" wrote. "The real ring master is Germany." The paper continues, "Sedan is returning, when Germany trampled on France in 1870" - and later - "did not follow Bismarck's advice," not to make enemies, both in the West and the East at the same time. In fact, Germany made "enemies everywhere" after WW I, "Il Messaggero" recalled - except perhaps in northern Europe's "vassal states" or in the 1930s, temporarily Poland, "which, because of its own painful history, thought it could not act otherwise than direct its hatred toward the Russians." The commentator concluded, "the burden of history has returned and seems insurmountable."[2]

The Same Arrogance

Warnings, based on historical experience, can also be heard in France. "Germany wants to smash Greece by forcing it, under threat of the Grexit, to accept a deadly plan of total submission," Jean-Luc Mélenchon, the head of the Parti de Gauche, twittered on the weekend.[3] On TV, he had already expressed himself in greater detail. “For the third time in history, the stubbornness of a German government is in the process of destroying Europe.” Of course, one cannot insinuate that today's Federal Republic of Germany is ideologically on the same level as its predecessor regime. Still Berlin displays "the same arrogance, the same blindness" as in earlier phases of its historical reign.[4]

Aggressive Financial Policy

However, the fact that Berlin had not begun only in 2015 to threaten with a further radicalization of its aggressive economic and financial policy has remained largely in the background. In fact, Current events are directly linked to German foreign policy endeavors in the 1990s and the territorial expansion of Germany's economic basis through the so-called reunification. According to a popular myth, the latter was bought by German Chancellor at the time, Helmut Kohl's consent to the introduction of the uniform EU currency - the Euro. In fact, Bonn had only consented to the common currency under the condition - as a contemporary observer of the event remembers - that "the rules governing the monetary union and the European central banking system be primarily oriented on the model of German rules and the German Federal Bank." "The Euro speaks German," declared the then German Minister of Finances, Theo Waigel in 1998.[5] Thanks to the Euro, with its specifically German patent, the Federal Republic of Germany has been able to take full advantage of its economic strength in relationship to the other countries in the Eurozone and drive many of them into a - debt inducing - excessive foreign trade deficit. In 2014, approximately 34.5 billion Euros flowed from France to Germany, and Greece was still transferring more than 3.2 billion Euros. The German austerity dictate, which ultimately insures the flow of currency into the Federal Republic of Germany, are a result of the German patent on the Euro, imposed back in the 1990s.

Core Europe

In the 1990s, Wolfgang Schäuble, who, today, administers the austerity dictate as German Minister of Finances, had also played a role in creating the German power base, which has permitted Berlin's consistent clean sweep. In the early 1980s, as Chair of the Association of European Border Regions (AEBR), Schäuble had organized the first economic initiatives not only toward France. Theodor Veiter [6] a former Nazi specialist for border subversion was one of Schäuble's advisors as chair of the AEBR. On the reinforced basis following the collapse of Europe's socialist system and the annexation of the German Democratic Republic, Schäuble assisted in imposing the EU's eastward expansion.[7] This initiative had placed Germany at a clear advantage over France, whose traditional zone of influence, around the Mediterranean Basin and in Francophonie Africa cannot be comparably affiliated with the EU. It was also Schäuble, who, in the mid 1990s, developed the "core Europe" concept, meaning "a strong focal point" within the EU centered on Germany, which will form a tight-knit "core," that will not only hold the EU together, but actually should determine EU policy.[8] Today, part of that core is represented by the Eurogroup, which Sunday reached very sweeping decisions, on no less than the continuation of the EU in its current form. Nine EU member nations - including Great Britain, Sweden, and Poland - could not participate in these decisions. The Eurogroup core is one of the formats allowing Berlin to place its seal on this confederation.

Nothing Accomplished

The hopes of being able to have an impact on "Europe's" history, by being a member of the EU's "core," should there be a breach with individual or a group of Eurozone members - for example, Greece or several other southern European countries - has characterized the policies of France and Italy to the present. Both countries are economically increasingly losing ground to Germany and must - particularly in the case of Italy - fear being drawn further downward under austerity conditions - similar to those in Greece. Therefore, France's President François Hollande had announced several times previous to the Eurogroup Summit, last Sunday, that he would seek mitigations and a partial debt remission for Greece. Italy's Prime Minister Matteo Renzi had declared, "I say to Germany, enough is enough."[9] Ultimately, both had to submit to German pressure. They accomplished nothing. It is doubtful that their caving in to Berlin will shore up their long-term positions in light of the economic developments of their countries. This would also not be new in history. Hopes of avoiding German aggression had also been the motivation behind the September 1938 Munich Agreement, when Great Britain, France, and Italy, seeking to appease the German Reich, acquiesced to the latter's occupation of the "Sudeten territories."[10] It did not take long before they too were victims of German aggression.

Without or Against the USA

"Il Messaggero" commented on Italy's perspective of the results. "Today, the loss of innocence was accompanied by [Italy's] horrific silence in the international arena." On the other hand, Germany "believes it can assume the reign over Europe." In reference to Berlin's global political perspective, the commentator of "Messaggero" noted that this takes place, "without or against the USA."[11]

Please read also The First Defeat and Austerity or Democracy.
[1] Andrea Bonanni in: La Repubblica 13.07.2015.
[2] Giulio Sapelli in: Il Messaggero 13.07.2015.
[3] Grèce: quand l'Allemagne de Merkel est comparée à celle d'Hitler. www.lefigaro.fr 13.07.2015.
[4] Mélenchon: "Pour la 3e fois, un gouvernement allemend est en train de détruire l'Europe". bfmbusiness.bfmtv.com 12.07.2015.
[5] Beat Gygi: Der Euro spricht neudeutsch. www.nzz.ch 28.09.2013.
[6] See Hintergrundbericht: Arbeitsgemeinschaft Europäischer Grenzregionen (AGEG).
[7] In a paper published on the 55th Anniversary of the German invasion of Poland, Wolfgang Schäuble justified as follows his demand that German concepts be applied: "Without such a further development of (west) European integration, Germany could be called upon or be tempted, out of its own security imperatives, to undertake alone the stabilization of eastern Europe and do it in the traditional way." Wolfgang Schäuble, Karl Lamers: Überlegungen zur europäischen Politik. 01.09.1994.
[8] Wolfgang Schäuble, Karl Lamers: Überlegungen zur europäischen Politik. 01.09.1994.
[9] See Die Politik des Staatsstreichs.
[10] In reaction to the Munich Agreement, the Czechoslovak Foreign Minister at the time, Kamil Krofta, declared: "On behalf of the President of the Republic, as well as my government, I declare that we submit to the conditions of the Munich Agreement which has come into being without Czechoslovakia and against her […] I do not want to criticize, but this is a catastrophe, we do not deserve. We submit and will endeavour to secure our people a peaceful life. I do not know if the decisions taken in Munich will be advantageous to your countries. Besides, we are not the last ones, others will be affected after us." Quoted from Boris Celovsky: Das Münchener Abkommen 1938. Stuttgart 1958
[11] Giulio Sapelli in: Il Messaggero 13.07.2015.







Primo Maggio partigiano a Trieste

0) LINKS
1) M. Barone: Dopo 70 anni in Piazza dell'Unità a Trieste ritorna a sventolare la bandiera Jugoslava / Le allucinanti reazioni ...
2) C. Cernigoi: 12 giugno, liberazione di Trieste??
3) M. Barone: Quella targa faziosa al Parco della Rimembranza di Trieste sul 12 giugno 1945
4) C. Cernigoi: L'assassinio dell'undicenne Emilia Passerini Vrabec (3/9/1947) / Sulla medaglia al valor civile alla memoria di Conestabo (Trieste 15/9/1947)



=== 0: LINKS ===


*** Primo Maggio 2015 a Trieste 

VIDEO: 
Na Juris! (Primorskidnevnik, 2 mag 2015). Prvomajska povorka v Trstu: https://www.youtube.com/watch?v=C1UdkzM6Qb4
Tržaški Partizanski Pevski Zbor Pinko Tomažič, 1. Maj 2015 v Piazza Unità: https://www.facebook.com/Pinkoti/videos/10152992791508853/

Video e foto sulla pagina FB di Claudia Cernigoi:
VIDEO: https://www.facebook.com/Pinkoti/videos/10152992791508853/
FOTO: https://www.facebook.com/LaNuovaAlabarda/photos/a.243197115850862.1073741848.115049368665638/243197159184191/?type=1&theater

Primo maggio “jugoslavo”, polemiche dopo il corteo (di Ugo Salvini, Il Piccolo 3/5/2015)
Centrodestra in rivolta contro l’esposizione di stelle rosse. Mozioni di Bertoli e Giorgio Cosolini prende le distanze: «Ritengo sbagliato e fuori dal tempo esibire quei simboli»...

C. Cernigoi: Lettera Aperta al sindaco di Trieste sulle polemiche scaturite dalla presenza di bandiere jugoslave al corteo del primo maggio (2 maggio 2015)

Bandiere jugoslave in corteo, CGIL: «ipocrita la reazione del centro destra» (3 maggio 2015)
Lo rilevano in una nota Franco Belci, segretario generale Cgil FVG e Adriano Sincovich, segretario generale Cgil Trieste: «Vorremmo che il centro destra dimostrasse altrettanto zelo in occasione delle manifestazioni filo naziste»...
http://www.triesteprima.it/politica/bandiere-jugoslave-in-corteo-cgil-ipocrita-la-reazione-del-centro-destra.html

La Cgil condanna le stelle rosse in corteo (di Ugo Salvini, Il Piccolo 4/5/2015)
Belci e Sincovich: «Sbagliato agitare una bandiera che ricorda fratture dolorose». Il centrodestra rilancia: «Sdegno e orrore»...

Codarin e Braico: Primo maggio, enti e organizzatori si dissocino dai nostalgici titini - 06mag15
Dal quotidiano "Il Piccolo" di Trieste la presa di posizione del Presidente nazionale Anvgd Renzo Codarin e del Presidente delle Comunità Istriane Manuele Braico in merito all'ostentazione di bandiere jugoslave nel corteo del 1.mo Maggio, proprio nel 70.mo della feroce occupazione (sic) della città giuliana da parte delle milizie jugoslave di Tito...


*** Flashbacks

Dossier: LE DUE RESISTENZE DI TRIESTE (La Nuova Alabarda, maggio 2015)
Chi ha veramente liberato Trieste dal nazifascismo?
Perché il Partito comunista triestino non faceva parte del CLN giuliano?
Quali rapporti ebbe il CLN giuliano, nazionalista ed anticomunista, con i collaborazionisti triestini?
Cosa accadde al momento dell’insurrezione di Trieste?
E’ vero che gli Jugoslavi arrestarono anche gli antifascisti?
Quali dirigenti del CLN triestino entrarono nella struttura Gladio?

TRIESTE LIBERATA. LE RIPRESE VIDEO DELL’EPOCA
Taking Of Trieste (1945). British Pathé

LA NOSTRA PAGINA SUI "QUARANTA GIORNI" DI AMMINISTRAZIONE JUGOSLAVA A TRIESTE (1 MAGGIO - 12 GIUGNO 1945)

DESTABILIZZAZIONE A TRIESTE SOTTO IL GMA. LE SQUADRE DI CAVANA A TRIESTE (maggio 2011)
Vincenzo Cerceo, che prosegue nella lettura e nell’analisi dei “diari” di Diego de Henriquez, ha scritto queste annotazioni relative al Diario 143...
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-le_squadre_di_cavana_a_trieste..php

1953: GLI SCONTRI PER TRIESTE ITALIANA (di C. Cernigoi, luglio 2015)
... In uno studio sui movimenti giovanili neofascisti Antonio Carioti scrive che «la battaglia per Trieste italiana aggrega una parte notevole dell’ambiente studentesco» attorno ai «giovani che non hanno fatto in tempo a vivere l’esperienza di Salò, ma sono stati educati nella scuola fascista e vedono nella repubblica di Mussolini l’ultimo tentativo, sfortunato ma eroico, di salvare l’onore della patria...


*** Sulle posizioni slavofobe e antipartigiane espresse dal Consiglio Comunale di Trieste si vedano anche:

A TRIESTE E’ SCANDALO DIRE CHE LA CITTA’ E’ STATA LIBERATA DAI PARTIGIANI

I LIBERATORI SAREBBERO CARNEFICI, I CARNEFICI SAREBBERO VITTIME


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01/05/15

Dopo 70 anni in Piazza dell'Unità a Trieste ritorna a sventolare la bandiera Jugoslava 

La mattina del 1 maggio del '45 la Gradnikova brigada mosse con due battaglioni verso Selz di Ronchi e con uno verso Monfalcone. A Selz vennero disarmati circa 30 tedeschi per poi a Monfalcone costringere oltre 700 soldati a deporre le armi. A Gorizia la Prešernova Brigada si scontrò duramente con i centici ed i domobranci. A Gorizia si trovava anche, il primo maggio, lo Skofjeloski odrerd, la compagnia d'assalto della 31 divisione ed il comando della zona militare della Gorenjska. Le unità angloamericane entrarono in città solo il 2 maggio alle ore 11 quando la città venne di fatto già liberata. A Trieste alcune migliaia di combattenti pronti ad insorgere erano stati organizzati dal Comando cittadino in seguito alle direttive del IX Corpus alcuni mesi prima della fine della guerra, “sono stati loro a ripulire la città dal nemico, tranne alcuni punti maggiormente fortificati, prima dell'entrata di altre formazioni” dirà Stanko Petelin.  Formazioni che entreranno in città nella primissima mattinata del 1 maggio. Ed il 1 maggio del 1945 è il giorno della liberazione di Trieste dall'occupazione nazifascista. Dopo 70 anni per le vie di Trieste, durante il tradizionale corteo del 1 maggio, una grande bandiera, con i colori simbolo della libertà, uguaglianza, fratellanza, con una stella rossa al centro, simbolo delle lotte operaie, dei diritti del popolo, simbolo del riscatto degli oppressi contro gli oppressori ha attirato l'attenzione. 

Questa era la bandiera della rivoluzione, questa era la bandiera della Jugoslavia. Bandiera che verrà accolta, e questa è stata la vera sorpresa, per alcuni aspetti, da tanti pugni chiusi, applausi, sorrisi. Una condivisione che giungerà fino a piazza dell'Unità, dove il coro partigiano, dopo un solerte scatto, e con passo deciso entrerà in piazza cantando Na juriš e buona parte di piazza dell'Unità si stringerà intorno alla bandiera Jugoslava che dopo 70 anni ritornerà a sventolare nella piazza più contesa, controversa e più bella ora d'Italia. Una cosa è certa, decenni di menzogne, revisionismi, calunnie, oggi a Trieste hanno trovato la giusta risposta. La risposta è stata data dai sorrisi, dagli abbracci, da quella bandiera che ha sventolato in Piazza, dalla condivisione chiara e non nascosta di un primo maggio come giorno della liberazione di Trieste dal nazifascismo. E di tutto ciò molti dovranno pur farsene una ragione. 

Ci hanno tolto la libertà non ci toglieranno la voce , questo è quello che si poteva leggere sulle magliette del coro partigiano, oggi Trieste, dopo 70 anni ha ascoltato, canti partigiani italiani e sloveni nel centro di gravità della sua vita quotidiana, oggi Trieste è stata anche Trst ed ha ascoltato quella verità che per quanto attaccata, violentata, è emersa, emersa con la forza e la semplicità di cento e più sorrisi.




05/05/15

Le allucinanti reazioni dopo il ricordo del 70esimo della liberazione di Trieste dal nazifascismo


Che il primo maggio a Trieste sia rovente è incontestabile, e non è un caso che in questa città non ci sia ancora una via dedicata a tale giornata, che a Trieste non è solo la festa dei lavoratori, ma anche, per buona parte della comunità, il ricordo della liberazione dal nazifascismo che avverrà per mano di quelle truppe, che erano alleate, che hanno vinto la seconda guerra mondiale, cosa che viene sistematicamente ed in malafede rimossa dalla memoria collettiva, ovvero l'esercito di liberazione jugoslavo ed i partigiani Jugoslavi. Durante questo primo maggio 2015, vi era il coro partigiano triestino Tržaški Partizanski Pevski Zbor Pinko Tomažič amatissimo, vi erano un paio di bandiere che ricordavano la Jugoslavia, vi erano un paio di bandiere che ricordavano la Brigata Garibaldi. E vi è stata una condivisione per tutto il corteo per alcuni aspetti anche sorprendente.
E poi, la reazione.
Il tempo di metabolizzare è stato preceduto dal solito sventolare di una decina di tricolori. Già. Nel mentre del corteo del primo maggio, dove la bandiera Jugoslava e quella della Brigata Garibaldi sono presenti da diversi anni che io sappia, ed è anche fatto naturale visto che si parla di formazioni che hanno lottato anche per il riscatto dei lavoratori contro gli oppressori, in una piazza che costeggiava il percorso del tradizionale corteo del primo maggio, sventolavano le bandiere d'Italia, per tutelare il nazionalismo, male d'Europa, male dell'unità dei popoli, che ancora esiste e persiste. 
Come è noto, in questo Paese, tutto è stato perdonato all'Italia, i crimini verranno dimenticati, nascosti, minimizzati, da carnefice diventerà vittima, crimini nazisti e fascisti verranno ricollegati ai partigiani, la rivoluzione socialista diventerà massacro contro gli italiani, i 42 giorni di socialismo a Trieste diventeranno il periodo più criminale che l'Italia conobbe nella sua "innocente" storia, più criminali del fascismo e del nazismo messi insieme. Ed ecco che ti capiterà di leggere alcuni brevi scritti, da persone non qualsiasi, commentando foto ove vi era sia la bandiera Jugoslava a Trieste che il coro partigiano triestino “che però vengono permessi anche raduni neo- nazisti...” oppure da altri che “il Primo Maggio invece è iniziata l'occupazione slavo comunista che per atrocità contro i triestini ha fatto passare i nazisti per crocerossine..”. Sorvolando su insulti, offese, intimidazioni e minacce, pervenute, per non parlare delle offese razziste riemerse contro gli sloveni. Sloveni e Croati conosceranno il loro riscatto proprio grazie alla resistenza, dopo la pulizia etnica attuata dal fascismo, penso ai campi di concentramento fascisti presenti in Italia, ma non solo,  Sloveni, Croati ed Italiani, che si ritroveranno nei valori dell'antifascismo, supereranno, riscopriranno l'unità tra i popoli, quella che i fascisti nel nome della razza italica non volevano ed hanno impedito. Ma a tutto ciò si aggiungono due mozioni presentate in Consiglio Comunale a Trieste, in relazione ai fatti del primo maggio, ove si poteva leggere che è stato "sventolato tricolore italiano imbrattato con una stella rossa”, insultando dunque la bandiera della Brigata Garibaldi, oppure che la presenza della bandiera Jugoslava è “segnale di regresso civile, culturale e politico” od ancora che è sintomo di “ apologia della dittatura titina” e per questo si voleva impegnare il Comune di Trieste a sollecitare “ con fermezza le organizzazioni  sindacali a non consentire mai più la loro esposizione durante eventi dalle stesse organizzati e vietare manifestazioni ove sia presente la bandiera Jugoslava”. Roba da non credere. Eppure queste mozioni sono state presentate. Pare ovvio che il Comune, qualsiasi esso sia, non può e non deve interferire nelle dinamiche sindacali, di un corteo che non è certamente di proprietà di una sigla sindacale, giusto per specificare, ma eterogeneo e tra le altre cose, per quanto riguarda il primo maggio, vista la storia di Trieste, non coinvolge solo sindacati, ma diverse realtà dall'antifascismo, appunto, all'antirazzismo, al pacifismo, ed ovviamente e non potrebbe essere altrimenti, anche chi celebra la liberazione di Trieste dal nazifascismo, avvenuta il primo maggio del 1945. Fatto incontestabile, indiscutibile e se qualcuno non lo accetta deve farsene una benedetta ragione. Perché quel giorno è stato il riscatto di comunità che per anni, tra nazionalismo, fascismo e nazismo, hanno subito barbarie inaudite, hanno subito la privazione della loro libertà di essere sloveni o croati, ad esempio. Ma vi è stata anche una seconda mozione, ove oltre alla solita litania, che vuole la riproposizione della immancabile versione storica, ovvero i soliti cattivi jugoslavi e la persecuzione verso gli italiani la cui “sola “colpa” era di essere Italiano od ancor peggio di non essere filo jugoslavo”, si è chiesto l'intervento delle Autorità competenti, tramite intervento del Comune, “per verificare l'eventuale contestazione di reato, identificandone gli autori, e qualora ne sia verificata l'esistenza richiede la massima vigilanza affinché non possano essere più perpetrati in simili occasioni”. Ovviamente se non sei in linea con tutto ciò vieni etichettato come negazionista. Eppure la storia è molto più complessa ed articolata rispetto a quella banale semplificazione, che si continua a proporre, che poi non corrisponde neanche al vero.  Ma perché questa reazione, questa attenzione, questa indignazione, non emerge quando a Trieste vi sono manifestazioni fasciste o neofasciste?
Ed infine, sono il primo a riconoscere il fatto che si debba andare avanti, ma avanti si può andare, quando la si smetterà di calunniare la memoria di chi ha lottato contro il nazifascismo, quando la si finirà di sostenere, politicamente, istituzionalmente ed anche economicamente, realtà che nel revisionismo storico ci nuotano. 
E queste reazioni sono il frutto di un concezione storica che certamente non aiuta il pieno perseguimento della pacificazione, non sociale, ma tra i popoli, necessaria per opporsi ai nazionalismi, male d'Europa. Una cosa è certa, il prossimo primo maggio 2016, sarà certamente caldo.

Marco Barone


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La Nuova Alabarda, 1/6/2015

12 GIUGNO, LIBERAZIONE DI TRIESTE?

Com'è noto, l'ineffabile Nostro Sindaco Cosolini, raccogliendo una proposta dei consiglieri dell'Altra Trieste (di cui è esponente la deliziosamente s/garbata Rosolen Alessia, che appellava serenamente con l'epiteto di "s'ciavi" il pubblico sloveno presente nell'aula del Consiglio comunale alcuni mesi fa), ha benpensato di dedicare qualcosa (una via, una targa...) alla giornata del 12 giugno 1945, dato che in quel giorno l'amministrazione civile jugoslava (composta da triestini, italiani e sloveni) lasciò il potere all'amministrazione militare (GMA) angloamericana.
Perché nei "40 giorni" vi furono dei morti... (come se prima non fosse morto nessuno...): e allora, forse è il caso di ricordare al Sindaco e alla cittadinanza quale fu la situazione in termini di ordine pubblico a Trieste tra il 12 giugno 1945 ed il 31 dicembre 1947 (dopo la firma del Trattato di pace e l'istituzione del -mai applicato- Territorio libero di Trieste gli animi si calmarono un po'... non del tutto, solo un po').
Sintesi degli atti di violenza (tratta dal Calendario del I volume di "Nazionalismo e neofascismo al confine orientale" a cura dell'istituto per la storia della resistenza di Trieste, pubblicato nel 1976). Non abbiamo riportato i morti ed i feriti causati dalla polizia civile, ma solo le violenze neofasciste e delle squadre organizzate dal Partito d'azione (i "mazziniani" che tanto piacciono a Stelio Spadaro ed Ivan Buttignon).
1945: 2 morti (Pino Coverlizza e Mario Rosa), 6 feriti da arma da fuoco e 2 feriti da accoltellamenti, 2 pestaggi “normali”, 2 assalti a sedi politiche.
1946: 3 morti (Giuseppe Ravnikar, Carlo Hlaca e Giuseppe Loredan), 1 ferito da arma da fuoco e 16 feriti da accoltellamenti, un’ottantina di pestaggi “normali”, 3 aggressioni con lanci di pietre a scolaresche, 4 lanci di bombe (6 feriti civili e 9 militari), un attentato con il tritolo al ricreatorio di Roiano, decine di assalti e devastazioni contro sedi politiche (i soli Sindacati unici denunciarono 2 milioni di lire di danni nei due assalti subiti dopo gli incidenti di Pieris), redazioni di giornali, negozi e trattorie con insegne bilingui e gestiti da sloveni, e saccheggio ed incendio di quanto asportato dalle sedi e dai negozi.
1947: 4 morti (il comunista Corazza dopo l’assalto alla sede dell’UAIS, l’undicenne Emilia Passerini dopo l’assalto ad un circolo di cultura popolare, Alino Conestabo per una bomba lanciata contro un corteo antifascista, Carlo Castagna dopo l’assalto al Circolo Tomasi). 
Feriti da armi da fuoco o da taglio 17 (tra i quali un ispettore scolastico dopo l’irruzione in una scuola slovena)
Aggressioni (tra i quali 3 bambini, 2 di essi picchiati da insegnante perché parlavano sloveno) 65
Attentati (compresi lanci di bombe) 29
Assalti a sedi politiche 11.
Sì, 12 giugno, una data da festeggiare.


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16/06/15

Quella targa faziosa al Parco della Rimembranza di Trieste sul 12 giugno 1945


“Il 12 giugno in seguito agli accordi di Belgrado le truppe jugoslave si ritirarono da Trieste dopo 40 giorni di occupazione”. Poi uno spazio, voluto, di sospensione e continua “ Il popolo triestino iniziava una lunga e difficile fase di attesa riconquistando con il suo schietto impegno libertà e democrazia. Trieste 12 giugno 2015”. Questo è quanto è stato inciso sul cippo, costato più di 8 mila euro, collocato al parco della Rimembranza di Trieste. Una corsa contro il tempo, per non perdere l'appuntamento per il 70esimo del 12 giugno del 1945. Incisione che ha creato diversi malumori soprattutto a coloro che sostenevano la revisionistica teoria quale il 12 giugno come la data della liberazione di Trieste se non addirittura della fine della seconda guerra mondiale per la città. Alla fine vi è stato un compromesso, un compromesso che se da un lato parla semplicemente della fine dell'occupazione dopo 40 giorni, anche se in realtà i giorni di permanenza e di amministrazione provvisoria dei partigiani Jugoslavi furono 42, dall'altro con un vuoto stilistico creato ad hoc, l'attesa, la sospensione, si omette il dopo. Un dopo che ha visto in quel 12 giugno il passaggio di poteri alle altre forze alleate, quelle anglo-americane che durerà sino al 26 ottobre 1954. Ma, probabilmente, non potevano e non volevano scrivere che all'occupazione Jugoslava è seguita poi l'occupazione anglo-americana, perché se occupazione è stata la prima, occupazione è stata la seconda, se amministrazione provvisoria è stata la prima amministrazione provvisoria è stata la seconda, omettendo, contestualmente, tutte le giornate di violenza che sono accadute a Trieste, ad esempio, a partire dal 12 giugno del 1945. Ma questo non lo si deve dire. Insomma, per alcuni aspetti poteva andare certamente peggio, avrebbero potuto scrivere cialtronerie storiche di un certo rilievo che sono venute meno, e questo è merito di chi ha contrasto il revisionismo storico, il nazionalismo, male dei mali, tutto nostrano. E la cosa interessante è che non si scrive quando la conquista della democrazia e della libertà a Trieste sarebbe avvenuta. Insomma, un cippo oneroso per le casse pubbliche, che avrebbe voluto colmare un vuoto, per parte della politica destra e nazionalista ed anticomunista ed antijugoslava triestina, ma che in verità, ben rappresenta il vuoto, che i fautori e cultori del revisionismo storico, vorrebbero come essenza della società del futuro. Senza memoria non vi è futuro, si dice e si scrive, ma con una memoria distorta, vuota e faziosa, si rischia un futuro ancora peggiore rispetto a quello condizionato dalla semplice ignoranza.

Marco Barone


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La Nuova Alabarda, 9 giugno 2015


LA "LIBERAZIONE" DI TRIESTE CELEBRATA DAL SEDICENTE CENTROSINISTRA SU PROPOSTA DELLA DESTRA RETRIVA: L'ASSASSINIO DELL'UNDICENNE EMILIA PASSERINI VRABEC


Così iniziava una lettera inviata a questa testata quasi un anno fa. < Mia zia, Emilia Passerini, è morta la sera del sabato, 13 settembre 1947, all’età di 11 anni, per mano e su mandato fascista. Si trovava nel Circolo Culturale Sloveno di Vicolo Ospedale Militare ad osservare la gente ballare. All’improvviso, gli spari di una mitragliatrice che - fortunatamente - si è inceppata dopo la prima raffica, essendo stata montata frettolosamente con una sola vite, altrimenti i morti sarebbero stati molti di più. Infatti, mio padre, che all'epoca aveva 20 anni, racconta che gli spari hanno bucato le foglie degli alberi che circondavano la pista da ballo. Un crudele destino ha voluto che l’unica pallottola a colpire a segno ha trapassato la zona ascellare dell'amica Wanda Jerman andando a colpire in pieno la bambina che le stava accanto>.

Emilia Passerini (Vrabec il suo cognome originale, reso "in forma italiana" dal fascismo che non le permetterà neppure di raggiungere la maggiore età) viene definita da Galliano Fogar (nella testimonianza resa al dottor Mastelloni) «vittima di un attentato inconsulto, ricordo che esso fu ascritto a due giovanissimi (sic: sull’età dei responsabili torneremo più avanti, n.d.a.) triestini gravitanti nel Circolo Oberdan, autonomo rispetto ai Partiti e nazionalista estremista».
A proposito di questo atto particolarmente esecrabile, va detto che un paio di mesi prima, il 12/7/47, il giornale comunista Il Lavoratore aveva denunciato il rischio che si stesse preparando un attentato proprio nei confronti di quel Circolo di cultura popolare, perché alcuni giovani erano stati visti prendere appunti mentre esaminavano il muro di cinta e mentre si allontanavano uno fu sentito dire che bisognava agire dall’altra parte del muro .
Furono arrestati per l’omicidio della piccola Passerini alcuni membri delle Squadre del Viale: Letterio Cardile (21 anni), che al momento dell’arresto aveva addosso la tessera di una organizzazione monarchica neofascista, la Lega dei Lazzaroni del Re (e sembra che fosse in contatto con le Squadre d’Azione Mussolini tramite il veneziano capitano Foschini); Aldo Giorgini (24 anni), Mario Zotteri e Pino Giubilo (figlio di un ispettore capo della PC), che, come scrisse la stampa, “risultano appartenere a famiglie borghesi di agiate condizioni".
Le "squadre" erano finanziate dal governo italiano, Ufficio Zone di Confine, e causarono morti, feriti, devastazioni. 
Anche questa è memoria, signor Sindaco.


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La Nuova Alabarda, 3/6/2015

MEDAGLIE ED EROI

Come detto in altro articolo su questa pagina ("12 giugno, liberazione di Trieste?"), il 15/9/47, un corteo ANTIFASCISTA “viene fatto segno al lancio di due bombe che provocano la morte di un ignaro spettatore, lo studente diciannovenne Alino Conestabo e il ferimento di parecchi dimostranti (la stampa fornisce versioni contrastanti, suscitando nella città vivaci reazioni; viene recisamente smentita la versione del Corriere di Trieste, e cioè che il Conestabo sia deceduto per lo scoppio fortuito di una bomba che egli intendeva lanciare contro i manifestanti)”. Ciò è quanto risulta dalla ricostruzione, fatta attraverso gli organi di stampa dell'epoca nel libro "Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale 1945-1975”, a cura dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1977.
Pertanto ci sembra quantomeno equivoca l'attribuzione, da parte delle nostre massime istituzioni democratiche (il presidente in carica Carlo Azeglio Ciampi), della medaglia al valor civile alla memoria al suddetto Conestabo (9/1/06) con la seguente motivazione:
<Animato da profonda passione e spirito patriottico, partecipava ad una manifestazione per il ricongiungimento di Trieste al Territorio nazionale, perdendo la vita in violenti scontri di piazza. Mirabile esempio di elette virtù civiche ed amor patrio, spinti sino all'estremo sacrificio. 15 settembre 1947 – Trieste>.
Considerato che la manifestazione NON era per il "ricongiungimento di Trieste al Territorio nazionale" ma era un corteo antifascista, delle due l'una: o Conestabo guardava innocentemente il corteo ed è morto per disgrazia perché la bomba ha centrato lui e non gli antifascisti, oppure Conestabo (che pare non essere stato un antifascista) è morto lanciando la bomba che aveva portato con sé per gettarla contro il corteo antifascista.
Meritava una medaglia?





See also:

Returning Western foreign fighters: The case of Afghanistan, Bosnia and Somalia (by Jeanine de Roy van Zuijdewijn and Edwin Bakker – ICCT Background Note June 2014)

ABSTRACT: Authorities are increasingly worried about the large number of Western foreign fighters present in Syria. The fear is that these fighters will return radicalised, battle hardened and with extensive radical networks that might encourage them to commit a terrorist attack in the home country. The recent attack on the Jewish Museum in Brussels – allegedly by a returned foreign fighter from Syria – seems to be a case in point. However, the conflict in Syria is not the first to attract foreign fighters. In this Background Note, Jeanine de Roy van Zuijdewijn and Edwin Bakker investigate three historical cases of foreign fighting: Afghanistan (1980s), Bosnia (1990s) and Somalia (2000s). In this paper they aim to give insight into what happened to these foreign fighters after their fight abroad had ended. The authors distinguish eight possible pathways for foreign fighters that can help to contribute to a more nuanced understanding of this complex phenomenon. 

https://www.academia.edu/12629917/Returning_Western_foreign_fighters_The_case_of_Afghanistan_Bosnia_and_Somalia

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REPORTAGE: JIHAD IN BOSNIA

di Valentina Cominetti, 10 luglio 2015

Attraversare la Bosnia a vent’anni dalla fine del conflitto conclusosi nel 1995 con gli accordi di Dayton significa incontrare spaccature vecchie, mai rincollate, e nelle quali -mano a mano- si sono insinuate crepe nuove, di cui l’Europa si accorge solo oggi. Preoccupa la situazione dei Balcani e preoccupa soprattutto per il fenomeno più terrificante e attuale del nostro tempo, la diffusione internazionale del terrorismo jihadista.
Eh sì perché la Bosnia, con 350 combattenti all’estero, è il primo esportatore di foreign fighters al mondo, seguita da Kosovo, Belgio e Albania. La zona è un fertile bacino di reclutamento per lo Stato Islamico, ma questa fecondità è frutto di un processo lungo che potremmo definire addirittura un’islamizzazione programmata.
“Non trova un paradosso ritrovarsi oggi a punire o a tenere sotto controllo proprio quelle persone che ieri abbiamo usato per combattere?”. Gojko Vasic, direttore della polizia della Repubblica Srpska (nella foto a sinistra), ci accoglie nel suo ufficio all’interno della sede dell’unità antiterrorismo di Banja Luka. La sua prima premura è quella di fornirci una lista degli ex-mujhaidin ancora residenti in Bosnia e ci spiega che in quell’elenco stanno le radici della diffusione del jihadismo nel Paese (secondo stime al ribasso di Sarajevo, sarebbero almeno 3 mila i fondamentalisti).
La Bosnia, in effetti, prima della guerra era estranea a ogni forma di estremismo islamico. Se oggi il Paese è disseminato di comunità wahabite (ultraconservatrici) è perché negli anni ’90 molti mujahidin (combattenti islamici impegnati nel jihad) sono accorsi da paesi come l’Afghanistan, l’Arabia Saudita e la Cecenia per soccorrere i loro fratelli musulmani, hanno ricevuto in cambio onorificenze e cittadinanza bosniaca e  sono rimasti.
“Comunità fondamentaliste wahabite e salafite sono disseminate in tutto il Paese: Buzim, Zenica, Velika Kladusa, Osve, Bocinya, Gornja Maoca, Potocansky, Kaleaija, Bosanska Bosna, e sono solo le più note. Noi possiamo tenere sotto controllo solo quelle che si trovano sul territorio di nostra competenza, ma avremmo bisogno di una collaborazione più stretta con la polizia della federazione croato-musulmana per agire efficacemente. Invece capita spesso che membri del Governo bosniaco intralciano le nostre indagini, o addirittura pagano gli avvocati per difendere potenziali terroristi, affermando che approfittiamo di incidenti per portare avanti una nuova forma di pulizia etnica”. Il direttore della polizia serba si riferisce alle polemiche sorte in seguito all’operazione Ruben, lanciata dalle forze di sicurezza di Banja Luka dopo all’attentato di Zvornik del 28 aprile, in cui hanno perso la vita l’attentatore e un poliziotto.
Le perquisizioni avvenute in 32 località del territorio sotto il controllo serbo hanno portato alla luce armi, munizioni e materiale di propaganda riconducibili a cellule del terrorismo islamico. Sono seguite polemiche della comunità bosniaca (Musulmani di Bosnia) e di Bakir Izetbegovic , membro della Presidenza della Bosnia Erzegovina, che sta pagando gli avvocati a coloro che sono stati accusati di terrorismo.
“Eppure la cooperazione sarebbe indispensabile perché la polizia musulmana può più facilmente interloquire con i leader wahabiti e può riconoscere più facilmente segni della presenza di cellule terroristiche. Quello che poi ci preoccupa è che la comunità internazionale sta sottovalutando il problema”.
La pensano così anche Predrag Ćeranić, professore dell’università di Banja Luka e capo dei servizi d’intelligence bosniaci durante la guerra, e Dževad Galijašević, noto analista musulmano bosniaco: lo scambio di informazioni tra le agenzie di sicurezza spesso non avviene o, se avviene, risulta inefficace, perché ci sono ancora troppe frizioni tra la polizia serba e quella bosniaca.
È quindi necessario il coinvolgimento della comunità internazionale. “Non ci si può limitare al rafforzamento delle collaborazioni bilaterali tra i singoli Paesi. Chiunque abbia un minimo di competenza è perfettamente consapevole che se cadrà Damasco, il jihad arriverà nei Balcani per poi diffondersi in tutta Europa”, afferma  Ćeranić, quasi scocciato, come se fosse costretto a ripetere sempre le stesse cose a un interlocutore che si finge sordo.
Abbiamo ascoltato la versione serba, ma, consapevoli che non è esaustiva, andiamo alla ricerca di voci diverse e intraprendiamo la tortuosa strada che da Banja Luka porta a Sarajevo. Sono estesi i territori incontaminati e fitti i boschi sulle montagne: si capisce come sia difficile controllare queste zone, nonostante i continui sorvoli degli elicotteri delle forze dell’ordine. Intanto, allontanandosi dalla Repubblica Srpska, il paesaggio cambia: l’orizzonte è segnato dalle croci delle chiese cattoliche e ortodosse, ma sempre più frequentemente anche dallo svettare dei minareti che aumentano avvicinandosi alla capitale.
I musulmani devono pregare cinque volte al giorno e poter ascoltare bene la voce del muezzin. Per questo ogni villaggio, anche piccolo ha la sua moschea. Le croci, a mano a mano, diventano sempre meno.
“È vero abbiamo delle grandi difficoltà a ottenere le autorizzazioni necessarie per costruire le nostre chiese”, l’Arcivescovo Luigi Pezzuto (foto a sinistra), Nunzio Apostolico in Bosnia Erzegovina e Montenegro, ci apre subito le porte della Rappresentanza della Santa Sede a Sarajevo.
“Una parte della questione è dovuta a ragioni burocratiche, ma non credo che questo sia il problema da risolvere. Dobbiamo lavorare sulle menti delle persone. Dobbiamo con loro approfondire il diritto alla libertà religiosa. Io ci sto lavorando molto.
La Chiesa in quanto edificio non serve se prima non viene riconosciuto il diritto”, ci spiega con il tatto diplomatico che si addice al suo ruolo. Meno cauto è invece il Cardinal Vinko Puljic, Arcivescovo di Sarajevo che da anni denuncia l’islamizzazione forzata della Bosnia: “Non riusciamo a costruire le nostre chiese, mentre negli ultimi anni sono nati più di 70 centri di culto musulmano solo a Sarajevo e in tutto il Paese più di 100 moschee”. La colpa, a detta del Cardinale non è solo della leadership politica bosniaca, ma anche e soprattutto dell’Europa e dell’intero Occidente che assistono inermi a un processo che invece li riguarda da vicino.
“Se finalmente si sente parlare della diffusione dell’integralismo e dell’estremismo islamico in Bosnia, è solo perché la visita del Santo Padre ha fatto sì che questo Paese, quasi sempre ignorato dai media, sia tornato a esistere per la comunità internazionale. Sono vent’anni che mi impegno personalmente per denunciare l’islamizzazione sistematica in Bosnia, che comincia con la guerra civile e non si è mai arrestata.
L’Arabia Saudita ha fortemente nutrito le comunità wahabite e finanziato la costruzione di luoghi di riunione e di culto. Tutto è in mano agli islamici che cercano di costringere i cattolici a lasciare il Paese: il datore di lavoro musulmano difficilmente assume un cattolico, e così ancora oggi tanti giovani sono costretti a emigrare. Non basta che ci siamo dimezzati, dal ’91 a oggi” (oggi i cattolici in Bosnia sono circa 430mila, prima del conflitto erano più di 800mila – ndr).
Per quanto riguarda il diffondersi del terrorismo jihadista, Puljic ritiene che sia “tardi per intervenire perché qui l’estremismo è un fenomeno ormai troppo radicato e quindi difficile da estirpare più qui che altrove”.
E in effetti per vedere le donne col niqab e gli uomini barbuti di cui tanto si parla negli ultimi mesi, non occorre arrivare in villaggi sperduti abitati da comunità chiusissime. Basta passeggiare a Vrelo Bosne, località turistica a pochi chilometri da Sarajevo per trovarsi catapultati in una realtà quasi totalmente islamizzata. Donne copertissime accanto a uomini con la barba lunga passeggiano sulle rive delle sorgenti del fiume Bosna o si godono un giro su una carrozza condotta da un cavallo bianco. Molti sono turisti, ma tanti altri vivono qui. E a quanto pare altrettanti verranno a viverci, dato che i cartelli di vendita delle proprietà, spesso, sono scritti solo in arabo.
I sauditi quindi comprano anche ville e non solo terreni agricoli serbi in villaggi sperduti. Per chiarirci le idee, decidiamo di andare a trovare Esad Hecimovic, esperto di terrorismo ed editor della televisione OBN (uno dei principali canali televisivi bosniaci).
Ha appena terminato di registrare il servizio sulla visita di John Allen, inviato speciale del presidente americano per la coalizione che combatte lo Stato Islamico. Il giornalista spiega che a suo parere il processo di islamizzazione e il terrorismo non sono la stessa cosa, e che se i sauditi comprano terreni non è detto che debbano per forza costruirci dei campi di addestramento al combattimento. Anzi in Bosnia di questi training camp di cui tanto si parla non ne sono mai stati trovati (lo confermano fonti istituzionali e di intelligence).
“Lo Stato funziona e la polizia fa il suo dovere. La visita di Allen e l’incontro con le autorità di oggi ne sono la dimostrazione: si rafforza la cooperazione per impedire il dilagare dell’ideologia jihadista. Ma finora qui non sono state scoperte reti terroristiche vere e proprie, solo episodi e individui isolati. Quelli che vanno a combattere all’estero, sì sono tanti, ma lo fanno per ragioni diverse, di cui quelle economiche sono solo le più ovvie. A
lcuni hanno la sindrome postraumatica da stress a causa della guerra, altri finiscono nelle moschee sbagliate, altri ancora vivono molto soli o molto isolati e per questo cercano risposte nel web finendo nelle reti dei reclutatori. Per capire meglio questo però parlate con lui, che ha tre cugini che sono andati in Siria”. Ci indica un ragazzo che lo ha accompagnato all’incontro con noi e che fino a questo momento è rimasto ad ascoltare in silenzio. Preferisce tenere riservata la sua identità, parla italiano e timidamente ci racconta di essere musulmano, di Visoko, una cittadina non molto distante da Sarajevo.
Anche i suoi cugini vivevano lì: “Non li vedevo spesso, ma come in ogni buona famiglia ci si frequenta nelle occasioni importanti. E quando abbiamo saputo che questi tre parenti erano partiti per la Siria non abbiamo potuto non chiederci cosa li avesse spinti, dato che nessuno di noi è un estremista. Nel Corano non c’è nessun appello alla guerra perché l’Islam è una religione di pace. Ma certo che la guerra, quella degli anni ’90 è rimasta indelebile nelle nostre menti.
Me la ricordo io che avevo 7 anni quand’è finita. E anche se ho superato qualunque pregiudizio, non riesco a fare a meno che il sangue non mi si geli nelle vene, se mi si presenta qualcuno che fa di cognome Milosevic. Figuriamoci mio cugino grande che con la guerra ci è cresciuto, che l’ha fatta e che non sapeva fare altro.
Quando è finita si è depresso, si sentiva perso e dopo poco ha deciso di andare a combattere in Cecenia. Lui credeva che per liberarsi di grossi problemi bisogna combattere, e si è sempre unito alle cause che riteneva giuste, tra cui quella siriana purtroppo. Poi non stava bene, quando era a Visoko sembrava un disadattato, lamentava sempre di sentirsi inadeguato.
Gli altri due invece sono giovani, uno un mio coetaneo, l’altro ha 24 anni. Entrambi senza lavoro, ma come tanti altri. L’unico segnale di stranezza che hanno mostrato è che hanno cominciato a frequentare la moschea e a pregare; i genitori che non praticano la religione, sono convinti che lo facessero per soldi. Ma possibile che solo per soldi abbiano deciso di andare a combattere? Bastano 2mila euro per convincere una persona a rischiare la propria vita? Io a questo non credo, ma ancora non ho trovato un’altra risposta”.
Si capisce che in un Paese come questo non faccia scalpore la diffusione da parte dell’Isis del “Messaggio al popolo dei Balcani” in cui albanesi kosovari e bosniaci radicalizzati incitano cruentemente i loro fratelli a vendicare “le umiliazioni subite dai musulmani” in questi Stati.
Così mentre i media internazionali impazzano, nessuno qui in Bosnia sembra sconvolgersi e, a noi, nel Centro Studi di Sicurezza di Sarajevo, il professor Denis Hadzovic, direttore dell’istituto, dice: “È da parecchio tempo che abbiamo a che fare con questi messaggi che incitano la gente a entrare a far parte dell’esercito dello Stato Islamico. Per cui  non credo che questo filmato, nello specifico, avrà un grande effetto sul reclutamento di jihadisti nei Balcani”.
Come a dire che “quel che doveva essere fatto è già stato fatto”, l’islamizzazione della Bosnia è stata quasi portata a compimento: Europa e Occidente, sordi agli appelli che ricevono da anni, si allarmano solo adesso perché solo oggi la minaccia li riguarda direttamente e palesemente. Mancanza di lungimiranza? O interessi finanziari, come denunciano vari esponenti della Chiesa cattolica? In ogni caso, le toppe che si possono applicare ora saranno comunque poche e inadeguate per gli strappi che lacerano questo Paese.