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Sent: Monday, November 04, 2013 9:00 PM
Subject: Srebrenica Historical Project: Announcing a new volume, "Rethinking Srebrenica"

SREBRENICA HISTORICAL PROJECT

Postbus 90471,

2509LL

Den Haag, The Netherlands

+31 64 878 09078  (Holland)

+381 64 403 3612  (Serbia)

E-mail: srebrenica.historical.project@...

Web site: www.srebrenica-project.com

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“RETHINKING SREBRENICA” IN ENGLISH

 

          Srebrenica Historical Project is pleased to announce that in cooperation with its American publisher Unwritten History Inc. it has published a new, revised, and expanded edition of its classic comprehensive critique of the standard account of Srebrenica events in July 1995, “Deconstruction of a Virtual Genocide,” now under a new title: “Rethinking Srebrenica.” The authors are Stephen Karganović and Ljubiša Simić.

          While retaining the structure of the original volume, “Rethinking Srebrenica” has been considerably updated to include new evidence and testimony of relevant witnesses in the Mladić and Karadžić trials which was received since the last edition went to press. Also included are two new chapters, “ICTY radio intercept evidence” and “Srebrenica: Uses of the narrative.”

          The new chapter on intercept evidence raises serious questions about the authenticity of the transcripts of alleged incriminating conversations that were used in trial proceedings before ICTY, upon which many significant factual and legal conclusions were based. The new final chapter, “Uses of the narrative,” presents a compelling argument that Srebrenica has not been treated primarily as it should have been, as a criminal investigation,  but rather as a political device serving at least two objectives which have nothing to do with any interest in the facts on the ground. The first is to provide a founding myth to cement the new Bosnian Muslim identity and produce an unbridgeable rift with the neighbouring Orthodox community, thus providing a rationale for permanent interference and arbitration by interested foreign parties. The second is to furnish a plausible motive for the R2P [Responsibility to protect] doctrine which was developed gradually after the Srebrenica events of July 1995 and has served  since as an interventionist vehicle against targeted sovereign states such as Serbia (Kosovo), Iraq, Libya, and now Syria.  

          Chapters IV and V by Ljubiša Simić on the forensic evidence have been thoroughly revised and updated to reflect new information. They present an even more devastating picture than in the previous editions of the huge gap which separates the unfounded claims of the official Srebrenica narrative from the empirical evidence as collected by ICTY Prosecution’s own teams of experts and their admissions under cross examination in the Mladić and Karadžić trials.

          For our readers’ benefit we have attached the electronic version of “Rethinking Srebrenica” and we encourage reader comments and criticisms. [DOWNLOAD (PDF, 6,5 MB): https://www.cnj.it/documentazione/Srebrenica/RethinkingSrebrenica.pdf ]




Devastazione e ri-colonizzazione della Libia

1) Il Grande Nulla, due anni dopo Muammar Gheddafi (M. Forte)
2) La Libia nel caos a due anni dalla liberazione umanitaria della NATO (F. W. Engdahl)
3) La Libia da Gheddafi ad Al Qaida: terrorismo, CIA e militarizzazione dell'Africa (M. Vandepitte)
4) Lo squartamento libico (N. Nuñez Dorta)
5) La ricostruzione libica: un affare italiano (F. La Bella)


=== 1 ===

(the original text, in english: The Great Nothingness of Libya, Two Years After Muammar Gaddafi
By Maximilian Forte - Global Research, October 21, 2013 / Zero Anthropology 20 October 2013

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Il Grande Nulla, due anni dopo Muammar Gheddafi

Maximilien Forte
, Global Research, 21 ottobre 2013

La nozione di “Libia” ha cessato di avere qualsiasi significato pratico, quale concetto in riferimento a un certo grado di unità nazionale, comunità immaginata, sovranità o esercizio di un’autorità statale sul proprio territorio, la “Libia” è tornata indietro, quando doveva ancora formalizzarsi come concetto. Coloro che una volta celebravano i “ribelli rivoluzionari”, Obama, la NATO, le ONG, i media occidentali e l’opinione pubblica imperialista, liberale e “socialista” che, dopo un lungo periodo di aggiustamento strutturale interiorizzato, ora ha per filosofia il migliore accordo con i principi neoliberali, raramente, se mai, hanno incarnato il “futuro migliore” che doveva venire.  Visioni, come allucinazioni e deliri, del meglio che sarebbe venuto una volta che Gheddafi sarebbe stato doverosamente giustiziato, abbondavano negli scritti politicamente infantili sulla “primavera araba”.
Se mai c’è stata una “primavera araba” in Libia, in pochi giorni si trasformò in un incubo africano.  Questo fu particolarmente vero riguardo al terrorismo razzista contro decine di migliaia di inermi civili libici neri e di lavoratori migranti africani. Da quando la “Libia” non esiste più, l’assenza è una vergognosa macchia. La Libia è ora il nuovo “Stato” dell’apartheid e il nuovo “regime” torturatore in Africa. Perché le virgolette? A differenza dell’apartheid in Sud Africa, la “nuova Libia” è priva di qualsiasi tipo di coesione, come Stato e, tra governanti effettivi o potenziali, come classe, e le analisi di classe, infatti, quando applicata alla Libia utilizzando Marx come un manuale produce quei risultati risibili che ci si può aspettare dagli ortodossi eurocentristi, da coloro che indicano il presente nei contesti non occidentali come mera proiezione o ripetizione dello “stalinismo”. Le torture grottesche e criminali, l’omicidio e il massacro di Muammar Gheddafi simboleggiarono ciò che venne subito inflitto a tutta la Libia, proprio come fu fatto a migliaia di libici neri e di migranti africani dagli “eroici ribelli” nella guerra della NATO contro la Libia del 2011. La Libia è stata smembrata, come è stato scritto, sprofondando nella guerra di tutti contro tutti a vantaggio di pochi.
Giorni, settimane, mesi e ora anni sono passati, segnati da sequestri quotidiani, torture, ingiusta detenzione, omicidi, attentati, incursioni e sanguinosi scontri tra milizie rivali, estorsioni armate, assalti che hanno ridotto l’industria petrolifera in un miraggio di ciò che “una volta era”, ed esplosione di razzismo, fondamentalismo religioso e regionalismo. Se “Gheddafi” era il loro nemico, allora i libici hanno uno strano modo di dimostrarlo: massacrandosi a vicenda, i libici si dichiarano i propri peggiori nemici. Gheddafi non era chiaramente il problema: era la soluzione che doveva essere spezzata, in modo che la Libia fosse “fermata”, bloccata e costretta nella visione dei crudeli tiranni di Arabia Saudita, Qatar e Stati Uniti.
Se la Libia ha subito migliaia di morti dal brutale rovesciamento di Gheddafi e di tutto ciò che aveva creato, è un bene ed una felice notizia per tutti quei puerili e pretesi sempliciotti che basano infantilmente le loro teorie su idee e contrapposizioni binarie eurocentriche, appena velate dalle traduzioni idiote delle demonizzanti caricature di Gheddafi. Così era “il dittatore”, che a quanto pare governava senza uno Stato, se si crede a ciò che Reuters tenta di far passare da analisi politica.  (Nessuna quantità di “esserci stato” ti curerà se insisti nella tua ignoranza). Qui c’era il dittatore “brutale”, che evidentemente manteneva debole il suo esercito. O c’era uno Stato, che era anche un one-man show, qualsiasi cosa per incolparlo di tutto il passato e per distogliere l’attenzione da tutti coloro che hanno la responsabilità del presente. Se continuano a combattere “Gheddafi” e ad accusare Gheddafi per il presente, allora non vi è stata alcuna “rivoluzione”, ma solo continue rievocazioni di tutto ciò che fu “Gheddafi.” Se i leader delle milizie vedono Gheddafi ovunque e in tutti, è perché non sono da nessuna parte. Perfino le grandiose dichiarazioni, vengono passate per analisi di esperti come Juan Cole e altri amici della Libia “che si ribella”, del popolo unito nel “rovesciare il regime” del dittatore. Davvero, è imbarazzante quando si pensa che tali presunti adulti, perfino “studiosi”, fossero dietro tale sciocco cartone animato.
Per i “socialisti” occidentali che hanno applaudito i “rivoluzionari” libici, chiediamogli: dov’è il socialismo in Libia oggi? Per i liberali che parlavano di “democrazia” e “diritti umani”, dove sono oggi? Per i sostenitori dei principi dell’intervento e della “protezione umanitaria”, perché siete così  silenziosi dopo aver chiuso con l’omicidio di Gheddafi? A chi immaginava presunti “massacri” futuri, accompagnando le invocazioni dei chierichetti inglesi e americani secondo cui “Gheddafi doveva sparire”, perché la vostra immaginazione improvvisamente scompare davanti ai veri massacri da voi stessi commessi e permessi? A coloro che affermano “delle vite sono state salvate,” dov’erano quando corpi insanguinati cominciarono ad accumularsi tra sciami di mosche negli ospedali abbandonati? Quando i pazienti negli ospedali furono freddati nei loro letti, e quando i prigionieri ammanettati, supini, furono assassinati con colpi a bruciapelo, tanto che l’erba sotto le loro teste fu bruciata; avete sussultato? In altre parole, dove vedete questo grande “successo” nell’ossario che oggi è la “Libia”?
E’ una piana ‘analisi che parla della compressione dello spazio-tempo nella globalizzazione, che spiega presumibilmente quanti imperialisti iPad si siano investiti personalmente di “correggere” la Libia, in modo che potesse diventare simile a quello che hanno immaginato di possedere. Non guardano a nulla, se non a un’altra occasione di presentarsi, lusingando se stessi con un evoluto rinvigorimento culturale, applicato a forza dai bombardamenti della NATO. La Libia è ora “pronta alla democrazia”, e i missili da crociera hanno dimostrato quanto la Libia fosse matura per “il miglioramento.” Compressione spazio-temporale? La globalizzazione della coscienza? La coscienza, per quanto ce ne sia mai stata, è stata sicuramente compressa, in un minuscolo guscio di noce in cui sono vietate le opinioni contrarie, come soltanto ha sempre dimostrato di essere.
In tal senso, raccomando al lettore d’investire 40 minuti circa, per rivedere come stavano le cose prima di farsi illudere dalle nostre stesse bugie. Si tratta di una panoramica della Libia di Gheddafi, prodotta da BBC e CBS (che ci crediate o no), quando le fantasie demonologiche non si erano ancora completamente schiuse, volando e scaricando tanti escrementi propagandistici sulle nostre teste, come avviene con i vanagloriosi monologhi imperiali di Obama. Sfidate voi stessi e guardate alcune delle cose che la Libia ha perso, tutto in nome del grande nulla.


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(the original text, in english: Libya in Anarchy Two Years after NATO Humanitarian Liberation
By F. William Engdahl - Global Research, September 27, 2013

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La Libia nel caos a due anni dalla liberazione umanitaria della NATO

F. William Engdahl, Global Research, 27 settembre 2013

Nel 2011, quando Muammar Gheddafi si rifiutò di lasciare tranquillamente il governo della Libia, l’amministrazione Obama, nascondendosi dietro le sottane dei francesi, lanciò una feroce campagna di bombardamenti e una “no-fly zone” sul Paese per supportare i cosiddetti combattenti per la democrazia. Gli Stati Uniti mentirono a Russia e Cina, con l’aiuto del filo-USA Consiglio di cooperazione del Golfo, per la risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia, utilizzata per giustificare una guerra illegale. La dottrina della “responsabilità di proteggere” fu anche usata, la stessa dottrina che Obama vuole utilizzare in Siria. E’ utile guardare alla Libia due anni dopo l’intervento umanitario della NATO.
Il caos nel settore petrolifero
L’economia della Libia dipende dal petrolio. Subito dopo la guerra, i media occidentali salutarono il fatto che le installazioni petrolifere non fossero state danneggiate dai bombardamenti sulla popolazione e che la produzione di petrolio fosse quasi normale, pari a 1,4 milioni di barili/giorno (bpd). Poi, a luglio le guardie armate al soldo del governo di Tripoli improvvisamente si ribellarono e presero il controllo dei terminali dei giacimenti petroliferi orientali che dovevano proteggere. Vi si estraeva il grosso del petrolio della Libia, nei pressi di Bengasi, dove dalle pipeline le petroliere ricevevano il petrolio per l’esportazione nel Mediterraneo. Quando il governo perse il controllo della produzione e dei terminali, le esportazioni registrarono un netto calo. Poi un altro gruppo tribale armato prese il controllo dei due giacimenti petroliferi nel sud, bloccando il flusso di petrolio per i terminali sulla costa nord-ovest. Gli occupanti tribali chiedevano maggiori paghe e scesero in sciopero per chiedere maggiore retribuzione e la fine della corruzione. Il risultato finale, oggi, inizio di settembre, è che la Libia ha pompato solo 150.000 barili su una capacità di 1,6 milioni di barili al giorno. Le esportazioni sono diminuite a 80.000 barili al giorno. [1]
Milizie armate contro i Fratelli musulmani
La Libia è uno Stato artificiale, come gran parte del Medio Oriente e dell’Africa, tracciato dall’Italia in epoca coloniale, nella prima guerra mondiale. Era governato per consenso delle numerose tribù. Gheddafi fu scelto con un lungo processo di voto dagli anziani delle tribù, cosa che poteva richiedere fino a 15 anni, mi è stato detto da un esperto. Quando fu assassinato e la sua famiglia braccata, la NATO impose il dominio del Consiglio nazionale di transizione (CNT) dominato dalla Fratellanza musulmana. Ora, ad agosto, una nuova Assemblea è stata eletta, sempre dominata dalla Fratellanza come l’Egitto di Mursi o la Tunisia. Suonava bene sulla carta, ma la realtà è che, a detta di tutti, le bande di fuorilegge armati, per la prima volta dalla guerra, con armi moderne e jihadisti  stranieri di al-Qaida, compiono bombardamenti quotidiani in tutto il Paese per avere il controllo locale. Tripoli stessa ha numerose bande armate che ne controllano i quartieri. Si sta passando alla lotta armata tra le milizie tribali locali, che vanno formandosi, e la fratellanza che controlla il governo centrale. I leader delle province di Cirenaica e Fezzan prendono in considerazione la rottura con Tripoli, e le milizie ribelli di mobilitano in tutto il Paese. [2]
Attentati a Tripoli ogni giorno, mentre si diffonde l’illegalità
Nuri Abu Sahmain, fratello musulmano e neoeletto Presidente del Congresso, ha convocato le milizie alleate della Confraternita nella capitale, per cercare d’impedire un colpo di stato, un’azione che l’opposizione vede come un colpo di Stato della Fratellanza. Il principale partito di opposizione, le forze di centro-destra dell’Alleanza nazionale, di conseguenza ha abbandonato il Congresso insieme a diversi partiti etnici più piccoli, lasciando il partito della Giustizia e della Costruzione della Fratellanza a capo di un governo dall’autorità in rovina. “Il Congresso è  sostanzialmente collassato”, ha detto un diplomatico a Tripoli. [3] L’amministrazione Obama ha promosso il cambio di regime in tutto il mondo musulmano, dall’Egitto alla Tunisia alla Siria, in favore degli oscuri Fratelli musulmani, nell’ambito della strategia a lungo termine per il controllo dell’Arco di Crisi musulmano, dall’Afghanistan alla Libia. Mentre il colpo di Stato militare sostenuto dai sauditi contro il presidente della Fratellanza Muhammad Mursi, in Egitto, a luglio, ha dimostrato che la strategia di Obama ha qualche problema.
Rivolte e illegalità
Con l’aumento delle violenze, il ministro dell’Interno Muhammad Qalifa al-Shaiq si è dimesso ad agosto. Circa 500 prigionieri nel carcere di Tripoli entrarono in sciopero della fame per protestare contro due anni di detenzione senza accuse. Quando il governo ha ordinato al Comitato supremo della sicurezza di ristabilire l’ordine, spararono ai prigionieri attraverso le sbarre. A luglio, 1200 prigionieri fuggirono da una prigione dopo una rivolta a Bengasi. Illegalità e anarchia si  diffondono. [4] I berberi, la cui milizia aveva assaltato Tripoli nel 2011, hanno occupato temporaneamente il parlamento a Tripoli. Poiché Stati Uniti e NATO furono irremovibili nel non avere “stivali sul terreno”, consegnarono deliberatamente qualsiasi arma a tutti i ribelli che avrebbero sparato alle truppe del governo di Gheddafi. Ancora oggi hanno armi e la Libia mi viene descritta, da un giornalista francese che di recente vi si era recato, come “il più grande bazar all’aperto di armi del mondo“, dove chiunque può acquistare qualsiasi moderna arma della NATO. Gli stranieri sono in gran parte fuggiti da Bengasi, laddove l’ambasciatore statunitense fu ucciso nel consolato degli Stati Uniti dai miliziani jihadisti, lo scorso settembre. E il procuratore militare della Libia, colonnello Yusif Ali al-Asaifar, incaricato di indagare sugli omicidi di politici, militari e giornalisti, è stato lui stesso assassinato da una bomba nella propria auto, il 29 agosto. [5]
Le prospettive sono tristi mentre si allarga l’illegalità. Suleiman Qajam, un membro della commissione parlamentare per l’energia, ha detto a Bloomberg che “il governo utilizza le sue riserve. Se la situazione non migliora, non sarà in grado di pagare gli stipendi entro la fine dell’anno“. L’amministrazione Obama sostiene che l’uso, non ancora provato, del governo di Assad di armi chimiche in Siria giustifica una guerra con bombardamenti da parte della NATO e di alleati come Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Giordania, in base all’ingannevole dottrina “umanitaria” detta “responsabilità di proteggere”, che sostiene che certe violazioni dei diritti o della sicurezza delle persone, sono così gravi da trascendere il diritto internazionale, la Carta delle Nazioni Unite o le norme costituzionali degli Stati Uniti, facendo sì che per motivi morali, qualsiasi presidente degli Stati Uniti possa bombardare un Paese di sua scelta. C’è qualcosa di sbagliato qui…

Note
[1] Krishnadev Calamur, Libya Faces Looming Crisis As Oil Output Slows To Trickle, NPR, 12 settembre 2013;
[2] Patrick Cockburn, We all thought Libya had moved on — it has, but into lawlessness and ruin, 3 settembre 2013
[3] Chris Stephen, Libyans fear standoff between Muslim Brotherhood and opposition forces, The Guardian, 20 agosto, 2013
[4] Patrick Cockburn, op.  cit.
[5] Ibid.
Copyright © 2013 Global Research
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora


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(cet article en francais: État défaillant. Les États-Unis sont-ils sérieusement en guerre contre le terrorisme en Afrique ou le suscitent-ils au contraire pour servir leurs intérêts ?
par Marc Vandepitte - 21 octobre 2013

www.resistenze.org - popoli resistenti - libia - 11-11-13 - n. 474

La Libia da Gheddafi ad Al Qaida: terrorismo, CIA e militarizzazione dell'Africa

Marc Vandepitte | mondialisation.ca
Traduzione da ossin.org

21/10/2013

Gli Stati Uniti sono davvero in guerra contro il terrorismo in Africa, o piuttosto lo suscitano per utilizzarlo a loro vantaggio? Inchiesta di Marc Vandepitte

Stato debolissimo
L'11 ottobre il Primo Ministro libico è stato brutalmente rapito, per poi essere liberato nel giro di qualche ora. Questo sequestro è sintomatico della situazione del paese. Il 12 ottobre un'auto bomba è esplosa vicino alle ambasciate della Svezia e della Finlandia. Una settimana prima l'ambasciata russa era stata evacuata dopo essere stata invasa da uomini armati. Un anno fa era successo lo stesso all'ambasciata statunitense. L'ambasciatore e tre collaboratori vi avevano trovato la morte. Altre ambasciate erano state in precedenza prese di mira.

L'intervento occidentale in Libia, come in Iraq e in Afghanistan, ha messo in piedi uno Stato debolissimo. Dopo la destituzione e l'assassinio di Gheddafi, la situazione dell'ordine pubblico nel paese è fuori controllo. Attentati contro politici, attivisti, giudici e servizi di sicurezza sono moneta corrente. Il governo centrale ha difficoltà a controllare il paese. Le milizie rivali impongono la loro legge. A febbraio il governo di transizione è stato costretto a convocarsi sotto le tende, dopo essere stato espulso dal parlamento da ribelli infuriati. Il battello colato a picco vicino a Lampedusa, facendo annegare 300 rifugiati, veniva dalla Libia, ecc.

La Libia possiede le più importanti riserve di petrolio dell'Africa. Ma, a causa del caos che regna nel paese, l'estrazione è quasi ferma. Siamo arrivati al punto che deve importare il petrolio necessario a soddisfare i suoi bisogni di elettricità. A inizio settembre sono state sabotate le condutture d'acqua verso Tripoli, minacciando la capitale di penuria.

Basi per terroristi islamisti
Ma la cosa più inquietante è la jihadizzazione  del paese. Gli islamisti controllano interi territori e hanno uomini armati ai checkpoint delle citta di Bengasi e Derna. La figura di Belhadj illustra bene la situazione.
Questo ex (per così dire) membro eminente di Al Qaida era coinvolto negli attentati di Madrid del 2004. Dopo la caduta di Gheddafi, divenne governatore di Tripoli e inviò centinaia di jihadisti libici in Siria per combattere contro Assad. Lavora oggi alla costruzione di un partito conservatore islamista.

La jihadizzazione si estende ben al di là delle frontiere del paese. Il Ministro tunisino dell'interno descrive la Libia come un "rifugio per i membri nordafricani di Al Qaida". Dopo il crollo del governo centrale libico, armi pesanti sono cadute nelle mani di ogni sorta di milizie. Una di queste, il Libyan Fighting Group (LIFG), di cui Belhadj è un dirigente, ha stretto un'alleanza con i ribelli islamisti del Mali. Questi ultimi sono riusciti, con i Tuareg, a impossessarsi di tutto il Nord del Mali per qualche mese. L'imponente operazione di sequestro di ostaggi in una base petrolifera algerina, in gennaio, è stata realizzata partendo dalla Libia. Oggi la ribellione siriana è controllata dalla Libia e la macchia d'olio jihadista si estende verso il Niger e la Mauritania.

Ringraziando la CIA
A prima vista, gli Stati Uniti e l'Occidente sembrano preoccuparsi di questa recrudescenza di attività jihadista in Africa del Nord. Aggiungiamo anche la Nigeria, la Somalia e più recentemente il Kenya. Ma a ben vedere la situazione è più complicata. La caduta di Gheddafi è stata resa possibile dall'alleanza tra, da una parte, le forze speciali francesi, inglesi, giordane e del Qatar e, dall'altra, gruppi ribelli libici.  Il più importante di essi era proprio il Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), che figurava nella lista delle organizzazioni terroriste vietate. Il suo leader, il sunnominato Belhadj, aveva due o tremila uomini ai suoi ordini. Questi ultimi furono addestrati dagli Stati Uniti subito prima dell'inizio della ribellione in Libia.

Gli Stati Uniti non sono al loro primo tentativo in questo campo. Negli anni 1980, essi si occuparono della formazione e dell'organizzazione dei combattenti estremisti islamisti in Afghanistan. Negli anni 1990 fecero lo stesso in Bosnia e, dieci anni più tardi, in Kosovo. Non è poi da escludere che i servizi di informazione occidentali siano direttamente o indirettamente coinvolti nelle attività terroriste dei Ceceni in Russia e degli Uiguri in Cina.

Gli Stati Uniti e la Francia si sono finti sorpresi quando i Tuareg e gli islamisti hanno occupato il Nord del Mali. Ma era solo una facciata. Ci si può perfino chiedere se non siano stati loro stessi a provocarla, come avvenne nel 1990 con l'Iraq contro il Kuwait.  Tenuto conto del livello di presenza di Al Qaida nella regione, qualsiasi specialista in geo-strategia avrebbe saputo che l'eliminazione di Gheddafi avrebbe provocato una recrudescenza della minaccia terrorista in Maghreb e nel Sahel. E siccome la caduta di Gheddafi è stata per gran parte opera delle milizie jihadiste, che gli Stati Uniti avevano formato e organizzato, è il caso di cominciare a porsi delle serie domande. Per maggiori dettagli, rinvio a un mio articolo precedente.

Agenda geo-politica
Comunque sia, la minaccia terrorista islamista nella regione e altrove sul continente africano fa comodo agli Stati Uniti. Costituisce la scusa perfetta per essere presente militarmente e intervenire nel continente africano. Non è sfuggito, a Washington, che la Cina e altri paesi emergenti sono sempre più attivi sul continente mettendo in pericolo l'egemonia degli Stati Uniti. La Cina è oggi il più importante partner commerciale dell'Africa. Secondo il Financial Times, "la militarizzazione della politica statunitense dopo l'11 settembre è da tempo discussa perché viene considerata, nella regione, come un tentativo degli Stati Uniti di rafforzare il loro controllo sulle materie prime e di contrastare il ruolo commerciale esponenziale della Cina.

Nel novembre 2006 la Cina organizzò un summit straordinario sulla cooperazione economica, cui parteciparono almeno 45 capi di Stato africani. Giusto un mese più tardi, Bush approvava la costituzione di Africom. Africom è il contingente militare statunitense (aerei, navi, truppe ecc) per le operazioni sul continente africano. L'abbiamo visto per la prima volta in azione in Libia e in Mali. Africom è oramai operativo in 49 dei 54 paesi africani e gli Stati Uniti dispongono in almeno dieci paesi di basi o installazioni militari permanenti. La militarizzazione degli Stati Uniti nel continente si allarga continuamente.

Sul piano economico, i paesi del Nord perdono terreno nei confronti dei paesi emergenti del Sud, ed è così anche per l'Africa, un continente ricco di materie prime. E' sempre più evidente che i paesi del nord intendano contrastare questo riequilibrio con mezzi militari. La cosa promette bene per il "continente nero".  


=== 4 ===

www.resistenze.org - popoli resistenti - libia - 05-11-13 - n. 473

Lo squartamento libico

Tutto sembra indicare che la frammentazione in determinate aree di influenza sia una tendenza difficile da contrastare nella Libia odierna

Nestor Nuñez Dorta | lahaine.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

05/11/2013

L'opera dei "combattenti per la libertà", che misero fine al governo di Tripoli, con l'aiuto degli Stati Uniti, dei loro partener dell'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO), della destra araba, del sionismo e islamismo estremista, ha recentemente maturato i suoi primi frutti.

Si tratta della secessione della Cirenaica per conto di una cosiddetta Giunta delle Comunità, che comprende le bande armate coinvolte nella passata "ribellione", i capi di tribù locali e, di certo, i rappresentanti delle grandi imprese monopolistiche legate al petrolio, interessate al bottino di un paese strategico per il dominio delle rotte mediterranee e con grandi riserve energetiche.

Così, secondo Adeb Rabbo Hamid Barasi, nominato primo ministro del nuovo governo autonomo, si da per realizzata l'istaurazione di una repubblica federale autonoma che in seguito si chiamerà con il nome di Barqa, controllata da un consiglio di ventiquattro ministri, ma dove le funzioni di Difesa e degli Esteri rimarranno all' "esecutivo centrale", definizione che alcuni analisti identificano come una sorta di potere quasi intoccabile e molto vicino ai gruppi estremisti islamici fortemente coinvolti nelle azioni che hanno deposto le autorità di Tripoli.

Secondo lo stesso Barasi, l' "indipendenza" ha come obiettivo quello di controllare la più grande zona fornitrice di petrolio libico e stabilire uno stretto controllo sulla "sicurezza interna".

Nel frattempo, i media occidentali indicano che "le tribù e le milizie hanno basato la loro decisione sulla partizione regionale istituita nel 1951 dall'allora re Idriss, che divise il Paese in tre stati: Cirenaica (Barqa), Tripolitania (ovest, dove Tripoli è la capitale) e Fezzan, nel centro-sud.

In Cirenaica si trova anche la città di Bengasi, da dove si diede inizio alla rivolta contro il governo di Muammar Gheddafi, e dove sono accaduti notevoli episodi di violenza dopo la presunta vittoria dei ribelli.

Così, di recente è stato colpito nella propria casa il direttore del traffico aereo della città, il colonnello Abdel al Towahni, portando a quindici il totale degli alti comandanti militari morti nella città in questi ultimi anni per mano dei gruppi jihadisti, autori anche dell'attentato che poco più di un anno fa costò la vita di Christopher Stevens, allora ambasciatore degli Stati Uniti in Libia.

E mentre il Consiglio Nazionale di Transizione, che fa le veci del governo nazionale, dichiara illegale la decisione dei gruppi armati che operano in Cirenaica, tutto sembra indicare che la frammentazione in determinate aree di influenza sia una tendenza difficile da contrastare nella Libia odierna.

Da mesi, le poche informazioni provenienti da quel paese insistono nel caos seminato dalle bande che hanno deposto Gheddafi, le quali non solo conservano tutti i loro equipaggiamenti, ma rifiutano anche di integrarsi in un esercito unico, sotto il comando di un governo nazionale.

Insomma, la violenta ingerenza guidata dall'Occidente, le satrapie arabe, il sionismo e l'islamismo estremista, non ha fatto altro che promuovere le ambizioni dei signori della guerra e dei gruppi con aspirazioni del tutto particolari che minacciano l'unità dello Stato libico e, come logico corollario, la sua stessa esistenza.

Come ha ben rilevato un esperto qualche mese fa, nella Libia del post Gheddafi "sono una sessantina di milizie i veri centri del potere. Incapaci di eliminarli, il Consiglio Nazionale di Transizione utilizza alcuni come forze ausiliarie in casi di emergenza, mentre altri vanno registrandosi tra i vari partiti politici o tentano di dotarsi di uno spazio geografico dove imporre la propria volontà, in una tendenza molto pericolosa".

Di conseguenza, una vera anarchia sanguinosa caratterizza il futuro della Libia, che adesso si aggrava e acquisisce i rischi di una vera "morte nazionale" con il distacco forzato della Cirenaica, che amputa la frontiera orientale del paese, tagliando fuori gran parte del Golfo di Sirte, che le strappa l'importante porto di Bengasi e pregiudica i volumi più significativi della sua ricchezza petrolifera.


=== 5 ===

www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 13-11-13 - n. 474

La ricostruzione libica: un affare italiano

Se le aziende straniere fuggono da Tripoli per l'instabilità politica, Roma resta e aumenta il suo volume d'affari. Un maxi-investimento che sa di colonialismo

Francesca La Bella | nena-news.globalist.it

11/11/2013

Legami di lungo corso uniscono Italia e Libia. I vincoli coloniali prima e gli interessi commerciali in seguito, hanno cementato un rapporto di interdipendenza duraturo e molto proficuo, soprattutto per la controparte italiana. In questo contesto l'intervento NATO contro Muhammar Gheddafi e la conseguente instabilità sembravano aver inciso negativamente sul volume di affari italiani nel Paese a causa di due fattori paralleli ed interrelati: la fluttuazione della produzione di idrocarburi (gas e petrolio), primo prodotto esportato verso la penisola italica, e la presenza significativa di competitors commerciali, soprattutto francesi, attivi nel Paese anche grazie alle tutele date dal coinvolgimento militare della propria madre patria al fianco dei ribelli.

La realtà è, però, diversa da quella che poteva apparire all'indomani della morte del Colonnello. Le speranze occidentali di affidabilità dei partner politici e di stabilità economica sono state quasi immediatamente disattese e, ad oggi, la tutela delle attività industriali straniere è nelle mani di compagnie di sicurezza private mercenarie o di milizie di ex-ribelli come la Lybia Shield Force. A prima vista la situazione sembrerebbe, dunque, molto critica per gli investitori italiani, ma così non è.

Anche dopo la caduta di Gheddafi, Roma si è infatti confermata il principale partner economico della Libia. Il mercato italiano è la meta principale dell'export libico e, nonostante le difficoltà, il valore dell'intercambio è cresciuto sia nel 2012 sia nel 2013. Parallelamente, se prima del 2011, operavano in Libia circa 100 aziende italiane, l'anno successivo si poteva stimare un 70% di rientri e la percentuale è ulteriormente cresciuta nell'ultimo periodo. Se i colossi del petrolio come le statunitensi Marathon Oil e ExxonMobil stanno lasciando la Libia a favore di altri Paesi con maggiori garanzie di sicurezza, le aziende italiane hanno scelto di investire sempre di più nel canale libico. Da un lato questo è dovuto alla fuga di buona parte della concorrenza internazionale, spaventata da una situazione che presenta forti criticità, dall'altro, si tratta di una occasione unica per avere un ruolo significativo in ambito mediterraneo.

L'accordo con il Governo Zeidan per il monitoraggio dei confini libici con tecnici italiani e sistemi Selex (Finmeccanica), l'incontro tra Letta ed Obama incentrato sul Mediterraneo in generale e sulla Libia in particolare e la dichiarazione congiunta di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia a favore del "consolidamento della democrazia" sono i passaggi di un nuovo programma di intervento italiano nel Paese nord-africano. In quest'ottica devo essere letti, di conseguenza, anche la costituzione a fine ottobre dell'associazione Progetto Italia Libia (Apil) che dovrebbe favorire l'ingresso nel Paese africano di piccole e medie imprese, principalmente del settore infrastrutture, e la presenza massiva dell'Italia al Libya Rebuild 2014, la fiera internazionale sull'edilizia e le infrastrutture, che si terrà a febbraio 2014 a Tripoli.

Parallelamente si ricordi che ENI ha scelto di mantenere la propria posizione in suolo libico nonostante le difficoltà. Benché sia di pochi giorni fa la notizia dell'occupazione da parte di gruppi berberi del terminal libico del gasdotto che collega Mellitah a Gela, gestito dalla compagnia italiana e dalla consociata libica, le dichiarazioni in merito dell'amministratore delegato dell'azienda Paolo Scaroni non sono state particolarmente allarmate. Si sottolinea la difficoltà di lavorare in un contesto di post-guerra civile, ma si apre comunque alla possibilità di un miglioramento.

La fiducia nel futuro dell'Ad di ENI sembrerebbe fuori luogo se non si tenesse conto del contesto: l'imprenditoria privata è supportata da politiche statali configurando la relazione tra i due Paesi in termini neo-coloniali. La Libia ha, attualmente, un Governo debole, incapace di garantire la propria sicurezza interna e quella dei confini. L'economia, basata quasi totalmente sui proventi degli idrocarburi, continua a registrare fluttuazioni e la mancanza di investimenti esteri impedisce la diversificazione economica. Questa situazione induce il premier Zeidan a cercare partner commerciali capaci di dare nuova linfa all'economia locale, rafforzando, di conseguenza, la posizione dell'esecutivo.

D'altra parte l'Italia trova nella crisi libica un'inesauribile fonte di guadagno, non esclusivamente economico. Il business della ricostruzione potrebbe sopperire alle difficoltà che il settore edilizio e delle infrastrutture soffre in patria, il monitoraggio dei confini potrebbe garantire sia un introito economico per le aziende di tecnologia militare sia un risultato politico in termini di limitazione del fenomeno migratorio (esimendo l'Italia da un dibattito su una nuova nuova legge sull'immigrazione) e l'impegno per la "transizione democratica" riporterebbe l'Italia al centro del dibattito politico internazionale. Siamo sicuri che il ritorno al colonialismo possa essere considerato una soluzione "democratica?".



(italiano / deutsch / english)

Anschluss

1) V. Giacché: ANSCHLUSS. L’ANNESSIONE DELLA DDR E IL FUTURO DELL’EUROPA
2) 2010: La borghesia tedesca in crisi scatena un'altra campagna anticomunista e contro la RDT / Assalto all'Est
3) 2010: The German issue today (Alexei Fenenko)
4) DDR-Betriebe und die Treuhand (Frontal21, 2010)
5) Segnalazione libro: ERICH HONECKER - APPUNTI DAL CARCERE


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“Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”

9 Ottobre 2013

di Vladimiro Giacché

Anticipazione da

Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur editore, 2013, pp. 304, in libreria dal 9 ottobre.

(riproduciamo per gentile concessione dell’editore le pp. 149-157 del testo)

Guai ai vinti: la criminalizzazione della RDT

La liquidazione pratica della RDT procedette in maniera parallela alla sua demonizzazione ideologica. Il documento forse più significativo della criminalizzazione della RDT è rappresentato dal discorso tenuto il primo luglio 1991 dal ministro della giustizia Klaus Kinkel, già presidente dal 1979 dal 1982 del servizio segreto della RFT (il Bundesnachrichtendienst, BND), al primo forum del ministero federale della giustizia. Eccone un passo: “Per quanto riguarda la cosiddetta RDT e il suo governo, non si trattava neppure di uno Stato indipendente. Questa cosiddetta RDT non è mai stata riconosciuta dal punto di vista del diritto internazionale. Esisteva una Germania unica (einheitlich), una parte della quale era occupata da una banda di criminali. Tuttavia non era possibile, per determinate ragioni, procedere penalmente contro questi criminali, ma questo non cambia di una virgola il fatto che c’era un’unica Germania, che ovviamente in essa vigeva un unico diritto e che esso attendeva di poter essere applicato ai criminali”.
La mostruosità storica e giuridica di questo passo meriterebbe un commento approfondito. Basterà, di passaggio, ricordare che la RDT era uno Stato riconosciuto non soltanto dall’ONU e da numerosissimi altri Stati, ma di fatto anche dalla stessa RFT, sin dal Trattato sui principi del 1972. E che il capo della “banda di criminali” di cui parla Kinkel era stato in visita di Stato nella Repubblica Federale non più tardi che nel 1987, quando era stato ricevuto con tutti gli onori da Helmut Kohl. Fu del resto lo stesso Günter Gaus, che ricoprì per anni l’incarico di responsabile della rappresentanza permanente della RFT nella Repubblica Democratica Tedesca, a dichiarare: “è insensato fare come se la RDT fosse una provincia che si era separata dalla Repubblica Federale. C’erano due Stati tedeschi, tra loro indipendenti, riconosciuti da tutto il mondo”. (...)

Questa sconcertante dichiarazione di Kinkel non sfuggì a Honecker, il quale negli appunti stesi in carcere e pubblicati postumi ne evidenziò la logica conseguenza: “la criminalizzazione dello Stato che fu la Repubblica Democratica conduce ad un vero bando sociale della massa dei cittadini della RDT. Chi ha partecipato alla costruzione di questo ‘Stato di non-diritto’ (Unrechtsstaat) sarà ‘legittimamente’ cacciato dal suo posto. Operaio, contadino, insegnante o artista, dovrà prendere atto del fatto che la sua espulsione dall’amministrazione, dall’insegnamento, dal teatro o dal laboratorio è ‘legale’”. Come vedremo, questa previsione a tinte fosche non si rivelerà troppo lontana dal vero.

Ma Kinkel fece un ulteriore grave passo pochi mesi dopo. Nel suo discorso di saluto al 15° congresso dei giudici tedeschi, il 23 settembre dello stesso anno, affermò testualmente: "conto sulla giustizia tedesca. Si deve riuscire a delegittimare il sistema della SED".

In questa esortazione è evidente la clamorosa violazione dell'indipendenza del potere giudiziario da quello esecutivo (ossia uno dei fondamenti dello stato di diritto), e assieme la teorizzazione esplicita di un utilizzo politico della giustizia: in questo modo di fatto Kinkel si rende colpevole proprio di quello di cui accusava la RDT. L’osservazione che Honecker in carcere fa con riferimento al procedimento che lo riguarda può quindi essere in qualche modo generalizzata: “con questo processo viene fatto quello che si rimprovera a noi. Ci si sbarazza dell’avversario politico utilizzando gli strumenti del diritto penale, ma ovviamente secondo i principi dello Stato di diritto”.

La giustizia del vincitore: i processi politici

A questa esortazione di Kinkel, purtroppo, una parte della giustizia federale rispose positivamente, anziché rispedirla al mittente. Nel corso degli anni furono aperti procedimenti penali nei confronti di circa 105 mila cittadini della RDT, in genere finiti nel nulla (ma che spesso ebbero un effetto devastante sulla carriera e sull’esistenza stessa degli interessati). In effetti, finirono sotto processo “soltanto” 1.332 persone (127 delle quali furono coinvolte in più di un processo). Risultarono condannate a pene variabili 759 persone (48 delle quali a pene detentive), si ebbero 293 assoluzioni e 364 processi furono interrotti per morte dell’imputato o per altri motivi.

Questo poté avvenire in forza di una sostanziale violazione del Trattato sull’unificazione e di ulteriori forzature della legge. In realtà fu adoperato surrettiziamente il diritto della RFT per giudicare l’operato di persone che avevano agito in ottemperanza alle leggi della RDT (in particolare guardie di confine, giudici e alti esponenti politici). Furono aperti ex novo procedimenti (mentre in base al Trattato la RFT avrebbe dovuto proseguire e portare a termine soltanto procedimenti già iniziati prima del 3 ottobre 1990). Per poter coinvolgere anche i più alti esponenti politici nei processi si inventò un presunto “ordine di sparare” a chi provasse a violare la frontiera impartito dagli alti comandi (mentre i soldati si limitavano a seguire le procedure – analoghe a quelle in uso nell’esercito della RFT - previste in caso di oltrepassamento illegale del confine o di ingresso non autorizzato in una zona militare, come del resto ammise in una sentenza del 1996 anche la Corte costituzionale federale). (...)

Il parlamento emanò tre successive leggi per prolungare i termini della prescrizione, e alla fine si giunse a considerare i quasi 41 anni della RDT come periodo di sospensione del decorso della prescrizione! Anche se in questo caso l’effetto pratico fu trascurabile (i procedimenti che si poterono effettivamente aprire e portare a termine in questo modo furono pochissimi), l’effetto mediatico e l’obiettivo di porre sul banco degli accusati l’intera storia della RDT fu conseguito.

Si trattò di fatto di processi esemplari, e più precisamente di “processi di rappresentanza”, in cui il procedimento penale era finalizzato a “delegittimare” postumamente, proprio come aveva richiesto Kinkel, la Repubblica Democratica Tedesca. Per quanto numerosi e gravi siano le responsabilità di Honecker nei suoi quasi 20 anni alla guida della RDT (in particolare l’assoluta sordità nei confronti della domanda di democratizzazione che veniva dalla società e l’ostinato rifiuto di cambiare rotta nella politica economica), è difficile non riconoscere delle ragioni nella sua denuncia del carattere politico del processo cui era sottoposto: “ci sono soltanto due possibilità: o i signori politici della RFT hanno consapevolmente, liberamente e addirittura volentieri cercato di avere rapporti con un assassino, o essi adesso consentono che un innocente sia accusato di omicidio. Nessuna di queste due alternative va a loro onore. Ma non ne esiste una terza... Il vero obiettivo politico di questo processo è l’intenzione di screditare la RDT e con essa il socialismo. Evidentemente, la sconfitta della RDT e del socialismo in Germania e in Europa per loro non è sufficiente... La vittoria dell’economia di mercato (come oggi si usa eufemisticamente definire il capitalismo) deve essere totale e totale deve essere la sconfitta del socialismo. Si vuole, come Hitler un tempo ebbe a dire davanti a Stalingrado, ‘che questo nemico non si riprenda mai più’. I capitalisti tedeschi hanno sempre avuto la tendenza alla totalità”.

In effetti in qualche caso questa “tendenza alla totalità”, questa furia liquidatoria nei confronti della RDT è giunta sino al punto di sconfinare nella adesione e giustificazione di quello che in Germania c’era prima della RDT stessa.

Quando Honecker nel 1992 fu estradato dalla Russia di Eltsin (a tal fine i medici russi produssero un certificato falso, che nascondeva la gravità del cancro al fegato di cui Honecker soffriva), venne rinchiuso in Germania nel carcere di Moabit, lo stesso in cui lo avevano rinchiuso i nazisti, per attività sovversiva nel Terzo Reich (durante il nazismo Honecker scontò 10 anni di carcere). E chi predispose l’atto di accusa pensò bene di riprendere letteralmente, senza modificarli in alcun modo, stralci dell’atto di accusa formulato a suo tempo dalla Gestapo. Cosicché nel curriculum vitae di Honecker allegato agli atti del processo si trovano queste frasi: “l’attività svolta [da Honecker] per l’organizzazione giovanile del partito comunista era illegale. Pertanto egli fu arrestato a Berlino il 4 dicembre 1935, per sospetta preparazione di attività di alto tradimento”.

Quando l’ex capo delle forze armate della RDT, Heinz Kessler, fu portato davanti a un tribunale tedesco federale - con l’accusa, anche nel suo caso, di aver dato l’“ordine di sparare” alla frontiera - non mancarono commenti sarcastici sul fatto che questo generale tedesco aveva disertato l’esercito tedesco; e in effetti lo aveva fatto: nel 1941, quando aveva abbandonato l’esercito di Hitler per unirsi all’armata rossa.

Ma il caso più estremo riguarda Erich Mielke, l’ex capo del potentissimo ministero per la sicurezza dello Stato (meglio noto come Stasi) – in definitiva colui che nella RDT ricopriva lo stesso incarico che nella RFT aveva ricoperto Kinkel. Per Mielke non si trovò di meglio che condannarlo per l’omicidio di due poliziotti nel 1931. In questo caso si riprese il fascicolo processuale aperto sotto il nazismo, che aveva portato nel 1935 alla decapitazione in carcere di un altro comunista, Max Matern. A Mielke negli anni Novanta andò meglio: fu condannato a 6 anni, ma fu scarcerato nel 1995 per motivi di salute (aveva 88 anni), dopo aver passato in carcere complessivamente 5 anni.

Gerhard Schürer, l’ex capo della pianificazione della RDT, nelle sue memorie scrive: “è per me incomprensibile che il massacro di 15 donne e bambini italiani [la strage di Caiazzo, N.d.A.] da parte del criminale di guerra Lehnigk-Emden durante la seconda guerra mondiale in base al diritto tedesco sia un reato prescritto, mentre l’atto di un giovane comunista, che – anche nel caso in cui egli l’abbia davvero commesso – deve essere spiegato con la situazione dell’epoca, prossima alla guerra civile, ancora dopo 64 anni viene perseguito e la pena implacabilmente comminata”.


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www.resistenze.org - popoli resistenti - germania - 13-07-10 - n. 327

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
La borghesia tedesca in crisi scatena un'altra campagna anticomunista e contro la RDT
 
10/07/2010
 
I liberali del FPD [Partito Liberal Democratico] spingono per un'indagine sulle reti del servizio di sicurezza antifascista della RDT-DDR, che seppe far fronte all'aggressivo imperialismo occidentale fino al 1989, dentro il parlamento della Germania borghese RFT dal 1949 al 1990.
 
Con l'economia in crisi, un aumento della disoccupazione, una crisi politica derivante dalla complicità tedesca nella guerra coloniale in Afghanistan, la borghesia cerca di deviare l'attenzione delle masse, coltivare senza ritegno l'anticomunismo e combattere la crescente simpatia popolare verso la RDT socialista e verso il socialismo in generale. Lo stato esige dalla molto socialdemocratizzata Die Linke che continui a rinculare rinunciando completamente alla RDT e ad ogni idea socialista. Bassezza, revanscismo, filo-nazismo e caccia alle streghe sono gli elementi principali della Germania imperialista attuale.
 
Secondo una recente inchiesta pubblicata da Der Spiegel, il 57% dei cittadini dell’Est è disposto a difendere pubblicamente la RDT, il 49% crede che si vivesse bene e l’8% che si viveva meglio nella RDT che sotto il regime borghese. La maggioranza dei giovani crede che la RDT difendesse meglio l'ecosistema rispetto all'Ovest capitalista.
 

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www.resistenze.org - popoli resistenti - germania - 10-10-10 - n. 335

da Avante, organo del PCP- www.avante.pt/pt/1923/opiniao/110735/ 
Traduzione dal portoghese per 
www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Assalto all'Est
 
di Rui Paz
 
ottobre 2010
 
Il capitale monopolista ed i suoi servi hanno celebrato lo scorso 3 ottobre il 20° anniversario della liquidazione del primo Stato socialista tedesco e la restaurazione del capitalismo nella ex DDR. La distruzione della struttura economica socialista e il saccheggio della ricchezza appartenente a tutto il popolo della Repubblica Democratica Tedesca, vengono solitamente presentati, da parte di una oligarchia finanziaria sfruttatrice e parassitaria, in possesso di fortune colossali, proprietaria di banche e grandi imprese e gruppi economici, come una "rivoluzione".
 
Ma le celebrazioni del 2010 sono state turbate dalla rivelazione dei documenti della "Corte dei Conti Federale", inaccessibili fino ad ora, i quali dimostrano che il declino dell'economia tedesco-orientale, a partire dal 1990, non è da imputare al socialismo, come il capitale ha costantemente propagandato per due decenni, ma all'assalto al settore bancario dello Stato da parte delle banche occidentali. Deutsche Bank e Dresdner Bank sono stati le principali beneficiarie di tale atto di rapina.
 
Questi 20 anni di '"unificazione" che i banchieri, i multi-milionari e la classe politica servitrice del capitalismo celebrano, si sono trasformati per una parte importante dei lavoratori e del popolo tedesco in un calvario di disoccupazione e povertà, di liquidazione dei diritti sociali e lavorativi, di regressione antidemocratica e assenza di speranza per una vita migliore. La fine del socialismo nella RDT e la restaurazione capitalista hanno trascinato tutta la Germania in una situazione per cui il potere non eletto e incontrollabile del grande capitale prevale sulla volontà politica generale. Le banche e i monopoli privati, come Siemens, Allianz o Mercedes, senza alcuna legittimazione democratica decidono il destino di milioni di famiglie.
 
Nel 2003, la percentuale della popolazione che viveva al di sotto della soglia di povertà, nella parte occidentale era del 13%, in quella orientale era salita al 17,7%. Mentre nelle fabbriche occidentali solo il 70% dei lavoratori ha ancora un contratto di lavoro a tempo indeterminato (impensabile fino al 1990), ad oriente la situazione è ancora più drammatica con il 45,5% diviso tra lavoro precario e lavoro nero. È giunto il tempo di rivelare che dietro la cosiddetta "unificazione" della Germania si nasconde un attacco reale ai beni e alla ricchezza della ex DDR e un processo di regresso sociale senza precedenti nella storia d'Europa dal 1945.
 

=== 3 ===

http://en.rian.ru/valdai_op/20101004/160819255.html

Russian Information Agency Novosti
October 6, 2010

The German issue today

Alexei Fenenko 

This fall marks 20 years since the reunification of Germany. On 12 September 1990 the Moscow Treaty was signed, apparently bringing the curtain down on the German question. On 3 October 1990, on the basis of the Moscow Treaty, the Cold War’s Eastern and Western Germany were reunified. Now, two decades later, it is time to consider whether the Moscow Treaty really did settle the "German question".

After the fall of the Berlin Wall (November 1989) there were two alternative possibilities for the reunification of Eastern and Western Germany. The first was the "2+4" formula. Under it, the FRG and the GDR would independently create a new unified whole, later to be joined by “the victorious powers” (the USSR, the U.S., Great Britain and France). The alternative was a "4+2" formula, according to which the four “victorious powers" were to jointly decide on how Germany was to be unified. Britain and France favored the latter. The U.S. took a neutral position to avoid possible conflict both with Germany and one of its key allies - Britain. The situation changed, however, when the USSR became involved. At a meeting with Chancellor Helmut Kohl in Zheleznovodsk (July 1990) Michael Gorbachev backed the "2+4" formula. The George Bush senior’s administration in turn supported him, and France and Britain fell in line behind the two global superpowers. 

Thus the Moscow Treaty was born of compromise. It was signed by two German states (Eastern and Western Germany) and the four “victorious powers.” The document stipulated the conditions for Germany’s reunification according to the "2+4" formula alongside a guarantee of its future peaceful development. It also repealed "the victorious powers’" rights to German territory. Germany pledged to keep within restrictions on conventional armed forces, not to create weapons of mass destruction (WMD) and to refrain from acts of aggression against other states. Particular emphasis was placed on the new Germany’s final borders and neighboring countries.

Despite all the efforts taken, the Moscow Treaty did not manage to settle the German question. Moreover, for a number of reasons it may yet prove a flashpoint in relations on the continent.

Firstly, the Moscow Treaty is not technically a peace treaty. In law “the victorious powers" as yet have no peace treaty with Germany. The parties’ obligations under the Moscow Treaty are preliminary in character.

Secondly, the Moscow Treaty retained the restrictions on German sovereignty. It restored Germany’s full legal identity and repealed "the victorious powers’" rights to German territory. But the limitations on German sovereignty imposed by the Bonn treaty (1952) remain in force. Germany is still forbidden to hold referendums on military affairs, to demand the withdrawal of Allied troops before signing a peace treaty, to make foreign policy decisions without the approval of the victorious powers, and to pursue a number of developments within their armed forces, in particular, Germany is banned from creating weapons of mass destruction (WMD).

Thirdly, Berlin created a succession of precedents for an expanded interpretation of the Moscow Treaty. For example, during Operation Desert Storm (1991) Germany backed the anti-Iraq coalition. Twenty years later, German soldiers maintained a presence in Bosnia, Kosovo, Macedonia and Afghanistan. 

Fourth, there are some misgivings about German nuclear issues. Germany participates in the NPT as a non-nuclear state. Yet at the same time Berlin has a complete nuclear fuel cycle. Hence, it could produce nuclear weapons. Indeed, such a move would only require a political decision. Two of Germany’s ex-Ministers of Defense - Rupert Scholz and Rudolf Scharping – pointed out that, in certain circumstances, this could in fact be possible. Besides, Germany has ambitions to become a permanent member of the UN Security Council, which will give it legal nuclear status. Thus, the five permanent UN Security Council members will be five legitimate nuclear powers.

Other states are still concerned about Germany’s future. In 1991, despite the positions taken by Britain and France, Berlin recognized the independence of Slovenia and Croatia. Moreover, it even threatened to withdraw from the European Community. Then Paris and London persuaded Bill Clinton’s U.S. administration to maintain an American military presence in Germany at all costs. When entering the Bosnian war (1992 -1995), the U.S. tried to unite its NATO allies (including Germany) in a joint military operation in order to bring a halt to Berlin’s unilateral response to the Balkan issue.

Today the issue of Germany’s military independence is developing in a new direction. In April 2009, the Bundestag recommended that Angela Merkel's Government consider the possibility of the withdrawal of U.S. tactical nuclear weapons from Germany. Although a majority of deputies voted against the immediate withdrawal of American tactical nukes, in February 2010, Berlin cooperated with the Benelux countries and Norway, proposing to raise this issue for consideration within NATO. But since 1957 American tactical nukes have been at the core of U.S. security guarantees to Germany. Thus their potential withdrawal would confirm Berlin’s intention to construct an independent military policy.

Germany’s nuclear discussions have raised concern among some NATO allies. In February 2010 the U.S. Secretary of State Hillary Clinton and her deputy James Steinberg said that such decisions should be considered within the Alliance. At the Tallinn Summit (22 -23 April 2010) NATO foreign ministers decided to maintain a united Alliance policy on the issue of nuclear deterrents. The new draft of NATO’s military doctrine (May 2010) focused on (1) the preservation of a common nuclear policy and (2) the continued presence of American tactical nuclear weapons on NATO members’ territory. So this could be a new potential source of stress in regard to the German question.

Russia also has some food for thought. Berlin is one of Moscow’s leading partners. So Russia is unlikely to oppose any discussion the issue of restoring full German sovereignty. Yet a Germany that is militarily independent is one factor that is sure to alter the balance of power in Europe. Therefore, the twentieth anniversary of the Moscow Treaty an even more apt moment to reflect on how and in what format the impending revision of the document meets Russia's interests.

Alexei Fenenko is Leading Research Fellow, Institute of International Security Studies of RAS, Russian Academy of Sciences


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Abgewickelt und betrogen

DDR-Betriebe und die Treuhand


Rückblick: Im Sommer 1990 bekommen 16 Millionen DDR-Bürger neues Geld: Der Freude über die harte D-Mark folgt schnell Ernüchterung. Denn die
Volkseigenen Betriebe müssen nun ihre Belegschaft in D-Mark bezahlen und sich über Nacht dem Weltmarkt stellen. Privatisieren oder dichtmachen - das
ist die Aufgabe der Treuhandanstalt, der größten Staatsholding der Welt. Der Ausverkauf der DDR-Wirtschaft beginnt. 8000 Betriebe sollen marktfähig
gemacht werden oder untergehen.

Die Mitarbeiter des Wärmeanlagenbaus Berlin (WBB) glauben, dass sie den Sprung in den Markt schaffen können. WBB, größter DDR-Hersteller für
Fernwärmetrassen, besitzt ein Millionenvermögen. Offizieller Substanzwert: 160 Millionen D-Mark. Doch die Treuhand rechnet den Betrieb klein und
verkauft ihn für ganze zwei Millionen D-Mark an den westdeutschen Geschäftsmann Michael Rottmann. Der entlässt die meisten Beschäftigten,
verkauft die WBB-Immobilien für knapp 150 Millionen und transferiert das Betriebsvermögen ins Ausland.2,5 Millionen Arbeitsplätze abgewickelt
1200 Menschen verlieren ihre Arbeit. Rottmann flieht ins Ausland. Erst 14 Jahre nach dem Firmenzusammenbruch wird der Geschäftsmann gefasst und zu
einer mehrjährigen Haftstrafe verurteilt. Fast 200 Millionen Mark Firmengelder bleiben verschwunden. Wie WBB geht es tausenden von Firmen.

Als die Treuhand im Dezember 1994 ihre Arbeit beendet, sind 2,5 Millionen Arbeitsplätze in der ehemaligen DDR vernichtet. Was bleibt, ist ein
Schuldenberg von 250 Milliarden D-Mark. Bis heute belasten die Milliarden, die die Abwicklung der DDR-Wirtschaft gekostet hat, den Bundeshaushalt -
von den sozialen Folgen ganz zu schweigen.Vernichtende Bilanz Werner Schulz, damals grüner Bundestagsabgeordneter, durchleuchtete in
einem Untersuchungsausschuss die Geschäfte der Treuhandanstalt. Seine Bilanz ist vernichtend: "Im Grunde genommen ist es das größte
Betrugskapitel in der Wirtschaftsgeschichte Deutschlands."

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http://frontal21.zdf.deZDFdeprogramm0,6753,PrAutoOp_idPoDispatch:9935358,00.html 

„Beutezug Ost – Die Treuhand und die Abwicklung der DDR“

Verantwortlich: Albrecht Müller 
http://www.nachdenkseiten.de/?p=6735#more-6735

Endlich kommen die Zweifel an der Arbeit der Treuhand und an der Weisheit der Währungsunion breiter zur Sprache. Heute Abend um 21:00 h setzt Frontal 21 seine Aufarbeitung der Vorgänge um die Treuhand und um die Währungsunion mit einer Dokumentation fort. Die Vorschau auf diese Sendung „Beutezug Ost – Die Treuhand und die Abwicklung der DDR“ finden Sie hier und als Anlage 1. In der Vorschau finden Sie auch weitere Links zu Teilen der Sendung. Albrecht Müller

Wenn diese Versuche der Aufarbeitung einer düsteren Geschichte auch spät kommen, es ist besser als gar nicht. Nach meinem Eindruck liegt so viel im Dunkel, dass es dringend geboten wäre, die Vorgänge um die Abwicklung der fast 8000 Betriebe der DDR, um den Verkauf der ostdeutschen Banken an die westdeutschen Banken und um die Währungsunion vom 1.7.1990 neu aufzuarbeiten. Ein neuer Untersuchungsausschuss zur Abwicklung von Betrieben durch die Treuhand wäre dringend geboten.

(Message over 64 KB, truncated)


Falsifikovanje istorije na RTS

1) Beograd 10/11: PROTEST PROTIV EMITOVANЈA SERIJE „RAVNA GORA“
2) SUBNOR: ПРОВОКАЦИЈА  JE  И  САМ  НАЗИВ!


LINKOVI:

Protiv emitovanja serije "Ravna gora"
Dr Branko Latas: DOKUMENTI O SARADNJI ČETNIKA SA OSOVINOM 

THE TRIAL OF DRAGOLJUB-DRAŽE MIHAJLOVIĆA 
Stenographic record - Belgrade 1946

VIDEO: Izdajnici i ratni zlocinci (6/8)

Рехабилитација Драже Михаиловића:
ОТВОРЕНО ПИСМО СУБНОР СРБИЈЕ ДОМАЋОЈ И СВЕТСКОЈ ЈАВНОСТИ
SUBNOR, 19. март 2012.


=== 1 ===


PROTEST PROTIV EMITOVANЈA SERIJE „RAVNA GORA“


Pozivamo vas da zajedno podignemo glas protiv emitovanja serije „Ravna gora“, najnovijeg pokušaja falsifikovanja istorije i to na „javnom servisu svih građana“ – RTS-u.


Smešno je očekivati da će serija „Ravna gora“ Radoša Bajića biti pokušaj „objektivnog“ prikazivanja razdoblja Drugog svetskog rata kod nas. Sam Radoš Bajić je od ranije poznat kao simpatizer Ravnogorskog pokreta i suludo je pomisliti da će se u njegovoj seriji Ravnogorski pokret, po kom je serija i nazvana, prikazati objektivno. Jedino moguće objektivno prikazivanje po zlu čuvenog Ravnogorskog pokreta je kao pokreta krvničkih narodnih neprijatelja i slugi okupatora.


„Objektivni“ pokušaj mirenja četnika i partizana, na šta se Bajić poziva, nije nam nikakva nepoznanica. Istu stvar rade i srpske buržoaske vlasti, a to se zove revizija istorije. Ona za konačni cilj ima potpunu rehabilitaciju Ravnogorskog pokreta, a blaćenje slavne Narodnooslobidalačke borbe i naše revolucije, što je proces koji je u Srbiji već prilično odmakao.


U tome leži najveća opasnost serije protiv koje dižemo glas istog dana kada je najavljena njena premijerna epizoda, u nedelju 10. novembra u minut do 12 ispred zgrade RTS-a, Takovska 10.


Zaustavimo emitovanje serije „Ravna gora“!


Zaustavimo rehabilitovanje narodnih neprijatelja!


NKPJ-SKOJ


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НАРОДНИ ПРОТЕСТ ПРОТИВ ЕМИТОВАЊА СЕРИЈЕ „РАВНА ГОРА“
Savez Komunističke Omladine Jugoslavije

Domenica 10 novembre 2013
12.00 - ЗГРАДА РТС-А, ТАКОВСКА 10, БЕОГРАД

ПОЗИВАМО ВАС ДА ЗАЈЕДНО ПОДИГНЕМО ГЛАС ПРОТИВ ЕМИТОВАЊА СЕРИЈЕ „РАВНА ГОРА“, НАЈНОВИЈЕГ ПОКУШАЈА ФАЛСИФИКОВАЊА ИСТОРИЈЕ И ТО НА „ЈАВНОМ СЕРВИСУ СВИХ ГРАЂАНА“ – РТС-У. СМЕШНО ЈЕ ОЧЕКИВАТИ ДА ЋЕ СЕРИЈА „РАВНА ГОРА“ РАДОША БАЈИЋА БИТИ ПОКУШАЈ „ОБЈЕКТИВНОГ“ ПРИКАЗИВАЊА РАЗДОБЉА ДРУГОГ СВЕТСКОГ РАТА КОД НАС. САМ РАДОШ БАЈИЋ ЈЕ ОД РАНИЈЕ ПОЗНАТ КАО СИМПАТИЗЕР РАВНОГОРСКОГ ПОКРЕТА И СУЛУДО ЈЕ ПОМИСЛИТИ ДА ЋЕ СЕ У ЊЕГОВОЈ СЕРИЈИ РАВНОГОРСКИ ПОКРЕТ, ПО КОМ ЈЕ СЕРИЈА И НАЗВАНА, ПРИКАЗАТИ ОБЈЕКТИВНО. ЈЕДИНО МОГУЋЕ ОБЈЕКТИВНО ПРИКАЗИВАЊЕ ПО ЗЛУ ЧУВЕНОГ РАВНОГОРСКОГ ПОКРЕТА ЈЕ КАО ПОКРЕТА КРВНИЧКИХ НАРОДНИХ НЕПРИЈАТЕЉА И СЛУГИ ОКУПАТОРА.
„ОБЈЕКТИВНИ“ ПОКУШАЈ МИРЕЊА ЧЕТНИКА И ПАРТИЗАНА, НА ШТА СЕ БАЈИЋ ПОЗИВА, НИЈЕ НАМ НИКАКВА НЕПОЗНАНИЦА. ИСТУ СТВАР РАДЕ И СРПСКЕ БУРЖОАСКЕ ВЛАСТИ, А ТО СЕ ЗОВЕ РЕВИЗИЈА ИСТОРИЈЕ. ОНА ЗА КОНАЧНИ ЦИЉ ИМА ПОТПУНУ РЕХАБИЛИТАЦИЈУ РАВНОГОРСКОГ ПОКРЕТА, А БЛАЋЕЊЕ СЛАВНЕ НАРОДНООСЛОБИДАЛАЧКЕ БОРБЕ И НАШЕ РЕВОЛУЦИЈЕ, ШТО ЈЕ ПРОЦЕС КОЈИ ЈЕ У СРБИЈИ ВЕЋ ПРИЛИЧНО ОДМАКАО.
У ТОМЕ ЛЕЖИ НАЈВЕЋА ОПАСНОСТ СЕРИЈЕ ПРОТИВ КОЈЕ ДИЖЕМО ГЛАС ИСТОГ ДАНА КАДА ЈЕ НАЈАВЉЕНА ЊЕНА ПРЕМИЈЕРНА ЕПИЗОДА, У НЕДЕЉУ 10. НОВЕМБРА У МИНУТ ДО 12 ИСПРЕД ЗГРАДЕ РТС-А, ТАКОВСКА 10.
ЗАУСТАВИМО ЕМИТОВАЊЕ СЕРИЈЕ „РАВНА ГОРА“!
ЗАУСТАВИМО РЕХАБИЛИТОВАЊЕ НАРОДНИХ НЕПРИЈАТЕЉА!
НКПЈ-СКОЈ

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na istom temu:

MITING U NEDELJU U MINUT DO 12 ISPRED ZGRADE RTS
Komunisti pozivaju na ustanak: Zaustavite emitovanje serije "Ravna Gora"
Simonida Milojković  | 06. 11. 2013. 
http://www.blic.rs/Zabava/Vesti/417998/Komunisti-pozivaju-na-ustanak-Zaustavite-emitovanje-serije-Ravna-Gora

TRAŽE ZABRANU SERIJE
RAT JOŠ TRAJE: Skojevci ustali protiv emitovanja Ravne gore
06.11.2013. Autor: Agencija FoNet
http://www.kurir-info.rs/rat-jos-traje-skojevci-protiv-emitovanja-ravne-gore-clanak-1074151


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Протест

Објављено 5. новембар 2013. | Од СУБНОР

ПРОВОКАЦИЈА  JE  И  САМ  НАЗИВ!

Хвали се задњих година РТС, којег недужни народ издржава обилно харачем званим претплата, да је некакав јавни сервис ”свих грађана Србије”, а ево сада, у громопуцатељној кампањи, својој и медијских сателита, насрће на ту исту нацију провоцирајући чак и називом најављене такозване тв серије.

Не баш доказани глумац, неизвесни сценариста, још мање редитељ, упустио се за дебеле паре, у породичној манифактурној продукцији, да општим народним, добрим делом и државним, новцем крчми историју ове земље и, уз помоћ идеолошке сабраће, најављено изврће истину о, дакако, тешком времену народа који се, у свугде у свету препознатљивој и признатој већини, борио у Другом светском рату за слободу и против нацистичке хитлеровске немачке солдатеске и верних помагача из домаћих редова.

Много је воде протекло нашим рекама, а РТС и онај баја хоће серијом која залази у наше домове да, веле, науче становништво како више да цене прошлост.

Коју прошлост? Са планином што је била синоним за сарадњу са окупаторима и мање-више самозваним ђенералом кога се и његов, у прво време, претпостављени јавно одрекао из Лондона и позвао честите присталице да се придруже партизанским јединицама?

Прошлост коју помињу славодобитно редитељ и поједини маскирани актери су и крвави пирови, слово ”З”, најава кама у разулареним ”црним тројкама”, спаљене и опљачкане куће, фотографисање над жртвама и у братском окружју са фашистима разних фела.

Морбидна је и помисао, још више увреда, кад се такозвана предпремијера организује у Крагујевцу уочи дана ослобођења од тих и таквих о којима серија прича, а црвеним тепихом парадира цвет нашег глумишта који својим ролама хоће народ да учи прошлости и сам не зна, или га није брига, што тај хепенинг одржава уочи монструозног покоља школске деце и родољуба неодмаклог доба -  октобра 1941, покоља у Шумарицама, никад нису нити ће заборавити Шумадија и Србија, злочин је остао у памети правдољубиве и антифашистичке планете.

Иста, увертирна свечаност, кочоперно је одржана и у једом од ретких београдских биоскопа. Пред нарученим камерама задовољно су шеткали протагонсити већ више деценија протежираних ретроградних идеја које потиру антифашизам у Србији и, у исто време, аболирају идеологију и појединце што су белодано, у Другом светском рату, били на страни поражених фашистичких окупационих трупа и против савезничке коалиције, у којој су поносно и уз огроман и признати допринос били само НОП и партизанске дивизије.

Аутор тв серије већ најављује наставак, ”своју истину” о Ужичкој републици и, можда, о даљим догађањима везаним за рат и око њега кроз визуру љотићевско-дражиновске политике.

Отужно је, а нека широка јавност у Србији каже своје, да РТС аболира евидентно фашистичку прошлост и мериторно се хвали њоме у време кад и у Европи са забринутошћу не само указују на арлаукање деснице.

Неки се овде, ипак, нису дозвали памети. Уместо да се хвалимо вредностима по којима смо били познати и признати, сада аутентични и уникатни антифашизам, захваљујући ”јавном сервису” и ”његовим ствараоцима”, изједначују са сарадницима фашиста и помагачима истребљења народа Србије, чија се улога, на перфидан начин и уз помоћ доказљивих фалсификата, продуљава пуном силином и у данашње време.

На жалост и општу срамоту!