Informazione


TURCHIA

L'arresto in Italia di Bahar Kimyongür

Perseguitato da Erdogan per le accuse sulla Siria

di Marinella Correggia 
da " Il Manifesto"  23 Novembre 2013

È detenuto da giovedì nel carcere di Bergamo lo storico, giornalista e militante per la pace Bahar Kimyongür, di origine turca ma nato in Belgio dove vive. Appena arrivato in Italia, per partecipare a una conferenza internazionale sulla Siria, è stato arrestato sulla base di un mandato dell'Interpol richiesto dal governo di Ankara. L'accusa? Minaccia a un ministro e fiancheggiamento del terrorismo, in particolare dell'organizzazione turca Dhkpc. 
Come spiega l'avvocato penalista fiorentino Federico Romoli, nominato dalla famiglia (e membro dell'Ong Fair Trials International che si batte per un sistema penale più giusto), «lunedì la Corte d'appello di Brescia gli chiederà se vuole essere estradato in Turchia. Ovviamente dirà di no. Io chiederò la sua immediata liberazione». 
Per la stessa accusa in precedenza Kimyongür era stato già assolto in Belgio e nei Paesi bassi. 
Risale a un fatto del 2000 l'«accanimento del governo turco sulla base di un dossier vuoto» per usare le parole dello stesso Bahar, che da tempo collabora con il sito Investig'action del giornalista belga Michel Collon e con l'Istituto internazionale per la pace la giustizia e i diritti umani (Iipjhr) accreditato presso l'Onu a Ginevra. All'epoca diversi prigionieri politici in Turchia erano in sciopero della fame per protesta; durante una visita dell'allora ministro degli Esteri turco al Parlamento europeo Bahar lo interrompe pubblicamente denunciando le violenze e le persecuzioni, e gettando volantini. L'indomani la stampa turca lo descrive come amico di terroristi e nemico della nazione. In seguito la Turchia ne chiede l'estradizione accusandolo anche di far parte dell'associazione terroristica. È arrestato nei Paesi bassi, ma in seguito sia la giustizia olandese che quella belga dichiarano infondate le accuse. Rimane però in piedi purtroppo il mandato di cattura internazionale. 
Poi nel 2012, Bahar si attira nuovamente le ire turche denunciando pubblicamente, con articoli, conferenze e il libro Syriana. La conquete continue, il ruolo diretto del governo Erdogan nell'addestramento, nel finanziamento e nel transito delle formazioni estremiste e jihadiste attive in Siria. Aiuta anche le famiglie belghe a reclamare i figli partiti a combattere. Così, mesi fa viene arrestato in Spagna dove è in vacanza. Liberato poi su cauzione, il processo è in corso. 
In Italia si sta già preparando una mobilitazione a più livelli.



Inizio messaggio inoltrato:

Da: comitatocontrolaguerramilano <comitatocontrolaguerramilano  @gmail.com>
A: Comitato Contro la Guerra Milano <comitatocontrolaguerramilano  @gmail.com>
Inviato: Lunedì 25 Novembre 2013 21:22
Oggetto: Fwd: Scriviamo per la libertà a Bahar

RICEVIAMO DA MARINELLA CORREGGIA E VI GIRIAMO  CALDEGGIANDO LA VOSTRA ATTENZIONE ED AZIONE:

Ciao, Bahar Kimyongur cittadino belga di origine turca e da 15 anni attivo contro gli abusi in carcere da parte delle autorità turche e negli ultimi due anni contro l'appoggio che la Turchia offre ai terroristi in Siria,
E' IN PRIGIONE A BERGAMO e la Turchia ne chiede l'estradizione. Per saperne di più su questa situazione vergognosa (in Italia un cittadino belga prigioniero per fatti di pura opinione!) leggete qui [articolo riportato sopra, ndCNJ]:
Oggi pomeriggio prima udienza, l'avvocato ne chiederà la liberazione e il rimpatrio ma intato l'ambasciatore turco fa pressione (immaginate che sarà presente all'udienza)
 
Sua moglie chiede di mandare questa lettera alla Cancellieri, grazie, Marinella Correggia
 
Anna Maria Cancellieri centrocifra.gabinetto@...
  
Al ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, Ministero di Grazia e Giustizia, via Arenula, Roma
Oggetto: detenzione di un cittadino belga nelle carceri italiane per reato di opinione
Signor Ministro,

Dallo scorso 21 novembre, il cittadino belga Bahar Kimyongür è detenuto a Bergamo su richiesta della Turchia, la quale ne richiede l’estradizione.
Dal momento che oggi alle 11 si svolge un’udienza davanti alla Corte d’Appello di Brescia, ritengo sia mio dovere come cittadino sottoporLe alcuni elementi, importanti per la conoscenza del caso.
In primo luogo, occorre sapere che da oltre dieci anni Bahar Kimyongür subisce una vera e propria persecuzione da parte dello Stato turco che lo accusa senza prove di essere un “terrorista”. Questa persecuzione è avvenuta soprattutto in Belgio. Tuttavia, dopo quattro processi e due giudizi in cassazione, Bahar Kimyongür è stato completamente assolto dalla Corte d’Appello di Bruxelles.
La Turchia ha anche fatto pressione sui Paesi Bassi, ma nel 2006 la Camera di estradizione dell’Aja ha rifiutato l’estradizione. Sulla base dello stesso mandato d’arresto internazionale emesso dalla Turchia, il signor Kimyongür è stato poi arrestato in Spagna, lo scorso 17 giugno. In questo caso, la giustizia spagnola ha rimesso in libertà molto rapidamente il cittadino belga, anche se la procedura per l’estradizione è tuttora in corso.
E adesso è la volta del Suo paese a essere il teatro della persecuzione che Bahar Kimyongür subisce da parte di Ankara. E’ indispensabile che questo accanimento cessi perché, come indicano le giustizie belga e olandese, Bahar Kimyongür non ha commesso alcun atto di violenza o delitto. Quel che risulta insopportabile per il governo turco, sono le prese di posizione critiche di questo cittadino belga, i suoi scritti nei quali egli si oppone alla politica di Ankara, le sue coraggiose denunce delle violazioni dei diritti umani e i casi di tortura nelle prigioni turche.
Signor Ministro, in questo momento Bahar Kimyongür, cittadino belga, è un prigioniero politico in Italia per le sue sole opinioni. E’ una situazione intollerabile. Ecco perché mi permetto, in nome della libertà di espressione, di scriverLe e appellarmi a Lei affinché possa ispirare tutti passi necessari a ottenere la liberazione di Bahar Kimyongür.
 
Voglia gradire, signor Ministro, i miei saluti e ringraziamenti
 
In fede, 

 


Partigiani italiani nei Balcani: iniziative e documentazione

1) Parma: i partigiani italiani del "Battaglione Gramsci" in Albania in mostra a Palazzo Sanvitale, fino al 30 novembre
2) RaiStoria / E. Gobetti, M. Sangermano: la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi


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Da: "Comitato antifascista e per la memoria storica-Parma" <comitatoantifasc_pr@...>
Data: 23 novembre 2013 15.55.26 GMT+01.00
Oggetto: i partigiani italiani del "Battaglione Gramsci" in Albania in mostra a Palazzo Sanvitale da oggi 23 novembre

I soldati italiani del "Battaglione Gramsci" partigiani contro i nazifascisti in Albania
in mostra fotografica a Palazzo Sanvitale (Parco Ducale di Parma) dal 23 novembre
 
Come sul fronte jugoslavo l'indomani dell'8 settembre '43 migliaia e migliaia (quarantamila) soldati italiani non si arresero ai tedeschi e scelsero di combattere contro i nazifascisti al fianco dei partigiani della Resistenza jugoslava, così in Albania l'indomani dell'8 settembre militari italiani della 41a Divisione fanteria "Firenze" e della 53a Divisione fanteria "Arezzo" costituirono il "Battaglione Antonio Gramsci" che combattè contro i nazifascisti insieme con l'Esercito Albanese di Liberazione Nazionale fino alla completa liberazione dell'Albania.
La mostra fotografica “Da oppressori a combattenti per la libertà" ripercorre la storia del glorioso “Battaglione Antonio Gramsci”. La mostra viene inaugurata a Palazzo Sanvitale di Parma (all'interno del Parco Ducale) sabato 23 novembre alle 15. In serata ex-combattenti del “Battaglione Antonio Gramsci” racconteranno della loro esperienza in Albania. Inoltre verranno consegnate ai militari italiani del Gramsci delle onorificenze firmate dal Presidente della Repubblica albanese.

L'iniziativa è organizzata dall’"Associazione Scanderbeg", associazione albanese a Parma e Provincia, col patrocinio del Comune e della Provincia di Parma, nell'ambito della "Settimana della cultura albanese” a Parma dal 23 al 30 novembre.


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RaiStoria / E. Gobetti, M. Sangermano: la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi

Sono andati recentemente in onda, nell'ambito della trasmissione R.A.M. su RaiStoria, tre servizi a cura di Massimo Sangermano (regista) ed Eric Gobetti (storico), dedicati alla Divisione italiana partigiana Garibaldi in Jugoslavia:

04/11/2013 : La divisione Garibaldi. La scelta

11/11/2013 : La divisione Garibaldi. Un’alleanza particolare

18/11/2013 : La divisione Garibaldi. Una memoria scomoda, di Massimo Sangermano.

La terza puntata della serie è la più importante delle tre: essa pone la grave questione storiografica della rimozione della memoria della Divisione Garibaldi in Jugoslavia. Rimozione per la quale - lo scopriamo grazie a Gobetti - esistono gravi e dirette responsabilità fin dentro Casa Savoia...

Per quanto ci riguarda, con il passaggio della Divisione di fanteria da montagna «Venezia» nel II Korpus dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, il 9 ottobre 1943, NASCEVA IL NUOVO ESERCITO dell'Italia DEMOCRATICA. A sostenerci nella nostra opinione è nientemeno che SANDRO PERTINI:

<< La nascita del nuovo esercito italiano "inteso come esercito democratico antifascista e parte integrante della coalizione antihitleriana nella seconda guerra mondiale" deve essere anticipata ... al 9 ottobre 1943, quando il Generale Oxilia, Comandante della Divisione di Fanteria da montagna "Venezia", forte di dodicimila uomini, dette ordini alle sue truppe di attaccare i nazisti, coordinando le azioni militari con l'esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. >>

Grazie agli autori per averci fatto rivedere, in quella terza puntata, le immagini preziose del 21 settembre 1983 a Pljevlja, in Montenegro, quando fu inaugurato il monumento alla Divisione Italiana Partigiana Garibaldi, alla presenza di Sandro Pertini e di Giulio Andreotti.

Per altra documentazione sulla Divisione Italiana Partigiana Garibaldi si veda la nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/PARTIGIANI/garibaldi_scotti.htm

(a cura di AM per JUGOINFO)





16 aprile 2013

Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943)


di Eric Gobetti
casa editrice: Laterza
anno di pubblicazione: 2013
collana: Quadrante Laterza
pagine: 208
prezzo: 19,00 euro
disponibile anche in formato Ebook

Negli anni cruciali della Seconda guerra mondiale, l’Italia fascista impiega enormi risorse militari, diplomatiche, economiche e propagandistiche per imporre il suo dominio su circa un terzo dell’intero territorio jugoslavo. È una parabola breve, in cui però si condensa tutta la pochezza dell’impero di Mussolini: dai sogni di dominio sui Balcani nella primavera del 1941 al senso di sconfitta nell’estate del 1943. Efficacemente osteggiati dai partigiani di Tito, gli occupanti stringono ambigue alleanze con diverse realtà collaborazioniste, contribuendo a scatenare una feroce guerra civile. Vittime e carnefici al tempo stesso, i soldati del regio esercito combattono con pochi mezzi e scarse motivazioni ideali, costretti a vivere mesi e mesi in condizioni estreme, vinti dalla noia, dalla paura, dall’abbandono e, in fondo, anche dal fascino del ribelle.

Eric Gobetti è uno studioso del fascismo e della Jugoslavia particolarmente sensibile al tema delle identità e dei conflitti nazionali. È autore di "Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista" (L’ancora del Mediterraneo 2001), "L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943)" (Carocci 2007) e del diario-reportage "Nema problema! Jugoslavie, dieci anni di viaggi" (Miraggi edizioni 2011). Ha inoltre curato il volume collettaneo "1943-1945. La lunga liberazione" (Franco Angeli 2007).

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Alleati del nemico

Vittorio Filippi 15 maggio 2013

Una recente pubblicazione ripercorre la storia e le contraddizioni dell'occupazione italiana della Jugoslavia, tra il 1941 e il 1943. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Attaccata dalle truppe tedesche (soprattutto) ed italiane, nell’aprile del 1941 la fragile Jugoslavia monarchica dei Karadjordević capitola e viene rapidamente smembrata. All’Italia arrivano in dote il Montenegro, la Dalmazia, la Slovenia meridionale, il Kosovo e qualcosa della Macedonia; inoltre nasce, con tutela ed ispirazione fasciste, lo Stato degli ustascia croati (l’NDH) guidati da Ante Pavelić.
Il potere italiano che vi si insedia mescola la forte presenza dei militari (si arriverà a ben 300 mila unità, venti divisioni), i diplomatici di Ciano, gli interessi dei gruppi industriali e finanziari nonché il protagonismo dei Savoia, che hanno pur sempre una regina che viene dal Montenegro. In più c’è da fare i conti con la complessità etnica e perfino antropologica dei Balcani: l’invasione dell’Asse scoperchia infatti un vaso di Pandora fatto di nazionalismi, di violenze etniche e di persecuzioni – soprattutto tra serbi, croati e musulmani - in cui è difficile muoversi e soprattutto capire.
Gli italiani cercano di barcamenarsi con la solita politica del divide et impera ed all’impiego dei collaborazionisti, raggruppati nella Milizia volontaria anticomunista (Mvac). Ma ricorrono anche alla spietatezza della repressione, che mette assai in crisi lo stereotipo del buon soldato italiano. Tanto è vero che fucilazioni, deportazioni (solo il campo sull’isola di Rab/Arbe ospiterà 10 mila prigionieri) e saccheggi daranno agli italiani l’immagine ben poco nobile di incendiari di case (palikući) e di rubagalline. Anche se, a dire il vero, l’atteggiamento verso gli ebrei sarà invece spesso benevolente, arrivando addirittura ad azioni di salvataggio.
A complicare il tutto c’è, a cavallo tra il 1941 ed il 1942, lo scoppio della sanguinosa guerra civile, che opporrà i partigiani di Tito alle forze collaborazioniste, tra cui, di fatto, vi sono i cetnici filomonarchici. Gli italiani diventano, paradossalmente, “alleati del nemico”, secondo la formula con cui l’autore titola efficacemente il libro. Alleati cioè dei cetnici serbi contro gli ustascia ormai sotto influenza tedesca. Una situazione surreale che vede il vojvodadei cetnici Mihailović collaboratore degli italiani ma al tempo stesso ministro della guerra del governo jugoslavo in esilio a Londra, un governo formalmente in conflitto con l’Italia. Per di più da parte dei generali italiani gioca un vero e proprio pregiudizio anti croato e, viceversa, una sorta di ammirazione verso serbi e montenegrini. Che sono visti come guerrieri leali mentre i primi vengono giudicati “untuosi e falsi”.
Ad accentuare la confusione – o la schizofrenia – dei sentimenti italiani vi è anche una crescente ammirazione del movimento partigiano titoista a cui l’autore dedica due paragrafi proprio per sottolinearne la presa ideale e la modernità internazionalistica ed insieme patriottica che sa proporre. Tanto è vero che in diverse unità italiane si attivano contatti con i partigiani, contatti che poi al crollo dell’8 settembre produrranno la totale collaborazione militare con questi ultimi.
Alla metà del 1943 la presenza italiana è ormai in disfacimento e priva di prospettive. In soli due anni l’occupazione di un’area che voleva essere lo sbocco ideale dell’espansionismo nazionalista italiano si era “balcanizzata” sprofondando nella confusione, nell’impotenza e nello scoramento. Oltre a perdere 15 mila uomini tra caduti e dispersi.
La sconfitta dei cetnici, indeboliti dalla loro ambiguità oltre che dalla caduta dell’alleato italiano, toglierà ogni alternativa politica alla Jugoslavia che nasce dalle lotte partigiane. Che sarà repubblicana, federale e socialista. Ma questa è già un’altra storia.

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Un libro che sfata i miti

Categoria: Cultura e spettacoli
Creato Venerdì, 25 Ottobre 2013 15:00
Scritto da Helena Labus Bačić

FIUME L’occupazione italiana di un vasto territorio dell’ex Jugoslavia e i crimini commessi in quei territori dall’esercito del regime fascista nel periodo dal 1941-1943 sono temi ancora spesso trascurati, sottaciuti dalla storiografia e dalla società italiana che, non avendo mai processato i suoi esponenti fascisti, nel dopoguerra ha prodotto il mito, diffusosi poi in tutto il mondo, dell’“italiano buono”. Nel libro ”Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943”, presentato ieri alla facoltà di Filosofia, lo storico italiano Eric Gobetti sfata il succitato mito e dipinge un quadro diverso dell’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia, che ha compreso la Slovenia meridionale, l’Istria e Fiume, la Dalmazia, la Bosnia ed Erzegovina, il Montenegro e il Kosovo. Come rilevato dallo storico Pietro Purini, oltre che sfatare il cliché degli italiani buoni e sempre pronti ad aiutare la popolazione locale, Gobetti mette in luce la cattiva organizzazione, ovvero il caos organizzativo e istituzionalizzato all’interno dell’apparato italiano, in quanto in certi territori occupati determinate unità dell’esercito rispondevano a diversi comandi. 

“Le forze di occupazione si trovano a dover combattere con un movimento di resistenza forte ed efficace (i partigiani, nda) e in questo contesto, gli italiani si macchiano di crimini che non sono diversi da quelli che riguardano la Wehrmacht – sottolinea Purini -. Com’era il caso con gli occupatori tedeschi, anche quelli italiani fanno il conteggio delle vittime, uccidendo dieci jugoslavi per un italiano. Vengono distrutti e incendiati interi villaggi, istituiti campi di concentramento…”, aggiunge lo storico, ricordando che, nonostante le reiterate richieste del governo jugoslavo nel dopoguerra, questi crimini di guerra non sono stati mai processati, grazie all’amnistia richiesta da Togliatti. Purini sottolinea un altro aspetto interessante che viene analizzato nel libro, ossia il sistema delle alleanze che gli italiani instaurarono con la parte più conservatrice dei movimenti esistenti nei territori occupati, avviando collaborazioni con gli ustascia e i cetnici, per nominare soltanto quelli più rilevanti.
L’autore ha esordito affermando che l’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia non è un tema marginale, anche se nel corso dei decenni è stato sempre sminuito dall’opinione pubblica sia jugoslava sia italiana. “Si è preferito parlare dell’occupazione tedesca, mentre quando si faceva riferimento all’Italia venivano menzionati sempre altri fronti di guerra dai quali il Belpaese è sempre uscito sconfitto. Nel caso jugoslavo, invece, l’Italia è un occupatore vincente, con addirittura 300mila soldati disseminati in questi territori. Per fare un paragone, in Russia vengono mandati appena 60mila uomini”, ha puntualizzato Gobetti, soffermandosi sul tema del collaborazionismo nei territori occupati. Dal 1941 al 1943, il comando di Tito e il movimento partigiano si rafforzano, mentre al contempo si sviluppano i movimenti collaborazionisti (primi fra tutti gli ustascia croati e i cetnici serbi). 
“L’aspetto del collaborazionismo è significativo da tutti i punti di vista. Gli italiani stabiliscono alleanze che spesso risultano delle contraddizioni che si trascinano in tutto il periodo di occupazione. L’alleanza con gli ustascia inizia già nel 1929, quando Ante Pavelić è in esilio in Italia. Ed è proprio lì che nasce il movimento ustascia, che raggiunge il suo apice nel 1941, quando Pavelić diventa dittatore dello Stato croato indipendente (NDH). Ma l’alleanza tra l’Italia e gli ustascia manifesta un’incoerenza interna. Infatti, gli ustascia sono fascisti e al contempo nazionalisti, per cui vogliono governare lo stesso territorio che è occupato dall’Italia (la Dalmazia). Quindi, questa è una contraddizione che porta gli italiani a stabilire un’alleanza con i cetnici, che sono filoinglesi, in quanto il loro governo si trova in esilio a Londra; di conseguenza si trovano in guerra con l’Italia. Una situazione paradossale.
Lo scrittore Giacomo Scotti, nel commentare quanto esposto da Gobetti, ha definito il volume ”Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943” come un libro coraggioso perché analizza un aspetto scomodo e sottaciuto della storia italiana. “Il fascismo ha gettato l’onta sul popolo italiano, per cui ammiro il coraggio di Gobetti, che ha messo in luce i delitti fascisti, rimasti coperti da troppo tempo”.

Al termine della presentazione abbiamo voluto sapere dallo storico Gobetti in che modo venga insegnata la Seconda guerra mondiale nelle scuole italiane. “In Italia è diffuso il concetto di ‘Norimberga mancante’, in quanto non c’è mai stato un processo simile in Italia. Questo ha favorito lo stereotipo dell’‘italiano buono’ e l’impressione che sia stato meno peggiore degli altri. Di conseguenza, nelle scuole superiori non si insegna la storia dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e non si parla assolutamente dell’occupazione balcanica. Quest’ultima non si insegna nemmeno nelle università”, ha fatto notare Eric Gobetti. 

Helena Labus Bačić




(in english: “Responsibility to Protect” (R2P): An Instrument of Aggression
by Edward S. Herman
http://www.voltairenet.org/article180927.html )



La « Responsabilité de protéger » (R2P) comme instrument d’agression

par Edward S. Herman

Alors que les néo-conservateurs évoquaient la « révolution mondiale » et la « démocratie » pour justifier l’impérialisme états-unien, les faucons libéraux préfèrent dénoncer le « risque de génocide » et promouvoir la « responsabilité de protéger ». Au demeurant ces nouveaux concepts ne sont jamais que la réactualisation du vieux discours colonial en faveur de la « civilisation ». En définitive, ces belles paroles servent exclusivement à masquer la loi du plus fort.

RÉSEAU VOLTAIRE  | 9 NOVEMBRE 2013

La « responsabilité de protéger » est une fausse doctrine conçue pour miner les fondements mêmes du droit international. C’est le droit réécrit en faveur des puissants. « Les structures et les lois qui fondent l’application de la R2P exemptent bel et bien les Grandes Puissances —défenseurs du droit international— du respect des lois et des règles mêmes qu’elles imposent aux autres pays. »
La Responsabilité de Protéger (R2P) et le concept d’intervention humanitaire datent tous les deux du lendemain de l’effondrement de l’Union Soviétique —qui levait subitement toutes les entraves que cette Grande Puissance avait pu jusqu’ici opposer à la constante projection de puissance des États-Unis—. Dans l’idéologie occidentale, bien sûr, les États-Unis s’étaient efforcés depuis la Seconde Guerre mondiale de contenir les Soviétiques ; mais ça, c’est l’idéologie… En réalité, l’Union Soviétique avait toujours été bien moins puissante que les États-Unis, avec des alliés plus faibles et moins fiables, et de 1945 à sa disparition en 1991 elle avait finalement toujours été sur la défensive. Agressivement lancés à la conquête du monde depuis 1945, les États-Unis, eux, n’avaient de cesse d’augmenter le nombre de leurs bases militaires dans le monde, de leurs sanglantes interventions grandes ou petites sur tous les continents, et bâtissaient méthodiquement le premier empire véritablement planétaire. Avec une puissance militaire suffisante pour constituer une modeste force d’endiguement, l’Union Soviétique freinait l’expansionnisme états-unien mais elle servait aussi la propagande états-unienne en tant que soi-disant menace expansionniste. L’effondrement de l’Union Soviétique engendrait donc un besoin vital de nouvelles menaces pour justifier la continuation voire l’accélération de la projection de puissance US, mais on pouvait toujours en trouver : depuis le narco-terrorisme, Al-Qaïda et les armes de destruction massive de Saddam Hussein, jusqu’à une nébuleuse menace terroriste dépassant les limites de la planète et de l’espace environnant.
Tensions inter-ethniques et violations des Droits de l’Homme ayant engendré une prétendue menace globale, planétaire, contre la sécurité, qui risquait de provoquer des conflits encore plus vastes, la communauté internationale (et son superflic) se retrouvaient face à un dilemme moral et à la nécessité d’intervenir dans l’intérêt de l’humanité et de la justice. Comme nous l’avons vu, cette poussée moraliste arrivait justement au moment où disparaissait l’entrave soviétique, où les États-Unis et leurs proches alliés célébraient leur triomphe, où l’option socialiste battait de l’aile et où les puissances occidentales avaient enfin toute liberté d’intervenir à leur guise. Bien sûr, tout cela impliquait de passer outre le principe westphalien multiséculaire gravé au centre des relations internationales —à savoir le respect de la souveraineté nationale— qui, si l’on y adhérait, risquait de protéger les pays les plus petits et les plus faibles contre les ambitions et les agressions transfrontalières des Grandes Puissances. Cette règle était en outre l’essence même de la Charte des Nations Unies et on peut dire qu’elle était même la clé de voûte de ce document que Michael Mandel décrivait comme « la Constitution du monde ». Passer outre cette règle et le principe de base de cette Charte impliquait l’entrée en lice de la Responsabilité de Protéger (R2P) et des Interventions Humanitaires (IH), et ouvrait à nouveau la voie à l’agression pure et simple, classique, avec des visées géopolitiques, mais parée désormais du prétexte commode de la R2P et de l’IH.
Bien évidemment, lancer des interventions humanitaires transfrontalières au nom de la R2P reste l’apanage absolu des Grandes Puissances —spécificité communément admise et regardée comme parfaitement naturelle à chaque fois que ces mesures ont été appliquées au cours des dernières années—. Les Grandes Puissances sont seules à disposer des connaissances et des moyens matériels nécessaires pour mener à bien cette œuvre sociale planétaire. En effet, comme l’expliquait en 1999 Jamie Shea, responsable des relations publiques de l’Otan, lorsque on commença à se demander si le personnel de l’Otan ne risquait pas d’être poursuivi pour les crimes de guerre liés à la campagne de bombardements de l’Alliance contre la Serbie, ce qui découlait logiquement du texte même de la Charte du TPIY (Tribunal Pénal International pour l’ex-Yougoslavie) : Les membres de l’Otan ont « organisé » le TPIY et la Cour Internationale de Justice. Ils « financent ces tribunaux et soutiennent quotidiennement leurs activités. Nous sommes les défenseurs, non les violateurs du droit international ». La dernière phrase est évidemment contestable mais pour le reste, Shea avait parfaitement raison.
Détail particulièrement éloquent, lorsqu’un groupe de juristes indépendants déposa en 1999 un dossier détaillé qui documentait les violations manifestes des règles du TPIY par l’Otan, après un délai considérable et suite à des pressions exercées ouvertement par les responsables de l’Alliance, les plaintes contre l’Otan étaient déboutées par le procureur du TPIY au prétexte que, avec seulement 496 victimes documentées tuées par les bombardements, il n’y avait « simplement aucune preuve d’intention criminelle » imputable à l’Otan —alors que pour inculper Milosevic en mai 1999, 344 victimes suffisaient largement—. On trouvera intéressant aussi que le procureur de la Cour Pénale Internationale (CPI), Luis Moreno-Ocapmo, ait lui aussi refusé de poursuivre les responsables de l’Otan pour leur agression contre l’Irak en 2003, malgré plus de 249 plaintes portées auprès de la CPI, au prétexte que là aussi, « il n’apparaissait pas que la situation ait atteint le seuil requis par le Statut de Rome » pour intenter une action en justice.
Ces deux cas montrent assez clairement que les structures et les lois qui fondent l’application de la R2P (et des IH) exemptent bel et bien les Grandes Puissances —défenseurs du droit international— du respect des lois et des règles mêmes qu’elles imposent aux autres pays. Leurs alliés et clients en sont d’ailleurs exempts aussi. Ce qui signifie très clairement que, dans le monde réel, personne n’a le devoir de protéger les Irakiens ou les Afghans contre les États-Unis, ou les Palestiniens contre Israël. Lorsque sur une chaîne nationale en 1996, la secrétaire d’État, Madeleine Albright, reconnaissait que 500 000 enfants irakiens [de moins de cinq ans] avaient sans doute perdu la vie, victimes des sanctions imposées à l’Irak par l’Onu (en réalité par les États-Unis), et déclarait : Pour les responsables états-uniens « l’enjeu en vaut la peine » ; il n’y eut de réaction ni sur le plan national ni sur le plan international pour exiger la levée de ces sanctions et le déclenchement d’une IH en application de la R2P, afin de protéger les populations irakiennes qui en étaient victimes. De même aucun appel ne fut lancé pour une IH au nom de la R2P pour protéger ces mêmes Irakiens lorsque les forces anglo-américaines envahirent l’Irak en mars 2003 ; invasion qui, doublée d’une guerre civile induite, allait faire plus d’un million de morts supplémentaires.
Lorsque la Coalition Internationale pour la Responsabilité de Protéger, sponsorisée par le Canada, se pencha sur la guerre d’Irak, ses auteurs conclurent que les exactions commises en Irak par Saddam Hussein en 2003, n’étaient pas d’une ampleur suffisante pour justifier une invasion. Mais la coalition ne souleva jamais la question de savoir si les populations irakiennes n’auraient pas de factobesoin d’être protégées contre les forces d’occupation qui massacraient la population. Ils campaient simplement sur l’idée que les Grandes Puissances, qui imposent le respect du droit international, même lorsque leurs guerres d’agression violent ouvertement la Charte des Nations Unies et font des centaines de milliers de morts, restent au-dessus des lois et ne peuvent faire l’objet d’une R2P.
Et c’est comme ça depuis le sommet de la structure internationale du pouvoir, jusqu’en bas : George Bush, Dick Cheney, Barack Obama, John Kerry, Susan Rice, Samantha Power au sommet et en descendant Angela Merkel, David Cameron, François Hollande, puis au-dessous Ban Ki-Moon et Luis Moreno-Ocampo —qui n’ont aucune base politique en dehors du monde des affaires et des médias—. Ban Ki-Moon et son prédécesseur Kofi Annan ont toujours œuvré ouvertement au service des principales puissances de l’Otan, auxquelles ils doivent leur position et leur autorité. Kofi Annan était un fervent partisan de l’agression de l’Alliance contre la Yougoslavie, de la nécessité de renforcer la responsabilité des puissances de l’OTAN, et de l’institutionnalisation de la R2P. Ban Ki-Moon est exactement sur la même fréquence.
Cette même structure internationale du pouvoir implique aussi la possibilité de créer et d’utiliser à volonté des tribunaux internationaux ad hoc et des Cours Internationales contre des pays cibles. Ainsi en 1993, lorsque les États-Unis et leurs alliés souhaitaient démanteler la Yougoslavie et affaiblir la Serbie, ils n’avaient qu’à utiliser le Conseil de Sécurité [dont les États-Unis, le Royaume-Uni et la France sont membres permanents] pour créer un tribunal précisément à cet effet, le TPIY, qui allait s’avérer parfaitement fonctionnel. De même, lorsqu’ils souhaitaient aider un de leurs clients, Paul Kagame, à assoir sa dictature au Rwanda, ils créèrent le même type de tribunal : le TPIR (ou tribunal d’Arusha). Lorsque ces mêmes pays souhaitèrent attaquer la Libye et en renverser le régime, il leur suffit de faire condamner Kadhafi par la CPI pour crimes de guerre, aussi rapidement que possible et sans contre-enquête indépendante sur aucune des allégations de crime, lesquelles reposaient essentiellement sur des anticipations de massacres de civils [jamais commis]. Bien sûr, comme nous l’avons vu plus haut, concernant l’Irak, la CPI ne trouvait vraiment rien qui puisse justifier des poursuites contre l’occupant, dont les massacres de civils étaient de proportions autrement supérieures et avaient bel et bien été commis, et non simplement anticipés. En réalité, un vaste Tribunal International pour l’Irak a finalement été organisé afin de juger les crimes commis en Irak par les États-Unis et leurs alliés [le BRussell Tribunal], mais sur une base privée et avec un parti-pris clairement anti-belliciste. De fait, bien que ses séances se soient tenues très officiellement dans de nombreux pays et que de nombreuses personnalités importantes y soient venues témoigner, les médias n’y prêtèrent littéralement aucune attention. Ses dernières sessions et son rapport, rendu en juin 2005, ne furent même évoqués dans aucun grand média nord-américain ou britannique.
La R2P correspond parfaitement à l’image d’un instrument au service d’une violence impériale exponentielle, qui voit les États-Unis et leur énorme complexe militaro-industriel engagés dans une guerre mondiale contre le terrorisme et menant plusieurs guerres de front, et l’Otan, leur avatar, qui élargit sans cesse son « secteur d’activité » bien que son rôle supposé d’endiguement de l’Union Soviétique ait expiré de longue date. La R2P repose très commodément sur l’idée que, contrairement à ce qui était la priorité des rédacteurs de la Charte des Nations Unies, les menaces auxquelles le monde se trouve aujourd’hui confronté ne dérivent plus d’agressions transfrontalières comme c’était traditionnellement le cas, mais émanent des pays eux-mêmes. C’est parfaitement faux ! Dans son ouvrageFreeing the World to Death [1], William Blum dresse une liste de 35 gouvernements renversés par les États-Unis entre 1945 et 2001 (sans même compter les conflits armés déclenchés par George W. Bush et Barak Obama).
Dans le monde réel, tandis que la R2P parait merveilleusement auréolée de bienveillance, elle ne peut être mise en œuvre qu’à la demande exclusive des principales puissances de l’Otan et ne saurait donc être utilisée dans l’intérêt de victimes sans intérêt, à savoir celles de ces mêmes Grandes Puissances [ou de leurs alliés et clients] [2]. Jamais on n’invoqua la R2P [ou quoi que ce soit de similaire] pour mettre fin aux exactions lorsque en 1975 l’Indonésie décida d’envahir et d’occuper durablement le Timor Oriental. Cette occupation allait pourtant se solder par plus de 200 000 morts sur une population de 800 000 au total —ce qui proportionnellement dépassait largement la quantité de victimes imputables à Pol Pot au Cambodge—. Les États-Unis avaient donné leur feu vert à cette invasion, fourni les armes à l’occupant et lui offraient leur protection contre toute réaction de l’Onu. Dans ce cas précis, il y avait violation patente de la Charte des Nations Unies et le Timor avait impérativement besoin de protection. Mais dès lors que les États-Unis soutenaient l’agresseur, on n’entendrait jamais parler de réponse des Nations Unies. [3]
Comble d’ironie mais particulièrement révélateur, Gareth Evans, ex-Premier ministre d’Australie, ex-Président de l’International Crisis Group [4], co-fondateur de la Commission Internationale sur l’Intervention et la Souveraineté Internationale, lui-même auteur d’un ouvrage sur la R2P et qui aura sans doute été le principal porte-parole en faveur de la R2P comme instrument de justice internationale, était Premier ministre d’Australie pendant l’occupation génocidaire du Timor Oriental par l’Indonésie et en tant que tel fêtait et encensait les dirigeants indonésiens, dont il était ouvertement complice pour spolier le Timor de ses droits sur ses réserves naturelles de pétrole [5]. Evans était donc lui-même complice et contributeur de l’un des pires génocides du XXe siècle. Vous imaginez la réaction des médias à une campagne en faveur des Droits de l’Homme menée sans le soutien de l’Otan, et ayant pour porte-parole un dignitaire chinois qui aurait entretenu des relations très amicales avec Pol Pot pendant les pires années de sa dictature ?
Ce qui est réellement éloquent c’est de voir comment Evans gère ce passif notoire pour promouvoir la R2P. Interrogé à ce sujet lors d’une session de l’Assemblée Générale des Nations Unies sur la R2P, Evans en appelait au bon sens : La R2P « se définit d’elle-même », et les crimes mis en cause, y compris le nettoyage ethnique, sont tous intrinsèquement révoltants et par leur nature même d’une gravité qui exige une réponse […]. Il est réellement impossible de parler ici de chiffres précis ». Evans souligne que parfois, des chiffres minimes peuvent suffire : « Nous nous souvenons très clairement de l’horreur de Srebrenica… [8 000 morts seulement]. Avec ses 45 victimes au Kosovo en 1999, Racak suffisait-il à justifier la réponse qui fut déclenchée par la communauté internationale ? » En fait, l’événement de Racak avait effectivement paru suffisant pour une bonne et simple raison : il donnait un coup d’accélérateur au programme de démantèlement de la Yougoslavie d’ores et déjà lancé par l’Otan. Mais Evans évite soigneusement de répondre à sa propre question au sujet de Racak. Inutile de dire qu’Evans ne s’est jamais demandé et n’a jamais cherché à expliquer pourquoi le Timor Oriental, avec plus de 200 000 morts n’avait jamais suscité aucune réaction de la communauté internationale ; et l’Irak pas davantage malgré un million de morts dus aux sanctions, dont 500 000 enfants de moins de cinq ans et plus d’un million supplémentaires suite à l’invasion. Les choix sont ici totalement politiques mais manifestement, Evans a si parfaitement intégré la perspective impériale qu’un aussi vertigineux écart ne le révolte pas le moins du monde. Mais ce qui est encore plus extraordinaire, c’est qu’un criminel de cette envergure avec un parti pris aussi évident puisse être considéré internationalement comme une autorité dans ce domaine et que des positions aussi ouvertement partiales que les siennes puissent être regardées avec respect.
Il est intéressant aussi de constater qu’Evans ne mentionne jamais Israël et la Palestine, où un nettoyage ethnique est activement mené depuis des décennies et ouvertement —comme en témoigne le très grand nombre de réfugiés aux quatre coins du monde—. D’ailleurs, aucun autre membre de la pyramide du pouvoir ne considère la région israélo-palestinienne comme une zone révoltante où la nature et l’envergure des exactions commises exige une réponse de la « communauté internationale ». Pour obtenir le titre de représentante permanente des États-Unis auprès de l’ONU, Samantha Power jugea même nécessaire de se présenter très officiellement devant un groupe de citoyens états-uniens pro-israéliens pour les assurer, les larmes aux yeux, de son profond regret pour avoir laissé entendre que l’AIPAC était une puissante organisation sur l’influence de laquelle il serait nécessaire de reprendre contrôle afin de pouvoir développer une politique à l’égard d’Israël et de la Palestine qui puisse œuvrer dans l’intérêt des États-Unis. Elle prêta même serment de rester dévouée à la sécurité nationale d’Israël. Manifestement, le monde devra attendre longtemps avant que Samantha Power et ses parrains exigent que la R2P soit appliquée aussi au nettoyage ethnique de la Palestine.
En définitive, dans le monde post-soviétique, la structure internationale du pouvoir n’a fait qu’aggraver l’inégalité internationale, renforçant dans le même temps l’interventionnisme et la liberté d’agression des Grandes Puissances. L’accroissement du militarisme a certainement contribué à l’accroissement des inégalités mais il a surtout été conçu pour servir et favoriser la pacification, tant à l’étranger que dans nos propres pays. Dans un tel contexte, IH et R2P ne sont que des évolutions logiques qui apportent une justification morale à des actions qui scandaliseraient énormément de gens et qui, éclairées froidement, constituent des violations patentes du droit international. Présentant les guerres d’agressions sous un jour bienveillant, la R2P en est devenu un instrument indispensable. En réalité, c’est seulement un concept aussi frauduleux que cynique et contraire à la Charte des Nations Unies.

Traduction 
Dominique Arias

       

[1] Common Courage, 2005, Ch. 11 et 15.

[2] Cf. Manufacturing Consent, Ch. 2 : « Worthy and Unworthy Victims ».

[3] Ndt : En tant que membre permanent du Conseil de Sécurité de l’ONU, les USA ont droit de veto sur toutes les décisions de l’ONU ; or toute décision d’intervention ou de sanction passe nécessairement par le Conseil de Sécurité

[4] L’International Crisis Group : officiellement, ONG engagée dans la prévention et le règlement des conflits internationaux, financée par George Soros.

[5] Cf. John Pilger “East Timor : a lesson in why the poorest threaten the powerful,” April 5, 2012, pilger.com.