Informazione


(en francais: 

« Les dirigeants européens ne supportent plus la démocratie » 
Entretien avec Pierre Lévy, diseur de mésaventures européennes - par Grégoire Lalieu
http://www.michelcollon.info/Pierre-Levy-Les-dirigeants.html 

A lire aussi: 

La retraite à 80 ans ? Plongée dans l'Europe de 2022 - par Pierre Lévy
Extrait du livre "L'insurrection" gracieusement proposé par l'auteur pour les lecteurs d'Investig'Action
http://www.michelcollon.info/La-retraite-a-80-ans-Plongee-dans.html

Traditions impériales - par Pierre Lévy
Une mise au pas pour Chypre et la Syrie, un grand pas pour le droit d'ingérence.
http://www.michelcollon.info/Traditions-imperiales.html )

Pierre Lévy: “I dirigenti europei non sopportano più la democrazia”


di Grégoire Lalieu


Grégoire Lalieu è un assiduo collaboratore di Investig’Action, un gruppo di giornalisti con sede a Brussels, diretto da Michel Collon, con l’obiettivo di investigare sulle notizie in modo indipendente.


(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)


25 aprile 2013


Che cosa ci riserva l’Unione europea? Ex sindacalista in una grande azienda, oggi giornalista, Pierre Levy, in particolare, ha cercato di rispondere a questa domanda attraverso il suo ultimo libro, “L’Insurrection”. Un libro fortemente politico che spazia nei campi dell’economia, del sociale e della geopolitica.

Il sottotitolo del libro, “il favoloso destino dell’Europa all’alba dell’anno di grazia 2022”, non è un puro prodotto della fantasia di Pierre Lévy, ma ci rinvia ad una inquietante attualità e solleva una questione: bisogna restare nell’Unione europea? L’argomento è tabù, tuttavia merita un vero dibattito che viene aperto su Investig'Action.



Il suo romanzo ci fa piombare nel 2022, e dalle prime righe questo futuro non troppo lontano ci appare insieme assurdo e spaventoso. Ma, cosa ancora più spaventosa, ci si accorge subito che questo mondo non è puro frutto della sua immaginazione, ma si basa su elementi attuali decisamente realistici…

Questo è lo spirito del libro. Anche se questo è un libro molto politico, ho preferito una forma insolita per un saggio. Volevo ridere di cose che non sono affatto divertenti, portando all’assurdo ed estremizzando le logiche attuali. L’idea era quella di capire cosa sta succedendo oggi in campo economico, politico, sociale e geopolitico, andare fino in fondo. Sperando che tutto ciò faccia riflettere.

La grande paura, in ultima analisi, è che la realtà raggiunga la finzione. A Cipro, per esempio, la BCE e il FMI avevano previsto di attingere direttamente dai risparmi dei cittadini, compresi anche i più modesti. Alla fine sono stati costretti a rivedere parzialmente i loro piani. Ma abbiamo assistito a qualcosa che difficilmente si poteva immaginare solo qualche mese fa. Tutto ciò dimostra che può accadere di tutto, anche molto velocemente.


Il suo lavoro spazia efficacemente su molti temi. Dal punto di vista socio-economico, il futuro è poco divertente. Ad esempio, lei immagina un mercato del lavoro totalmente privo di regole, con situazioni a volte assurde. In buona sostanza, quali sono le dinamiche attuali che l’hanno ispirata?

A volte è difficile distinguere tra finzione e realtà. Ogni giorno, gli ultraliberisti ci spiegano che avere un impiego è un privilegio. Bisogna perfino meritarselo! D’altronde, nel linguaggio corrente, si parla di “conseguire” un lavoro. Come se fossimo in un’arena e i più meritevoli si battessero per conseguire la coda di Topolino.

Allora, nel libro spingo questa logica all’estremo. Se il lavoro è un privilegio, non è possibile pretendere di essere pagati, avendolo conseguito. Al contrario, sarebbe opportuno acquistare questo privilegio. Quindi, i posti di lavoro vengono messi all’asta e sono “conseguiti” dai migliori offerenti.


I funzionari pubblici non sono risparmiati ...

Assolutamente. Oggi, essi sono l’obiettivo privilegiato dei nostri economisti di riferimento. È ben noto, i dirigenti funzionari sono pagati per non fare nulla! Quindi immagino una sorta di gioco alla Koh- Lanta [Koh-Lanta, versione francese, ambientata in Cambogia, del “Survivor” americano, un format diffuso in tutto il mondo e approdato anche in Italia nella variante con sedicenti celebrità come protagoniste: “L'isola dei famosi”,… appunto], dove le telecamere sono disseminate in tutte le sedi del servizio pubblico. E spetterebbe agli utenti internauti monitorare di continuo i funzionari e decidere quali di costoro dovrebbero essere licenziati prioritariamente.

Deve essere chiaro che, al di là di una ironica strizzatina d’occhio, esiste una realtà terribile. Penso a paesi come la Grecia, la Spagna o il Portogallo. E in Francia e in Belgio, il rischio di andare in quella direzione, purtroppo, non si discosta molto dalla fantasia.


Nel testo si capisce che, nel 2022, il neoliberismo è re. Inoltre, lei immagina la privatizzazione delle istituzioni che avevano fino ad allora resistito.

Sì, per esempio questo è il caso della Giustizia. Nel libro, i tribunali sono direttamente sottoposti a criteri di produttività e competitività. E per i “clienti”, coloro che avranno più soldi potranno scegliersi le corti più clementi.


Lei esplora in modo largo il terreno socio-economico. Un settore che lei dovrebbe ben conoscere visti i suoi trascorsi da sindacalista?

In effetti sono stato per tanto tempo un attivista sindacale in una grande impresa metallurgica.


Un settore particolarmente in crisi in questo momento! Lei, come spiega questo tracollo?

Sì, quello che sta succedendo oggi con Mittal riguarda Belgi, Francesi, Lussemburghesi e, in generale, tutti coloro a cui era stato promesso che la creazione di un colosso europeo ci avrebbe aiutato ad “affrontare i paesi emergenti”.

[N.d.tr.: La ArcelorMittal è un colosso industriale mondiale, leader nel settore dell’acciaio, nato dalla fusione di due tra le più grandi aziende del settore, la Arcelor e la Mittal Steel Company, avvenuta nel 2006. Il quartier generale si trova nella capitale del Lussemburgo. Oltre a essere il più grande produttore d’acciaio, la ArcelorMittal è anche leader di mercato nella fornitura di acciaio per l’industria automobilistica e per i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi.]

Per creare questo gigante, l’ArcelorMittal, si sono fatte scomparire le imprese nazionali. Alcune erano anche imprese pubbliche. Poi, abbiamo visto quello che abbiamo visto!

Il “gigante europeo” è stato riacquistato dal gruppo indiano. Mittal (l’uomo chiave della compagnia è il multimiliardario indiano Lakshmi Mittal) aveva promesso di salvare il settore, ma ora attacca con brutalità insolita non solo i lavoratori e l’impresa, ma anche intere regioni. Devono svilupparsi delle resistenze per arginare questo disastro industriale!


Tuttavia, ci sono personaggi nel suo libro che non si sarebbero tanto impegnati per evitare questa catastrofe industriale. Penso ad una certa tendenza ecologista su cui lei all’occasione ironizza.

Sì, anche se io ne faccio una caricatura, non mi invento nulla, purtroppo.

Un discorso attuale denuncia fabbriche che inquinano, sporcano, ecc. Quindi, immagino un Premio Nobel della de-industrializzazione, per premiare le aziende più meritevoli per il “futuro del pianeta”.

Nel mio libro, gli impianti vengono trasformati gradualmente in musei, diventano più redditizi.

E i lavoratori vengono in qualche modo trasformati in operatori saltuari nel settore dello spettacolo. Costoro testimoniano alle giovani generazioni come si viveva, pochi anni fa, in un “terrificante passato industriale”.

Il mio obiettivo è quello di sottolineare un discorso che alcuni leader ambientalisti effettivamente ci propugnano, che in buona sostanza, la cosa importante è “non avere, ma essere”. Quindi, ci viene intimato di andare verso una maggiore “sobrietà”, cosa che potrebbe in realtà giustificare le politiche di austerità che attualmente ci vengono imposte.


Lei ci rammenta quello che Jean Bricmont ha scritto nella postfazione, vale a dire che una larga parte della “sinistra” negli ultimi anni ha abbandonato la lotta contro il capitalismo per cavalcare altri cavalli di battaglia ...

…come l’ecologia, i diritti umani, la criminalizzazione del socialismo ... In realtà, il mio romanzo è proiettato verso il futuro, laddove Jean Bricmont contestualizza tutto ciò, ricordando alcuni eventi politici di questi ultimi anni. Ed egli menziona questo fatto che merita un vero dibattito. Molte persone, che fanno appello alla sinistra, ora conducono lotte che non solo non contraddicono il capitalismo, ma per giunta lo confermano. Questo vale per l’ecologia, ma anche sul piano geopolitico, con questi leader della “sinistra” che giustificano gli interventi militari della NATO o europei.


D’altra parte, questo tipo di ingerenze non è scomparso nel 2022…

Effettivamente, ho preso come bersaglio anche questo Nuovo Ordine Mondiale, che d’altra parte era stato pensato dai dirigenti occidentali. Il libro immagina che a questo orizzonte le Nazioni Unite appartengono al passato. Il mondo “ideale” è composto da grandi regioni continentali e/o da regioni etniche, sovrastate da una sorta di direttorio globale. Naturalmente, questo esecutivo rispetta i costumi degli uni e degli altri. Ma quando si tratta di prendere importanti decisioni politiche, tutto deve “armonizzarsi” a livello mondiale.


Anche adesso, a livello europeo, questa “armonizzazione” delle decisioni politiche si applica sempre più. È questo che ha contribuito ad ispirarla?

Sì, e ritengo che l’idea riposta non sia altro che quella di fare sparire i popoli. Nel mio romanzo, i leader lo dichiarano apertamente. Ma questi argomenti sono già oggi di stretta attualità: sarebbe irragionevole permettere a popoli o governi legittimi di agire di testa loro, se ciò dovesse comportare lo scompiglio dell’equilibrio sovranazionale ...


E se questo equilibrio viene minacciato, l’uso della forza rimane necessario,… anche nel 2022?

Sicuramente. D’altro canto, questo richiama la formula usata da Hillary Clinton poche settimane dopo le prime manifestazioni di protesta in Siria: “Il Presidente siriano non è più necessario”.

È stata lei a guidare la carica del campo occidentale. Bisognava sbarazzarsi del Presidente siriano e l’obiettivo era ormai palese. Questo era stato confessato già da subito, ben prima degli eventi drammatici che conosciamo oggi.

Nel libro perseguo questa logica. Un leader africano che impieghi più di un’ora a riconoscere la vittoria del suo avversario in una elezione vede il suo paese invaso da truppe d’assalto, le “forze di stabilità globale”. Queste truppe intervengono per ripristinare i “diritti umani” su richiesta di internauti e di alcuni uomini d’affari, che non possono sopportare di vedere la democrazia calpestata. Ma nei nostri paesi, tuttavia, si stima che le elezioni siano pericolose, perché potrebbero interferire con i piani in corso e perturbare l’equilibrio mondiale. Perciò, le elezioni sono sostituite da sondaggi...


[N.d.tr.: da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Con il termine internauta si designa il navigatore della Rete. L’internauta si muove nel ciberspazio, ambiente elettronico in cui le distanze sembrano azzerarsi e il tempo pare unico in tutto il globo (si può ricorrere all’ora universale, la cosiddetta “internet time”).

Il fatto di partecipare – ognuno di fronte al proprio schermo – a un’unica realtà interconnessa ha fatto venire in mente di proporre il concetto di cittadinanza digitale.

Ciò che è chiaro è che i “cittadini” del cosiddetto “villaggio globale” (Marshall McLuhan) di un’ipotetica repubblica virtuale sono chiamati sempre più a partecipare e a diventare protagonisti.

Non a caso la rivista Time ha scelto come uomo-tipo dell’anno (fine del 2006) proprio l’internauta, ossia chi ha contribuito all’“esplosione della democrazia digitale”.

Questa sorta di rivoluzione pacifica si sta ripercuotendo anche sul modo in cui funzionano i mass media tradizionali: si tende a passare da un modello di tipo passivo (utente che guarda immagini o ascolta la radio, sulla base di palinsesti prefissati) a una modalità interattiva (scelta dei palinsesti, anche via internet), con l’esito più recente di un’informazione fatta dagli internauti stessi: è il cosiddetto citizen-journalism, ossia il giornalismo dei cittadini che inviano immagini e scrivono nei blog, oppure inseriscono le proprie opere e il proprio vissuto in siti fai-da-te, tipo MySpace o YouTube (il cui numero di contatti sta crescendo molto rapidamente).]


La democrazia e la sovranità sono due concetti che lei ha fatto sparire dal futuro. Perché?

In buona sostanza, Democrazia e Sovranità rinviano allo stesso concetto, come noi lo abbiamo ereditato in particolar modo dagli Illuministi, dopo secoli di lotte: ogni popolo è sovrano, non devono esistere potenze che lo sovrastano per intimargli ciò che deve fare. Ma questa filosofia politica avanzata è diventata estremamente fastidiosa per i sostenitori della globalizzazione e di questa governance globale, che cancellerebbe la sovranità dei popoli.

Oggi, i leader europei non supportano la democrazia.

Abbiamo avuto un esempio paradigmatico con i referendum irlandesi nel 2001 e nel 2008: la risposta non era soddisfacente per l’Unione europea, dunque i cittadini sono stati costretti a tornare alle urne. Un altro esempio è stato il referendum del 2005 in Francia. Nonostante la massiccia opposizione al Trattato costituzionale, i leader europei sono riusciti a rifilare il contenuto del testo sotto un’altra forma.

La democrazia è stata strapazzata, per esempio, anche in Portogallo, dove, nel 2011, il governo di José Socrates ha chiesto un piano di salvataggio europeo in cambio di misure drastiche. Ma questo governo è stato costretto alle dimissioni e si sono svolte elezioni anticipate. Allora, senza tante storie la Commissione europea ha avvertito i Portoghesi: “Voi avete il diritto di voto, naturalmente. Tuttavia, qualunque sia l’esito del voto, l’accordo sottoscritto tra il governo in uscita e la Troika non potrà essere oggetto di revisione!”


Questi referendum e questa elezione rasentano l’assurdo e sembrano direttamente ricavati dal suo romanzo. Eppure questa è la realtà!

La democrazia è diventata un concetto totalmente adulterato dall’Unione europea. Certo, possiamo scegliere il colore dei marciapiedi. Ma è chiaro che le decisioni più importanti devono essere messe al riparo dai “capricci popolari”. La novità è che i dirigenti europei lo dichiarano apertamente.

Dovremmo accettare tutto ciò, o varrebbe la pena di tentare di mettersi di traverso a questo processo? Questa è la domanda posta dal libro in filigrana, attraverso un umorismo nero. Comunque, mi sono divertito molto a scrivere il libro e, per i riscontri che ho ricevuto, le persone hanno cominciato a leggerlo. Ma evidentemente si ride amaro, perché si riconosce una situazione drammatica.


Se vale la pena di mettere fine a questa follia, secondo lei cosa possiamo fare?

Esistono le condizioni per mettersi insieme, per non finire triturati dalla macchina.

La principale condizione, e a questo proposito non si parte dal nulla, consiste nell’organizzare grandi dibattiti popolari sulla natura stessa delle decisioni assunte dai nostri dirigenti.

Prendiamo per esempio le pensioni. Non credo che i nostri politici siano cattivi per natura, e né che Sarkozy prima, e Hollande poi, siano diventati pazzi. Invece, possiamo constatare che le “riforme” in materia pensionistica sono in corso anche negli altri paesi dell’Unione europea, e che ad ogni vertice europeo si raccomanda la loro applicazione.

I nostri leader non sono né pazzi né malvagi. Semplicemente, hanno deciso collettivamente per una camicia di forza, e di questo ne fanno un punto irremovibile.

Inoltre, questo giogo è molto coerente. Dunque, la prima condizione è di prendere coscienza della coerenza della camicia di forza imposta dall’Europa. Ma, disgraziatamente temo che molte forze politiche, che si dicono situarsi a sinistra, e allo stesso modo alcuni sindacati, stanno imbrogliando sulla camicia di forza rappresentata dall’Unione europea.


Come funziona questa camicia di forza imposta dall’Europa?

L’Unione europea non è responsabile per tutto. Ogni governo è in grado di prendere misure anti-sociali. Ma la specificità della camicia di forza europea consiste in ciò che viene chiamato nel gergo di Bruxelles una “cultura acquisita comunitaria”.

In realtà, i “progressi europei” - vale a dire, nello specifico, i regressi sociali - sono irreversibili, secondo il meccanismo dei Trattati. In modo che, se domani, un governo progressista venisse eletto in Belgio, e il suo desiderio fosse quello di perseguire importanti riforme, verrebbe bloccato dagli impegni presi dai governi precedenti, impegni che sono incisi nel marmo dei Trattati.

Io sono redattore capo del mensile “Bastille-République-Nations”. Il nostro obiettivo è di dimostrare che i meccanismi stessi dell’Unione europea sono progettati per soggiogare i popoli. La nostra non è una dimostrazione astratta o dogmatica. Questo è ciò che verifichiamo costantemente nell’attualità. Questo viene dimostrato, per esempio, dalla “governance economica europea”, secondo cui ogni governo è tenuto a fare convalidare il suo progetto di bilancio dalla Commissione europea, prima di sottoporlo all’approvazione del Parlamento nazionale.


Bisogna lacerare la camicia di forza e uscire dall’Unione europea?

So che la questione è tabù, ma penso che questa sia la seconda condizione per non trovarci schiacciati dalla macchina.

È possibile ancora nutrire l’illusione di essere in grado di cambiare le cose dal di dentro, come alcuni pretendono di tentare da oltre 50 anni, (il famoso minuetto dell’“Europa sociale”, per esempio ...), dopo che da allora la situazione è andata sempre peggiorando? O è meglio spezzare queste catene?

Questo non verrà deciso a livello dei Ventisette membri dell’Unione, ma alcuni popoli potrebbero dare l’abbrivio per l’uscita dalla UE, in modo che ciascuno possa riprendere il controllo del potere decisionale. Ovviamente, questo va in senso contrario a tutto ciò che è sancito dai Trattati: “Sarebbe necessaria un’“unione sempre più stretta” per modellare il “destino” europeo”.

Non si parla nemmeno più di avvenire, ma di “destino”, un concetto quasi religioso che è fuori dalla portata umana!

Il lessico europeo è molto istruttivo, e anche nel libro mi diverto a giocare con questi modi di espressione. Ma è un vocabolario viziato e scorretto. Quando i nostri avversari arrivano a farci pensare con i loro stessi concetti, spossessandoci delle nostre idee, allora siamo fottuti!


Lei non pensa che un’altra Europa sia possibile?

Ogni architetto sa che un carcere non può diventare una scuola, visto che i carcerati dovrebbero essere sostituiti da studenti. L’architettura dell’edificio non è concepita per questo. Allo stesso modo, se per caso i capi della mafia venissero toccati dalla grazia, e improvvisamente decidessero di riconvertirsi per aiutare gli indigenti, la struttura della loro organizzazione impedirebbe tale conversione ...

Per l’Unione europea, non si tratta solo di una questione del perseguimento di cattive politiche. Sono gli stessi meccanismi dell’Unione che costituiscono una sorta di leva per fare in modo che l’azione collettiva della classe dominante venga potenziata e presentata come irreversibile.

Questo può essere verificato empiricamente. Già nel 1982, Mitterrand, pochi mesi dopo la sua elezione, dichiarava: “L’Europa sarà sociale, o non sarà”. Abbiamo visto cosa ne è stato.

Negli anni ‘90, i tre quarti dei governi dell’Europa dei Quindici facevano appello alla “sinistra” con diverse motivazioni. Ad un congresso dei Socialisti europei, a cui ho partecipato come giornalista, i dirigenti ribadivano di avere un’opportunità unica per costruire l’Europa sociale, e che i popoli non li avrebbero perdonati se non avessero afferrato questa opportunità.

Ancora una volta, abbiamo visto il risultato.

Si potrebbe affermare che questi dirigenti erano dei traditori. Ma il fatto è che la pressione a cui sarebbero stati sottoposti questi leader nei loro rispettivi paesi veniva controbilanciata dai meccanismi del sistema dell’Unione europea.


Quindi, questi dirigenti non hanno alcuna responsabilità?

Sì, naturalmente. Le loro responsabilità sono enormi, in quanto collettivamente possono determinare i grandi orientamenti. Ma dopo ogni vertice, dove sono passate misure antisociali, ognuno può ritornare a casa e dire ai cittadini: “Oh, mi dispiace, ma c’è l’Europa!”


Allora, i paesi europei non hanno alcun interesse ad unirsi?

Naturalmente, essi hanno tutto l’interesse a mantenere e sviluppare buoni rapporti. Ma perché dovrebbero vivere con delle istituzioni integrate che lasciano fuori i paesi di altri continenti?

Ho grande simpatia per i Lettoni o gli Sloveni, ma mi sembra che i Francesi abbiano più legami - culturali, storici, geografici, linguistici, perfino famigliari - con i Senegalesi o gli Algerini, per esempio.

Contrariamente a quanto sostenuto, l’Unione europea non ci permette di aprirci, ci contiene.

Inoltre, sicuramente deve essere costruita una solidarietà nelle lotte a livello europeo, ma non solo. La solidarietà deve stabilirsi con tutti i popoli e con tutte le lotte. Si dovrebbe, per esempio, costruire decise convergenze delle lotte con i paesi latino-americani.


Giustamente, i più progressisti fra questi paesi si sono uniti mediante ALBA…

Questi paesi plaudono ad una più stretta cooperazione, ma allo stesso tempo insistono sul fatto che ogni paese deve mantenere e rafforzare la porpria sovranità nazionale. La solidarietà e la sovranità non sono in contraddizione, la sovranità è essa stessa un prerequisito necessario per la solidarietà.


[N.d.tr.: L’Alleanza bolivariana per le Americhe (ALBA) (in spagnolo Alianza bolivariana para América Latina y el Caribe) è un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi dell’America Latina e i paesi caraibici, promossa dal Venezuela e da Cuba in alternativa all’Area di libero commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Stati Uniti. L’aggettivo “bolivariana” si riferisce al generale Simon Bolivar, l’eroe della liberazione di diversi paesi sudamericani dal colonialismo spagnolo.

Il progetto ALBA è una proposta di integrazione differente dall’ALCA. Mentre l’ALCA risponde agli interessi del capitale transnazionale e persegue la liberalizzazione assoluta del commercio dei beni e dei servizi, l’ALBA pone enfasi alla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, e pertanto esprime gli interessi dei popoli latinoamericani.

ALBA è basata sulla creazione di meccanismi finalizzati alla creazione di vantaggi cooperativi fra le nazioni che permettano di compensare le asimmetrie (sociali, tecnologiche, economiche, sanitarie, etc.) esistenti tra i paesi dell’emisfero.

Si basa sulla cooperazione tramite fondi di compensazione destinati alla correzione delle disparità che pongono in posizione di svantaggio i paesi deboli rispetto alle potenze economiche. Perciò la proposta dell’ALBA dà priorità all’integrazione latinoamericana e privilegia la negoziazione tra i blocchi sub-regionali, aprendo nuovi spazi di consultazione con l’intento di approfondire la conoscenza della posizione dei paesi membri e di identificare ambiti di interesse comune che consentano di costruire alleanze strategiche e assumere posizioni comuni nei processi di negoziazione. L’obiettivo è impedire la dispersione nella negoziazione, evitando che le nazioni aderenti si contrappongano e siano assorbite nella voragine delle pressioni per la rapida costituzione dell’ALCA.]


L’uscita dall’Unione europea non rischia di favorire i nazionalismi cari all’estrema destra?

Stiamo attenti alle parole che usiamo. Difendere il quadro nazionale e rivendicare il nazionalismo, non è la stessa cosa. In francese, il nazionalismo rinvia ad una concezione aggressiva e imperialista della nazione. Per contro, la difesa del quadro nazionale non è un’idea di estrema destra, anzi.

La giunzione tra i concetti di nazione e di sovranità dei popoli è stata effettuata dai rivoluzionari del 1789 e soprattutto del 1792. Durante la battaglia di Valmy, l’esercito rivoluzionario ha bloccato la coalizione delle aristocrazie europee che volevano riportare i Borboni sul trono. Dopo l’esito di questa battaglia, fu proclamata la Repubblica. Goethe, il celebre poeta tedesco, scriveva: “Questo giorno e questo luogo segnano una nuova era nella storia del genere umano”. Per la prima volta, un popolo affermava la propria sovranità collettiva sul proprio futuro.

Jaurès ha anche affermato: “Un po’ di internazionalismo allontana dal concetto di patria, molto lo ripristina e lo consolida.” Inoltre, sottolineava che la nazione è “l’unica risorsa dei poveri”.

La difesa del quadro nazionale resta più che mai una idea fondamentalmente progressista, in quanto rinvia alla necessità che le persone possano decidere del loro futuro. In Francia, questa difesa è stata a lungo sostenuta dalla sinistra, specialmente dal movimento comunista e dalla Resistenza, che coniugavano le lotte sociali con la difesa del quadro nazionale.

E poiché abbiamo accennato poco fa all’America Latina, bisogna ancora ricordare che la parola d’ordine della Rivoluzione cubana proclamava: “Patria o muerte, venceremos!”. Allora, il Che e Fidel, agenti dell’estrema destra?


Tuttavia, se noi ora andiamo a vedere quali sono i partiti politici che sostengono l’uscita dall’Unione europea, la maggior parte sono classificati a destra dello spettro politico.

Ma di chi è la colpa? Chi ha abbandonato incolto questo terreno, sacrificando il concetto di sovranità in nome della costruzione e dell’integrazione europea?

A questo livello si è prodotto un vuoto, tanto che altre forze, che hanno chiaramente sentito il sentimento popolare, hanno recuperato e stanno ancora recuperando questo terreno abbandonato dalla sinistra. Questa situazione richiede appunto il reinvestimento in questo campo, piuttosto che abbandonarlo all’attenzione di soggetti che non hanno assolutamente in testa la difesa dei lavoratori.


Lei non teme che una rottura dell’Unione europea possa condurre a conflitti come quelli che abbiamo già conosciuto tra i diversi paesi del continente?

In sé e per sé non sono state le nazioni, ma sono stati gli scontri tra interessi imperialisti all’origine delle due guerre mondiali.

Quando ha dovuto confrontarsi con il suo stesso popolo, la borghesia francese ha più volte tentato di fare affidamento sulla grande borghesia tedesca. Alla fine degli anni 1930, la borghesia francese proclamava “piuttosto Hitler che il Fronte Popolare!”, ben prima di sguazzare nella collaborazione con le forze di occupazione per difendere i propri interessi di classe. E non era una novità. L’aristocrazia francese aveva chiamato in suo soccorso gli aristocratici europei durante la Rivoluzione. Allo stesso modo, Adolphe Thiers invocò l’aiuto di Bismarck per schiacciare la Comune di Parigi.

È una costante. Non solo le borghesie nazionali ricercano diversivi ​​nelle guerre tra nazioni quando i movimenti popolari diventano più profondi. Ma sono anche disposte a sacrificare gli interessi della nazione a tutto vantaggio dei propri interessi di classi dominanti.


Quindi, l’Unione europea non offrirebbe alcuna garanzia di pace fra i popoli?

Basta guardare cosa succede. Laddove popoli sovrani, liberi e uguali dovrebbero essere in grado di sviluppare fra di loro la cooperazione, succede il contrario. Si cerca di imporre loro le stesse regole, gli stessi modi di comportarsi e, soprattutto, le stesse battute d’arresto sul terreno.

Per questa cosiddetta pace tra i popoli, i risultati sono disastrosi. Infatti, abbiamo potuto vedere la grande stampa tedesca rappresentare i Greci come profittatori, pigri e parassiti. D’altra parte, è tale il risentimento, che nei giornali greci non si vede altro che Angela Merkel conciata in foggia hitleriana!

Sotto l’apparenza di sviluppare stretti legami, i popoli vengono posti in opposizione gli uni contro gli altri. Questo è terribile!

Il primo ministro lussemburghese Jean-Claude Junker, che è stato fino a poco tempo fa il presidente dell’Eurogruppo, in marzo ha dichiarato a Der Spiegel: “I demoni che hanno condotto allo scoppio della Prima Guerra mondiale forse sono in sonno, ma non sono scomparsi, e penso che le tensioni che conosciamo oggi ci ricordano quelle che hanno prevalso nel 1913.”

Jean-Claude Junker, tuttavia, è uno di coloro che ci hanno raccontato che l’Europa è la pace. Costoro cominciano a preoccuparsi. Il modo in cui i dirigenti europei, in particolare i Tedeschi, hanno preso possesso di Cipro è sintomatico. Loro, nemmeno vanno tanto per il sottile, e spiegano molto chiaramente che metteranno il paese sotto il giogo. Con la speranza che, se saranno in grado di dominare in tal modo un piccolo paese, l’esempio sarà dato.


Lei stesso ha affermato che ogni governo è in grado di prendere misure antisociali al di fuori dell’Unione europea. Uscire dalla camicia di forza europea basterà a proteggerci da queste politiche? Non è meglio aggredire il problema alla radice, attaccando il capitalismo?

Sono convinto anch’io che la questione fondamentale sia la logica del capitalismo. Ciò che è nuovo, sono le armi di cui il capitalismo si è dotato per meglio sottomettere i popoli. Se domani l’Unione europea non esistesse più, per questo i problemi non scomparirebbero. Non verrebbe eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e si dovrebbe continuare a combattere il capitalismo.

Ma quando si arriva a mettere fuori uso l’arma più efficace del proprio avversario, si è già fatto un grande passo in avanti.

Dobbiamo quindi dare priorità alla battaglia di oggi, che consiste nel far saltare le catene e le camice di forza. Quando le forze progressiste rimettono in causa l’Unione europea, questo offre delle opportunità. Ma quando delle forze presumibilmente progressiste continuano a ripetere “abbiamo bisogno di un’altra Europa”, sono queste forze molto meno simpatiche che si impossessano delle lotte nazionali. Con tutti i pericoli che possiamo immaginare ...


Fonte : Investig'Action 




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Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - ONLUS
https://www.cnj.it/
http://www.facebook.com/cnj.onlus/

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(in english:
«The Nato-aggression against Yugoslavia from 1999 was a model of the new wars of conquest»
“Humanitarian interventions” as a pretext for deployment of US-troops - Interview with Živadin Jovanovic, Former Minister of Foreign Affairs of the Federal Repbulic of Yugoslavia, presently Chairman of the Belgrade Forum for a World of Equals

auf deutsch:
«Die Nato-Aggression gegen Jugoslawien von 1999 war ein Modell der neuen Eroberungskriege»
«Humanitäre Interventionen» als Vorwand für Stationierung von US-Truppen - Interview mit Živadin Jovanovic, ehemaliger Aussenminister der Bundesrepublik Jugoslawien, heute Präsident des Belgrade Forum for a World of Equals
http://www.zeit-fragen.ch/index.php?id=1403

en francais:
«L’agression de l’OTAN contre la Yougoslavie en 1999 était un modèle des nouvelles guerres de conquête»
«Interventions humanitaires» – prétexte pour le stationnement de troupes américaines - Interview de Živadin Jovanovic, ancien ministre des Affaires étrangères de la République fédérale de Yougoslavie
http://www.horizons-et-debats.ch/index.php?id=3886 )



Živadin Jovanovic: «L’aggressione NATO contro la Jugoslavia del 1999 fu un modello delle nuove guerre di conquista»

29 Aprile 2013

da www.horizons-et-debats.ch | Traduzione di Anna Migliaccio per Marx21.it

«Interventi umanitari: pretesti per lo stazionamento delle truppe americane>

Intervista a Živadin Jovanovic, già ministro degli Affari Esteri della Repubblica federale di Jugoslavia, oggi presidente di Belgrade Forum for a World of Equals.

In senso lato, si deve considerare come l’aggressione della NATO abbia segnato un cambiamento strategico nell’essenza dell’Alleanza atlantica: essa ha abbandonato la politica di difesa ed ha introdotto una politica offensiva (aggressiva), autorizzando sé stessa ad intervenire in qualunque momento ed in qualunque punto del globo. L’ONU e il suo Consiglio di sicurezza sono stati cortocircuitati, il diritto internazionale e la giustizia violate. 

Dibattiti e Orizzonti: 

Signor Jovanovic, potrebbe presentarsi brevemente ai nostri lettori e dirci qualcosa di sé stesso e della sua carriera?


Živadin Jovanovic: Nel 1961, ho terminato i miei studi alla Facoltà di Diritto dell’Università di Belgrado, dal 1961 al 1964 ero nell’Amministrazione del distretto della città di Novi Belgrade; dal 1964 al 2000 ho servito presso il servizio diplomatico della Repubblica Federale socialista di Yougoslavie (a partire dal 1992 Repubblica federale di Yugo­slavia, dal 1988 al 1993 sono stato ambasciatore a Luanda/Angola, dal 1995 al 1998 ministro degli affari esteri supplente e dal 1998 al 2000 ministro degli affari esteri). Dal 1996 al 2002 sono stato vice presidente dl Partito socialista della Serbia per gli affari esteri; nel 1996 membro del Parlamento serbo e nel 2000 del Parlamento della Repubblica federale di Yugoslavia. I libri che ho scritto sono: «The Bridges» (2002); «Abolishing the State» (2003); «The Kosovo Mirror» (2006).

Živadin Jovanovic: Nel 1961, ho terminato i miei studi alla Facoltà di Diritto dell’Università di Belgrado, dal 1961 al 1964 ero nell’Amministrazione del distretto della città di Novi Belgrade; dal 1964 al 2000 ho servito presso il servizio diplomatico della Repubblica Federale socialista di Yougoslavie (a partire dal 1992 Repubblica federale di Yugo­slavia, dal 1988 al 1993 sono stato ambasciatore a Luanda/Angola, dal 1995 al 1998 ministro degli affari esteri supplente e dal 1998 al 2000 ministro degli affari esteri). Dal 1996 al 2002 sono stato vice presidente dl Partito socialista della Serbia per gli affari esteri; nel 1996 membro del Parlamento serbo e nel 2000 del Parlamento della Repubblica federale di Yugoslavia. I libri che ho scritto sono: «The Bridges» (2002); «Abolishing the State» (2003); «The Kosovo Mirror» (2006). 

Dopo aver lasciato il Ministero degli affari esteri nel 2000, siete stato legato al «Belgrade Forum for a World of Equals». Attualmente siete il Presidente di questa associazione. Quali sono i vostri obiettivi essenziali? 

Gli obiettivi essenziali sono il contributo alla pace, alla tolleranza e la collaborazione sulla base dell’eguaglianza tra gli individui, le nazioni e gli Stati. Noi ci impegniamo per il rispetto del diritto internazionale. Dei principi alla base della relazioni internazionali e del ruolo delle Nazioni Unite. Il ricorso alla violenza o la minaccia di utilizzarla non sono affatto mezzi appropriati per la soluzione dei problemi internazionali. Siamo dell’avviso che non esistono guerre “umanitarie”. Tutte le aggressioni a cominciare da quella della NATO contro la Serbia (RFY) del 1999 furono, a prescindere dalle dichiarazioni formali ed ufficiali, delle guerre di conquista, condotte per ragioni geo -strategiche altre per profitti economici. Noi sosteniamo i diritti dell’uomo secondo la Carta dell’ONU – ivi compresi i diritti sociali economici e culturali e i diritti alla salute, al lavoro, e altri diritti umani. 

Cerchiamo di raggiungere i nostri obiettivi per mezzo di dibattiti pubblici, conferenze, e tavole rotonde, seminari su scala nazionale e internazionale. Il Forum coopera con diverse associazioni che perseguono obiettivi simili – in Serbia, nella regione e a livello mondiale. 

Abbiamo visto qualche libro molto interessante edito dal Belgrado Forum. Come fate a sostenere la vostra attività di editori? 

Il Forum ha pubblicato circa 70 libri su diversi argomenti, nazionali ed internazionali, sulla politica dello sviluppo nelle condizioni di crisi, sullo statuto di Kosovo e Métochie e sul tribunale dell’Aia concernente la politica NATO nei Balcani, sulla politica estera della Serbia, sul terrorismo internazionale e sul ruolo degli intellettuali. Alcuni nostri libri sono stati diffusi in un gran numero di paesi su tutti i continenti. C’é, per esempio: «Nato Aggression – the Twilight of the West». A causa degli scarsi mezzi finanziari purtroppo solo pochi dei nostri libri sono apparsi in altre lingue. .

Solo in quest’ultimo mese abbiamo pubblicato tre nuovi libri – uno dedicato al grande filosofo e membro dell’Accademia Mihailo Marcovic, che è stato uno dei cofondatori del Belgrade Forum; il secondo reca il titolo di «Da Norimberga a La Haye» e il terzo «Dall’aggressione alla secessione».* La presentazione dei libri nelle diverse città della Serbia ed hanno avuto notevole successo.Tutte le nostre attività di scrittura e pubblicazione poggiano su lavoro volontario. Non abbiamo mai avuto e non abbiamo nessuno che sia remunerato tra i quadri del Forum. L’auto finanziamento dei membri e le donazioni dopo la diaspora serba sono le ricette principali del Forum. 

Avete citato la promozione della pace come uno dei vostri temi principali. Ma i popoli della vostra regione sono stati vittime di guerre nell’ultimo decennio del XX secolo. 

E’ vero. I popoli dell’ex –Yugoslavia hanno sofferto enormemente, prima per le guerre civili in Bosnia e in Croazia (dal 1992 al 1995), poi seguite dall’aggressione della NATO (1999), seguita dalle sanzioni e dall’isolamento ecc. Gran parte della popolazione soffre tutt’oggi. Pensate per esempio alla vita di quasi mezzo milione di rifugiati ed espatriati che vivono solo in Serbia ai quali non è consentito tornare alle loro case in Croazia o in Kosovo e Métochie. Le conseguenze sono tutt’ora dolorose e lo saranno ancora in futuro. Che dire delle conseguenze delle bombe con proiettili all’uranio impoverito che la NATO ha utilizzato nel 1999 e mietono ancora numerose vittime e le mieteranno ancora nei secoli. La storia ci darà la prova che i popoli della ex - Yugoslavia sono stati le vittime della concezione del Nuovo ordine mondiale che poggia in realtà sul potere e l’espansione.

Pensa esistano fattori locali frammisti ad altri venuti dall’esterno responsabili della frammentazione della Yugoslavia?

L’influenza delle popolazioni locali non può essere trascurata. Queste hanno evidentemente le loro responsabilità di essersi prestate a compromessi. Ma le analisi dominanti paiono non prestare alcuna attenzione al ruolo negativo dei fattori esterni Abbiamo oggi sufficienti prove che certe potenze avevano progetti fin dal 1976 e 1977 su come i territori della Repubblica federata socialista di Yugoslavia dovevano essere riorganizzati, in altri termini smantellati e spartiti in funzione dei loro interessi. Dopo la morte di Tito hanno incoraggiato nazionalismo e separatismo tra le diverse Repubbliche Yugoslave, ma anche il separatismo e il terrorismo nella provincia serba del Kosovo e Métochie, politicamente, finanziariamente e con la logistica e la propaganda. Più tardi certe potenze sono intervenute nelle guerre civili, sostenendo una parte contro l’altra. Questi paesi hanno sostenuto apertamente la separazione della Slovenia e della Croazia e hanno armato la Croazia e la Bosnia anche durante l’embargo dell’ONU e hanno favorito l’ingresso di mercenari tra cui i Moudjahidin. D’altra parte la Serbia e il Monténégro sono stati isolati, sanzionati e stigmatizzati. Li hanno trattati come se fossero i soli responsabili della guerra civile. Ciò non è fondato sui fatti ed è stato propizio ad estendere il conflitto. 

Le conseguenze? Invece di uno Stato ne hanno sei, non certo solidi dal punto di vista economico. Degli Stati marionette ed un settimo che sarà creato a breve. 18 governatorati, sei eserciti sei servizi diplomatici etc. La spesa pubblica nel 1990 per tutta la RFSY era di 13,5 miliardi è aumentata fino al 2012 a oltre 200 miliardi di euro! Alcuni di tali stati sono divenuti totalmente dipendenti dal punto di vista finanziario. A chi giova tutto questo? Fino al 1990,non esisteva nella regione una sola base militare straniera.. Oggi ne esistono una serie, tutte degli USA delle quali Camp Bondsteel è la più grande d’Europa.2 Per che farne? A che servono? A 18 anni dagli accordi di Dayton, la Bosnia non è tutt’ora in grado di funzionare; l’antica Repubblica yugoslava di Macedonia (FYROM, Former Yugoslav Republic of Macedonia) non è in grado di funzionare, dieci anni dopo gli Accordi quadro di Ohrid e continua ad essere attraversata da divisioni e tensioni etniche profonde. 14 anni dopo la Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, lo statuto di Kosovo e Métochie è senza soluzione. Sali Berisha di Tirana e Hashim Thaci di Pristina applaudono pubblicamente alla creazione di una così detta Grande Albania. Altri problemi pressanti sono la disoccupazione tra il 30% e il 70%, la povertà di centinaia di migliaia di rifugiati e di espatriati, la criminalità organizzata internazionale, fondata sul commercio di organi umani, le droghe, le armi, gli immigrati, dando un’immagine di insicurezza della Yugoslavia. Chi dunque ha tratto profitto dalla sua frammentazione? 

Ha menzionato l’intervento della NATO. Che opinione se ne è fatta a distanza di 14 anni?

La mia opinione non è mutata. E’ stato un attacco criminale, illegale, immorale, contro uno Stato europeo sovrano. Illegale, perché ha violato tutti i principi fondamentali del diritto internazionale, tanto della Carta dell’ONU, quanto degli Accordi di Helsinki e molte altre convenzioni internazionali. E’ stata eseguita senza il mandato del Consiglio di sicurezza. Criminale perché si è abbattuto anzitutto sulle popolazioni e le infrastrutture civili e con armi vietate come quelle chimiche, le bombe caricate con sotto munizioni di proiettili di uranio impoverito. Immorale perché fondata su pretesti falsi e faziosi. I dirigenti della NATO sono responsabili della morte di 4.000 persone e 10000 feriti civili. I danni materiali ammontano a 100 miliardi di dollari. L’aggressione della NATO non ha portato soluzioni ma ha creato nuovi problemi. E’ stata una guerra di conquista e non un “intervento umanitario”. 

Potrebbe precisare?

Ho già menzionato alcune conseguenze dirette. In senso più ampio occorre considerare che l’aggressione della NATO segna un cambiamento strategico nell’essenza dell’alleanza: essa ha abbandonato la sua politica di difesa ed ha introdotto una politica offensiva (aggressiva) autorizzandosi ad intervenire in ogni momento su ogni punto del globo. L’ONU, più precisamente il Consiglio di sicurezza, è stato corto circuitato e il diritto internazionale e la giustizia violati. 3 E’ stata la prima guerra lungamente preparata sul suolo europeo dopo la Seconda Guerra mondiale. E’ stata la dimostrazione del potere degli Stati Uniti in Europa, l’espansione verso l’Est, una giustificazione per le ambizioni della NATO, anche dopo la fine del Patto di Varsavia ed un precursore di interventi futuri (Afghanistan, Iraq, Libia). E’ stata una guerra orchestrata e diretta da una potenza extra europea con la conseguenza che essa resterà a lungo sul suolo europeo. L’aggressione ha inoltre segnato un cambiamento della politica tedesca dopo la Seconda Guerra Mondiale. Partecipando attivamente all’aggressione della NATO contro la Serbia, la Germania si è allontanata dalla propria Costituzione ed ha aperto le porte per facilitare la militarizzazione e giocare un ruolo nei conflitti che si svolgono ben lontano dal suo territorio.

Oggi abbiamo sul suolo europeo un numero di basi militari molto maggiore che durante la Guerra fredda. Dopo l’aggressione della NATO contro la Serbia le basi militari sono sorte ovunque. Come si spiega l’esportazione della democrazia e nel contempo l’esportazione delle basi militari? Fino ad ora non ho trovato spiegazioni convincenti e mi pare che qualcosa non quadra.

Qual è la sua opinione sul futuro della Bosnia?

La Bosnia Herzégovina in quanto era una tra le dieci repubbliche RFSY, fu basata sull’eguaglianza costituzionale di tre popoli avendo ciascuno un diritto di veto – Musulmani , les Serbi e Croati. E’ la ragione per cui si chiamava la «Piccola Yougoslavia». Quando nel 1992 il principio costituzionale del consenso è stato violato perché musulmani e croati si sono pronunciati a favore della separazione hanno ignorato l’opzione dei serbi di restare nell’alveo della Yugoslavia, la guerra civile è scoppiata. L’accordo di pace di Dayton non è stato un successo semplicemente perché ha confermato nuovamente quel principio di eguaglianza dei tre popoli costituenti, l’uguaglianza delle due unità (la Fédérazione musulmano-croata e la Répubblica Srpska) e il principio del consenso.4 > Questi principi fondamentali sono stati inscritti nella Costituzione che rappresenta parte integrale dell’Accordo.

La fonte principale della crisi attuale è nello sforzo dei dirigenti musulmani di Sarajevo di abolire il principio del consenso e creare uno Stato unitario sotto la loro supremazia. Inoltre, essi vogliono cambiare la ripartizione ddel territorio garantita dalla’accordo di Dayton secondo il quale la Fédérazione musulmano-croata controlla il 51% e la Répubblica Srpska il 49% di tutto il territorio. Per render il problema ancora più difficile, i musulmani continuano a beneficiare per le loro esigenze, evidentemente contenute negli Accordi di Dayton, del sostegno di qualche centro decisionale, in primo luogo di Washington e Berlino. Sul perché vogliano indebolire la Répubblica Srpska e rafforzare i Musulmani, preferisco non fare commenti. Questi centri mettono del pari sotto pressione i dirigenti serbi affinché essi disciplinino I dirigenti di Banja Luka affinché essi accettino contro il proprio interesse una revisione di Dayton e della Costituzione. La Serbia, come garante degli Accordi di Dayton non ha affatto il potere di influenzare i dirigenti della Répubblica Srpska e secondariamente non è interesse della Serbia destabilizzare la Répubblica Srpska provocando così tensioni interne ed una nuova spirale etniche o anche conflitti armati nel suo vicinato. Credo si debba lasciare alla Bosnia Herzégovina il compito di trovare una soluzione politica che corrisponda agli interessi dei tre popoli costitutivi e delle due unità eguali nei diritti. L’Accordo di Dayton non è perfetto. Ma probabilmente non esiste un compromesso migliore. Bruxelles ritiene che una centralizzazione del potere a Sarajevo migliorerebbe l’efficacia dell’amministrazione statale. I sostenitori di tale opinione paiono non vedere che è il principio del consenso e della decentralizzazione che hanno condotto al ristabilirsi della pace e al mantenimento dell’integrità statale e che ha rianimato un sentimento di libertà e di democrazia. Finalmente, ritengo, l’Ufficio dell’Alta Rappresentanza dopo avere accentrato in sé per 17 anni potere legislativo, esecutivo e giudiziario è diventato un anacronismo che deve essere dissolto. La Bosnia Herzégovina è il solo membro dell’ONU (e nel contempo del Consiglio di sicurezza) de l’OSCE e di altre organizzazioni dove l’Alta Rappresentanza legifera e nomina Presidenti, Primi ministri e Ministri. La Serbia è un piccolo paese che ama la pace e non ha una storia imperiale né ambizioni imperialiste, e deve a nostro avviso restare neutrale come la Svizzera. Per quanto concerne i diritti umani, lottiamo per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU del 1948, la quale esige il rispetto di tutti i diritti incluso quello alla cooperazione. 

I miei colleghi di «Horizons et débats» hanno dichiarato un giorno che la Serbia è stata una spina nella coscienza di tutto il mondo occidentale. Che ne pensa?

Ciò che posso dire è che i dirigenti e i politici di certi paesi europei sono stati lungi dall’essere neutrali, costruttivi e moralmente corretti durante la crisi yugoslava e kosovara. Qualcuno ha partecipato attivamente all’aggressione della NATO, e ha provocato seri problemi per tutta l’Europa. Come gli Stati Uniti, conoscevano il finanziamento, il traffico d’armi dei terroristi albanesi e dei separatisti del Kosovo e Métochie da parte dei loro Stati. Documenti del Consiglio di sicurezza lo confermano.5 Nemmeno io sono imparziale, ma sono certamente sincero. A mio avviso di poche cose del loro ruolo in Europa possono andare fieri la Serbia e i serbi negli ultimi vent’anni. Sono stato sorpreso dall’ampiezza delle deformazioni, dei doppi standard e delle prese di posizione immorali da parte di certi politici europei che rappresentano i valori e la civiltà europea. Oggi sarebbe superfluo parlarne se non si potessero trarre lezioni dal passato. Sfortunatamente, i nuovi politici di questi paesi perseguono la medesima politica e con gli stessi metodi disonesti verso la Serbia. I Governi dei grandi paesi occidentali iniziano una campagna di propaganda abominevole contro la Serbia fondata su pregiudizi, invenzioni menzognere o banali menzogne. Mi riferisco per esempio all’invenzione di sana pianta del così detto «Piano a Ferro di cavallo» del ministro tedesco della difesa Rudolf Scharping.6 Il così detto massacro di civili di Raçak, che servì da giustificazione all’inizio dell’aggressione militare che si rivelò falso. Il rapporto stilato da un’equipe internazionale di esperti di medicina legale sotto la direzione del medico finlandese, Helen Ranta, la quale agiva sotto il controllo dell’UE non è mai stato pubblicato. Pare si sia smarrito da qualche parte a Bruxelles!7 

Quali lezioni può trarre, per sé, e per il mondo dall’aggressione della NATO?

L’aggressione della NATO contro la Repubblica federale di Yugoslavia del 1999 è stato un modello di nuova guerra di conquista sotto lo slogan di «intervento umanitario». E’ stata una guerra di conquista per prendere alla Serbia le sue province del Kosovo e Métochie e per stazionare, per ragioni strategiche, delle truppe degli Stati Uniti. E’ stato un precedente, cui sono seguiti altri. A mio avviso è attualmente del tutto inaccettabile esportare il sistema della società capitalista fiondato unicamente sulla dottrina di Washington, comme quella che nel corso degli anni 1960 concerneva l’esportazione del sistema socialista, fondato sulla dottrina di Mosca. La libertà di scelta dovrebbe essere sovrana in ogni paese. Non è giusto dividere i popoli, come se Dio avesse donato a qualcuno l’arbitrio di decidere ciò che è bene per tutte le nazioni del mondo. La storia ci insegna, almeno in Europa, che una simile ideologia è fonte di enormi danni. 

I problemi del Kosovo e Métochie sono vecchi come il mondo e profondamente radicati. Le province dello stato Serbo sono la culla della cultura serba così come della religione e della sua identità nazionale. Vi si trovano ancora circa 1300 conventi e chiese medievali alcune dichiarate patrimonio dellumanità dall’UNESCO. Oltre 150 sono state distrutte dai vandali e dagli estremisti. Sarebbe troppo semplice pretendere che I problemi di fondo si situassero nel dominio dei diritti umani degli albanesi. Per risolvere i problemi essenziali, che stanno a mio avviso nella volontà di espansione territoriale degli albanesi sostenuta dai paesi occidentali – in primo luogo gli Stati Uniti, la Germani e la Gran Bretagna –occorrerebbe qualche saggezza da parte degli attori politici, ma anche una visione a lungo termine e della pazienza, qualità particolarmente deficitarie. Resto persuaso che esiste una soluzione fondata su un compromesso basato sulla Risoluzione 1244 del Consigli odi sicurezza del 10 giugno 1999. Questa risoluzione, come altre precedenti, garantisce la sovranità e l’integrità della Repubblica federale yugoslava (distaccata dalla Serbia) e l’autonomia del Kosovo e Métochie in seno alla Federazione yugoslava e della Serbia. Nel tempo sono stati commessi numerosi fatti gravi, da parte di quel che chiamiamo comunità internazionale, ivi compresa l’UE, come da parte delle autorità serbe. Si possono considerare questi errori come gravi deviazioni dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Nel marzo 2008, i dirigenti albanesi a Pristina hanno dichiarato la secessione unilaterale ed illegale della provincia dalla Serbia ed hanno proclamato la pretesa Répubblica del Kosovo. Mentre la provincia si trova tutt’ora sotto il mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU, quest’ultimo non ha reagito. Gli Stati Uniti, la Germania, la Turchia, e la Gran Bretagna hanno riconosciuto immediatamente la separazione. Presenti 22 dei 27 membri dell’UE8 hanno seguito il movimento. La Serbia non ha riconosciuto la separazione del 17% del proprio territorio, e ritengo non lo farà in futuro. La gran parte dei membri dell’ONU, dei quali due dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, la Russia e la Cina, non l’hanno riconosciuta. L’anno scorso un dialogo tra rappresentanti di Belgrado e Pristina concernente qualche aspetto concreto che tocca la vita quotidiana della popolazione è stato avviato sotto l’egida dell’UE. Può essere un bene, nella misura in cui non costituisca pregiudizio negativo per il problema principale – le statuto della provincia come previsto nella Risoluzione 1244. Personalmente auspico che il dialogo verta su un calendario che assicuri il libero ritorno dei 250’000 Serbi e gli altri Non-Albanesi nelle loro terre, poiché vivono attualmente in condizioni miserevoli in diverse città di Serbia e Monténégro. Sfortunatamente tale questione non trova posto nell’ordine del giorno vuoi per l’assenza di interesse da parte di Pristina, ma anche a causa della politica dei due pesi e due misure dell’Occidente. Una soluzione imposta alla Serbia con la forza o l’inganno non è possibile. Io credo che “il mercato” di cui parlano certi paesi occidentali non abbia diritto di cambiare il territorio (Kosovo) contro l’adesione all’UE (della Serbia) a svantaggio di investimenti stranieri – che sarebbe logico, visto lo stato di degradazione dell’economia serba – si avviasse. Sarebbe disonesto, non equilibrato, inaccettabile per i serbi, conoscendone la storia e la fierezza. 

Quali sono le relazioni tra Serbia e l ’UE? 

L’UE è tradizionalmente il principale partner economico della Serbia. Le relazioni storiche sociali e culturali restano molto forti. Centinaia di migliaia di serbi e loro discendenti vivono e lavorano nei paesi membri del’UE. La Serbia è candidata per l’adesione all’UE. Questo si riflette nella politica “del bastone e della carota” nei confronti della Serbia in una lista infinita di condizioni mai poste ai candidati. L’UE esige che «la Serbia normalizzi le sue relazioni con il Kosovo». Finché Belgrado reagisce, dichiarando di non accettare di riconoscere il Kosovo, i commissari di Bruxelles pretendono che l’UE non chieda che il sistema di controllo delle frontiere integrato (Integrated Border Management IBM) ai confini del, la sigla di un accordo di buon vicinato, il cambio delle diplomazie, che la Serbia non impedisca l’adesione del Kosovo all’ONU, etc.! Rimarchiamo la portata di tale ipocrisia. Si esige attraverso note diplomatiche o altre prese di posizione scritte concernenti un riconoscimento, ma delle relazioni tali e quali tra stati sovrani! Io sostengo una stretta cooperazione tra la Serbia e l’UE in tutti i campi ove siano interessi comuni, senza ostacoli: la libera circolazione delle merci dei capitali delle persone e delle informazioni. Considerato il fatto che l’UE non tratta la Serbia come un partner sovrano, la Serbia dovrebbe adottare una politica di buon vicinato con l’UE e mettere da parte la politica attuale, che definisce adesione all’UE come unica soluzione. Non è nell’interesse della Serbia lasciare troppo per ricevere meno. Uno spirito di apertura e cooperazione senza ostacoli amministrativi, invece che relazioni di buon vicinato tra Serbia e UE sarebbero una base sensata per il futuro a medio termine. 

Come la Germania, la Svizzera e altri paesi europei potrebbero contribuire a migliorare le sorti del vostro popolo?

La via migliore per sostenere la Serbia ma insieme la mutua assistenza in Europa e addivenire ai veri valori della nostra civiltà, consiste nel dire sempre la verità, opponendosi ad ogni forma di deformazione, di mezze verità e immoralità. La Serbia e la nazione serba sono parte integrante dell’Europa, della sua cultura e del suo sviluppo e civilizzazione. E’ così e resterà così in futuro. I popoli hanno radici profonde ed una statura che non può trasformarsi dalla mattina alla sera. Dal canto mio sarei felice si smettesse di considerare la Serbia attraverso i pregiudizi e le caratterizzazioni parziali e rimpiazzarle con analisi equilibrate ed imparziali. 

Abbiamo appreso che il «Belgrado Forum» sarà parte di una importante conferenza internazionale a Belgrado nel marzo prossimo.

Questo forum ed altre associazioni indipendenti e prive di pregiudizi in Serbia organizzano una conferenza internazionale sotto il titolo «Aggressione, militarizzazione e crisi planetaria» che avrà luogo il 22 e 23 marzo 2014 à Belgrado. Questa conferenza ed altri eventi dello stesso tipo celebrano il 15° anniversario del’attacco della NATO contro la Serbia e servirà ad onorare la memoria delle vittime. Ci prefiggiamo di invitare scienziati ed intellettuali d’Europa ma anche di altri paesi che tratteranno di interventi militari aumento delle spese militari e militarizzazione delle decisioni politiche e della crisi nel mondo, che non è a nostro avviso solo una crisi finanziaria ed economica ma una crisi dell’ordine mondiale. 

Signor Jovanovic, La ringraziamo di questo incontro. 

Note 

1 Solo la Bosnia e l’Herzégovina hanno un governo centrale, due governi, uno per ciascuna entità, e 10 governi cantonali in seno alla Federazione della Bosnia-Herzégovina. 
2 «La guerra contro la Repubblica Federale di Yugoslavia fu condotta per correggere un errore strategico del generale Eisenhower durante la Seconda Guerra mondiale. Per ragioni strategiche, occorreva stabilizzare lo stazionamento delle truppe americane in quella regione.» citazione dalla lettera di Willy Wimmer, indirizzata al cancelliere tedesco Gerhard Schröder il 2 maggio 2000. 
3 «La forza deve primeggiare sul diritto. Là dove il diritto internazionale sbarra la strada, occorre

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Per compiacersi gli americani

1) Lettera al presidente Napolitano
Sulla grazia concessa al colonnello americano Joseph Romano: "Non c'era modo peggiore di chiudere la Sua presidenza" (ergo: non c'era altro modo per replicarla) - di Sergio Finardi

2) La fiducia arriva dagli Usa
Enrico Letta ha ricevuto l'unica fiducia che conta: quella del segretario di stato Usa John Kerry - di Manlio Dinucci

3) FLASHBACK: Rogo Moby Prince, la «nave fantasma» era americana
... e stava scaricando armi. Nell’incendio a Livorno 140 morti, 30 i sardi - di Piero Mannironi


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USA - mondo

Nessuna clemenza per la pratica delle rendition

Sergio Finardi

Su Il Manifesto del 9.4.2013 - www.ilmanifesto.it

Lettera al presidente Napolitano. La grazia concessa al colonnello americano Joseph Romano, condannato dalla Corte d’Appello di Milano per il rapimento di Abu Omar, è basata su presupposti non veritieri

Gentile presidente Napolitano, leggo nel comunicato del Quirinale sulla grazia concessa all'oggi colonnello Joseph L. Romano: «Il presidente Usa Barack Obama, subito dopo la sua elezione, ha posto fine a un approccio alle sfide della sicurezza nazionale, legato ad un preciso e tragico momento storico e concretatosi in pratiche ritenute dall'Italia e dalla Unione europea non compatibili con i principi fondamentali di uno stato di diritto». Nessuna delle due parti di cui è costituita la frase a lei attribuita è vera. Innanzitutto non è che l'Italia e l'Unione europea «ritengono» le «pratiche» statunitensi delle extraordinary renditions «non compatibili» con lo stato di diritto, è che ci sono due convenzioni internazionali - firmate anche dagli Stati uniti - a proibire tassativamente quelle pratiche, in qualsiasi circostanza. E quelle «pratiche», signor presidente, hanno riguardato il rapimento e la tortura di migliaia di persone. In secondo luogo - e principalmente - il presidente statunitense Obama non solo non ha mantenuto le sue promesse elettorali relative alla chiusura dell'infame Guantanamo e di molti altri luoghi (non più) segreti di detenzione indefinita e senza processo - cosa gravissima per un premio Nobel per la Pace, premio datogli anche sulla speranza che le mantenesse tali promesse - ma ha opposto ogni possibile ostacolo alla conoscenza della verità. Obama ha infatti reso ancora più difficile scoprire la verità sul programma delle renditions e sulle reali circostanze relative a migliaia di rapimenti. Ha poi esplicitamente sollevato dalle loro responsabilità sia chi ha dato ordini illegali sia chi li ha eseguiti, ordini che non avrebbero mai dovuto essere portati avanti. Obama ha inoltre nominato come suoi consiglieri o in posizioni-chiave della sua Amministrazione, uomini coinvolti fino al collo in quello che lei definisce «approccio alle sfide della sicurezza» e che è stato ed è invece una serie di politiche iniziate non dopo gli eventi del Settembre 2001, ma sotto il presidente Clinton, chiara dimostrazione del disprezzo totale che gli Stati uniti hanno del diritto internazionale e della sovranità degli altri Paesi, inclusi gli alleati, quando ritengono utile violarli entrambi. Queste nomine hanno compreso persone quali John Owen Brennan, ora direttore della Cia, la cui precedente candidatura era stata silurata dal Senato statunitense nella prima amministrazione Obama proprio perché coinvolto pienamente nel programma delle renditions . Quello stesso Brennan che si è poi distinto come il più forte sostenitore dell'uso dei droni, che in 90 attacchi hanno smembrato tremila pachistani civili (« collateral damages »), tra cui molti bambini e donne, anche recentissimamente. O come il generale Stanley Allen McChrystal, nominato nel 2009 capo della missione Isaf in Afghanistan, ma comandante nel 2003-2005 delle forze speciali conosciute con la sigla Task Force 6-26, responsabili di orrende torture di prigionieri iracheni a Camp Nema, base militare di Baghdad, torture emerse in ogni particolare nelle inchieste del New York Times e di Human Rights Watch del 2006. A questo si aggiunga che in queste settimane l'Amministrazione Obama ha ordinato l'alimentazione forzata (con un tubo diretto allo stomaco) di 128 prigionieri di Camp 6 - tra quelli ancora detenuti a Guantanamo - che hanno dichiarato lo sciopero della fame per protestare, per l'ennesima volta, 11 anni di detenzione senza processo e senza accuse. Non meno importante, il fatto che l'Fbi di Obama si sta distinguendo per la persecuzione accanita e in molti casi abnorme delle organizzazioni e degli individui che hanno guidato le proteste contro la continuazione di fatto delle guerre di Bush o hanno - come il soldato Bradley Manning - contribuito a rivelare le attività criminali perpetrate dagli Stati uniti in Iraq e in Afghanistan. Gentile presidente, voglio sperare che lei sia stato male consigliato e informato. Voglio però anche dirle che il suo gesto di clemenza virtuale per un fuggitivo, militare consapevolmente coinvolto nel rapimento di Abu Omar (e probabilmente di altri, dato il ruolo ricoperto), suona insopportabile e profondamente offensivo per chi abbia a cuore la sovranità e la magistratura italiane, per chi non abbia dimenticato come gli Stati uniti abbiano risposto alla richiesta di verità sull'uccisione di Nicola Calipari e il ferimento di Giuliana Sgrena e Andrea Carpani, infine per persone come chi le scrive. Persone di molte nazionalità diverse che si sono unite e hanno messo a disposizione le loro professionalità (e spesso le loro carriere) in anni di ricerca per svelare e far finire le orribili pratiche legate al programma delle extraordinary renditions - dalle nostre prime denunce del 2004 a quelle sul coinvolgimento dei governi europei del 2006 (compresa l'Italia, proprio su queste pagine), allo svelamento nel 2008 delle tante prigioni-tortura installate dalla Cia in vari Paesi europei. Proprio venerdì, l'alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navy Pillay, ha criticato duramente l'Amministrazione Obama, si legge nel comunicato «per la continua, indefinita incarcerazione di molti prigionieri (che è) chiaramente contraria alle leggi internazionali». «Dobbiamo essere chiari (...), gli Stati uniti sono non solo in violazione delle proprie promesse, ma anche delle leggi e standard internazionali che sono obbligati a rispettare». Di quale «por fine» da parte di Obama parla, signor presidente? Non c'era modo peggiore di chiudere la Sua presidenza.


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RUBRICA - L'ARTE DELLA GUERRA

La fiducia arriva dagli Usa

Manlio Dinucci

Su Il Manifesto del 30.4.2013 - www.ilmanifesto.it


Enrico Letta ha ricevuto la fiducia: quella del segretario di stato Usa John Kerry che, ancor prima che la votasse il parlamento italiano, si è congratulato per la nascita del nuovo governo. Fiducia ben meritata. Enrico Letta, garantisce John Kerry, è «un amico buono e fidato degli Stati uniti, che ha dimostrato in tutta la sua carriera un fermo impegno nella nostra partnership transatlantica». Il governo Letta, sottolinea Kerry, assicurerà il proseguimento della «nostra stretta cooperazione su molte pressanti questioni in tutto il mondo». È quindi il segretario di stato Usa a trattare un tema fondamentale che i partiti italiani hanno cancellato dal dibattito e dai programmi con cui si sono presentati agli elettori: la politica estera e militare dell'Italia. Il perché è chiaro: Pd, Pdl e Scelta Civica hanno su ciò la stessa posizione. Possiamo dunque essere sicuri che l'Italia continuerà ad essere base avanzata delle operazioni militari Usa/Nato in Medio Oriente e Africa: dopo la guerra alla Libia, si sta conducendo quella in Siria, mentre si prepara l'attacco all'Iran. E, in barba al Trattato di non-proliferazione, resteranno sul nostro territorio le bombe nucleari che gli Usa hanno deciso di potenziare. Allo stesso tempo l'Italia continuerà a inviare forze militari all'estero, anche in Afghanistan dove la Nato manterrà propri contingenti dopo il «ritiro» nel 2014. Aumenterà di conseguenza la spesa militare, in cui l'Italia si colloca al decimo posto mondiale con 70 milioni di euro al giorno spesi con denaro pubblico in forze armate, armi e missioni militari all'estero. A rafforzare la fiducia di John Kerry che l'Italia resterà alleato fidato sotto comando Usa è la nomina di Emma Bonino a ministro degli esteri. La Bonino, sottolineano a Washington, è una ex allieva del Dipartimento di stato, presso cui ha frequentato un corso di formazione (International Visitor Leadership Program). Brillante allieva. Ha sostenuto i bombardamenti della Nato sull'ex Jugoslavia; ha sostenuto la guerra in Afghanistan, dichiarando che «non si può parlare di occupazione: qui c'è una forza multinazionale» e che «un'occasione militare può condurre alla democrazia»; ha accusato Gino Strada di «atteggiamento ambiguo, tra l'umanitario e il politico». Ha sostenuto la guerra in Iraq, affermando che «non c'era alternativa per sconvolgere la rete terroristica» dopo l'11 settembre e ha definito «irresponsabili» i manifestanti contro la guarra. E, in veste di vice-presidente del Senato, è stata tra i più accesi sostenitori della guerra alla Libia, chiedendo nel febbraio 2011 la sospensione del trattato bilaterale perché «lega le mani all'Italia nel prestare soccorso alla popolazione civile», «soccorso» arrivato subito dopo con i cacciabombardieri. La Bonino potrà contare sui corsi di «peacekeeping» della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa (già diretta da Maria Chiara Carrozza ora ministro dell'istruzione), che vengono tenuti anche in Africa. A quando, dopo quella in Libia, la prossima operazione di «peacekeeping»?


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Rogo Moby Prince, la «nave fantasma» era americana


I figli del comandante Chessa non si sono arresi all’archiviazione: un team forense ha rivisto tutti gli atti. La nave fantasma fuggita era Usa e stava scaricando armi. Nell’incendio a Livorno 140 morti, 30 i sardi

di Piero Mannironi - 9 aprile 2013


SASSARI. Quella sentenza di archiviazione fu vissuta dai familiari delle vittime come un doloroso tradimento. L’inchiesta-bis sulla tragedia del Moby Prince, la più grave della storia della marineria civile italiana, aveva infatti creato un clima di grande speranza, la convinzione che finalmente la magistratura sarebbe riuscita a penetrare il buio groviglio dentro il quale si nascondeva la verità. E invece, nel 2010 arrivò l’archiviazione che consegnò il caso alla tremenda banalitàý di un incidente navale provocato «dall'errore umano» e da una «concatenazione casuale di eventi». I figli del comandante Ugo Chessa non si sono arresi e hanno affidato a un team di esperti di ingegneria forense di Milano coordinati da Gabriele Bardazza, la revisione di tutti gli elementi processuali, chiedendogli di rileggerli con l’aiuto di nuove e sofisticate tecnologie. Ed ecco, proprio alla vigilia del 22esimo anniversario del rogo che costò la vita a 140 persone, il colpo di scena.
Due soprattutto gli elementi nuovi che impongono una revisione della ricostruzione degli eventi. Il primo è la posizione del Moby Prince e quella della petroliera Agip Abruzzo la sera del 10 aprile ’91. Rivedendo e filtrando alcuni filmati amatoriali, il perito è riuscito a provare che il Moby speronò la petroliera non uscendo dal porto nella sua rotta verso Olbia, ma tentando di rientrare a Livorno. Il che comporterebbe un interrogativo obbligato: perché Ugo Chessa aveva ordinato l’inversione di rotta? Forse perché era successo qualcosa che poteva aver messo a rischio la sicurezza della nave? Magari una collisione con una terza nave rimasta finora fuori dalla scena?
La risposta potrebbe essere legata al secondo clamoroso elemento scoperto dal perito: la misteriosa nave Theresa II, che si allontanò a tutta velocità dopo una comunicazione criptica con una sconosciuta “Nave uno”, ha finalmente un nome. «Dalle nostre comparazioni - spiega Gabriele Bardazza - si evince che Theresa II altro non è che è Gallant 2, una delle navi militarizzate americane che quella notte erano impegnate nel trasporto di armi nella base Usa di Camp Darby. Resta da capire il motivo per cui il comandante abbia ritenuto di non utilizzare via radio il proprio identificativo, ma abbia usato un nome in codice. Come resta da spiegare il fatto che i periti del tribunale non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni per chiarire chi fosse Theresa II, nonostante nell’inchiesta di questa nave fantasma si sia parlato a lungo». Dunque, la voce misteriosa che comunicò con la “Nave uno” sarebbe quella del comandante greco Theodossiou della Gallant 2.
Forse i nuovi elementi potranno dissipare la nebbia che, dal 10 aprile 1991, avvolge la storia del traghetto partito da Livorno per Olbia e mai approdato in Sardegna. Con un carico umano di gente comune, di piccoli sogni e di quotidianità, di ritorni e di speranze. 140 vite divorate dalle fiamme, incredibilmente annientate a poche miglia dal molo dopo lacollisione con la petroliera Agip Abruzzo poco prima delle 22,30.
A far aprire l’inchiesta-bis era stata un’istanza dell’avvocato Carlo Palermo, legale dei figli del comandante del Moby Prince, Ugo Chessa. Palermo non basò il suo ricorso su fantasiose deduzioni o nuove rivelazioni, ma molto più semplicemente cucì con pignoleria e con infinita pazienza testimonianze dimenticate, atti incongruenti o addirittura documenti misteriosamente scomparsi. La sua ipotesi è che il Moby Prince sia finito in mezzo a un frenetico traffico di armi che, quella sera, animava il porto di Livorno. Un traffico «coperto», cioé segreto, probabilmente organizzato dalle autorità militari statunitensi e autorizzato da quelle italiane.
Per l’avvocato della famiglia Chessa, il punto di partenza era stato la testimonianza di un tenente della Guardia di finanza, Cesare Gentile, che la sera del 10 aprile era uscito dal porto su una motovedetta pochi minuti dopo la collisione: alle 22,35. Gentile, nella sua deposizione davanti ai giudici del tribunale di Livorno, aveva parlato con grande precisione delle operazioni di carico e scarico di armi, che erano in corso nel porto da una nave mercantile “militarizzata”. Cioè da una nave affittata dal governo statunitense per trasportare armi e munizioni. Quello era l’ultimo giorno di “Desert Storm”, la prima guerra del Golfo, e dall’Iraq tornava in Europa l’arsenale americano. Le armi erano ufficialmente destinate alla base Usa di Camp Darby, tra Livorno e Pisa. Ma le armi scaricate quella notte dalla nave americana non sono mai finite nella base di Camp Darby. Avrebbero infatti dovuto transitare su delle chiatte nel canale di Navicello, sbarrato dal ponte mobile di Calabrone. Ebbene, tra le 15,45 del 10 aprile e le 9,10 dell’11, c’è la prova che il ponte rimase abbassato. Quindi, quelle armi sono finite da qualche altra parte.



(srpskohrvatski / italiano)

Sui risultati del censimento 2011 in Croazia

1) La Nazionalità dà i numeri. I risultati del censimento del 2011 in Croazia (Luka Bogdanić)
2) SRBI PO POPISU STANOVNIŠTVA U HRVATSKOJ (Savo Štrbac)


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http://www.istitutodipolitica.it/wordpress/2013/02/04/la-nazionalita-da-i-numeri-i-risultati-del-censimento-del-2011-in-croazia/

di Luka Bogdanić

Circa un mese fa sono usciti i primi dati del censimento sulla popolazione in Croazia del 2011. Si tratta di dati parziali, relativi solo ad alcuni parametri: età, sesso, nazionalità e numero degli abitanti. Così apprendiamo che secondo il censimento del 2011, nella Repubblica di Croazia vivono 4.284.889 persone, di cui 2.066.335 sono maschi e 2.218.554 femmine, mentre l’età media della popolazione è di 41.7 anni. La città più grande è Zagabria con 790.017 abitanti, seguita da Spalato con 178.102 e Fiume con 128.624 abitanti.

Per la prima volta il numero di oltre sessantacinquenni ha superato il numero di quelli che ne hanno meno di 14 anni. In concreto, gli over 65 sono 106.205 in più. Se poi si analizza questo dato separando gli uomini dalle donne, il risultato è ancora più incisivo: ci sono 144.722 donne over 65 in più delle ragazzine sotto i 14 anni. In generale, una donna su cinque ha più di 65 anni. Insomma, la Croazia, almeno dal punto di vista dell’età, è un paese che si avvicina molto ai trend dei paesi più sviluppati dell’Unione Europea.

I serbi sono ancora la minoranza nazionale più grande del paese e rappresentano il 4,36% della popolazione, mentre nel 2001 (un anno dopo la morte di Tudjman) erano il 4,54%. In altre parole, in 10 anni il numero dei serbi è diminuito da 201.631 a 186.663, cioè del 7,4%. Si tratta di una diminuzione quasi nulla in paragone a quella che è avvenuta tra 1991-2001. Nel 1991 i serbi rappresentavano il 12,2 % della popolazione in Croazia (erano cioè 581.663), e nel 2001 erano rimasti in solo 201.631, ridotti al 4,45 %. Questo è il bilancio della politica nazionalista di Tudjman e della guerra civile.

Allora, come mai il numero dei serbi è ancora in diminuzione, anche se da anni non sono più in atto le pulizie etniche? A questa domanda si può rispondere in due modi complementari. Prima di tutto bisogna ammettere che ancora oggi essere un serbo in Croazia non è una posizione invidiabile. Ma per comprendere il calo di numero dei serbi, bisogna tenere presente il modo in cui è concepita l’identità nazionale nei Balcani, poiché la diminuzione dei serbi non indica che essi emigrano, ma semplicemente che smettono di essere serbi. Allo stesso modo in 32 anni è “scomparsa” la percentuale di 8,2% dei cittadini che 1981 si dichiaravano jugoslavi.

In realtà, il numero di serbi in Croazia, per vari motivi, fluttuava un po’ da sempre. Così nel 1981 (un anno dopo la morte di Tito) i serbi erano l’11,5%. Un lieve aumento di questi tra 1981 e 1991 (dall’11,5 % al 12,2%), è spiegabile attraverso il calo di coloro che si dichiaravano jugoslavi.

Inoltre, è interessante che il numero degli jugoslavi (e questi potevano essere croati, serbi, bosniaci, o gente nata da matrimoni misti, ma anche chiunque sia e di qualunque origine fosse) scendeva regolarmente nelle stagioni in cui fioriva il nazionalismo. Così ad esempio, nel 1971 coloro che si dichiaravano jugoslavi in Croazia erano soltanto il 1,9%, mentre nel 1981 il loro numero era cresciuto a 8,2%, il che faceva della Croazia la Repubblica con maggior numero di cittadini che si sentissero jugoslavi; essa era seguita da Bosnia ed Erzegovina, in cui gli jugoslavi erano il 7,9% della popolazione. Soltanto nella regione autonoma della Vojvodina gli jugoslavi ammontavano all’8,2%. In Serbia, senza le regioni autonome del Kosovo e della Vojvodina, la percentuale degli jugoslavi era del 4,8 %. Già nel 1991 coloro che si dichiaravano tali in Croazia non superava il 2,22 %. Com’è possibile questa fluttuazione d’identità nazionale, se si esclude la pulizia etnica degli anni Novanta?

Prima di tutto, per risponderne, bisogna tenere presente che la domanda che si poneva alla gente durante il censimento non era di natura linguistica; cioè non si chiedeva quale è la tua lingua madre, ma di quale nazionalità sei. Nei territori dell’ex Jugoslavia si appartiene ad una nazionalità non in virtù della lingua, ma in virtù del proprio sentimento d’appartenenza. Così era prima nella Jugoslava socialista e così è rimasto ancora oggi in Croazia. Inoltre è da rilevare che non è contemplato il concetto di minoranza linguistica, come lo è in Italia.

Questo in virtù del fatto che serbi e croati parlano la stessa lingua e precisamente in molti posti, città e villaggi in cui convivono da secoli, parlano anche lo stesso dialetto. La paradossalità del parametro linguistico, si evince benissimo se si tiene presente che serbo e croato si differenziano nella versione parlata dai serbi o quella parlata dai croati, meno di quanto si differenziano i dialetti italiani dal nord al sud. La principale differenza sta nel fatto che i serbi in generale, ma non sempre, usano l’alfabeto cirillico, mentre i croati usano esclusivamente l’alfabeto latino. La stessa lingua, con minime differenze, quasi dialettali-regionali, è parlata in Montenegro e Bosnia ed Erzegovina. A prescindere da questa ovvietà, dal 1991 in Croazia, ma anche in altre repubbliche, è in atto una forte propaganda a favore di una sorta di autarchia linguistica, che lavora per aumentare le diversità dei modi di parlare. Di conseguenza, la stessa denominazione serbo-croato o croato-serbo, è stata demonizzata. Tenendo a mente questo fatto, il censimento del 2011 si presenta ancora più caustico se letto sotto la luce del parametro linguistico poiché: 4.096.306 di persone hanno dichiarato come madre lingua il croato, 3.059 hanno detto di essere di madre lingua croato-serba, 16.856 di essere di madre lingua bosniaca, 876 di essere di quella montenegrina, 52.879 di essere di lingua serba e 7.822 di essere di madre lingua serbo-croata. Insomma, il censimento registra ben 6 modi di denominare la stessa lingua!

Nelle percentuali si ha la seguente situazione: il 95,60% ha dichiarato come propria madre lingua il croato, l’1,2 % serbo e lo 0,07% il croato-serbo. L’ultimo dato è abbastanza paradossale, poiché nel 2001 coloro che dichiararono il croato-serbo come madre lingua erano solo lo 0,05%. In altre parole, la gente che parla croato-serbo aumenta.

Se è da credere al censimento del 1991 (fatto con la guerra quasi in atto), quando i serbi in Croazia risultavano essere il 12,6 %, solo il 4,33% di popolazione complessiva della Croazia dichiarava come madre lingua il serbo, mentre il 6,03% dichiarava il serbo-croato e il 3,49% il croato-serbo.

La maggiore differenza tra le due popolazioni, ed a volte unica, è la religione (in particolare nei luoghi in cui da secoli convivono assieme). I serbi sono ortodossi e i croati cattolici. Dalla differenza religiosa derivano maggiori o minori diversità relative ad usi, costumi e tradizioni. Se si guarda all’ultimo censimento, diventa evidente che il numero degli ortodossi e dei serbi coincide alquanto. Gli ortodossi sono il 4,44 %, mentre i serbi sono il 4,35%. Ammesso, ma non concesso, che la religione per la maggior parte rappresenti la tradizione e la cultura (quasi nel senso Crociano, per cui “tutti siamo cristiani”) e non tanto la fede, cioè l’effettiva devozione religiosa, non si può negare l’esistenza di serbi che si dichiarano atei. Secondo il censimento del 2011, in Croazia ci sono 19.394 serbi atei e agnostici, come pure 16.647 croati ortodossi, ma anche 2.391 serbi cattolici. Per capire quanto è in fin dei conti arbitraria l’autodeterminazione nazionale nei Balcani, poiché non è fondata né sulla lingua né sull’origine etnica (almeno per gli slavi), e non é concepita neppure come cittadinanza, è istruttivo il caso degli ebrei.

Nel 2011 si sono dichiarati cittadini di nazionalità ebraica 509 persone, di cui 14 di religione cattolica, 3 ortodossa, 1 protestante, 3 appartenenti alle altre religioni cristiane, 266 hanno dichiarato di essere di religione ebraica, 2 di appartenere alle religioni orientali, 2 ad altre religioni non meglio classificate, 30 hanno dichiarato di essere agnostici, 147 di essere atei, 39 non hanno dichiarato la loro apparenza religiosa e 2 persone hanno dichiarato convinzioni che sono state classificate come sconosciute. Per avere un quadro completo bisogna, però, aggiungere alle 509 persone di nazionalità ebraica, altre 536 persone che hanno dichiarato di essere di nazionalità croata, ma di fede ebraica.

Insomma, alla domanda quanti sono gli ebrei in Croazia, si può rispondere solo se si precisa cosa s’ intenda per ebreo. In altre parole, se si volesse trarre il parametro d’ebraicità dal censimento, si cadrebbe in circolo vizioso. Paradossalmente, i fatti empirici in questo caso non aiutano.

Escludendo le minoranze nazionali d’origine non slava (italiani, ungheresi, albanesi e romeni o altri ceppi slavi come ucraini, russi e cechi) è veramente difficile capire dove passa la linea di distinzione tra la nazionalità dei serbi, dei croati e dei bosniaci.

Questa difficoltà non deriva solo dal fatto che le nazioni sono comunità immaginarie, e quelle slave del sud anche immaginate, ma anche perché le vicissitudini della storia hanno determinato nei Balcani un altro modo di concepire l’identità nazionale, diverso da quello che si è affermato nell’Europa Occidentale. In realtà, la gente, rispondendo alla domanda a quale religione appartiene, risponde sulla propria origine religiosa piuttosto che in merito alle proprie effettive convinzioni religiose. Infatti, solo se si parla di tradizione religiosa è possibile capire la vera ragione per cui in Croazia l’86,28 % della popolazioni si è dichiarata cattolica.

Le ragioni di una tale importanza del fattore religioso nell’autodeterminazione nazionale vanno cercate nel sistema amministrativo dell’Impero Ottomano. In questo non esisteva la distinzione tra leggi secolari e quelle religiose, e l’Impero suddivideva le popolazioni nei millet in base alla religione. Si trattava di comunità religiose non territoriali, che conservavano il privilegio di amministrare da sole la propria legge.

Come scrive B. Jezernik in Europa Selvaggia “I giaours (infedeli) erano soggetti a seguaci del Profeta, ma […] godevano di una relativa indipendenza e potevano conservare la nazionalità, lingua e usanze proprie. Tali eccezionali circostanze storiche spiegano perché per i cristiani il patriottismo consisteva essenzialmente nell’attaccamento alle proprie comunità religiose” [Torino, 2010, p. 239]. D’altra parte, i turchi erano una casta superiore, e per farne parte bastava abbracciare la religione musulmana. Sempre secondo Jezernik, che riporta le impressioni di viaggiatori occidentali dell’Ottocento nei Balcani, non era raro imbattersi in due fratelli che si dichiaravano di due nazionalità diverse, come pure si potevano trovare quelli che si proclamavano greci, “anche se non parlava una parola di quella lingua” [p. 241]. Gli occidentali ritenevano strano questo modo di “concepire la nazionalità, e si meravigliavano che nei Balcani fosse determinata dall’apparenza religiosa, e non da criteri etno-linguistici” [p. 239]. Per loro era come se si “considerasse irlandese un londinese di religione cattolica romana, o scozzese un presbiteriano che abita a New York, di origini tedesche” [ibidem].

Insomma nei Balcani abbiamo a che fare con un modo molto antico di concepire l’identità nazionale, il quale a priori non porta a seclusione, né è intollerante, che però difficilmente si sposa con i modi di concepire l’identità su cui si basano agli assetti istituzional-politici tipici dell’Occidente. Nella storia possiamo trovare almeno alcuni tentativi di modernizzazione-occidentalizzazione delle diversità nazionali nei Balcani occidentali. Il primo è quello della Jugoslavia regia (1918-41), nella quale si cercava d’imporre l’identità jugoslava a tutti partendo dall’elemento linguistico, a prescindere dalle reali diversità soprattutto economiche e materiali, ma anche storiche.

Il secondo è quello basato sulla pulizia etnica (ispirata al modello nazista), messa in atto dagli ustascia croati e dei cetnici serbi nel periodo 1941-45. Così ad esempio, durante lo Stato fantoccio croato, i serbi della Croazia, oltre ad essere fisicamente eliminati nei campi di sterminio assieme ai rom ed gli ebrei, sono stati pure forzatamente convertiti al cattolicesimo e il terzo rimanente della popolazione serba veniva dichiarato croato di religione ortodossa (in attesa di una assimilazione).

Il terzo tentativo di modernizzazione-risoluzione della questione nazionale era quello socialista, in cui da una parte l’identità nazionale rimaneva concepita in modo tradizionale e si cercava di garantirne lo sviluppo, ma dall’altra si volevano armonizzare le diversità attraverso la partecipazione ad una comune cultura socialista. Quest’ultima era concepita come l’universale all’interno del quale si potevano realizzare le diversità particolari, senza entrare in conflitto, poiché unite da una cultura superiore e universale, appunto dalla cultura internazionalista e socialista. Questa era il vero collante della seconda Jugoslavia.

Fallita la superiore identità comune, fallì anche questo progetto. Le pulizie etniche degli anni Novanta del Novecento in questo senso non sono altro che la brutale prova che la storia non si può cancellare, né ignorare, se non ad altissimi costi, poiché il districarsi degli interessi non avviene quasi mai pacificamente e senza vittime umane. D’altra parte, alcuni politici che erano al potere in Croazia negli anni Novanta, combinando la pulizia etnica al concetto di spostamento delle popolazioni, hanno ottenuto quello che neppure gli ustascia erano riusciti a fare, cioè una Croazia etnicamente omogenea, o quasi.


(Febbraio 2013)


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http://www.veritas.org.rs/savo-strbac-19-12-2012-srbi-po-popisu-stanovnistva-u-hrvatskoj/

SRBI PO POPISU STANOVNIŠTVA U HRVATSKOJ

Savo Štrbac, 19.12.2012.

Konačno su, nakon više od godinu i po dana, objavljeni rezultati popisa stanovništva u Hrvatskojoj u 2011. godini. S obzirom na drastične razlike između predhodna dva popisa, nas krajiške Srbe najviše je interesovao broj naših sunarodnika u ukupnoj populaciji u RH.

Naime, prema podacima Državnog zavoda za statistiku RH (DSZ RH), na  popisu stanovništva u Hrvatskoj iz 1991. godine, od ukupno 4.784.265 stanovnika, Srba je bilo 581.663 (12,2 %) a Jugoslovena 106.041, među kojima je, s čime su saglasni i hrvatski demografi, bilo 60-70% Srba, tako da je broj Srba, i po hrvatskim statističkim podacima, bio veći od 600.000 hiljada. Deset godina kasnije, na popisu stanovništva u RH iz 2001. godine, takođe prema podacima DSZ RH, popisano je 201.631 Srba (4,54 %) i manje od 200 (dvijestotine) Jugoslovena.

Dakle, prema prostoj računici između ta dva popisa za više od 400.000 smanjen je broj Srba u Hrvatskoj. To je rezulatat velikog broja izbjeglih i proganinih, koji su se raspršili po cijelom svijetu, ali i rezultat stradalih u ratu i umrlih u poraću, kao i pohrvaćivanja i pokatoličavanja u toku rata i poraća.

Procjene izbjeglih/prognanih Srba okupljenih oko Veritas-a o broju Srba u novom desetogodišnjem popisu stanovništva su bile veoma pesimistične, a zasnivali smo ih na sljedećim činjenicama:

Srpsko stanovništvo u Hrvatskoj koje je poslije rata 90-tih ostalo ili se vratilo iz izbjeglištva/progonstva, bilo je pretežno staračko, koje je umiralo brže od prosjeka u okruženju, koliko zbog starosti, toliko i zbog životnih (ne)uslova;

Vanjska migracija stanovništva u RH, koju je od 2002. pratio DSZ RH, pokazivao je da se od 2002-2009. (za 2010. podaci tada još nisu bili dostupni) iz Srbije, gdje je utočište našlo više od 300.000 hiljada Srba izbjeglih/proganinih iz RH, u Hrvatsku  doselilo svega 11.218, a iz Hrvatske u Srbiju odselilo 20.683 lica. Iako se ne govori o njihovoj nacionalnosti, podrazumjeva se da su u pitanju skoro isključivo Srbi.

Obeshrabrivalo je i to što je samo u 2002. i 2003. broj doseljnih iz Srbije bio nešto veći od broja odseljenih u Srbiju, a od 2003. konstantno je rastao broj odseljenih u odnosu na broj doseljnih, što je kulminiralo u 2009.,  kada je broj odseljenih u Srbiju iznosio 4.458 u odnosu na 755 doseljenih u obratnom smjeru;

Srbima nije išla u korist ni zakonska odredba po kojoj u ukupan broj stanovništva neće biti uključena lica koja su u RH imali prebivalište, a u kritično vrijeme (31.03.2011.) su bile odsutne duže od jedne godine ili su namjeravale biti odsutne duže od jedne godine, a u RH ne dolaze nedjeljno. Ova odredba je uglavnom pogađala Srbe koji su imali prebivalište (ličnu kartu) a živjeli su van Hrvatske, rasuti po cijelom svijetu,  a nisu bili u mogućnosti da nedjeljno navraćaju u Hrvatsku.

Upravo na osnovu iznesenih podataka i činjenica i procjenjivali smo da će broj  Srba u Hrvatskoj, nakon novog popisa, dostići, ako ne i prestići, plan prvog predsejdnika RH Franje Tuđmana iz ranih 90-tih da će pitanje Srba u RH biti riješeno kada se njihov broj svede na 3%.

Dugo očekivani rezultat glasi: prema popisu stanovništva iz 2011. godine u Hrvatskoj živi 186.633 Srba ili 4,36 odsto, što je za 14.998 manje nego prije deset godina.

S obzirom da su naše procjene bile daleko pesimističnije, ovaj broj me je, iskreno rečeno, iznenadio u pozitivnom smislu i odmah sam počeo tražiti “rezervoare” za toliki broj Srba. Pošto ih očito nije bilo među novim povratnicima, a još manje u natalitetu između dva posljednja popisa, pronašao sam ih u kategoriji “ne izjašnjavaju se”, u kojoj  ih je po popisu iz 2001. bilo 130.985 (2,95 %) a po novom 93.018 (2,17 %). Računao sam da su se “pritajeni” Srbi sa predposljednjeg popisa “ohrabrili” pozivima svoje crkve i srpskih organizacija, koje su ih u prilično agresivnoj kampanji pozivale “da se slobodno i bez straha odazovu predstojećem popisu stanovništva, izjašnjavajući se na njemu kao Srbi pravoslavne vjere“.

I taman kada sam pomislio da smo pogriješili u procjenama o učešću Srba u novom popisu stanovništva u RH, pročitah u “Jutarnjem listu” izjavu neimenovanog sagovornika iz DZS RH da su i “popis i obrada podataka vođeni amaterski” i “da svaki upućeniji stručnjak ima pravo da sumnja u dobijene rezultate”. Tu sumnju mi ovih dana potkrijepi i jedan Srbin, koji sve ove godine živi među povratnicima i bavi se  humanitarnimradom, primjedbom da Srba na terenu nema toliko na koliko ukazuje objavljeni rezultat popisa.

A onda se sjetih da je Hrvatska u decembru prošle godine potpisala Pristupni sporazum sa EU i da je već određen i datum njenog prijema u tu asocijaciju za 1. jul iduće godine pod uslovom da ga do tada ratifikuju svih 27 članica. Do sada je to uradilo 20 članica dok to još nisu učinile Velika Britanija, Francuska, Njemačka, Belgija, Holandija, Danska i Slovenija. Da je Hrvatska i ovakve podatke o učešću Srba u posljednjem popisu stanovništva ranije objavila, a trebala je s obzirom da je popis obavljen u aprilu 2011. godine, možda bi ih i neka članica EU upitala šta bi sa povratkom Srba, u šta je i EU uložila mnogo para.

A da je “pravde i poštenja” trebale bi preostale članice prije ratifikacije i na osnovu objavljenih podataka, bez obzira da li odražavaju stvarno stanje,  pitati Hrvatsku  “gdje se to dedoše toliki Srbi”. Mi Krajišnici upravo to i očekujemo od vodećih evropskih demokratija i “rodonačelnika” EU  kao što su Francuska, Njemačka i Velika Britanija.

 

Beograd, 19.12. 2012.

Savo Štrbac




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