Informazione

(srpskohrvatski / italiano)

L'UE deve riscoprire l'acqua calda

1) A Bruxelles si parlerà “ex-jugoslavo”? (Marjana Stevanović)
2) Intervju: Snježana Kordić. Ćirilica u Vukovaru nije znak dvojezičnosti


I paesi UE hanno fomentato anche i separatismi culturali e linguistici in Jugoslavia, e adesso pagano per la loro miopia pure in termini di tempo e danaro...
Sulla demenziale disputa linguistica serbo-croata, e l'appoggio alla "balcanizzazione" della lingua fornito dai nemici della pace e della fratellanza fra i popoli slavi del sud, si veda la documentazione raccolta alla nostra pagina tematica: https://www.cnj.it/CULTURA/jezik.htm 


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A Bruxelles si parlerà “ex-jugoslavo”?


Tornerà in auge il serbo-croato? C'è chi, in vista dell'ingresso di Croazia, Serbia, Bosnia e Montenegro nell'Unione europea propone un'unica denominazione. Ma non tutti, ovviamente, concordano

(Pubblicato originariamente dal quotidiano Danas il 2 novembre 2012, selezionato da Le Courrier des Balkans e Osservatorio Balcani e Caucaso)

Recentemente il linguista tedesco Michael Schazinger, membro dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, ha proposto di riunire le lingue serbo, croato, bosniaco e montenegrino sotto un'unica denominazione: “lingua ex-jugoslava”...
Non si può ad oggi dare molto credito a questa proposta dato che la sua validità scientifica non sarà dibattuta sino a quando tutti i paesi in cui si parla il serbo-croato non faranno parte dell'Unione europea. Ma, in seno all'UE, esiste una tendenza a raggruppare queste lingue – ad oggi se ne contano 4 – sotto lo stesso nome. Nessuno può sapere se alla fine si continuerà ad utilizzare il termine serbo-croato, come di fatto ancora avviene in numerose università europee, o si passerà all'abbreviazione BCMS (bosniaco-croato-montenegrino-serbo) o se si troverà una terza soluzione.
E' ciononostante interessante sottolineare come in Serbia non vi siano istituzioni che ufficialmente si debbano occupare della propria lingua all'estero o anche sul piano interno.
In Croazia invece il ministero per l'Educazione e lo Sport ha un dipartimento speciale che si occupa delle questioni legate alla lingua, sia sul piano nazionale che internazionale. Quest'ultimo sottolinea come, secondo la costituzione, la lingua ufficiale del paese sia il croato. “Questo significa che tanto in seno alle nostre frontiere che all'estero, l'unico vero nome della nostra lingua è 'Croato'”. I portavoce del ministero dicono inoltre di essere a conoscenza del fatto che un certo numero di facoltà universitarie europee propongono corsi in “serbocroato” o in “croato e lingue apparentate” ma insistono anche sul fatto che esiste anche “un numero elevato di università dove il croato è studiato in modo indipendente”. Il ministero ricorda che la Croazia diverrà l'anno prossimo (2013) il 28mo membro dell'UE e che il croato diverrà la sua 24ma lingua ufficiale, il che “farà perdere ogni legittimità alla messa in discussione del nome della lingua”.
La posizione del ministero dell'Educazione e lo Sport del Montenegro è altrettanto interessante. I suoi rappresentanti hanno rifiutato di commentare asserendo che la questione posta era “troppo politica”.
Al contrario non vi sono istituzioni in Serbia che ufficialmente siano competenti per la preservazione dell'identità nazionale e della conservazione della lingua serba. Il ministero serbo per l'Educazione, per le Scienze e per lo Sviluppo tecnologico ci ha rimandato al ministero della Cultura. Quest'ultimo si è affrettato a rispondere che la lingua e l'alfabeto serbo sono questioni nazionali, ma non di esclusiva competenza del ministero della Cultura. “Secondo la legge sull'utilizzo ufficiale della lingua e dell'alfabeto è ai ministeri che si occupano di amministrazione pubblica, trasporti, sviluppo urbano, educazione, cultura e sanità che spetta il compito di generare la regolamentazione in merito alla lingua. Nel nostro paese sono le istituzioni scientifiche ed educative che si occupano delle questioni legate alla lingua e quindi spetterà a loro prendere posizione su questioni linguistiche”, si dichiara al ministero.
Sul piano scientifico, la questione è limpida. Si tratta di un'unica lingua, il serbo-croato, che si è divisa in quattro sotto la pressione del contesto politico. Il professor Sreto Tanasić, direttore dell'Istituto per la lingua serba, ricorda che l'Occidente ha incoraggiato il separatismo linguistico, anche se quest'ultimo non aveva alcuna base scientifica.
Sarebbero stati gli occidentali a permettere la creazione del bosniaco, del serbo, del croato per calmare gli appetiti balcanici. “Attualmente si rendono conto che questo ha per loro dei costi, che implica una pletora di interpreti, che implica che ciascuna lingua venga tradotta in tre, a volte quattro altre lingue e tutto questo non ha alcun senso”, spiega il professore Tanasić. Quest'ultimo aggiunge anche che molte università insegnano il “serbo-croato” ma che vi sono anche università dove esistono corsi separati, uno per il serbo e l'altro per il croato, come ad esempio a San Pietroburgo dove la diplomazia croata ha effettuato un'operazione di lobby efficace.
L'accademico Ivan Klajn ritiene che “serbo-croato” è la sola denominazione scientificamente valida. “Il termine serbo-croato è stato creato dal filologo tedesco Jacob Grimm nel 1824 e da allora è utilizzato dagli slavisti del mondo intero. Le lingue “bosniaco”, “bosgnacco” o “montenegrino” non hanno alcuna giustificazione scientifica, come non lo ha il fatto che ciascun popolo debba necessariamente avere il diritto a chiamare la lingua che parla servendosi del nome della propria nazionalità, idea che è facilmente confutabile ricordando che non esistono le lingue “austriaco, belga, messicano, argentino, statunitense o brasiliano. Le abbreviazioni tipo BCMS e l'idea di una lingua ex-jugoslava non sono che dei tentativi politici che servono solo a circumnavigare il problema. Ai tempi della Jugoslavia nessuno chiamava il serbo-croato “jugoslavo” e quindi non ha alcun senso aggiungervi un prefisso ex”, sottolinea Klajn.
Tenuto conto dell'approccio inflessibile della Croazia, che non riconosce che la denominazione “lingua croata” ed essendo un dato di fatto che quest'ultima sarà la prima ad entrare nell'Unione europea si deve temere che la diplomazia croata riesca a cancellare ogni riferimento alla lingua serba? Il professor Tanasić stima che dal punto di vista storico e culturale il serbo ha un ruolo importante nella regione e che quindi “è poco probabile che questa lingua sparisca dalle università europee”.
Attualmente è in vigore in Serbia un'unica legge che regolamenta l'utilizzo ufficiale della lingua e degli alfabeti, che per molti versi rimane sulla carta e la cui applicazione o meno dipende spesso da specifiche pressioni e fini politici. Ma questa legge non affronta le questioni relative alla nostra lingua in seno all'UE o la salvaguardia di quest'ultima sul piano regionale. Queste questioni dipendono esclusivamente dal piano politico.
“Purtroppo negli ultimi 15 anni, dopo che il compianto Pavle Ivić ha creato il Comitato di standardizzazione della lingua serba non si è mai definito con quali istituzioni statali quest'organo dovesse comunicare. All'inizio collaboravamo con il ministero della Cultura ma questo solo perché il segretario del Comitato, il linguista Branislav Brborić, era anche sottosegretario alla Cultura, Né il governo, né il parlamento, né il ministero hanno mai dimostrato il minimo interesse per le questioni relative alla politica linguistica”, afferma Ivan Klajn, uno dei membri del Comitato per la standardizzazione della lingua serba.


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Intervju: Snježana Kordić, lingvistkinja


Ćirilica u Vukovaru nije znak dvojezičnosti


Sva četiri nacionalizma predočavaju svoju priču da su im drugi ukrali jezik. Međutim, jezik nije predmet pa da se može ukrasti. Nitko nema ekskluzivno vlasništvo nad jezikom, nego jezik pripada svakome tko ga govori, kaže u razgovoru za eNovine hrvatska lingvistkinja Snježana Kordić, komentarišući između ostalog ponovljene političke dileme o višejezičnosti među govornicima unutar srpskohrvatskog dijasistema u Sandžaku, Slavoniji i drugim etnički mešovitim regijama na Balkanu


* Razgovor možemo započeti aktuelnom temom o kojoj bruje svi mediji. Naime, kao što je u nekim opštinama u Hrvatskoj uvedena dvojezičnost jer tamo više od trećine stanovništva govori manjinski jezik mađarski, tako sada hrvatska Vlada podupire da se i u Vukovaru uvede dvojezičnost jer se tamo na popisu stanovništva trećina stanovnika izjasnila da je srpske nacionalnosti. Ima li osnove za takvu paralelu?


Zalaganje Vlade da se u Vukovaru primijeni isti postupak kao u općinama s mađarskim protivno je Evropskoj povelji o regionalnim ili manjinskim jezicima, koju je potpisala i Hrvatska. U Povelji, naime, jasno piše da izraz "regionalni ili manjinski jezici" obuhvaća one jezike koji se razlikuju od službenog jezika dotične države i da ne obuhvaća dijalekte službenog jezika. Ne obuhvaća dijalekte zbog njihove nedovoljne razlike prema službenom jeziku. A jezik Srba se ne bi mogao klasificirati čak ni kao drugi dijalekt jer je sve to štokavica. Pa i hrvatski jezikoslovci priznaju da se od standardnog jezika u Hrvatskoj više razlikuju dijalekti kajkavski i čakavski, nego standardni jezik u Srbiji. To je i logično jer standardni jezik i u Hrvatskoj i u Srbiji je iz istog dijalekta - štokavice. Kratko rečeno, Hrvati i Srbi govore zajedničkim jezikom, dok Hrvati i Mađari govore međusobno stranim jezicima. Zato jezik Mađara može u Hrvatskoj biti manjinski jezik, a jezik Srba ne može.


* Izgleda da naši političari misle da ako postoji neka nacija, to automatski znači da mora da govori nekim drugim jezikom. Kako onda postoji austrijska nacija kad ona govori varijantu jezika kojim govore još dve nacije u susednim zemljama? Takvih slučajeva ima mnoštvo u svetu.


Da, to bi značilo da su naši političari vrlo neobrazovani ljudi jer njihova shvaćanja nacije su zaostala na pogledima iz 19. stoljeća. U 19. stoljeću je to bio dominantan pogled na naciju, zastupao ga je i Karl Marx. Ali od sredine 20. stoljeća je to potpuno napušteno jer je činjenica da niz nacija postoji, a imaju zajednički jezik s nekom drugom nacijom u drugoj državi. Različita nacionalna pripadnost ne znači automatski strani jezik, kako priželjkuju nacionalistički ekstremisti. Teofil Pančić je izvrsno pokazao da baš "vrućekrvni hrvatski domoljubi" imaju razloga za zadovoljstvo ovakvim zalaganjem političara za navodnu dvojezičnost u Vukovaru jer time se podržava "omiljeni desno-nacionalistički fantazam o hrvatskom i srpskom kao dva zasebna jezika".


* U Srbiji se koristi i latinica i ćirilica. A u Vukovaru bi ćirilica bila ta koja bi prezentirala Srbe dodavanjem u javne natpise. I onda se još ćirilica predstavlja kao dokaz da se radi o različitim jezicima.


Po izjavama političara ispalo bi da različito pismo znači da se radi o različitim jezicima. Ali to nije točno. Na primjer, ako tekst na ruskom jeziku prebacimo s ćirilice na latinicu, on i dalje ostaje na ruskom jeziku. Uostalom, kad bi pismo značilo drugi jezik, onda bi Srbi unutar Srbije bili dvojezični jer pišu i latinicom i ćirilicom.


* Svako čak i ako ne zna dobro engleski jezik odmah prepozna kad gleda film da li se u njemu govori američka ili britanska varijanta. Znači, razlike unutar jednog jezika su najnormalnija stvar. Vi pokazujete da se u lingvistici takav jezik naziva policentričan?


Svi veći evropski jezici su policentrični, a razlike među njihovim varijantama su veće nego u našem slučaju.


* Kakva su iskustva drugih policentričnih jezika? Postoje li neka zajednička regulativna tela?


Kako gdje i kako kad. Mogu postojati, ne moraju postojati. Evo na primjer slučaj Austrije i Njemačke. U 20. stoljeću su više puta prolazili i kroz fazu suradnje i kroz fazu nesuradnje. Međutim, postojanje ili nepostojanje zajedničkih regulativnih tijela, odnosno dogovaranja i suradnje, ništa ne utječe na činjenicu da je cijelo vrijeme to bio jedan policentrični jezik.


* U vašem kapitalnom delu Jezik i nacionalizam ubedljivo dokazujete da je jezik kojim razgovaramo isti jezik. Zašto je tako očiglednu činjenicu uopšte potrebno dokazivati?


Zato što su se ljudi pomalo izgubili u toj silnoj magli koju im već nekoliko desetljeća proizvode političari, mediji i raznorazni profesori.


* Unazad dve decenije naziv srpskohrvatski jezik je izbačen iz upotrebe, ali govorni jezik nije promenjen. No, imamo pojavu ne samo u Vukovaru, nego na primer i na Sandžaku i u Bosni i Hercegovini da decu u školama razdvajaju po nacionalnoj osnovi jer navodno govore različitim jezicima. Vi pokazujete da strani lingvisti to nazivaju jezičkim aparthejdom. Kakva je uloga forsiranja različitih naziva jezika u ovim slučajevima?


Nacionalistima je stalo da dobiju u ruke djecu da bi im usađivali svoj pogled na stvarnost. Zato su prognali zajedničko ime tog jezika da bi na osnovi različitih imena tvrdili da se radi o različitim jezicima i tako opravdali nužnost razdvajanja djece.


* Od ovdašnjih nacionalista možemo čuti da su drugi govornici zajedničkog jezika ukrali Srbima jezik. Ovakvu vrstu diskursa sebi dozvoljavaju čak i neki od lingvista, književnika i akademika. Čuju li se slične teze u Hrvatskoj i kako to komentirate? Može li neko nekome ukrasti jezik?


Sva četiri nacionalizma predočavaju svoju priču da su im drugi ukrali jezik. Međutim, jezik nije predmet pa da se može ukrasti. Nitko nema ekskluzivno vlasništvo nad jezikom, nego jezik pripada svakome tko ga govori. Ne postoji licenca ili autorska prava na jezik. Neko stanje iz prošlosti ne daje nikome za pravo da određuje ime jezika i njegov navodno neiskvaren oblik naspram navodno iskvarenog oblika tog jezika kod nekih drugih. Ovo važi za sve jezike u svijetu.


* Danas su neke reči, takozvani "srbizmi" u Hrvatskoj i "hrvatizmi" u Srbiji, žigosane kao nepoželjne. Dešavalo mi se da neke od reči koje koristim ne prođu u članak, pod obrazloženjem da to nije srpski jezik već hrvatski, ili obratno. Koliko je ovo lingvistički opravdano?


To uopće nije lingvistički opravdano. To je ograničavanje slobode korištenja jezika.


* Imate li neki predlog, šta mogu učiniti oni kojima je stalo do zajedničkog jezika? Mogu li bar književnici postići neki dogovor, osnovati neko zajedničko jezičko telo ili učiniti bilo što?


Razni kvalitetni pisci već i sada surađuju, i to će sigurno nastaviti još više jer je besmisleno zatvarati oči pred korisnom činjenicom da je jezik veći nego što sadašnje službene politike prikazuju. A loši pisci ne vole se izlagati konkurenciji, i bolje prolaze u užim nacionalnim književnim granicama. Inače, zadnjih godinu-dvije su mnogi hrvatski pisci, novinari i drugi intelektualci javno rekli da se radi o jednom zajedničkom jeziku, na primjer Predrag Matvejević, Miljenko Jergović, Oliver Frljić, Dubravka Ugrešić, Slobodan Šnajder, Igor Mandić, Vuk Perišić, Nikola Petković, jezgrena trojka Feralaca i mnogi, mnogi drugi. Tako doprinose da postaje najnormalnija stvar reći da je to isti jezik, i da se tome opušteno pristupa, bez političkih primisli. Jednostavno, jezik se ne podudara s državom i nacijom, i nikom ništa.






A proposito del paradossale conferimento del Premio Nobel per la Pace alla Unione Europea rimandiamo anche ai nostri post recenti:
Na dodjelu Nobelove nagrade Europskoj Uniji - http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/7517

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Le texte originelle:
Annie Lacroix-Riz, historienne, éclaire l’absurdité du Prix Nobel de la paix attribué à l’UE
http://www.michelcollon.info/Une-historienne-eclaire-l.html?lang=fr

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http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custcn12-012050.htm

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 12-12-12 - n. 433

Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Uno storico spiega l'assurdità del Nobel per la pace all'UE
 
Intervista a Annie Lacroix-Riz pubblicata sul mensile Bastille-République-Nations, 29/10/2012
 
06/12/2012
 
Annie Lacroix-Riz, è docente emerito di Storia contemporanea presso l'Università di Parigi VII - Denis Diderot. Autrice di numerosi libri, ha studiato soprattutto le origini e i promotori della Comunità europea (cfr. in particolare: L'intégration européenne de la France : la tutelle de l'Allemagne et des États-Unis, Paris, Le Temps des Cerises, 2007). Quando la giuria del Nobel per la Pace ha annunciato il 12 ottobre la sua scelta di premiare quest'anno l'Unione europea, BRN ha voluto raccogliere la sua reazione e il suo commento.
 
BRN - L'Unione europea ha ricevuto il Nobel per la pace di quest'anno. Qual è stata la sua prima reazione all'annuncio della giuria di Oslo?
 
ALR - Tutto subito la notizia poteva essere scambiata per una bufala. Ma nel nostro mondo dell'assurdo, è un'onorificenza in linea con le scelte della giuria del Nobel dell'ultimo periodo. Questa decisione non si può dire che non sia ridicola: sia per la politica attuale che per le origini della UE.
 
BRN - Una politica che lei giudica bellicista...
 
ALR - Per ora, la UE interpreta il ruolo del soldatino della Nato, come ha fatto fin dalla sua nascita. L'Unione europea in quanto tale e molti dei suoi stati membri sono implicati in quasi tutte le guerre "periferiche" degli ultimi venti anni.
 
BRN - Tuttavia, in quanto storico, lei insiste sulle origini tutt'altro che pacifiche della UE. Potrebbe chiarire questa analisi?
 
ALR - Gli archivi, fonti per eccellenza della ricerca storica, svelano le vere origini e obiettivi della UE, escludendo l'idea di una "deriva" recente, tanto strombazzata.
 
BRN - Lei parla, in particolare, della dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, spesso citata come l'atto fondante dell'"avventura europea"...
 
ALR - Sì, le circostanze specifiche in cui fu adottata, meritano un esame. Il giorno dopo, il 10 maggio 1950 quindi, doveva svolgersi a Londra una riunione molto importante della neonata Organizzazione dell'Alleanza atlantica, NATO, a sua volta fondata un anno prima. All'ordine del giorno il via libera ufficiale al riarmo della Repubblica Federale Tedesca (RFT), che Washington chiedeva a gran voce da due anni (1948). Le strutture e il personale della Wehrmacht erano stati mantenuti in varie associazioni di facciata. Ma quattro anni dopo la sconfitta del nazismo, il semaforo verde al riarmo era quasi impossibile da far digerire alle popolazioni, in particolare in Francia. La creazione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA), annunciata dal ministro francese degli affari esteri Robert Schuman, aveva permesso di eludere o ritardare l'annuncio ufficiale richiesto dai funzionari degli Stati Uniti, del riarmo in corso.
 
BRN - Che cosa motivava questa strategia degli Stati Uniti?
 
ALR - Nel mese di marzo 1947, nel suo famoso "discorso al Congresso", il presidente Truman chiedeva prestiti per salvare la Grecia e la Turchia sotto l'ineluttabile "attacco" dell'URSS (il cui nome non veniva pronunciato). In questo modo, aveva inizio il grande accerchiamento politico-militare dell'URSS. In realtà, Washington si preparava per un futuro confronto con questo paese, già tra il 1942 e il 1945, epoca in cui era un alleato militare imprescindibile per sconfiggere la Germania. Una tessera fondamentale di questo confronto era la creazione di un'Europa occidentale integrata.
 
BRN - Sono quindi i leader americani che hanno spinto per l'integrazione europea?
 
ALR - Sì. Washington intendeva imporre un'Europa unita sotto il controllo della Repubblica federale di Germania, paese in cui le strutture capitalistiche erano più concentrate, più moderne, più vincolate agli Stati Uniti (che avevano investito miliardi di dollari tra le due guerre) e più integre (l'80% del potenziale industriale era intatto nel 1945). Questa Europa sarebbe stata priva di barriere alle esportazioni di merci e capitali statunitensi: le ragioni dei dirigenti d'oltre oceano non erano solo geopolitiche, ma anche economiche.
 
BRN - E i paesi europei?
 
ALR - Gli Stati Uniti, hanno pressato gli alleati dell'Europa Occidentale, non molto entusiasti di unirsi così rapidamente con il nemico di ieri. Hanno usato spietatamente l'arma finanziaria, condizionando l'accesso ai crediti del "Piano Marshall" alla formazione di una "entità" europea integrata, requisito formulato chiaramente nel discorso di Harvard del 5 giugno 1947.
 
BRN - Ma qual era lo stato d'animo dei leader della Germania occidentale?
 
ALR - Dal 1945 al 1948, prima ancora dell'istituzione formale della RFT, si sono posti senza tregua come "i migliori alunni della classe, in Europa", secondo una strategia ben calcolata: ogni progresso nell'integrazione europea equivaleva a un offuscamento progressivo della sconfitta e costituiva un segno della ripresa del potere perduto. Anche resuscitando il tema della "parità dei diritti" del dopoguerra precedente.
 
BRN - Un'affermazione audace...
 
ALR - Era l'analisi dei diplomatici francesi di allora, posta, in generale, da prima della guerra e chiarisce quello chi era percepito come un pericolo, come dimostrano le loro note e gli avvisi informali. Perché, ufficialmente, il discorso era quello di salutare il luminoso orizzonte europeo.
 
BRN - Può spiegare questo "offuscamento progressivo della sconfitta" previsto dalle élite di Bonn?
 
ALR - Hanno ottenuto rapidamente l'abbandono delle limitazioni alla produzione imposte dagli accordi di Yalta e Potsdam: nei fatti, dal 1945 nelle zone occidentali e sul piano del diritto dal lancio del Piano Marshall nell'estate del 1947. I dirigenti della Germania dell'Ovest hanno fatto proprio il discorso di Gustav Stresemann (Ministro degli Esteri dal 1923-1929) tra le due guerre mondiali e del Sindaco di Colonia Adenauer: gli "accordi di Locarno" (1925) garantivano - sulla carta - i confini occidentali della Germania (non quelli orientali), motivando nel 1926 l'attribuzione a Stresemann e al suo collega francese Briand... del Nobel per la pace. Berlino ha intonato il ritornello del riavvicinamento europeo con l'esplicita condizione della parità di diritti ("Gleichberechtigung"). Vale a dire l'abbandono delle clausole territoriali e militari del Trattato di Versailles con il recupero dei territori perduti nel 1918 (e l'Anschluss inteso come "europeo" dall'Austria) e la revoca del divieto sulle industrie di guerra.
 
BRN - Possiamo quindi tracciare un parallelo con la Germania dell'Ovest dopo la Seconda Guerra Mondiale?
 
ALR - Il diplomatico francese Armand Berard scrive a Schuman nel febbraio 1952 che Konrad Adenauer (il primo cancelliere della Germania dell'Ovest, 1949-1963) potrà, in base alla "forza superiore (messa...) a disposizione" dagli americani contro l'URSS, costringere quest'ultima "a una soluzione in cui abbandoni i territori dell'Europa centrale e orientale che attualmente domina" (RDT e Austria incluse). Anticipazione straordinaria di quello che sarebbe stato realizzato quasi quattro decenni più tardi...
 
BRN - Riassumendo, l'Unione europea è stata quindi lanciata per volere americano e fortemente voluto dai dirigenti della Germania occidentale per i loro propri scopi...
 
ALR - Sì, cosa che ci allontana anni luce dalle storie romantiche sui "padri dell'Europa" ispirati dal "mai più" e impegnati esclusivamente nella costruzione di uno "spazio di pace", che i giudici del Nobel hanno ritenuto opportuno onorare. A questo proposito, si deve tener conto di altri protagonisti, in ruoli determinanti nell'integrazione europea.
 
BRN - Il Vaticano?
 
ALR - Si ricorda poco il suo ruolo geopolitico nella "costruzione europea" del XX secolo, ma, dopo la seconda guerra mondiale, i leader americani ne hanno, ancor più che dopo la prima guerra, considerato l'importanza cruciale. Inoltre occorre ricordare che dopo la fine del XIX secolo e più che mai dopo la prima guerra mondiale con Benedetto XV (Papa dal 1914 al 1922), il rapporto tra Reich e Vaticano ha plasmato il continente (Est compreso), come ho dimostrato nel libro Le Vatican, l'Europe et le Reich. Il tutto con l'approvazione degli Stati Uniti, a meno che le rivalità (economiche) tedesco-americane diventassero troppo forti. Infatti, le relazioni del trio si complicano quando gli interessi dei dirigenti d'oltre-Atlantico e al di là del Reno, divergono oltre misura. In questo caso, la preferenza del Vaticano va sempre alla Germania. La tensione massima è stata raggiunta durante le due guerre mondiali.
 
BRN - In particolare, Lei descrive un'Europa voluta da Washington e Bonn (poi Berlino). Ma queste due potenze non hanno necessariamente interessi coincidenti...
 
ALR - Assolutamente. E queste contraddizioni, evidenti nelle guerre dei Balcani del 1992-1999 (Michel Collon ne ha scritto nel suo libro del 1997, Le grand échiquier), si intensificano con l'aggravarsi della crisi. Ulteriore motivo per dubitare degli effetti "pacifici" dell'integrazione europea.
 
BRN - Ciò viene promosso anche da leader di altri paesi, come la Francia.
 
ALR - François Bloch-Lainé, alto funzionario delle Finanze diventato grande banchiere, fustigò nel 1976 la grande borghesia sempre pronta a "sfruttare le disgrazie della patria". Dal Congresso di Vienna (1815) al Collaborazionismo, passando da Versailles, si alleava con il cancelliere prussiano Bismarck contro la Comune, dal modello tedesco prima della guerra al modello americano del dopoguerra, questa classe dirigente cerca all'estero un "scudo socio-politico" contro il suo popolo.
 
BRN - Sarebbe anche una funzione dell'Unione europea?
 
ALR - Essenziale e per natura. Nell'attuazione della CECA nel 1954, un alto funzionario francese si felicitava che l'"Europa" avesse finalmente permesso al ministero delle Finanze di abolire le sovvenzioni che contenevano il prezzo dei beni di prima necessità. L'esatta citazione merita di essere ricordata: "La differenza fondamentale sta nel fatto che la politica europea poggia sull'alibi dell'esistenza di un corpo sovranazionale contrapposto agli interessi particolari, quando la politica tradizionale vuole attraverso i suoi governi porre a tali interessi l'indispensabile disciplina. Questo è stato possibile solo perché il ministro era in grado di scaricare la colpa su un organismo sovranazionale che gode di un certo grado di indipendenza dal governo". Quasi 60 anni dopo, l'Europa offre l'"alibi" delle sue istituzioni "indipendenti" - come la Banca centrale europea - per sottrarre le decisioni di ciascuna frazione nazionale del grande capitale al controllo e all'ira del suo popolo. Rimarchevole continuità che non incoraggia l'ottimismo circa la garanzia di pace "europea"...




Macchine da guerra

1) Intervista a Socorro Gomes, presidente del Consiglio Mondiale della Pace
2) Il posizionamento dell’Italia (Manlio Dinucci)


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La Nato è la macchina da guerra delle potenze mondiali

di Vanessa Silva

da www.vermelho.org.br | Traduzione di Erman Dovis per Marx21.it
8 Gennaio 2013 


Vermelho (portale web del PCdoB) incontra Socorro Gomes, presidente del Consiglio Mondiale della Pace

Dopo due decadi di dittature sanguinose, il processo di seconda indipendenza, di sovranità e di mantenimento della pace dell’America Latina, ha acquisito molta importanza ed è divenuto oggetto di contesa e strenua difesa da parte dei presidenti progressisti del Continente.

Intorno a questo tema cruciale si è svolta in Argentina la Conferenza Internazionale della Pace, del disarmo e dell’alternativa globale alla Nato. 

Secondo Socorro Gomes, presidente del Consiglio Mondiale della Pace, oggi proprio la Nato è la più grande minaccia alla pace mondiale. L’evento, svoltosi dal 12 al 15 dicembre scorsi, si è tenuto significativamente in un luogo emblematico per l’Argentina e tutto il Sudamerica: all’Esma, la Scuola Superiore di Meccanica del Corpo della Marina, di Buenos Aires.
Durante il feroce regime dei militari in Argentina (1976-1983) fu centro clandestino di detenzione e tortura, mentre oggi è divenuto luogo di ricordo, un museo per la memoria dei crimini della dittatura dei generali. Si stima che solo all’Esma giunsero cinquemila persone sequestrate, che successivamente vennero fatte sparire. 

Sotto la direzione della Rete internazionale contro la guerra- No alla Nato, del Circolo latino-americano per gli studi internazionali (Messico) e dell’Assemblea permanente per i diritti umani APDH (Argentina), la Conferenza ha visto la partecipazione di rappresentanti della società civile di America Latina, Europa e Nord America. Tra i presenti è doveroso segnalare l’attivista per i diritti umani e Premio Nobel per la Pace Adolfo Perez Esquivel, la giornalista e scrittrice argentina Stella Calloni, la presidente del Movimento per la pace, sovranità e solidarietà coi popoli (MOPASOL) Rina Bertaccini, la brasiliana Socorro Gomes, presidente del Consiglio Mondiale della Pace (CMP) e del Centro brasiliano di solidarietà con i popoli e lotta per la pace (Cebrapaz).

Nell'intervista che segue, concessa al Portale Vermelho, Socorro parla dell’importanza di questa conferenza, e quali siano le minacce che oggi la Nato alimenta nel mondo ed in tutto il Sudamerica.

Nato: “La Nato è la più grande minaccia alla pace mondiale. Fin da quando è stata istituita, e pur caratterizzandosi come organizzazione di difesa, essa si è in realtà sviluppata come strumento di aggressione contro popoli e nazioni, specialmente del blocco socialista, e per fermare l’avanzata della lotta dei lavoratori. Oggi, la sua connotazione sono i crimini perpetrati contro le nazioni ed i loro popoli, contro le sovranità nazionali. Fanno parte di questo schema il genocidio e la distruzione della ex Jugoslavia, e con le stesse dinamiche, gli attacchi contro l’Afghanistan, la Libia e purtroppo oggi la Siria. La Nato non è però un’organizzazione autonoma, ma una macchina da guerra al servizio degli Stati Uniti d’America e delle potenze europee, le cui attività criminali si sviluppano oggi in tutto il mondo. Spesso cercano tra l’altro una legittimazione delle loro scorribande all’interno delle Nazioni Unite (ONU) attraverso la presentazione di false questioni riguardanti l’ambiente, la cibernetica, problemi etnici e di accesso alle fonti di energia.”

America Latina: “Il capitolo riguardante l’America Latina è molto serio e delicato perché qui ci sono i nostri paesi vicini. Da quando la Francia è rientrata nella Nato ( ve ne era uscita nel 1966) le basi militari francesi si sono convertite in basi dell’alleanza atlantica: esistono quindi basi nella Guyana francese, che confina col Brasile. Si possono considerare della Nato anche le postazioni britanniche situate nelle isole Falkland, che appartengono all’Argentina. Tutto ciò rappresenta una minaccia molto grave, dal momento che l’imperialismo è tecnicamente molto preparato e minaccioso, ed utilizza anche sistemi come il terrorismo di Stato, una pratica sistematica degli Stati Uniti, che se ne servono per ricattare i popoli. 

In una fase cruciale come quella odierna, segnata dalla violenta crisi capitalistica, gli Usa insieme all’Europa, intendono riprendersi il nostro Continente, procedere ad una Restaurazione cancellando le nostre conquiste sociali, dominando i mercati, le fonti di risorse naturali ed i flussi delle materie prime. Vogliono controllare i continenti, gli oceani, lo spazio.”

Nuovi colpi di Stato: “Si registrano oggi vari interventi dell’Impero in America Latina. Utilizzando parlamenti reazionari, gli Stati Uniti ribaltano, come nel caso del Paraguay, esperienze di governo progressiste. Attraverso il controllo dei Media e della comunicazione, imbastiscono vere e proprie campagne propagandistiche di demonizzazione, come fu nel caso dell’ex presidente libico Gheddafi, e dell’ex presidente dell’Iraq Saddam Hussein. Spesso stimolano e fomentano conflitti etnici e sociali, allo scopo di eliminare i diritti dei lavoratori. Il ricorso all’uso dei mercenari è ampiamente diffuso e documentato, allo scopo di provocare questo tipo di conflitti e generare situazioni di caos che destabilizzano governi, come sta accadendo in questo momento in Siria.

Questa situazione, unita al controllo dei Media, crea un clima tale da legittimare un intervento esterno da parte delle potenze che vogliono distruggere e ridisegnare il Medio Oriente, per controllare la regione del Nord-Africa attraverso il Comando degli Stati Uniti per l’Africa (Africom) , al fine di rafforzare il loro dominio sulle regioni geostrategiche.”

Compattezza dell’America Latina: “In America Latina c’è stato il tentativo di assassinare il presidente venezuelano Chavez, e quello di secessione della Bolivia, sotto la direzione delle potenti oligarchie economiche delle regioni a nord est del paese, denominate forze della Mezzaluna. Qui stiamo dunque lottando per studiare nuovi strumenti di unità e integrazione di tutto il Sud-America. Le vittorie del Continente sono fondamentali per la resistenza al processo di restaurazione neo-coloniale, vittorie come quella che abbiamo ottenuto quando il progetto dell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe) è stato sconfitto dai governi progressisti dell’America Latina. La creazione stessa della Celac (comunità degli stati latinoamericani e caraibici) è un grande passo avanti, perché in precedenza l’unica organizzazione multilaterale era stata la OEA (Organizzazione degli Stati Americani), di fatto un insediamento coloniale degli Usa, che mirava alla frammentazione, stabilendo chi poteva o non poteva partecipare a questo organismo, e tutto era finalizzato ad isolare Cuba. Adesso invece la Celac ospita tutti i paesi americani ad eccezione di Usa e Canada, ed è un grande cambiamento riguardo l’assetto geopolitico del Continente, perché cambia i rapporti di forza, fa avanzare i nostri processi di sovranità e indipendenza, rafforza il processo di progresso e giustizia.

Gli Stati Uniti non si arrenderanno, e infatti stanno cercando disperatamente di ritornare al periodo storico in cui eravamo considerati come il loro cortile di casa. Ma quel passato è stato sepolto, non esiste più.

Oggi c’è un’altra America Latina.

Vi è chiaramente una contraddizione tra queste due tendenze in lotta: una è una tendenza di indipendenza, di unità, integrazione e solidarietà. L’altra invece cerca, attraverso Paraguay, Cile, Colombia e Panama, di restaurare l’egemonia statunitense, ostacolare ed impedire il progresso. E’ un processo di lotta costante.”


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il manifesto 2013.01.08

« L’ARTE DELLA GUERRA » 
RUBRICA - MANLIO DINUCCI

Il posizionamento dell’Italia

Finalmente una buona notizia: l’Italia ha rafforzato il suo posizionamento in tutti i quadranti fondamentali dello scacchiere globale, dal Medio Oriente all’Asia. Lo annuncia Monti nella sua agenda, precisando che ciò è reso possibile dalla presenza delle forze armate italiane nelle operazioni di pace nel mondo e da uno strumento diplomatico di eccellenza.

L’Italia può dunque andare «a testa alta nel mondo». Monti non dorme però sugli allori e si propone, presiedendo un nuovo governo, di fare di più e di meglio: anzitutto rinsaldare fortemente il legame transatlantico con gli Stati uniti.

Allo stesso tempo, forte della sua collocazione geografica al centro del Mediterraneo, l’Italia deve guardare con più coraggio e con una visione strategica ai grandi cambiamenti della primavera araba e sostenere i percorsi di vera democratizzazione. Il programma di governo è dunque tracciato. In esso, spiega Monti, svolge un ruolo rilevante l’azione sul fronte internazionale, poiché il destino di ogni paese non si decide più nei suoi confini ma è strettamente intrecciato a quello del sistema di relazioni globali in cui è inserito.

È chiaro quale dovrà essere il «destino» dell’Italia: legarsi ancora più strettamente al carro da guerra degli Stati uniti, mettendo il nostro territorio ancor più a disposizione dei comandi e delle forze armate statunitensi, e partecipando, sotto comando Usa, a nuove guerre di aggressione con la motivazione ufficiale (ripetuta nell’agenda) del «contrasto al terrorismo internazionale».

Riguardo al sostegno che l’Italia dovrà dare, ancor più di oggi, ai «percorsi di vera democratizzazione» in Nordafrica e Medio Oriente, basta ricordare il ruolo che essa ha svolto nella guerra contro la Libia e quello che sta svolgendo, nel quadro della Nato, per far crollare la Siria con forze comandate, armate e infiltrate dall’esterno. E la strategia Usa/Nato prepara altre guerre, man mano che il suo centro focale si sposta verso est per contrastare la Cina e la Russia.

Assumendo crescenti compiti nel quadro di tale strategia, l’Italia potrà realizzare anche l’altro obiettivo enunciato nell’agenda, quello di rafforzare la sua posizione dentro l’Unione europea. Una «unione» nella quale le maggiori potenze gareggiano per avere più peso militare. A cominciare dalla Germania il cui dispiegamento di forze militari all’estero – ha dichiarato Angela Merkel agli inizi del 2013 – «coprirà presto l’’intero globo», la cui industria è al terzo posto mondiale (dopo quelle di Usa e Russia) nell’esportazione di armamenti, i cui missili Patriot vengono schierati (insieme a 400 militari tedeschi) in Turchia per imporre di fatto la no fly zone alla Siria.

Tutto ciò richiede un’alta spesa militare, pagata dai cittadini europei attraverso i tagli alle spese sociali. Non sono però questi che il gruppo Pd alla camera ha criticato l’11 dicembre, ma il fatto che «l’efficienza dello strumento militare del nostro paese è stata messa a repentaglio dai tagli irresponsabili operati dal precedente esecutivo» (dal governo Berlusconi). Il Pd ha quindi approvato la scelta del governo Monti di «riqualificare» la spesa militare, «al fine di restituire efficienza e funzionalità alle forze militari». L’Italia è posizionata proprio bene.





PER MERITI DI GUERRA

Marco Pannella senatore a vita.

(Pannella che ha indossato la divisa ustascia, Pannella che definì via Rasella come "un atto di terrorismo", Pannella che si espresse a favore di Kappler in fuga, Pannella che ha appoggiato tutte le guerre della NATO.)

Lo ha chiesto Fausto Bertinotti in una lettera al Presidente Giorgio Napolitano. Perché Pannella incarna appieno il tradimento dei valori della Costituzione repubblicana.

Italo Slavo