Informazione


(srpskohrvatski / italiano)

Ricorrevano pochi giorni fa gli anniversari della I Seduta (Bihac 1942) e della II Seduta (Jajce 1943) dell'AVNOJ (Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia), cioè in pratica della nascita della Jugoslavia federativa e socialista. In tali occasioni si sono svolti raduni e manifestazioni che, ancor più che in passato, hanno registrato una partecipazione rilevante (quasi 3000 persone convenute con i pullman a Jajce), segno di un allargamento della base di massa delle posizioni jugoslaviste esplicite. Se a tali manifestazioni pubbliche aggiungiamo altri segnali inequivocabili - come i numerosi libri e servizi giornalistici; il fiorire di associazioni, gruppi e partiti jugoslavisti anche in aree in cui fino a pochissimi anni fa si rischiava letteralmente la vita a dichiararsi tali; o l' "esplosione" di blog e siti internet sull'argomento (il solo gruppo Facebook "SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia" registra oggi 138.647 iscritti!) - appare evidente come la direzione del vento sia cambiata dopo gli anni neri (in tutti i sensi) della guerra fratricida per procura imperialista.

Meglio di tutti esprime tale rinnovata atmosfera l'articolo, che riproduciamo più sotto nella traduzione di Jasna Tkalec, sulla apertura a Belgrado della mostra "La Jugoslavia dall'inizio alla fine". (a cura di IS)


=== LINK:

U BIHAĆU

Video: 70. GODIŠNJICA. PROSLAVA, I. ZASEDANJE AVNOJA U BIHAĆU.
http://www.youtube.com/watch?v=-GKbiM7fF3w

Evento FB
http://www.facebook.com/events/290701491039495/

U JAJCU

U Jajcu centralno obilježavanje godišnjice Drugog zasjedanja AVNOJ-a
http://www.klix.ba/vijesti/bih/u-jajcu-centralno-obiljezavanje-godisnjice-drugog-zasjedanja-avnoj-a/121124101
http://www.radiosarajevo.ba/novost/95494/
http://www.novosti.rs/vesti/planeta.300.html:407331-Pocinju-dani-AVNOJ-a-u-Jajcu

Video
http://www.youtube.com/watch?v=4lAVvxm5ZLw
http://www.youtube.com/watch?v=XJaudFV9QuA
http://www.youtube.com/watch?v=jP2Jk75CJRc

Foto in FB
http://www.facebook.com/media/set/?set=a.10151325191903834.523917.36436743833&type=1

DRUSTVA I SAJTOVI

Udruženje "Naša Jugoslavija"
http://www.nasa-jugoslavija.org

SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia
http://www.facebook.com/pages/SFR-Jugoslavija-SFR-Yugoslavia/36436743833

Liga Antifašista Jugoistočne Evrope
http://www.titoslavija.org/


=== 

(ovaj clanak na srpskohrvatskom: Iskra u oku
http://www.vreme.com/cms/view.php?id=1085468 )


Fonte: http://www.vreme.com/cms/view.php?id=1085468

VREME 1143, 29. Novembre 2012. / CULTURA 

Ancora una volta sulla Jugoslavia

La scintilla nell'occhio


Nel museo della Storia jugoslava il primo dicembre, giorno del compleanno della prima Jugoslavia, si è aperta l'esposizione «La Jugoslavia dall'inizio alla fine». In quella settimana cadeva pure il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, il compleanno e la festa della seconda Jugoslavia. Ai nostri tempi si tenta di raccontare la Jugoslavia spogliata da ogni contenuto politico. Ma nella politica sta la chiave, la politica detiene una dimensione cruciale nell'idea jugoslava e nel progetto jugoslavo. La Jugoslavia non fu fatta a causa della sua cinematografia, né a causa della sua musica, né a causa del suo calcio: essa fu fatta per ragioni politiche. Diventare soggetto (politico), essere liberi, essere un fattore (politico), non essere una colonia, non essere ridotti a pura risorsa, non essere occupati: per queste ragioni si formò la Jugoslavia. Tutto il resto è venuto dopo.


Poche sono nella lingua le analogie tanto stupide quanto quella fra lo Stato e il matrimonio. Eppure qua, dalle nostre parti, questa analogia è diventata molto frequente, e quindi spesso si sente dire che la Cecoslovacchia ha avuto un divorzio pacifico e civile, mentre la Jugoslavia si è disgregata come si disgregano certi matrimoni poco tranquilli e poco civili, quando marito e moglie rompono posate e piatti, e anzi tirano fuori i coltelli. Allora nella forma giuridica si dice che marito e moglie si dividono a causa di «differenze inconciliabili». E davvero, in tali situazioni, «gli sposi» fino a poco tempo prima, generalmente mostrano pareri assolutamente discordanti a proposito di ogni cosa, a parte una unica proverbiale eccezione: non sanno in nessun modo, caro mio, perché in quella occasione avessero deciso di sposarsi...

A questo punto questa stupida analogia potrebbe far comodo; mentre nelle opinioni pubbliche dei vari statarelli postjugoslavi e nella loro provvisorietà esistono diverse, anche contrapposte, narrazioni dominanti – per usare questo termine che va di moda - che cercano di spiegare perché ci siamo divisi, le teorie dominanti sul perché ci eravamo messi insieme sono assai più conciliabili.


Errore e profitto

Nella Serbia è adesso molto popolare la tesi che considera la Jugoslavia come un tragico errore del popolo serbo. Questa, ad esempio, è la vera ossessione delle opere mature dello scrittore Dobrica Ćosić, e da lui questa visione è stata (ri)presa da una turba numerosa di (pseudo)storici e giornalisti. Questa idea ha sommerso la vita pubblica ed è diventata riconoscibile anche in luoghi dove non è coscientemente radicata in forma di concetto, ma viene scimmiottata con efficacia, visto che rispecchia lo spirito dei tempi. Essa è presente come retroscena politico nel film Montevideo, Bog te video (Montevideo, che ti veda Iddio). Dell’idea jugoslava come storia di un fatale errore si parla in modo esplicito nel libro “Il cerchio culturale serbo 1900-1918” di Petar Pijanović, nel quale l’idea jugoslava di Cvijić e di Sekulić è descritta come un utopismo nocivo. Era sbagliato verso la fine e dopo la Prima guerra mondiale costruire la Jugoslavia, afferma questa tesi, riassunta in modo più breve possibile. Bisognava costruire uno Stato serbo come Stato nazionale, su di un territorio più piccolo della Jugoslavia, ma quanto più grande possibile. Quello che per i serbi rappresenta un fatale errore, per i croati – seguendo la medesima logica - diventa un evidente profitto. I serbi si sarebbero precipitati tutti, sulle ali del destino e dell’entusiasmo, a fare la Jugoslavia, mentre i croati ne hanno tratto un profitto evidente. In questo sono d’accordo sia Dobrica Ćosić che Darko Hudelist, e la visione completa in questi giorni è sintetizzata da Inoslav Bešker, nella polemica con la famigerata frase di Stjepan Radić che rammenta «le oche nella nebbia». I rappresentanti croati nel 1918 non sono stati come oche credulone, dice Bešker, ma si sono preoccupati piuttosto di «minimizzare il danno”. Nel caso che non ci fosse stata la Jugoslavia, la Croazia sarebbe stata divisa fra i suoi aggressivi vicini dell’Occidente e dell’Oriente (Italia e Serbia). Ai croati sarebbe rimasto un paese-tampone, piccolo, piccolo, là, nel bel mezzo fra i due (non è senza interesse il fatto che ai tempi della disgregazione jugoslava Tudjman avrebbe voluto destinare il medesimo ruolo alla Bosnia-Erzegovina). In una simile concezione, la Jugoslavia ci ricorda quel mitico congelatore nel quale sarebbe stato congelato Walt Disney in attesa che si trovi un antidoto alla morte. Ai croati - ma opinioni simili si sentono anche in Slovenia - la Jugoslavia sarebbe servita unicamente come tappa per conseguire l’indipendenza, lungamente desiderata, da conquistare quando le condizioni fossero maturate. Dai montenegrini sentirete più di una volta che la Jugoslavia avrebbe cancellato il loro Stato, il più antico Stato e con la continuità statale più lunga nei Balcani, mentre i musulmani bosniaci vi diranno che essa li illuse con lo slogan della fratellanza e unità, e cosi li avrebbe predisposti allo sterminio e al genocidio. Probabilmente anche i macedoni avrebbero più di un rimprovero, ma per momento non me ne viene in mente nessuno...


Avvoltoi. Banditori. Urlatori.

Bene: per non peccare con l'anima, ammetto che in tutti quei paesetti ex-jugoslavi e anche nelle loro forme provvisorie, come pure nella cosiddetta “diaspora”, esistono piccoli mondi organizzati, che non si scaldano in modo tanto folcloristico per i propri Stati (nazionali). In verità, quegli Stati non gli fanno schifo, ciononostante si appoggiano molto di più a certe fondazioni ed organizzazioni internazionali, e vivono saltellando da un aereo all’altro, da una conferenza internazionale all’altra (conference-hop-ping come direbbero i colleghi della BBC), al contempo versando un mare di lacrime a causa di tutte le ingiustizie e per via di tutti i diseredati e gli emarginati. Anche questi non trovano parole lusinghiere per la Jugoslavia. Essa, per loro, come dice un adagio che ripetono spesso negli ultimi tempi, “avrebbe trovato la propria fine nelle fosse comuni e nei campi di concentramento”. Costoro sono amanti della giustizia e sono naturalmente di sinistra: si occupano e si preoccupano delle questioni mondiali. Il loro atteggiamento verso la Jugoslavia è perfettamente palese in un testo (peraltro schifoso) di Aleksandar Dragoš, critico musicale, che descrive il gruppo musicale Šarlo Akrobata confrontandolo con un altro gruppo musicale chiamato EKV. Citiamo quest'enfatica idiozia: "In breve, Šarlo sta a EKV come i principi del socialismo stanno alla Jugoslavia. Per i primi vale la pena di lottare ancora, mentre la seconda rappresenta il passato, che sarebbe meglio lasciare in pace." Questi tifosi dei principi del socialismo si mettono però in prima fila quando si fa la propaganda per “confrontarsi con il passato.” Affermano il loro impegno è di non permettere che si dimentichino le vittime. Nel caso che non avessimo voglia di passare per bugiardi, questi non sono altro che avvoltoi. Nella settimana in cui sono nate entrambe le Jugoslavie, in cui cade il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, e la prima seduta dell’AVNOJ, nonché il 1 Dicembre, giorno in cui fu proclamata la prima Jugoslavia, bisogna leggere le poesie di Miloš Crnjanski e precisamente il poemetto che egli dedicò alla Jugoslavia. Questa poesia è stata scritta nel 1918 a Zagabria ed inizia con questi versi che tutti conoscono:

Nessun bicchiere che si vuota

nessun tricolore che viene proposto

non è il nostro...

In questa poesia si trovano i versi sui "terribili fratelli, di ciglia folte e canzoni tristi". Il verso chiave è il penultimo:

Ma di celebrazione che vino beve

di feste e chiese, cosa vuol che c’ importi?

Le lacrime dall’occhio cadranno fra breve

Mentre il tamburo urla in vece dei morti.”

Ahimè, quanta poesia in questi tamburi e banditori che urlano - peraltro scritta da Crnjanski, il meno turco fra i nostri grandi scrittori! Il banditore, che urla a suon di tamburo, secondo la spiegazione del dizionario, è colui a cui spetta il compito di rendere note cioè di pubblicare le comunicazioni del potere. Gli urlatori - i banditori del nuovo ordine mondiale, impiegati leali e assai ben pagati, e quei banditori che gridano al suon di tamburo di regola lo sono - urlano dunque il suo racconto, la sua narrazione sulla Jugoslavia; la urlano per conto dei morti e, come affermano loro, per i morti. Visto che i vivi, almeno alcuni, possiedono l’abitudine scomoda ad avere memoria, a ricordare, la narrazione dei banditori - urlatori sulla Jugoslavia - è ambivalente. Ecco, dicono i banditori-urlatori, si viveva bene (i principi del socialismo!), ci davano gli alloggi gratis, non si pagava l’istruzione e nemmeno si pagavano le cure mediche, andavamo tutti al mare, Vegeta [prodotto del periodo jugoslavo] era un ingrediente ottimo nella cucina, Zdravko Čolić era un ottimo cantante, Rade Šerbedžija era un ottimo attore... ma tutto ciò è finito nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. La sostanza di quella narrazione è chiara: il racconto sulla Jugoslavia deve essere privato di ogni contenuto politico. 

Visto che nella politica sta la chiave, la politica (nel vero senso della parola, non volgarizzata e ridotta alle chiacchiere nei bar, trasformata in intrighi quotidiani e macchinazioni) rimane la dimensione cruciale dell’idea jugoslava e del progetto jugoslavo. Non si è costruita la Jugoslavia a causa della cinematografia, o a causa della musica leggera o a causa del calcio, essa si è costituita per ragioni politiche. Essere un soggetto, essere liberi, essere un fattore (politico), non diventare una colonia, non essere trattati come pura risorsa, non essere occupati - per tutte queste ragioni si è costruita la Jugoslavia. Tutto il resto arrivò, come si dice, come utile collaterale. E la Jugoslavia non fu fatta da calcolatori, da chi soppesava che cosa sarebbe stato meglio e realisticamente più fattibile nel momento dato, da quelli che possedevano soluzioni di riserva, gente carrierista e pragmatica: fu fatta da uomini liberi, che credevano nella poesia e nei sogni.


La stella sulla fronte

Esiste una consuetudine antica nei funerali ebraici, un’abitudine che Boris Davidovič Novski, in un colloquio breve con il suo mentore spirituale Isaak Ilič Rabinovič, aveva riassunto cosi: “Nel momento in cui si preparano a portare il morto fuori dalla Sinagoga per trasportarlo al cimitero, allora un servitore di Gèova si china sul defunto, lo chiama per nome e gli dice ad alta voce: Sappi che sei morto!” Questa consuetudine ha attecchito anche per quanto riguarda la Jugoslavia, ed ha attecchito anche molto bene. Non c’è da meravigliarsi. La gente da noi è molto amante delle consuetudini - esiste anche il proverbio: Meglio distruggere un villaggio intero che una consuetudine. E nel nome della mostra che apre il 1 dicembre nel Museo della storia jugoslava si evidenziano le briciole di quel proverbio, visto che porta il nome “La Jugoslavia dall’inizio fino alla fine”. Il defunto si nomina, lo si chiama per nome e gli si dice: Jugoslavia, è vero, hai avuto un inizio e dunque hai una fine, il che sarebbe una variante di: Sappi che sei morto. Le consuetudini nei funerali esistono e si praticano per i vivi, non per i morti. E questa consuetudine esiste per convincere i vivi che il defunto è morto per davvero. Nel caso jugoslavo, questa consuetudine è perversa al massimo, visto che tutte le varietà di traditori nostrani nonché i fattori stranieri hanno speso un colossale sacco di soldi e di esplosivo per elidere quel nome dalla vita e dalla realtà, per svuotarlo da ogni contenuto, per farlo diventare privo di ogni significato, vuoto come una buccia di noce svuotata. Eppure, a lungo termine, tutto questo non servirà a nulla. Come si dice: è possibile ingannare tutta la gente per un certo tempo, ma non è possibile ingannare tutta la gente per tutto il tempo. Verrà il tempo della verità. La verità è che la Jugoslavia non è finita nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. In queste fosse comuni e in questi campi di concentramento hanno avuto inizio i suoi Statarelli-eredi, con le loro entità, con i loro territori provvisori o occupati, sia negli anni Quaranta che negli anni Novanta del secolo scorso.

La Jugoslavia nacque dalla stella sulla fronte e dalla scintilla nell’occhio, dalla piaga del defunto poeta Tin Ujević, dalla tomba fra gli uliveti del poeta Ljubomir Milanović “che passò la maturità a Smederevo", dallo sparo epocale di Gavrilo Princip, autore di versi che anche cento anni dopo restano il migliore commento possibile a proposito della morte della Jugoslavia: Chi vuole vivere, che muoia! Chi vuole morire, che viva!


Muharem Bazdulj


(trad. JT, rev. AM)




QUELLI CHE BIASIMANO LA VIOLENZA... DEGLI ALTRI

Dato che ho inviato questa lettera al quotidiano locale e non è stata pubblicata, ho deciso di diffonderla per altri canali...
Claudia

----- Messaggio inoltrato -----
Da: Claudia Cernigoi
A: piccolo <segreteria.redazione@...>; piccolo ufficio centrale <ufficio.centrale@...>; Piccolo <cronaca@...> 
Inviato: Sabato 24 Novembre 2012 14:36
Oggetto: lettera 

Ci ha colpito la lettera intitolata “Manifestare è un diritto sacro ma non con molotov e mazze”, firmata Paolo Pocecco e pubblicata nelle “Segnalazioni” del “Piccolo” il 24/11/12.
Pocecco “premette” di essere stato “parecchi anni fa” comandante di plotone in un battaglione mobile di carabinieri e di avere operato in servizio di ordine pubblico ritrovandosi spesso coperto di sputi da parte dei manifestanti ai quali, afferma “un calcione negli stinchi non glielo avrebbe evitato nessuno” se fosse stata ordinata una carica.
Dopo questa interessante variante della legge del taglione in materia di ordine pubblico (dente per dente diventa calcio per sputo, inescalation), Pocecco prosegue con altri argomenti, alcuni peraltro condivisibili, sul come e con quali finalità si vada in piazza, e, dopo avere deprecato il fatto che ci si trovi a “strapparsi le vesti” sul fatto che “uno di questi violenti e facinorosi s’è beccato una manganellata sui denti” invece di solidarizzare con chi ha “impedito la devastazione di un ministero”, conclude con un “consiglio”: “quando vedete tafferugli allontanatevi il più celermente possibile”.
Ringraziamo per questo consiglio l’ingegner Pocecco, che conoscevamo come dirigente della ripartizione edilizia del Comune di Trieste, ma che sappiamo essere anche esperto di questioni di ordine pubblico. Ciò che gli vorremmo invece chiedere, è, in base a questa lettera, perché ritenga deprecabile la violenza dei “facinorosi” che vanno in piazza a creare scontri mentre è per lui motivo di orgoglio avere fatto parte dell’organizzazione Gladio, con la quale (citiamo da un’intervista rilasciata da Pocecco al giornalista Silvio Maranzana e pubblicata sul “Piccolo” del 16/1/10) aveva organizzato “sbarco con gommoni alla Costa dei barbari e collocamento di esplosivi nella galleria ferroviaria di Santa Croce con commando francesi, accompagnamento di commando belgi in incursioni notturne sul Molo Settimo e nel cantiere di Monfalcone”. Ma l’intervento di Pocecco ci sembra ancora più interessante se ricordiamo che la Gladio aveva messo in atto l’esercitazione Delfino nella primavera del 1966 a Trieste, esercitazione così descritta nel 1992 dal giornalista Antonio Garzotto (ferito nel 1977 da un commando del Fronte comunista combattente, quindi non suscettibile di simpatie filocomuniste): “agenti della Gladio avrebbero dovuto infiltrarsi sia nelle file e nelle manifestazioni del Pci, ma pure nelle frange della sinistra estrema per provocare "azioni violente, moti di piazza, uccisioni". Fare, insomma, "insorgenza", in modo tale da sollecitare una forte reazione, la "controinsorgenza", e legittimare un intervento di "stabilizzazione del potere" da parte dell'Autorità di Governo”.

Claudia Cernigoi
Trieste




“Più Europa” uguale meno democrazia


di Mauricio Miguel | da “Avante”, settimanale del Partito Comunista Portoghese

Traduzione a cura di Marx21.it

La crisi viene utilizzata dal potere politico per scatenare un brutale attacco alla democrazia politica, inseparabile dal tentativo di imporre una battuta d'arresto nei diritti e nelle conquiste sociali dei lavoratori e dei popoli.

Con l'accentuazione del processo di concentrazione e centralizzazione del capitale nell'UE, le grandi potenze e i monopoli capitalisti che lo controllano tentano di distruggere le sovranità nazionali e quello che dovrebbe essere un regime democratico, per instaurare un regime autoritario. Le misure, azioni, tentativi e progetti che pretenderebbero di “salvare” l'euro e l'UE mirano a trasferire il potere politico degli organi di sovranità nazionale alle cosiddette “istituzioni europee”, svuotandone le competenze, esautorando i popoli dall'esercizio del potere, limitando e anche impedendo la loro partecipazione nei processi politici, per imporre sempre di più una politica contraria ai loro interessi e aspirazioni.
La sottomissione e la tutela degli stati nazionali da parte del potere politico – di cui il patto di aggressione delle troike nazionale e straniera è solo un esempio – mirano alla distruzione dei meccanismi di controllo dell'esercizio del potere politico che la lotta dei lavoratori e dei popoli ha conquistato in ogni paese alle borghesie nazionali.

Si tende a impedire la partecipazione diretta dei popoli nei processi politici e li si priva in modo crescente dei meccanismi di controllo del potere politico – persino con la distruzione dei meccanismi esistenti –, per assicurare la propria impunità.

Si vuole imporre modelli politico-istituzionali “funzionali” basati sulla sottrazione delle sovranità nazionali e sulle inevitabilità politiche, economiche e sociali, mai confermate, discusse e chiarite, ma, al contrario, smentite dalla realtà e dalle contraddizioni insanabili che sono proprie alla natura del capitalismo.

Vogliono imporre un modello unico che emargini o elimini le opposizioni, non attraverso la brutalità degli “stivali chiodati” del passato dominio fascista, ma attraverso l'egemonia ideologica che sta creando strumenti politici – come la stessa UE – per assicurare il dominio di classe.

In questo senso va il rafforzamento del potere delle grandi potenze nel Consiglio Europeo, nel Parlamento Europeo e nella Commissione Europea. O la sottrazione della politica monetaria a favore della Banca Centrale Europea e della sua falsa indipendenza – senza mandato né controllo democratici. O il tentativo di imporre le proprie priorità nei bilanci di ogni paese, sottraendo tale competenza ai parlamenti nazionali, imponendo in forma diretta i propri interessi di classe. E anche il tentativo di togliere prerogative al potere locale democratico, ridurre il numero dei municipi e delle province, limitare la loro capacità di iniziativa, con lo strangolamento delle loro finanze. E anche la limitazione del diritto di sciopero, di azione e organizzazione dei lavoratori nelle imprese.

Un effettivo regime di libertà, democrazia e partecipazione politica e sociale è inseparabile dall'esistenza di condizioni materiali e culturali per il loro esercizio e dall'uguaglianza di diritti, doveri e opportunità. L'impoverimento e lo sfruttamento crescente dei lavoratori e degli altri ceti popolari, le limitazioni all'esercizio di diritti fondamentali nei settori della sicurezza sociale, della salute, dell'educazione, dell'abitazione, della cultura si ripercuotono nella perdita di libertà fondamentali, in limitazioni alla partecipazione e all'attività politiche e alla libertà del popolo di poter decidere sul proprio destino. Sa bene questo potere politico che l'esautorazione e la limitazione della partecipazione nell'esercizio del potere è condizione per perpetuare questa politica e prolungare lo sfruttamento.

Nell'agire in questo modo, cercando di distruggere le sovranità nazionali e i regimi democratici, mette in causa la sua legittimità. Il potere politico emergente nell'UE si scontra ancora di più con gli interessi e le aspirazioni delle classi popolari. Spetta ai lavoratori e al popolo sconfiggere questa politica e restituire la legittimità a chi effettivamente la possiede.

Le conquiste di domani saranno difficili, ma sono possibili e necessarie. Non conquisteremo nulla senza molto sudore, lacrime e sangue. Ci incoraggia essere dalla parte giusta della barricata della lotta di classe: a fianco della classe operaia e di tutti i lavoratori. Ci incoraggia il sentimento patriottico e la difesa degli interessi e delle aspirazioni del nostro popolo. Ci incoraggia voler farla finita con lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, senza la cui eliminazione non sarà possibile una società veramente democratica.




[ Cet article en langue française: 
Thierry Meyssan : « Des terroristes syriens ont été formés par l’UCK au Kosovo »
Thierry Meyssan répond aux questions du news magazine serbe Geopolitika. Il revient sur son interprétation du 11-Septembre, sur les événements en Syrie, et sur la situation actuelle de la Serbie...

Ovaj članak na cirilicom:
ТЈЕРИ МЕЈСАН, АУТОР КЊИГЕ „ВЕЛИ КАЛАЖ“, О 11. СЕПТЕМБРУ, ОСНИВАЧ И АНАЛИТИЧАР МРЕЖЕ „ВОЛТЕР“, ГОВОРИ ЗА ГЕОПОЛИТИКУ
Слободан Ерић - ГЕОПОЛИТИКА децембар 2012.


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ENTREVISTA CON LA REVISTA SERBIA GEOPOLITIKA


Thierry Meyssan: «Terroristas sirios fueron entrenados por el UCK en Kosovo»


Al responder a las preguntas de la publicación informativa serbia Geopolitika, Thierry Meyssan pasa en revista su interpretación de los hechos del 11 de septiembre de 2001, los acontecimientos en Siria y la actual situación en Serbia.

RED VOLTAIRE | BELGRADO (SERBIA)  | 4 DE DICIEMBRE DE 2012


GeopolitikaSeñor Meyssan, usted se hizo mundialmente célebre cuando publicó el libro La Gran Impostura que pone en duda la versión oficial de las autoridades estadounidenses sobre los atentados terroristas del 11 de septiembre de 2001. Su libro estimuló a otros intelectuales a expresar sus propias dudas sobre aquellos trágicos acontecimientos. ¿Pudiera usted explicar brevemente a nuestros lectores lo que realmente sucedió aquel 11 de septiembre? ¿Qué fue lo que realmente impactó o explotó en la sede del Pentágono? ¿Fue un avión u otra cosa? ¿Qué pasó con los aviones que chocaron contra las Torres Gemelas? Sobre todo, ¿qué pasó con el tercer edificio, cercano a esas torres? ¿Cuál es el contexto más profundo de esos atentados, que tuvieron repercusiones mundiales y que tanto han modificado el mundo?
Thierry Meyssan: Es sorprendente que la prensa mundial haya adoptado la versión oficial, de un lado porque esa versión es absurda y, por otro lado, porque esa versión deja sin explicación una parte de los hechos.
La idea de que un fanático, desde una cueva en Afganistán, y una veintena de individuos armados con cortapapeles hayan podido destruir el World Trade Centery asestar un golpe al Pentágono sin que el ejército más poderoso del mundo lograse evitarlo no es ni siquiera digna de un comic. Pero mientras más grotesca es la historia menos preguntan los periodistas occidentales.
Por otro lado, la versión oficial no menciona la especulación bursátil sobre las compañías víctimas de los atentados, ni el incendio del anexo de la Casa Blanca, ni el derrumbe de un tercer rascacielos del World Trade Center, hecho que se produjo al mediodía. Todos esos hechos ni siquiera se mencionan en el informe final de la investigación presidencial.
Además, nunca se habla de lo único importante entre todo lo que sucedió aquel día. Después del atentado delWorld Trace Center, el plan de continuidad del gobierno fue activado ilegalmente. Existe un procedimiento, aplicable en caso de guerra nuclear. Si se comprueba la aniquilación de las autoridades civiles, el mando pasa a un gobierno militar alternativo. Hacia las 10h30, ese plan fue activado a pesar de que las autoridades civiles se mantenían en capacidad de ejercer sus responsabilidades. El poder pasó a los militares, que no lo restituyeron a los civiles hasta las 16h30. Durante todo ese tiempo, se activaron comandos que fueron a buscar a casi todos los miembros del Congreso y del gobierno para ponerlos a buen recaudo en refugios antiatómicos. Hubo, por lo tanto, un golpe de Estado militar que duró varias horas, justo el tiempo necesario para que los golpistas impusieran su propia línea política: estado de urgencia interno e imperialismo global en el exterior.
El 13 de septiembre se presentó al Senado la Patriot Act, que no es una ley sino un amplio Código antiterrorista redactado en secreto a lo largo de los 2 o 3 años anteriores. El 15 de septiembre, el presidente Bush dio su aval al plan de la «matriz mundial», que instituye un amplio sistema de secuestros, de prisiones secretas, de torturas y asesinatos. En ese misma reunión [Bush] dio también su aval a un plan que preveía ataques sucesivos contra Afganistán, Irak, el Líbano, Libia, Siria, Somalia, Sudán e Irán. Como puede verse, ya se ha concretado la mitad de ese programa.
Aquellos atentados, aquel golpe de Estado y los posteriores crímenes fueron organizados por algo que podemos llamar el Estado profundo (en el mismo sentido en que se usa esa expresión para describir el poder militar secreto en Turquía o en Argelia). Todos esos acontecimientos fueron planeados por un grupo muy cerrado: los straussianos, o sea los discípulos del filósofo Leo Strauss.
Se trata de los mismos individuos que, en 1995, empujaron el Congreso estadounidense hacia el rearme y que organizaron el desmembramiento de Yugoslavia. Tenemos que recordar, por ejemplo, que Alija Izetbegovic tuvo como consejero político a Richard Perle, como consejero militar a Osama Ben Laden y como consejero mediático a Bernard-Henri Lévy.
GeopolitikaEl libro que usted escribió y la actitud antiamericana que usted ha expresado libremente a través de su red independiente Voltaire le valieron una serie de problemas que usted tuvo personalmente con la administración del ex presidente francés Nicolas Sarkozy. ¿Pudiera hablarnos un poco más sobre esto? En el artículo que usted escribió sobre el señor Sarkozy, titulado «Operación Sarkozy: Cómo la CIA puso a uno de sus agentes en la presidencia de la República Francesa», usted publicó información muy delicada, que nos recuerda las obras de suspense político-criminales.
Thierry Meyssan: Yo no soy antiamericano. Soy antiimperialista y pienso que el pueblo de Estados Unidos también es víctima de la política de sus propios dirigentes.
En cuanto a Nicolas Sarkozy, yo revelé que fue educado durante su adolescencia, en Nueva York, por el embajador [estadounidense] Frank Wisner Jr. Ese personaje es uno de los cuadros más importantes de la CIA, que a su vez fue fundada por su padre Frank Wisner Sr. El resultado es que la carrera de Nicolas Sarkozy estuvo completamente determinada por la CIA. Así que nada tiene de sorprendente que, ya convertido en presidente de la República Francesa, Sarkozy haya defendido los intereses de Washington en vez de defender los intereses de los franceses.
Los serbios conocen muy bien a Frank Wisner Jr. Fue él quien organizó la independencia unilateral de Kosovo, como representante especial del presidente de Estados Unidos.
Yo expliqué todo eso detalladamente en una intervención en el Eurasian Media Forum (en Kazajstán) y me pidieron que desarrollara ese tema en un artículo paraOdnako (publicación rusa). Y resultó que, por pura casualidad, el artículo se publicó durante la guerra de Georgia, en el momento en que Sarkozy visitaba Moscú. El primer ministro Vladimir Putin puso la publicación encima de la mesa, antes de comenzar la conversación con él. Por supuesto que eso no mejoró mis relaciones con Sarkozy.
GeopolitikaSeñor Meyssan, ¿cuál es la situación actual en Siria, la situación en el frente y la situación en la sociedad siria? ¿Están cerca de alcanzar su objetivo Arabia Saudita y Qatar, así como los países occidentales que quieren derrocar por la fuerza el sistema político del presidente Bachar al-Assad?
Thierry Meyssan: De los 23 millones de sirios, alrededor de 2 millones o 2 millones y medio apoyan a los grupos armados que están tratando de desestabilizar el país y de debilitar su ejército. Estos han tomado el control de algunas aglomeraciones y de amplias zonas rurales. Pero es imposible que esos grupos armados logren derrocar el régimen.
El plan occidental inicial preveía que las acciones terroristas engendraran un ciclo de provocación/represión que justificaría una intervención internacional, siguiendo el modelo del terrorismo del UCK [Ejército de Liberación de Kosovo. NdT] y de la represión ulterior de Slobodan Milosevic, a los que siguió la intervención de la OTAN. Hay que señalar de paso que está comprobado que grupos combatientes en Siria recibieron entrenamiento como terroristas de parte de miembros del UCK y en territorio de Kosovo.
Ese plan fracasó porque la Rusia de Vladimir Putin no es la Boris Yeltsin. Moscú y Pekín prohibieron la intervención de la OTAN y la situación se mantiene sin resolver.
Geopolitika¿Qué pretenden obtener Estados Unidos, Francia, Gran Bretaña, Arabia Saudita y Qatar con el derrocamiento del presidente al-Assad?
Thierry Meyssan: Cada uno de los Estados miembros de la coalición tiene sus propios intereses en esa guerra y cree poder satisfacerlos, cuando en realidad son intereses que se contradicen entre sí.
En el plano político existe la voluntad de romper el «Eje de la Resistencia contra el sionismo» (Irán-Irak-Siria-Hezbollah-Palestina). También existe la voluntad de proseguir el «rediseño del Medio Oriente Ampliado».
Pero lo más importante es el factor económico. Se han descubierto inmensas reservas de gas natural en el sudeste del Mediterráneo. El centro de ese yacimiento está cerca de Homs, en Siria (más exactamente en Qara).
Geopolitika¿Podría usted hablarnos un poco más sobre la rebelión de al-Qaeda en Siria, movimiento cuyas relaciones con Estados Unidos parecen contradictorias a la vista de sus acciones en el terreno? Usted dijo en una entrevista que las relaciones entre Abdelhakim Belhadj y la OTAN estaban prácticamente institucionalizadas. En realidad, ¿para quién hace la guerra al-Qaeda?
Thierry Meyssan: Al principio, al-Qaeda no era más que el nombre de una base de datos, del fichero informático donde figuraban los muyahidín árabes enviados a luchar contra los soviéticos en Afganistán. Por extensión, se dio el nombre de al-Qaeda al medio yihadista en el que se reclutaba a aquellos mercenarios. Después, se designó como al-Qaeda a los combatientes agrupados alrededor de Ben Laden y, por extensión, a todos los grupos del mundo que dicen inspirarse en la ideología de Ben Laden.
Según el momento y las necesidades, esa nebulosa se hizo más o menos numerosa. Durante la primera guerra de Afganistán, la guerra de Bosnia y las guerras de Chechenia estos mercenarios eran considerados «combatientes de la libertad», porque luchaban contra los eslavos. Posteriormente, durante la segunda de Afganistán y la invasión de Irak, fueron considerados «terroristas» porque atacaban a los soldados estadounidenses. Desde la muerte oficial de Ben Laden, se han convertido nuevamente en «combatientes de la libertad», en las guerras contra Libia y contra Siria, porque ahora luchan del lado de la OTAN.
La realidad es que esos mercenarios siempre estuvieron bajo el control de los Sudairis, la facción proestadounidense y archireaccionaria de la familia real de Arabia Saudita, específicamente bajo el control del príncipe Bandar Ben Sultán. Este último, a quien George Bush padre presentó siempre como su «hijo adoptivo» –o sea, como el hijo varón inteligente que le habría gustado tener– actuó siempre por cuenta de la CIA. Incluso en la época en que al-Qaeda luchaba contra los soldados estadounidenses, en Afganistán y en Irak, lo hacía en interés de Estados Unidos en la medida en que aquello permitía justificar la presencia militar estadounidense.
En los últimos años los libios se han hecho mayoritarios en al-Qaeda, así que la OTAN los utilizó para derrocar el régimen de Moummar el-Kadhafi. Cuando lograron derribarlo, nombraron gobernador militar de Trípoli al número 2 de la organización, Abdelhakim Belhaj, a pesar de que la justicia española reclama su captura debido a su presunta responsabilidad en los atentados de Madrid. Posteriormente lo enviaron a Siria, junto con sus hombres. Para trasladarlos [a Siria], la CIA utilizó los medios del Alto Comisariado para los Refugiados, gracias a Ian Martin, el representante especial de Ban ki-Moon [el secretario general de la ONU] en Libia. Los supuestos refugiados fueron trasladados a varios campamentos en Turquía que sirvieron como bases de retaguardia para atacar Siria y a los que no han podido tener acceso los parlamentarios turcos ni la prensa.
Ian Martin es otro conocido de los lectores deGeopolitika. Fue secretario general de Amnistía Internacional y después fue representante del Alto Comisario para los Derechos Humanos en Bosnia-Herzegovina.
GeopolitikaSiria se ha convertido en teatro no sólo de una guerra civil sino también de una guerra mediática y de manipulaciones. Como testigo directo, como alguien que está en el lugar de los hechos, queremos preguntarle a usted ¿qué sucedió verdaderamente en Homs y en Hula?
Thierry Meyssan: Yo no soy testigo directo de lo pasó en Hula. Pero fui tercera parte de confianza en las negociaciones entre las autoridades sirias y las autoridades francesas durante el asedio del Emirato Islámico de Baba Amro. Los yihadistas se habían atrincherado en ese barrio de Homs, de donde expulsaron a los infieles (los cristianos) y a los herejes (los chiitas). En realidad, sólo unas 40 familias sunnitas se habían quedado allí, en medio de unos 3 000 combatientes. Aquella gente había instaurado la charia y un «tribunal revolucionario» condenó a más de 150 personas a ser degolladas en público.
Aquel Emirato autoproclamado era dirigido en secreto por oficiales franceses. Las autoridades sirias querían evitar ordenar el asalto y negociaron con las autoridades francesas para lograr la rendición de los rebeldes. En definitiva, los franceses lograron salir de la ciudad durante la noche y huir hacia el Líbano, mientras que las fuerzas leales entraban en el Emirato y los combatientes se rendían. Así se evitó el baño de sangre y al final hubo menos de 50 muertos en la operación.
GeopolitikaAdemás de los alauitas, en Siria los cristianos también se han convertido en blanco. ¿Podría hablarnos usted un poco más de la persecución contra los cristianos en ese país y de por qué la supuesta civilización occidental, cuyas raíces son precisamente cristianas, no da muestras de la menor solidaridad hacia sus correligionarios?
Thierry Meyssan: Los yihadistas arremeten prioritariamente contra quienes más cerca están de ellos: en primer lugar, contra los sunnitas progresistas; luego contra los chiitas (incluyendo a los alauitas) y sólo después están los cristianos. Generalmente torturan y matan bastante pocos cristianos. Pero los expulsan sistemáticamente y roban todos sus bienes. En la región próxima a la frontera norte del Líbano, el Ejército Sirio Libre dio una semana a los cristianos para que huyeran de allí. Se ha producido un éxodo brutal de 80 000 personas. Los que no huyeron a tiempo han sido masacrados.
El cristianismo fue fundado en Damasco por San Pablo. Las comunidades sirias son anteriores a las de Occidente. Han conservado los ritos antiguos y una fe extremadamente fuertes. La mayoría son ortodoxas. Las que están vinculadas a Roma han conservado sus ritos ancestrales. En tiempos de las Cruzadas, los cristianos del Oriente lucharon junto a los otros árabes en contra de la soldadesca enviada por el Papa. Hoy en día están luchando junto a sus conciudadanos, contra los yihadistas enviados por la OTAN.
Geopolitika¿Puede esperarse un ataque contra Irán el año próximo y, de producirse una intervención militar, cuál sería el papel de Israel? ¿El ataque contra las instalaciones nucleares es realmente un objetivo de Tel Aviv o existe una estructura mundialista, interesada en desestabilizar profundamente las relaciones internacionales, que está empujando a Israel hacia esa aventura?
Thierry Meyssan: Lo que sucede es que Irán es portador de una Revolución. Es el único gran país que propone actualmente un modelo de organización social que constituye una alternativa al American Way of Life. Los iraníes son un pueblo místico y persistente. Ellos han enseñado a los árabes el arte de la Resistencia y se oponen a los proyectos del sionismo, no solo en la región, sino en el mundo.
Sin embargo, a pesar de sus bravatas, Israel es incapaz de atacar Irán. Y los propios Estados Unidos han renunciado a atacarlo. Es un país de 75 millones de habitantes deseosos todos de morir por su patria. Mientras que el ejército israelí se compone de jóvenes cuya experiencia militar se limita a la represión contra los palestinos y el ejército estadounidense se compone de desempleados que no tienen intenciones de morir por una paga miserable.
Geopolitika¿Cómo ve usted el papel de Rusia en el conflicto sirio y el papel del presidente de Rusia, Vladimir Putin, ampliamente demonizado por la prensa occidental?
Thierry Meyssan: La demonización del presidente Putin por parte de la prensa occidental es el homenaje del vicio a la virtud. Después de haber levantado de nuevo su país, Vladimir Putin quiere devolverle su lugar en las relaciones internacionales y ha basado su estrategia en el control de lo que está llamado a ser la principal fuente de energía del siglo XXI: el gas. Gazprom ya se convirtió en la primera compañía mundial de gas y Rosneft en la primera compañía petrolera. Es evidente que Putin no tiene intenciones de permitir que Estados Unidos se apodere del gas sirio ni tampoco de dejar que Irán explote su propio gas sin control. Por lo tanto, tenía que intervenir y aliarse con Irán.
Además, Rusia está convirtiéndose en el principal garante del Derecho Internacional, mientras que los occidentales justifican, en nombre de una moral de pacotilla, la violación de la soberanía de las naciones. Así que no hay que temer el poderío ruso porque está al servicio del Derecho y de la Paz.
En junio pasado, Serguei Lavrov negoció en Ginebra un plan de paz, que Estados Unidos pospuso unilateralmente pero que Barack Obama debería en definitiva concretar durante su segundo mandato. Ese plan prevé el despliegue de una Fuerza de Paz de la ONU, conformada principalmente con tropas de la OTSC [la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva]. También incluye que Bachar al-Assad se mantenga en el poder si el pueblo sirio así lo decide a través de las urnas.
Geopolitika¿Qué piensa usted de la situación en Serbia y del difícil camino que ha recorrido Serbia en los dos últimos decenios?
Thierry Meyssan: La serie de guerras que Serbia tuvo que enfrentar agotó a ese país, sobre todo la conquista de Kosovo por parte de la OTAN. Esa fue en realidad una guerra de conquista ya que concluyó con la amputación del país y con el reconocimiento que los miembros de la OTAN otorgaron a la independencia de Camp Bondsteel, o sea de una base de la OTAN.
Una mayoría de serbios creyó que tenía que acercarse a la Unión Europea. Eso es ignorar que la Unión Europea es la cara civil de una entidad única cuya cara militar es la OTAN. Históricamente, la Unión Europea fue creada en aplicación de las cláusulas secretas del Plan Marshall, o sea que es anterior a la OTAN. Pero no por eso deja de ser un elemento del mismo proyecto de dominación anglosajón.
Es posible que la crisis del euro desemboque en una dislocación de la Unión Europea. En ese caso, Estados como Grecia y Serbia se volverán espontáneamente hacia Rusia, país que comparte con ellos numerosos elementos culturales y una misma exigencia de justicia.
GeopolitikaHay quienes, de manera más o menos directa, sugieren a Serbia que renuncie a Kosovo para poder entrar a la Unión Europea. Usted tiene gran experiencia en materia de relaciones internacionales, así que le preguntamos sinceramente si tiene usted algún consejo sobre lo que deberían hacer los serbios en materia de política interna y de política exterior.
Thierry Meyssan: Yo no soy quien para dar consejos a nadie. Por mi parte, deploro que ciertos Estados hayan reconocido la conquista de Kosovo por parte de la OTAN. Kosovo se ha convertido desde entonces en un puente para la distribución en Europa de las drogas que se cultivan en Afganistán bajo la vigilante protección de las tropas estadounidenses. Ningún pueblo se ha beneficiado en nada con esa independencia, y muchísimo menos la población de Kosovo, que ahora vive bajo el yugo de una mafia.
GeopolitikaEntre Francia y Serbia existía una fuerte alianza que dejó de tener sentido cuando Francia participó en los bombardeos contra Serbia, en 1999, en el marco de la OTAN. Existen, sin embargo, tanto en Francia como en Serbia, personas que no olvidan «la amistad de las armas» de la Primera Guerra Mundial y que piensan que habría que reactivar esas relaciones culturales hoy rotas. ¿Comparte usted ese punto de vista?
Thierry Meyssan: Uno de mis amigos, con quien escribí Le Pentagate, sobre el ataque del 11 de septiembre contra el Pentágono –con un misil y no con un avión fantasma–, es el comandante Pierre-Henri Bunel. Durante la guerra, la OTAN lo arrestó por espionaje a favor de Serbia. Posteriormente, lo entregaron a Francia, que lo juzgó y lo condenó a 2 años de cárcel en vez de cadena perpetua. Ese veredicto demuestra que en realidad actuó por órdenes de sus superiores.
Francia, como país miembro de la OTAN, se vio obligada a participar en la agresión contra Serbia. Pero lo hizo de mala gana y ayudando a Serbia más a menudo de lo que la bombardeaba.
Actualmente Francia está en una situación aún peor, gobernada por una élite que, para proteger sus propios beneficios económicos, se ha puesto al servicio de Washington y de Tel Aviv. Yo espero que mis compatriotas, que comparten una larga historia revolucionaria, acabarán expulsando del poder a esas élites corruptas. Y espero que, para ese momento, Serbia habrá recuperado su verdadera independencia. Se producirá entonces el reencuentro espontáneo entre nuestros dos pueblos.
GeopolitikaMuchas gracias por el tiempo que nos ha concedido.