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Melfi, Termini e la Serbia ossessionano la Fiat
Il rinvio della Punto e dei fondi per Kragujevac. E a Palermo solo incognite. Intanto a Modena brucia il container della Fiom. La Cgil: «Attacco alla democrazia»
Venerdì scorso il ministro dell’economia Mladjan Dinkic aveva anticipato che a causa della precarie condizioni del bilancio statale, una parte degli obblighi contrattuali previsti per quest’anno dovranno essere rinviati al 2013. Secondo le prime indiscrezioni di stampa, l’esecutivo belgradese non sarà in grado di garantire quest’anno 60 milioni di euro al sito di Kragujevac, dove da luglio è partita la produzione in serie della nuova 500L. Il ministro ha chiesto comprensione alla Fiat, scaricando le colpe sul governo precedente.
Tornando in Italia, ieri i segretari della Cgil e della Fiom di Modena, Donato Pivanti e Cesare Pizzolla, hanno lamentato il «silenzio preoccupante della Fiat» sull’incendio del container. Il fatto è «grave», per i due dirigenti sindacali, in quanto la Fiat «ha escluso la Fiom dalla rappresentanza in fabbrica, creando un vulnus pericoloso per la democrazia». Per l’incendio si è parlato di «matrice fascista e di criminalità organizzata», ma finora si sa ben poco.
Intanto a Melfi non si è spento l’allarme per il rischio del rinvio al 2015 della nuova Punto. «I dati allarmanti relativi al calo di vendite rischiano di produrre il secondo rinvio dell’atteso nuovo modello di Fiat – hanno avvertito i segretari lucani di Uil e Uilm, Carmine Vaccaro e Vincenzo Tortorelli. Secondo i due sindacalisti, «è indispensabile correre ai ripari nonostante il no comment della Fiat che intende rinviare qualsiasi decisione alla presentazione dei risultati del prossimo trimestre, in agenda per la fine di ottobre».
A fine ottobre, il Lingotto dovrebbe presentare il nuovo piano industriale sul futuro di stabilimenti e prodotti in Italia. Il progetto della nuova Punto previsto a Melfi dal 2013, aveva già indicato l’ad di Fiat Sergio Marchionne lo scorso giugno, è tra quelli che la Fiat sta «riconsiderando». È un obiettivo vitale per la Sata di Melfi, sottolineano i vertici regionali di Uil e Uilm: l’arrivo della nuova Punto «è fondamentale a garantire la produzione dopo il 2013».
Infine, per il futuro di Termini Imerese, l’attenzione è puntata al 15 settembre, quando ci sarà un nuovo round di incontri al ministero dello Sviluppo. Nell’ultimo incontro, a luglio, sul tavolo c’era l’ipotesi del colosso cinese Chery, che consentirebbe all’imprenditore molisano Massimo Di Risio, patron della Dr Motor, di rientrare in gioco. «Se i cinesi hanno le risorse – dice Roberto Mastrosimone, segretario della Fiom di Palermo – ben vengano. Il nostro auspicio è che abbiano modelli concorrenziali sul mercato europeo, per non doverci trovare tra qualche anno di nuovo nelle stesse condizioni». Anzi dai sindacati arriva una proposta: «Un vincolo per le aziende che ottengono risorse pubbliche e acquisiscono professionalità già formate a restare in loco per almeno 10-15 anni», spiega Mastrosimone. Dall’ultimo incontro al ministero, un primo risultato era comunque già arrivato: la tutela per tutti i 640 esodati. Ora i lavoratori attendono le garanzie sugli ammortizzatori sociali e il secondo anno di cig anche per l’indotto.
Ci voleva però un gentleman torinese, con tutta la tigna che i torinesi sanno riservare ai loro concittadini quando li detestano, per dare pepe a questa operazione e mettere nero su bianco senza complimenti quel che tanti hanno sempre pensato: che l'industria dell'auto italiana per eccellenza, la Fiat di Giovanni Agnelli primo, agli albori del Novecento, forse non è nata da un ardito sogno imprenditoriale ma da un oscuro brodo di coltura fatto di intrighi, truffe, intrecci con lo Stato e persino un paio di omicidi eccellenti - in perfetta sintonia con il clima di sangue e violenza instaurato nel Paese dai Savoia per tenerne lontano il contagio socialista.
Giorgio Caponetti, classe 1945, è un distinto professionista torinese appassionato di cavalli, trasferitosi tanti anni fa a vivere in una fattoria nella valle del fiume Marta, con armi, bagagli, famiglia, un po' di soldi e alcuni sogni da realizzare - in primis, un modello di vita migliore da costruire per sé e da offrire agli altri con generosità non sempre apprezzata o ricambiata. Tra i sogni, però, ce n'era anche uno molto particolare: scrivere la storia che fin da ragazzo lo intrigava, quella - svoltasi nel ventennio intorno al 1900 - del celebre cavallerizzo Federigo Caprilli, del suo amico nobile, il conte Emanuele Cacherano da Bricherasio, e della morte violenta che li colse a poca distanza di tempo, neanche quarantenni: per entrambi una morte inspiegabile, avvolta di silenzi e misteri e oscuramente legata alla folgorante ascesa nel mondo dell'industria, della finanza e della politica del cavalier, poi senatore, Giovanni Agnelli.
Non era una storia semplice, sono passati cent'anni e passa, molti documenti sono scomparsi (forse non casualmente), non c'è più modo di trovare testimoni che possano presentarsi in un tribunale. No, un giudice che alla fine chiarisca le cose, stabilisca la verità e faccia giustizia non c'è e non ci sarà, e per questo Caponetti insiste a dire che il suo Quando l'automobile uccise la cavalleria (Marcos y Marcos, pp. 489, euro 18) è «un romanzo storico, opera di pura fantasia» e non un libro di storia. Eppure...
Eppure i fatti sono più o meno quelli e un testimone esiste, sia pur solo nella memoria dell'autore: il nonno Benedetto, ex ufficiale dei carabinieri, negli anni cruciali in cui si svolgono le vicende narrate era in «servizio speciale» fra Roma e Torino e, da vecchio, al giovane nipote ha raccontato molte cose circa il proprio ruolo diretto nelle fasi più drammatiche di quei lontani intrighi. È mettendo insieme quei racconti con il poco che si sa delle vicende di quell'epoca che prende vita questo strano romanzo, dove i fatti sembrano assai meno fantasiosi di quanto dichiarato.
Alla fine sono quattro i protagonisti, raccontati attraverso vite parallele ma fin troppo intersecate: al brillante e geniale capitano Caprilli, eroe dei concorsi ippici di tutta Europa e delle alcove di nobildonne troppo altolocate, si affianca l'amico Emanuele da Bricherasio, come Caprilli ufficiale di cavalleria, ingenuo ed entusiasta fondatore dell'Automobile Club d'Italia nonché, nel 1899, della prima «Fabbrica Italiana Automobili di Torino», di cui è vicepresidente; e a loro si uniscono Giovanni Agnelli, a sua volta ufficiale di cavalleria ma di tutt'altra pasta e con tutt'altri progetti in testa, e infine nonno Benedetto, ufficiale anche lui ma dei carabinieri: «uso a ubbidir tacendo» ma che in vecchiaia, fuggiti nell'infamia i Savoia e dunque senza più un re cui ubbidire fino all'estremo, di «tacendo morir» non ha più tanta voglia.
La vita di Caprilli e Bricherasio raccontata da Caponetti si snoda con varie vicende interessanti ma in fondo ordinarie e tranquille: la loro storia inizia ad accelerare in parallelo col crescere delle tensioni sociali in Italia e col traballare della dinastia Savoia, umiliata dal disastro di Adua e capace di tenersi in sella solo facendo sparare sugli operai e sui contadini. Arriva Bava Beccaris, ci sono le stragi di lavoratori, a Milano e un po' dappertutto, e arrivano anche le prime morti avvolte nel mistero, come quella del figlio di Edmondo De Amicis, che si «suicida» proprio alla vigilia del previsto (e temutissimo dai Savoia) outing pro-socialista del padre, allora al culmine della sua popolarità e che da quel momento non si interesserà più di politica. È l'autunno 1898. Pochi mesi dopo, a casa del conte di Bricherasio, nasce la F.I.A.T., con Agnelli che è solo un socio tra gli altri ma grazie ad amicizie e alleanze riesce a prendere in mano la gestione commerciale dell'impresa, quella da cui passano i soldi.
La scalata di Agnelli è rapida e senza scrupoli, passando anche - forse soprattutto - attraverso disinvolti rapporti di do ut des con i Savoia. Sotto gli occhi di Bricherasio gli affari sporchi - traffici azionari, intrighi bancari ecc. - si moltiplicano e cresce il potere di Agnelli e dei suoi amici: finché nell'ottobre 1904, alla vigilia di un Consiglio di amministrazione in cui Bricherasio aveva annunciato di voler «vedere tutte le carte» e denunciare i pasticci che erano stati compiuti, il conte viene misteriosamente convocato a casa del duca Tommaso di Savoia-Genova (cugino del re) dove, secondo la versione ufficiale, si uccide con un colpo di pistola in testa.
Nessuna autopsia, nessuna inchiesta, nessuna spiegazione. Caprilli, l'unico tra amici e familiari che ne può vedere il corpo prima del funerale, riferisce che il viso e le tempie del conte sono intatti. La sorella del conte, inquisita da misteriosi «alti funzionari», affida a Caprilli le carte del fratello morto, perché le custodisca: un cattivo viatico, perché tre anni dopo anche il celebre cavaliere muore senza testimoni, il cranio sfondato da una assai improbabile caduta da cavallo, di notte, in una strada innevata di Torino. E proprio alla vigilia, guarda caso, delle sue annunciate dimissioni dall'esercito che lo avrebbero liberato dai vincoli di fedeltà e gli avrebbero permesso di rivelare quel che aveva appreso sulla morte dell'amico, sugli imbrogli della Fiat (nel frattempo passata interamente nelle mani di Agnelli), sul ruolo dei Savoia in tutto ciò. Anche per Caprilli niente autopsie, niente inchieste, nessuna spiegazione: solo una frettolosa sepoltura.
La verità? Non si saprà mai: i sanguinosi misteri d'Italia non sono iniziati con Piazza Fontana ma molto prima. Per Giovanni Agnelli, i cui maneggi erano intanto diventati troppo palesi, si aprirà poi anche un processo: tirato per le lunghe, si concluderà con l'assoluzione dopo che la guerra di Libia (1911-12) sarà stata portata a termine vittoriosamente, «vendicando» Adua. Senza cavalleria ma con un largo uso dei nuovi camion prodotti dalla Fiat.
la Redazione - Domenica 15 Luglio 2012 13:14
La Jugoslavia l'aveva già dimostrato: i «democratici», americani o italiani che siano, amano i bombardamenti a tappeto
Il Manifesto di oggi, 15 luglio, dedica giustamente un grande spazio alle notizie provenienti dall'Afghanistan. Cosa ci dicono queste notizie? Che gli aerei italiani schierati ad Herat stanno prendendo parte a veri e propri bombardamenti a tappeto del suolo afghano. La notizia può stupire solo i pacifinti alla Flavio Lotti (Tavola della pace), specializzati nel credere alle menzogne di politici e generali. In realtà l'Italia ha sempre partecipato a pieno alla guerra di occupazione dell'Afghanistan. Tuttavia le notizie odierne meritano qualche commento.
Ricordate i cosiddetti «caveat» che avrebbero dovuto limitare l'uso dei militari e delle armi italiane in azioni di guerra? Questi limiti altro non erano che un trucchetto per far accettare la partecipazione del nostro paese al conflitto, cercando (peraltro inutilmente) di salvare la faccia degli allora parlamentari (2006-2008) di Prc, Pdci e Verdi impegnati nei vari voti di rifinanziamento della «missione».
Che quei limiti non vi fossero è stata sempre cosa nota, ed oltretutto confermata dalle tante testimonianze sul campo. Ora, però, siamo all'ufficializzazione. Il perché è presto detto. Il 28 gennaio scorso, il ministro Di Paola - un ammiraglio alla Difesa, come si conviene ad un governo golpista -, così si esprime in parlamento: «Intendo far sì che i nostri militari e tutti i loro mezzi schierati in teatro siano forniti delle dotazioni e capacità necessarie a garantire la massima sicurezza possibile del nostro personale e dei nostri amici afgani e alleati». Ovviamente nessun cenno ai caveat, visto che questo governo non ne ha bisogno.
Questo passaggio viene silenziato dai media e accettato dal Pd. Eppure non si può dire che Di Paola sia stato reticente, vista la seguente precisazione: «Tutti i mezzi che abbiamo verranno utilizzati sulla base di tutte le loro capacità». Dunque, se si schierano dei bombardieri sarà ovviamente per bombardare. Più chiaro di così. Eppure, in questo strano paese la cosa non ha destato alcuna reazione degna di nota. Interessante, in particolare, il silenzio-assenso del Pd.
Questi «democratici», al pari dei loro omonimi a stelle e strisce (ieri Clinton, oggi il nobel Obama), amano i bombardamenti, meglio se a tappeto. Fu così anche per la Jugoslavia, quando l'ex comunista, allora diessino, oggi «democratico» D'Alema invio i caccia italiani a bombardare il paese balcanico, dicendo che i suoi aerei non sganciavano bombe, ma partecipavano semplicemente a non meglio precisate operazioni di «difesa integrata». Una presa in giro pari solo alla faccia tosta dell'allora primo ministro. Alla fine delle operazioni aeree saranno gli stessi alleati a riconoscere che l'Italia era stata solo seconda - dopo gli Usa, ma prima della Francia e della Gran Bretagna - per numero di raid sulla Jugoslavia.
Una situazione analoga si è determinata anche nel 2011 con l'aggressione alla Libia, con una partecipazione italiana alla guerra voluta in primo luogo da Napolitano, cioè da un altro esponente «democratico», oggi non casualmente insediato dalle oligarchie euro-atlantiche al Quirinale, in barba all'art. 11 della Costituzione e a tutto ciò che dovrebbe conseguirne.
La partecipazione degli Amx italiani ai ripetuti bombardamenti nella provincia di Farah, nell'Afghanistan sud-occidentale, di cui ha già parlato il Sole 24 Ore nei giorni scorsi, non può dunque stupire. Solo gli ipocriti amano le ipocrisie. Ce lo ricorda il generale Mini: «Bombardiamo con gli Amx? Se è per quello, gli elicotteri Mangusta possono fare ancora più male. Hanno fatto almeno 300 missioni. Proprio qualche settimana fa un collega mi ha parlato di un'operazione con 60 insorti uccisi. Non erano Amx ma elicotteri». (il manifesto, 15 luglio 2012)
La realtà della criminale guerra d'occupazione dell'Afghanistan è davanti a noi. Così pure il pieno coinvolgimento in essa dell'Italia. E' una guerra che non domerà la coraggiosa resistenza afghana, alla quale va tutto il nostro sostegno. Ma questa occupazione, che dura da 11 anni, è anche qualcosa di più, specie per un paese come l'Italia: è il segno dell'accettazione della «normalità» della guerra. Un altro segnale di un imbarbarimento crescente. Se così non fosse non potremmo avere i Monti, le Fornero, i Di Paola al governo.
Da: "Coord. Naz. per la Jugoslavia"Data: 16 luglio 2012 22.14.16 GMT+02.00Oggetto: [JUGOINFO] Gli italiani bombardano anche in piena estateEscalation militare italiana in Afghanistan: ma chi ne parla?
16 Luglio 2012di Fausto Sorini, segreteria nazionale, responsabile esteri PdCI“Dunque la guerra non va in vacanza, nemmeno per gli italiani – scrive Tommaso Di Francesco sul Manifesto di domenica 15 luglio. Ora è ufficiale: i nostri quattro cacciabombardieri Amx del 51esimo stormo dispiegati a Herat stanno bombardando a tappeto il nemico talebano”.
La conferma ufficiale dell'escalation militare italiana in Afghanistan viene dalle dichiarazioni del generale Luigi Chiapperini, comandante del nostro contingente.
“Chi ha autorizzato l’entrata nella guerra aerea dell’Italia in Afghanistan? È stato il governo «tecnico», sostenuto da Pdl, Udc e Pd. E in particolare il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, il ministro che più tecnico non si può: è ammiraglio ed è stato comandante delle forze Nato. Lo stesso che in questi giorni muove lobby militar-industriali e schieramenti politici connessi per ottenere l’approvazione di ben 90 cacciabombardieri F-35, che ci costeranno 10 miliardi, nella finanziaria rivisitata dalla spending review, che taglia spese sociali, welfare e pensioni. Altro che conflitto d’interessi. È stato lui il 28 gennaio scorso, nel silenzio generale, a informare la Commissione difesa del parlamento della decisione di usare sul campo afghano «ogni possibilità degli assetti presenti in teatro, senza limitazione» armando gli Amx che fino a quel momento volavano senza bombe”.
Così dal 27 giugno i tremila soldati italiani impegnati a terra sono supportati dal cielo anche dagli Amx con armamento micidiale e sistemi sofisticati di precisione.
Ancora una volta è chiaro che l’Italia è in guerra, ma chi ne parla? Il Parlamento tace, non una sola voce critica si è levata. E all'Ammiraglio Di Paola è riuscito oggi, nel silenzio-assenso pressochè generale, quello che ieri non era riuscito al ministro Ignazio La Russa: che nel novembre del 2010 aveva proposto di armare gli aerei italiani in Afganistan, suscitando – all'epoca – una levata di scudi generale. Adesso nulla.
“I pantani di guerra in corso e quelli nuovi che si annunciano – scrive ancora De Francesco - aiutano le leadership occidentali a sostenere il «percorso di guerra» – parola di Monti – dentro la crisi del capitalismo globale, del loro modello di sviluppo. Perché sostengono la spesa militare e le caste collegate, stabiliscono gerarchie e irrobustiscono alleanze militari come la Nato, rendendole l’unico vero strumento attivo, criminale e «democratico», di intervento nella realtà”.
Ora dal conflitto afghano tutti dichiarano di voler uscire (mentre si prepara la guerra alla Siria..), ma intanto l’obiettivo immediato delle forze NATO, Italia compresa, resta quello di vincere militarmente sul campo. Qualcuno dica che è ora di farla finita, qualcuno prenda la parola per le migliaia di civili straziati dalle bombe dei raid aerei ora anche «nostri».
Il PdCI denuncia l'escalation del coinvolgimento militare italiano nella guerra afghana, chiede il ritiro delle nostre truppe, invita tutte le forze di pace e fedeli al dettato costituzionale, dentro e fuori il Parlamento, a fare la loro parte e a non rendersi complici di questa ennesima barbarie ad utilizzare le risorse risparmiate per fronteggiare i problemi sociali più acuti, provocati dalla crisi capitalistica e da una politica governativa e dell'Unione europea che scarica il peso della crisi sulle spalle dei ceti popolari.
La Serbia oggi: intervista a Marko Knežević del Movimento dei Socialisti serbi
a cura di Francesco Delledonne e Alessio Arena
L’aggressione NATO contro la Serbia nel 1999 ha segnato profondamente la storia recente. Ha dato origine a un precedente da allora ampiamente sfruttato per perpetrare aggressioni imperialiste, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria. Condotta fuori da qualunque parvenza di legalità internazionale, quell’aggressione ha anche rappresentato uno dei momenti più drammatici dello smembramento della Jugoslavia da parte delle potenze atlantiche.
L’Italia ha svolto nell’intero processo di frantumazione dei Balcani e nella guerra del 1999 in particolare un ruolo di primo piano, partecipando all’occupazione del Kosovo e Metohija seguita alla fine dei bombardamenti e spalleggiando la proclamazione unilaterale d’indipendenza della provincia da parte albanese.
Per approfondire la situazione attuale e per contribuire a sviluppare una maggiore consapevolezza da parte degli italiani riguardo alle politiche imperialiste portate avanti dal nostro paese, abbiamo intervistato Marko Knežević, responsabile giovanile del Movimento dei Socialisti serbi (Pokret Socijalista) e dirigente del Comitato Centrale del Partito.
L’intervista, per la quale ringraziamo il compagno Knežević, vuole essere anche una manifestazione concreta di solidarietà nei confronti di un popolo che ha pagato a caro prezzo la sua fierezza e la resistenza all’imperialismo atlantico.
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Puoi descriverci a grandi linee la situazione socio-economica della Serbia in questo momento? Che impatto ha la crisi economica sulla popolazione? Quali tracce ha lasciato l’aggressione militare subita nel 1999 da parte della NATO? Qual è l’umore del popolo? Ci sono stati movimenti di massa di recente?
La situazione è difficile. Per dodici anni la Serbia è stata saccheggiata da politici corrotti e magnati, ma il nuovo governo di cui fa parte il Movimento dei Socialisti ha iniziato una lotta accanita contro il crimine organizzato e la corruzione. In Serbia ci sono molti disoccupati, i nostri giovani non hanno speranza e molti emigrano in cerca della felicità e di una vita migliore. Il compito del nostro Partito è di dare lavoro e di riportare in Patria i nostri giovani.
La Serbia è in crisi economica da ormai vent’anni: i primi dieci a causa delle sanzioni e gli ultimi a causa dei politici corrotti. Come ho detto prima, ci sono molti disoccupati e molte persone che vanno via, ma credo che il nuovo governo abbia avuto troppo poco tempo per cambiare le cose. La Serbia non è un Paese povero, abbiamo terra coltivabile e miniere, la ripresa del mio Paese è possibile.
La NATO ha distrutto il mio Paese, ha distrutto la nostra economia, le nostre infrastrutture e ha massacrato migliaia di civili innocenti, tra cui molti bambini. Le tracce dell’aggressione sono ancora grandi e profonde, la Serbia non si è ancora ripresa da quell’attacco barbaro. La NATO continua ancora oggi a uccidere il nostro popolo, a causa dell’uranio lasciato dalle bombe che ancora avvelena il Paese. C’è un numero rilevante di malati di cancro, causato direttamente dai bombardamenti. La Serbia non farà mai parte della NATO.
C’è stato un grande movimento di massa e una coalizione di partiti si è unita per vincere le elezioni. Ora la coalizione è al governo della Serbia e il nostro partito è orgoglioso di aver contribuito alla cacciata dei politicanti corrotti.
Quali elementi di novità e quali questioni si presentano con il ritorno del Partito Socialista alla guida del governo? Come si è evoluto quel partito dopo la caduta di Milosevic?
Il Partito Socialista Serbo è al governo dal 2008 quando era alleato con il Partito Democratico ed è sopravvissuto rinnegando pubblicamente Slobodan Milosevic. Il nostro partito non è in un’alleanza con i socialisti, ma attualmente siamo al governo insieme.
Quali sono i rapporti tra il Movimento Socialista e la coalizione di governo? Quali sono le responsabilità affidate al vostro partito in questo momento?
Noi prima delle elezioni abbiamo firmato un accordo di coalizione, di cui fa parte il Partito Progressista Serbo [del presidente Nikolić, N.d.R.].
Il Movimento dei Socialisti è responsabile per il Kosovo e Metohija. I serbi che vivono in quell’area hanno chiesto di essere rappresentati da Aleksandar Vulin, che è il presidente del nostro Partito. Non potevamo rifiutare la richiesta dei serbi del Kosovo e Metohija: il Movimento dei Socialisti è presente e radicato da anni nel Kosovo e Metohija ed è nostro dovere difendere e proteggere il popolo di questo territorio, che da secoli è abitato dai serbi.
Come si presenta la situazione in Kosovo in questo momento e qual è la posizione del partito su questa questione? Perché il Kosovo è cruciale nei piani della NATO per sottomettere la Serbia?
Un’informazione: quando si parla della provincia meridionale della Serbia, il termine Kosovo non è corretto, solo i terroristi la
chiamano così. Si dice Kosovo e Metohija. La situazione in Kosovo e Metohija è difficile: i serbi vengono quotidianamente picchiati e uccisi dagli albanesi, non hanno libertà di movimento e vivono costantemente nel terrore.
Ci si preoccupa molto del comportamento della cosiddetta “comunità internazionale”, che altro non è se non i responsabili del massacro a danno dei Serbi. Chiediamo che i negoziati tra Belgrado e Pristina siano garantiti dall’ONU e basati sulla risoluzione n.1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Su questa questione ci basiamo sulla Costituzione della Repubblica di Serbia e sulla risoluzione n.1244: la situazione è molto chiara, la Serbia non riconoscerà mai la formazione terrorista chiamata “Repubblica del Kosovo”. Possiamo negoziare su ogni tipo di problema, ma quello dell’indipendenza è fuori questione.
Il sistema schiavistico è attualmente molto in voga, dal sistema bancario fino allo sfruttamento dei lavoratori. In Kosovo e Metohija è avvenuta una vera e propria rapina: politici e generali della NATO hanno privatizzato aziende e miniere serbe, naturalmente senza chiedere nulla ai serbi stessi. C’è inoltre l’aspetto militare della collocazione geografica del Kosovo e Metohija da non dimenticare, e ogni sorta di altri elementi. Ma oggi, finalmente, la Serbia ha un governo che lavora per gli interessi dei suoi cittadini e non per la NATO.
In che modo operano le forze militari italiane presenti nel Kosovo? In quali altri modi agisce l’Italia in quel contesto?
È difficile per me rispondere a questa domanda, perché rispetto il popolo italiano, ma non si può nascondere la verità. Il popolo italiano è buono e pacifico, ma le azioni dell’ignobile governo italiano, con i soldati italiani che in Kosovo e Metohija partecipano con i terroristi albanesi negli abusi verso i serbi, porta dolore e paura al mio popolo.
Recente è anche la separazione tra Serbia e Montenegro. L’Italia ha beneficiato fortemente della secessione, mettendo le mani su gran parte dell’economia montenegrina. Sai dirci qualcosa in proposito?
La Serbia e il Montenegro si sono separati pacificamente. L’unica cosa essenziale è che non vengano violati i diritti umani della comunità serba in Montenegro e che si sviluppino dei buoni rapporti.
Per finire, alcune domande sul vostro partito. Quando è stato fondato? Quali sono i suoi principi ispiratori e i suoi obiettivi?
Il Movimento dei Socialisti (Pokret socijalista, PS) è stato fondato nel 2008, come un tentativo di mostrare responsabilità nei confronti delle prossime generazioni. La nostra esistenza è basata sul marxismo. Siamo contro la globalizzazione, vediamo il futuro del mondo come un’unione di nazioni libere. L’obiettivo finale del nostro Partito è di creare felicità e libertà individuale e collettiva per il nostro popolo. È il fine della nostra azione politica. Il partito è stato fondato da Aleksandar Vulin e da Mihailo Marković. Potete trovare più informazioni sul nostro sito [http://www.pokretsocijalista.org/], la nostra pagina facebook e sul nostro profilo Youtube.
Come si pone il vostro partito riguardo alla prospettiva dell’adesione della Serbia all’UE?
Prendere impegni con l’Unione Europea non è necessariamente un’azione contro la Serbia, ma prima di tutto l’UE deve iniziare a rispettare la Repubblica di Serbia. I negoziati devono avvenire in entrambe le direzioni. Ora non avviene più come durante il governo precedente, in cui venivano accettate tutte le pretese dell’UE. Bisogna discutere sulle questioni concrete e l’integrità territoriale della Serbia deve essere rispettata. Il popolo serbo non ha fiducia dell’Unione Europea, e con buone ragioni. Non siamo contro il dialogo, ma esso deve basarsi sul rispetto reciproco.
Come valuta il vostro partito l’esperienza storica del socialismo jugoslavo? Che giudizio date del ruolo di Milosevic nella difesa della Serbia e della sua economia pianificata dall’imperialismo? Quali sono stati i suoi errori?
Il socialismo jugoslavo è stato positivo per il popolo, ma ha ceduto di fronte agli attacchi delle attitudini nazionaliste. Come conseguenza di ciò, è scoppiata la guerra.
Il mio Partito non ha a che fare con Slobodan Milosevic, ma lo rispetto come un vero combattente contro la globalizzazione e l’imperialismo. Il suo unico errore è stato di difendere i serbi. Quello che ho detto verrà capito solo dai serbi, non mi aspetto che voi capiate.
In che modo dovrebbero muoversi gli italiani progressisti, a tuo avviso, per sanare la ferita inferta all’amicizia tra i nostri popoli dall’aggressione del 1999 e da quanto ne è seguito?
Sì, l’Italia ha giocato un ruolo cruciale nel bombardamento del mio Paese. I serbi vengono ancora oggi discriminati pesantemente, derubati della loro tradizione culturale in Kosovo e Metohija. Siamo una nazione che sembra non abbia il diritto di vivere. Ma, come ho già detto, i serbi non odiano l’Italia. Dovete trasmettere questo messaggio a tutti in Italia: il governo italiano deve ritirare le truppe dal Kosovo e Metohija e smettere di recare danno al nostro popolo. Basterà dire al vostro popolo la verità riguardo a quanto successo in Serbia. Vi ringrazio a nome del mio popolo per questa intervista.
LACOTA (UNIONE ISTRIANI): "REVOCARE ONORIFICENZA A TITO"
IL MARESCIALLO ERA STATO NOMINATO CAV. GRAN CROCE NEL 1969 (ANSA) - TRIESTE, 27 AGO - Dopo la decisione del governo di chiedere al Quirinale la revoca, per indegnita', dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce conferita nel 2011 da Giorgio Napolitano al presidente siriano Bashar al-Assad, l'Unione degli Istriani scrive al Governo Monti chiedendo che ''la stessa onorificenza venga tolta al maresciallo Tito, i cui crimini contro centinaia di migliaia di italiani, tedeschi, ungheresi, e di varie nazionalita' jugoslave, sono stati definitivamente acclarati e condannati''. L'onorificenza era stata concessa al maresciallo Tito nel 1969 dall'allora presidente della repubblica Giuseppe Saragat. ''Non e' accettabile, non puo' esserlo per nessun motivo - afferma in una nota il presidente Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota - che lo Stato onori contemporaneamente le vittime di una bestiale pulizia etnica, come quella subita dai giuliano-dalmati, e il persecutore che la mise in pratica: un simile atteggiamento tradisce la moralita' dello Stato''. Il Presidente dell'Unione degli Istriani chiedera' un incontro con il sottosegretario Staffan De Mistura, affinche' ''non si debba trascorrere un altro 10 Febbraio, Giorno del Ricordo, con ancora in piedi una simile, disumana situazione''. (ANSA). 27-AGO-12 17:11
Stralcio da "Il Piccolo" del 13 ottobre 2008: «Sono l’unico italiano che Haider ha salutato dal palco, venerdì mattina, nella piazza gremita di Klagenfurt. E l’unico che ha invitato a pranzo» ricorda Lacota. E spiega: «Il governatore mi aveva ufficialmente invitato a partecipare ai festeggiamenti nella piazza del Landhof in occasione della ricorrenza del 10 ottobre, assai sentita in Carinzia». Detto, fatto: «C’era un sacco di gente e Haider era molto soddisfatto. Si è presentato in abiti tradizionali con la madre a braccetto, arrivata in Carinzia dall’Alta Austria, nonostante camminasse un po’ a fatica, con l’aiuto dei bastoni».
L’occasione, del resto, era speciale: la madre Dorothea compiva novant’anni e Haider voleva festeggiarla, insieme a tutta la famiglia, nella tenuta del Baerental. Venerdì notte, quando si è schiantato con la sua auto, stava tornando a casa proprio in vista del «raduno» del giorno dopo, cui non sarebbe mancata la figlia Ulriche che vive a Roma ed è sposata con un italiano. «Haider, quando ci siamo visti in piazza, mi ha presentato la madre che non avevo mai conosciuto prima» continua, intanto, Lacota. Poi, si sono rivisti tutti a pranzo e il presidente dell’Unione degli istriani racconta di un governatore come sempre iperattivo. Impegnato in un valzer frenetico di saluti e telefonate. «Ci siamo lasciati attorno alle 15 dopo aver messo insieme una serie di iniziative comuni. La prima - continua Lacota - doveva tenersi già il 18 ottobre, a Klagenfurt, quando ci saremmo rivisti in occasione della firma di un protocollo di collaborazione tra l’Unione degli istriani e le associazioni patriottiche di Carinzia».