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Ah, questi sciocchini nostalgici

1) IL TRAGICO FALLIMENTO DEL POST-COMUNISMO NELL’EUROPA DELL’EST
(R. Vassilev, Global Research 11/4/2011)
2) Ces Allemands nostalgiques du «paradis» perdu de RDA
(P. Saint-Paul, Le Figaro, 30/06/2009)


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The original text in english:
The Tragic Failure of "Post-Communism" in Eastern Europe
by Dr. Rossen Vassilev - Global Research, March 8, 2011
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IL TRAGICO FALLIMENTO DEL POST-COMUNISMO NELL’EUROPA DELL’EST

Postato il Lunedì, 11 aprile @ 17:10:00 CDT di marcoc

DI ROSSEN VASSILEV
Global Research

Poco prima del giorno di natale dello scorso anno, un disperato ingegnere della TV pubblica che protestava per le controverse misure economiche prese dal governo, si è gettato dal balcone del parlamento rumeno durante un discorso del primo ministro. A quanto pare l’uomo, sopravvissuto al tentato suicidio, prima di buttarsi ha urlato: “Avete strappato il pane dalle bocche dei nostri bambini! Avete ucciso il loro futuro!” L’uomo, in seguito identificato come Adrian Sobaru di 41 anni, indossava una maglietta con la scritta: “Avete ucciso il nostro futuro” e il suo giovane figlio, autistico, ha recentemente perso ogni sussidio pubblico a causa dei recenti tagli al bilancio operati dal governo. Il tentativo di suicidio è stato trasmesso in diretta dalla TV pubblica rumena durante il discorso del primo ministro Emil Boc, in seguito a un fallito voto di sfiducia nei confronti del suo governo conservatore. Le misure di austerità fiscale e salariale per le quali il signor Sobaru protestava includevano tagli salariali del 25% nei confronti dei dipendenti pubblici e pesanti tagli ai sussidi pubblici per genitori con figli disabili, che lui aveva ricevuto fino a poco prima. 

Secondo la locale agenzia stampa Agerpres, le urla disperate dell’uomo nel parlamento ricordavano drammaticamente quelle sentite durante la rivoluzione anticomunista che fece crollare il regime autocratico e pro-occidentale di Nicolae Ceausescu.


Il caos economico 

Il tragico gesto del signor Sobaru, in seguito trasmesso su tutte le TV mondiali, ha mosso a compassione tanti rumeni che in esso hanno individuato il simbolo delle feroci ingiustizie e ineguaglianze dell’era post-comunista. La Romania è caduta in una pesante recessione e la sua disastrata economia dovrebbe perdere almeno il 2% nel 2010, dopo essersi ridotta del 7.1% l’anno precendente. Invece di cercare di sostenere i disoccupati e i più svantaggiati, il governo di Bucarest che secondo vari rapporti risulta essere caratterizzato da corruzione, favoritismi e nepotismo, ha tagliato il salario pubblico di un quarto e bloccato del tutto la spesa pubblica, il contributo per il riscaldamento per i poveri così come ogni benefit per disoccupazione, maternità e per i disabili. Allo stesso tempo, la tassa sul commercio è salita dal 19 al 24 per cento nel tentativo di abbassare il deficit pubblico sotto il 6.8%, per venire incontro alle rigide richieste fiscali della UE, di cui la Romania è entrata a far parte dal gennaio 2007.

Queste dure misure di austerità hanno indignato milioni di rumeni che appena riescono a finire il mese, in un paese nel quale lo stipendio mensile medio è di 400 euro. Manifestazioni rabbiose che hanno portato per le strade decine di migliaia di rumeni sono la prova della profonda indignazione per la povertà di massa e l’infinita crisi economica che ha portato la Romania sull’orlo della bancarotta. “Questo non è capitalismo, nei paesi capitalisti avete una classe media”, afferma una dirigente di un minimarket di Bucarest a un reporter della Associated Press. Ma la società rumena – si lamenta lei – è divisa tra una piccola minoranza di gente molto ricca e un diffuso sottoproletariato impoverito.[1]

Sebbene la tragedia umana vista nel parlamento rumeno quel giorno pre-natalizio sia abbastanza sintomatica della dilagante miseria e della fine della speranza per una vita migliore, tuttavia essa avrebbe potuto verificarsi facilmente in qualunque altro paese ex-comunista, dove si soffre lo stesso per la mancanza di impiego, povertà di massa, salari in declino, forti tagli alla spesa pubblica e declino dello standard di vita. Proprio mentre il signor Sobaru cercava di suicidarsi, molti dei 20.000 medici degli ospedali della Repubblica Ceca abbandonavano il loro lavoro per protestare in massa contro la decisione del primo ministro Petr Necas di tagliare tutte le spese pubbliche, inclusa la spesa sanitaria, di almeno il 10% per riuscire a tenere a galla la difficile situazione finanziaria del paese. Queste dimissioni di massa fanno parte della campagna “Grazie ma ce ne andiamo” lanciata dal personale paramedico in tutto il paese che intende fare pressione sulle autorità di Praga per un aumento salariale e per ottenere migliori condizioni lavorative di tutto il personale medico. Davanti alla peggior crisi del settore sanità nella storia del paese ex-comunista, che stava mettendo in pericolo la vita di molti pazienti, il governo ceco ha minacciato lo stato di emergenza che ha costretto i medici a tornare al lavoro per non andare incontro a pesanti conseguenze legali e finanziarie.

Sarebbe necessario ricordare anche le largamente ignorate rivolte contro la fame avvenute nel 2009 in Lettonia, il tanto lodato ‘miracolo baltico’ così caro ai maggiori media occidentali, dove il primo ministro in carica Valdis Dombrovskis è stato rieletto ne 2010 nonostante i suoi pesanti tagli nel settore pubblico e i già miseri standard di vita dei lettoni ( la campagna elettorale si era concentrata sullo scontro tra i nazionalisti lettoni e la numerosa e irrequieta minoranza di lingua russa presente nel paese). Secondo il dottor Michael Hudson, professore di Economia presso la University of Missouri, a causa dei profondi tagli governativi al welfare, all’istruzione, salute, trasporto pubblico e ad altre spese di infrastrutture sociali che minacciano di colpire la sicurezza economica, lo sviluppo sul lungo termine e la stabilità politica di tutti i paesi del blocco ex-sovietico, i giovani stanno emigrando in massa per migliorare le loro vite invece di soffrire per un’economia senza opportunità lavorative. Per esempio, più del 12% della popolazione lettone (e una percentuale molto più ampia della sua forza lavoro) ora vive e lavora all’estero.

Quando la ‘bolla neoliberista’ è scoppiata nel 2008, scrive il professor Hudson, il governo conservatore lettone ha ottenuto ingenti prestiti dalla UE e dal FMI a condizioni così svantaggiose che le durissime misure di austerità che ne sono conseguite hanno ridotto l’economia lettone del 25% (le vicine Estonia e Lituania hanno vissuto un declino economico simile) e la disoccupazione, in questo momento al 22%, continua ad aumentare. Con ben oltre il 10% della propria popolazione che lavora fuori dai confini nazionali, i lettoni all’estero inviano a casa loro qualunque cosa per aiutare a sopravvivere le loro disagiate famiglie. I bambini lettoni (pochi, infatti i matrimoni e la natalità in questo paese baltico sono crollati) in questo modo vengono lasciati ‘come orfani’, e gli esperti in materie sociali si chiedono come potrà questo paese di 2.3 milioni di abitanti a sopravvivere in senso demografico.[2] Questi sono i risultati delle misure di austerità del post-comunismo che hanno tagliato le gambe alla popolazione e salvato i creditori internazionali e le banche locali.

La diffusione del populismo di destra 

La profonda crisi economica e la diffusa disoccupazione lungo il mondo ex-comunista ha portato al potere alcuni partiti radicali e politici che hanno abbracciato il nazionalismo populista di destra. Il Fidesz ungherese (Unione Civica Ungherese), uno spregiudicato partito nazionalista di destra, ha vinto le elezioni parlamentari in aprile del 2010 col 52.73% dei voti. Jobbik (Movimento per un’Ungheria Migliore), partito xenofobo di estrema destra, è arrivato terzo col 16.67% dei voti. In mezzo a una disastrosa depressione economica, la destra nazionalista ha vinto la maggior parte del voto popolare riportando in vita il tradizionale capro espiatorio ungherese delle minoranze etniche e accusando in particolar modo ebrei e zingari per la diffusa mancanza di lavoro e povertà del paese. Un membro eletto al parlamento del Fidesz, Oszkár Molnár, ha proclamato: “Amo l’Ungheria, amo gli ungheresi e preferisco gli interessi ungheresi rispetto a quelli del capitale finanziario globale o del capitale ebraico che vuole divorare il nostro mondo e in particolare l’Ungheria. Nessun suo collega di partito lo ha contestato, nemmeno in pubblico.

Nel dicembre 2010, con una maggioranza parlamentare di due terzi, il Fidesz ha permesso l’approvazione di una misura draconiana sui media, che ha dato al governo la libertà di esercitare un rigido controllo sui media privati. Questa controversa nuova legge ha spinto manifestanti a scendere per le strade di Budapest con cartelloni pubblicitari in bianco per protestare contro la censura proposta dal governo. La legge ha anche attirato le critiche della UE (di cui l’Ungheria è membro dal maggio 2004) che vede la proposta come una ‘minaccia alla libertà di stampa’ e ‘una seria minaccia alla democrazia’ dal momento che prevede pesanti multe e altre penalità per chi pubblica o trasmette attraverso media e internet informazione ‘sbilanciata’ o ‘immorale’, in particolar modo se critica del governo, in un paese dove un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. I critici lamentano che la legge più restrittiva d’Europa sui media soffocherà il pluralismo e porterà indietro le lancette della democrazia in questo paese dal passato comunista.

La stampa tedesca in particolare ha accusato il primo ministro ungherese Viktor Orbán per aver non solo messo la museruola ai media locali, ma anche perché vuole far comandare il Fidesz in maniera esclusiva, portando l’Ungheria verso un ‘Führerstaat’ totalitario (in modo simile, gli opinionisti ungheresi lamentano la strisciante ‘Orbánizzazione’ del loro paese). Károly Vörös, editore del quotidiano ungherese Népszabadság, protesta perché la nuova legge sui media vuole ‘istillare un sentimento di paura nei giornalisti’ e perché ‘l’intero stato ungherese si sta dissolvendo in modo sistematico’.[3] Ma il populista di tipo berlusconiano Orbán ha percepito il profondo malessere dell’ungherese medio, intrappolato nel vortice della globalizzazione, nei confronti del capitalismo, della UE e degli Stati Uniti e ora ha assunto un atteggiamento di sfida, così come aveva già fatto in passato, avvertendo la UE di non intromettersi negli affari interni dell’Ungheria: “ È la UE che dovrebbe adattarsi all’Ungheria e non viceversa..” (L’Ungheria è dal 1 gennaio scorso presidente di turno della UE, carica che dura 6 mesi). In verità, molti ungheresi sospettano che la nuova legge sui mezzi di comunicazione sia solo un diversivo per distrarre l’attenzione pubblica dai laceranti problemi economici del paese.

Un’altra figura autocratica, Boyko Borisov, un tempo capo della ex-polizia nazionale dall’oscuro passato comunista e, a quanto si dice, con legami con il sottobosco criminale locale, governa la Bulgaria, diventata membro della UE a gennaio del 2007 nonostante fosse lo stato col più alto indice di corruzione e criminalità del blocco di paesi ex-sovietici, a parte il Kosovo, stato guidato dalla mafia (altro candidato membro della UE, forse già per il 2015). Il successo alle elezioni del luglio 2009 dell’uomo forte di stampo mussoliniano Borisov e del suo partito di destra GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) non deve sosrprendere in un paese la cui difficile situazione è diventata la più emblematica della traiettoria aberrante e dell’ondata di malcontento del post-comunismo. Secondo quasi ogni indicatore macroeconomico, l’attuale condizione della Bulgaria è peggiore rispetto a quella del suo passato comunista.

Le statistiche ufficiali mostrano che sia il PIL che il reddito pro-capite della popolazione sono crollati, la rete di sicurezza sociale è stata disintegrata e anche la sopravvivenza fisica di tanti bulgari impoveriti è a rischio. L’effetto immediato delle ‘riforme’ orientate al mercato è stato la distruzione dell’industria e dell’agricoltura bulgare, disoccupazione, inflazione, drammatica disuguaglianza dei salari, povertà schiacciante e anche malnutrizione. Il crimine organizzato e la corruzione endemica sotto forma di nepotismo e favoritismi, concussione, peculato, corruzione, clientelismo, contrabbando, racket, scommesse illegali, prostituzione e pornografia hanno imposto un severo dazio sugli standard di vita e sui mezzi di sussistenza dell’era post-comunista. Un altro sciagurato effetto consiste nella diffusa trascuratezza dei diritti sociali ed economici dei bulgari medi, per i quali la giornata lavorativa di 8 ore non è altro che un ricordo.

La disastrata condizione economica, in cambio, ha generato un clima politico piuttosto mutevole e imprevedibile. Nessuno dei governi eletti nel tormentato periodo post-comunista è riuscito a sopravvivere per più di un mandato (spesso non sono riusciti a concluderlo). Questa mutevolezza dimostra che la natura instabile della politica in Bulgaria è dovuta alla catastrofe della situazione economica e alla chiara incapacità dei dirigenti dei partiti esistenti di offrire una soluzione credibile. Stanchi del declino economico, del disinteresse del governo, della malversazione estrema, del crimine crescente e della corruzione, i bulgari danno sempre un voto di protesta contro la presa di potere di gruppi di politici incompetenti, autoreferenziali, corrotti e criminali che cercano solo il proprio profitto. Ma la fine di questa miseria sembra essere lontana, specialmente perché il governo di Borisov ha imposto un draconiano bilancio di austerità, tagliando almeno il 20% della spesa pubblica.

Allo stesso tempo, la politica è diventata di gran lunga il business più proficuo e anche meno rischioso di qualunque attività imprenditoriale. Così i partiti politici sono diventati come avide corporazioni e ben organizzate cricche prive di ogni scrupolo in cerca di lucro, che cercano di arrivare al potere per arricchirsi sfruttando la letargia della popolazione addomesticata e saccheggiando le risorse del paese, specialmente ora che il paese conta con notevoli quantità di fondi di aiuto straniero e di investimenti dalle UE. Potenti interessi di origine spesso criminale organizzano e finanziano tutti i maggiori partiti politici, aggiungendo in questo modo elementi fortemente plutocratici a una oligarchia sostanzialmente cleptocratica e di stampo mafioso. Ecco perché la gente comune non vede alcuna differenza tra il loro corrotto governo e i ben organizzati consorzi criminali. Quindi non sorprende sentire i bulgari riferirsi al proprio paese come uno ‘stato mafioso’, ‘repubblica delle banane’, ‘circo’ e ‘Absurd-istan’. Stanno ancora aspettando l’arrivo, a lungo promesso, del capitalismo ‘normale’ e di una democrazia ‘normale’ dove la sicurezza economica personale, stipendi sufficienti e decenti standard di vita sostituiranno la mancanza di lavoro, la povertà estrema, la condizione dei senzatetto e lo scoraggiamento sociale. Circa 1.2 milioni di bulgari (il 16% della popolazione), per lo più giovani, hanno espresso il loro voto andando all’estero in cerca di migliori condizioni (l’emigrazione dei poveri ha contribuito a ridurre la popolazione bulgara dai quasi 9 milioni del 1989 a circa 7 milioni di oggi).

Crollo del sostegno popolare 

Subito dopo il crollo del comunismo, i paesi del passato blocco sovietico e altri stati ex-comunisti della regione sono diventati neoliberisti ( e un discreto numero di essi sono anche stati smembrati a livello territoriale) e, ad eccezione delle piccole élite locali pro-occidentali che si comportano da criminali, le loro popolazioni hanno raggiunto una povertà da terzo mondo. Quasi tutti questi 28 paesi eurasiatici hanno sperimentato un declino economico su lungo termine di dimensioni catastrofiche (solo la Polonia è riuscita a sorpassare il PIL che aveva durante il comunismo). Pesanti ricadute economiche, corruzione radicata, e diffuso senso di frustrazione nella popolazione, insieme alle privazioni e sofferenze dell’apparentemente infinita transizione post-comunista, stanno minando il prestigio delle nuove autorità e anche la fiducia della popolazione nella democrazia occidentale e nel capitalismo basato sul mercato. Una nuova generazione di plutocrati rapaci e insensibili, affamati di ricchezza e potere, ha saccheggiato – attraverso un ingiusto e corrotto processo di privatizzazione – i beni dell’economia di stato dei regimi passati e ha ricreato in casa i peggiori eccessi del capitalismo dickensiano del secolo XIX, come se il progresso del secolo XX non fosse mai esistito. In mezzo alla diffusa mancanza di lavoro, all’indigenza, malnutrizione e anche fame, sono sorte in tutte le città grandi ville private di lusso estremo come sontuosi simboli di guadagni illeciti e di ricchezze impensabili per la gente comune che lotta per trovare un lavoro, pagare le bollette e trovare case a prezzi decenti. Questa ‘nuova classe’ di nouveau riche dagli agganci giusti a livello politico, che vive una lussuosa Dolce Vita, sembra essere pronta a commettere qualunque crimine per ottenere profitti e per arricchirsi facilmente, agisce secondo il principio di Luigi XV ‘Après moi, le déluge’ e distrugge le speranze di chiunque per aumentare il proprio profitto e modernizzare il proprio paese secondo lo stile di una nazione ‘civilizzata’. Gli unici affari fiorenti in molte delle ‘economie emergenti’ sembrano derivare dal crimine organizzato, di solito gestito dai cleptocrati presenti nei circoli di potere.

Mentre questo gruppo parassitario di ‘nuovi ricchi’ si arricchisce – in parte evadendo le tasse grazie al nuovo sistema di leggi retrograde di ‘aliquota unica’ – i cittadini dei paesi ex-comunisti ora devono pagare l’assistenza medica, una volta governativa e gratuita, anche se devono pagare imposte salariali, sui mutui e sulle vendite – cose che non dovevano pagare sotto i regimi comunisti. C'è anche la monetizzazione e/o privatizzazione dell’educazione che prima era gratuita, in particolar modo delle superiori e la novità di collegi, scuole e università privati dove gli studenti devono pagare la formazione, incluse le rette per gli esami di ammissione e altri esami obbligatori richiesti ad ogni livello del percorso educativo. I sussidi del governo per la sanità, l’educazione, il supporto legale per ottenere una casa, l’accesso all’elettricità e il trasporto pubblico stanno scomparendo nella corsa al taglio della spesa sociale e al deficit di bilancio, rendendo molto difficile la lotta per la sopravvivenza a molta gente. La regione è diventata una sorta di banco di prova per verificare fino a che livello si può privare la popolazione dei propri diritti sociali ed economici, come quello al salario minimo, vacanze pagate, accesso libero e gratuito al servizio sanitario, all’educazione e alle spese legali, alla pensione all’età di 60 anni per gli uomini e di 55 per le donne e infine al diritto a unirsi ai sindacati. Ma, nonostante i crescenti livelli di disoccupazione e sottoccupazione, la ferrea disciplina del mercato e la mancanza di social welfare o anche di un benché minimo sostegno sociale, l’antico detto dell’era comunista ‘Loro (i padroni) fanno finta di pagarci, noi (i lavoratori) facciamo finta di lavorare’ sembra essere molto più veritiero oggi di quanto lo sia mai stato durante il comunismo. Perché oggi nessuno vuole lavorare sodo per i nuovi datori di lavoro privati e spesso stranieri che sembrano essere interessati solo a spremere quanto più possibile i lavoratori in cambio del minimo. Allo stesso tempo, l’educazione pubblica e le scienze, così come gli istituti di cultura, vengono colpiti in nome del risparmio dei ‘soldi dei contribuenti’ (per esempio l’Accademia nazionale delle scienze è già stata chiusa o sta per esserlo in un certo numero di questi paesi).

In questi paesi schiacciati dalla crisi dove gli standard di vita si sono deteriorati con l’aumento della disoccupazione, povertà e pauperismo, criminalità, così come l’abuso di alcol e droga, insieme a prezzi inaccessibili di cibo, casa e carburante, il consenso pubblico nei confronti dell’operato dei governi è pressoché minimo ovunque. E i paesi in cui questa discrepanza tra le aspettative della popolazione e l’operato dei governi diventa molto ampia, ovvero in quasi tutti i paesi ex-comunisti, l’adesione ai principi democratici si indebolisce sempre di più. I regimi che non rispettano le promesse fatte, a lungo andare perdono la legittimità, rischiando crisi sistemiche (per esempio il paradigmatico caso della Germania di Weimar). Date le terribili condizioni di vita e lavorative, molti cittadini dei paesi ex-comunisti stanno perdendo la fiducia nel credo del capitalismo e della democrazia liberale. Tanti rigettano l’idea che i loro paesi siano di fatto democratici. La percezione negativa della popolazione non può che colpire l’attitudine democratica (cioè la percezione del valore della democrazia) e quindi il cosiddetto ‘deficit democratico’ è statisticamente piuttosto diffuso lungo l’intera regione. Le élite locali che governano stanno lentamente perdendo la loro legittimità.

Di conseguenza, proteste pubbliche e disordini sociali sono diffusi, inclusa la dozzina di controverse rivoluzioni ‘colorate’, che hanno avuto successo o meno a seconda di quanto l’Occidente ha garantito il proprio appoggio contro governi legittimamente eletti ma diventati estremamente impopolari. Nel gennaio 2011, per esempio, sono stati uccisi molti manifestanti e 150 sono rimasti feriti durante una manifestazione contro il governo a Tirana, capitale dell’Albania. Il primo ministro albanese Sali Berisha ha giurato che non avrebbe permesso l’abbattimento del suo governo, ma l’opposizione ha organizzato altre manifestazioni a Tirana e in altre città albanesi e ha promesso di organizzarne altre in futuro. I sostenitori del partito socialista, all’opposizione, accusano le autorità per la cattiva gestione finanziaria, la criminalità e la corruzione pandemiche, il crollo dell’economia e per la mancanza di servizi di pubblica utilità. Chiedono anche nuove elezioni, sostengono infatti che il governo ha falsato il voto delle elezioni vinte con minimo margine dai democratici di Berisha nel 2009. Le tensioni sono aumentate per l’accusa di Berisha nei confronti dei socialisti di aver tentato ‘una rivolta simile a quella tunisina’, riferendosi alla sanguinosa rivolta in Tunisia dove sono state uccise decine di persone. Simili proteste antigovernative si tengono regolarmente nella Georgia post-sovietica, nonostante i tentativi delle autorità ‘democratiche’di schiacciare il dissenso. L’opposizione contesta a Mikheil Saakashvili, l’uomo forte della Georgia, la disastrosa guerra con la Russia e il collasso del paese. ‘La stragrande maggioranza del paese è sull’orlo della povertà. Niente funziona in Georgia tranne lo stato di polizia’, ha detto Lasha Chkhartishvili del partito conservatore all’opposizione, ai giornalisti stranieri nel mese di febbraio durante le manifestazioni contro Saakashvili tenute intorno al palazzo del parlamento nella capitale georgiana, Tbilisi. “Il regime dittatoriale di Saakashvili presto cadrà perché la pazienza della popolazione ha un limite’[4]

Al momento, l’attenzione di tutti è diretta al mondo musulmano e al tentativo delle nazioni arabe a favore della democrazia di trasformare la politica lungo il Grande Medioriente. Ma il germe di queste sorprendenti rivolte esiste quasi dappertutto, specialmente nelle aree del post-comunismo. Provocare disordini per contestare la povertà, la mancanza di lavoro e il ladrocinio endemico da parte delle autorità dopo oltre 20 anni di dominio post-comunista incompetente, corrotto e disonesto – in combinazione con il disastroso esperimento di laissez faire dell’intero blocco ex sovietico –, ha prodotto una profonda instabilità regionale per cui la sopravvivenza di alcuni regimi sostenuti dall’Occidente sembra essere a rischio. Questo dato è confermato da una speculazione senza precedenti che ricorda fortemente il periodo subito anteriore alla caduta del comunismo – come i commenti di molti lettori sui forum dei media locali – sull’instabilità e reversibilità del nuovo ordine post- comunista e la sua possibile sostituzione con la ‘democrazia rivoluzionaria’ di certi paesi latinoamericani. Questo senso di insicurezza e di fragilità è stato rafforzato dall’ondata di nostalgia per il comunismo che attraversa i paesi ex-comunisti.

La nostalgia del comunismo 

C'è una grande delusione per le mancate promesse dalle rivoluzioni del 1989, che hanno portato a un rapido declino degli standard di vita dei cittadini una volta comunisti. La diffusa esasperazione per l’impoverimento, la corruzione, la piccola criminalità e per il generale caos sociale che hanno caratterizzato la transizione al capitalismo e alla democrazia di stampo occidentale, ha prodotto una crescente nostalgia per il passato comunista tra la gente comune (quella che non fa parte dell’ élite cittadina e pro-occidentale di questi paesi), che guarda con simpatia ai ‘bei vecchi tempi’ del comunismo, una inquietante tendenza diffusa nella regione e conosciuta come ‘Soviet chic’.

Secondo l’Indagine Strategica e di Valutazione della Romania, recentemente pubblicata, il 45% dei rumeni ritiene che sarebbe stato meglio se non ci fosse stata la rivoluzione anti-comunista. Il 61% degli intervistati ha dichiarato di vivere in condizioni molto peggiori rispetto al periodo di Ceausescu, solo il 24% dichiara di vivere meglio ora. Se i risultati di questa inchiesta sono credibili (è stata condotta verso la fine del 2010 su un campione di 1476 adulti e può avere un margine di errore del più o meno 2.7%), allora Ceausescu ha assunto il valore di martire presso i rumeni. Almeno l’84% crede che è stato sbagliato giustiziarlo senza un processo equo e il 60% si dispiace della sua morte.[5] Secondo un’altra indagine recente, il 59% dei rumeni considera il comunismo una buona idea. Circa il 44% degli intervistati pensa che è stata una buona idea ma applicata male, mentre solo il 15% ritiene che sia stato ben realizzato. Appena il 29% dei rumeni vede il comunismo come una cattiva idea. Non ci sono differenze significative tra uomini e donne su questa domanda, ma le opinioni sul comunismo cambiano a seconda di età e luogo di residenza. La maggioranza di chi ha più di 40 anni vede nel comunismo una buona idea ( il 74% di questi ha più di 60 anni e il 64% è di età compresa tra i 40 e i 59 anni). Ma solo una minoranza delle nuove generazioni, che non hanno conosciuto il regime di Ceausescu, la pensa allo stesso modo (il 49% in età compresa tra 20 e 39 anni e solo il 31% di chi ha meno di 20 anni). Gli interpellati che vivono in zone rurali hanno una visione più positiva – solo il 21% di loro considera il comunismo una cattiva idea, rispetto al 34% di chi abita in zone urbane.[6] E molti rumeni ricordano con nostalgia i giorni felici di quando la maggioranza di loro avevano un lavoro stabile, case date dallo stato a prezzi popolari, salute pubblica, e vacanze pagate dal governo sul Mar nero. “Rimpiango la fine del comunismo – non per me, ma lo penso quando vedo i miei figli e nipoti lottare così tanto” racconta un meccanico in pensione di 68 anni. “Avevamo lavori sicuri e salari decenti sotto il comunismo. Avevamo abbastanza da mangiare e andavamo in vacanza con i bambini.”[7]

Il ‘Soviet chic’ è particolarmente popolare tra gli abitanti della ex Germania dell’est dove si parla di ‘Ostalgia’.[8] Secondo Der Spiegel, una rivista tedesca di orientamento conservatore, “a due decenni dal crollo del muro di Berlino, la glorificazione della Repubblica Democratica Tedesca è in crescita. I giovani e i benestanti sono tra coloro che legittimano la Repubblica Democratica Tedesca (RDT). “La RDT aveva più aspetti positivi che negativi. C’erano problemi ma si viveva bene”, sostiene il 49% degli intervistati. L’otto per cento dei tedeschi dell’est non ammette critiche nei confronti della loro ex patria o è d’accordo con l’affermazione secondo cui “la RDT aveva aspetti per lo più positivi. SI viveva più felici e meglio che nella Germania riunificata..” I risultati di questa inchiesta sono stati pubblicati per il ventesimo anniversario dalla caduta del muro di Berlino e rivelano la profonda nostalgia della ex Repubblica Democratica da parte di molti tedeschi dell’est. E non da parte di persone anziane. “È nata una nuova forma di Ostalgia” ha affermato lo storico Stefan Wolle. “Il desiderio di vivere in una dittatura idealizzata va oltre l’idealizzazione dei dirigenti governativi” si lamente Wolle. “Anche i giovani che non hanno vissuto durante la RDT la idealizzano”.

“Meno della metà dei giovani nella Germania est descrive la RDT come una dittatura, e la maggior parte sostiene che la Stasi era un normale servizio di intelligence.” Questa è la conclusione sui giovani della Germania est cui è arrivato il politologo Klaus Schroeder, direttore di un istituto di ricerca alla Libera Università di Berlino che studia il passato stato comunista. Questi giovani non possono - e di fatto non vogliono – riconoscere i lati oscuri della RDT”. La ricerca di Schroeder fornisce una prospettiva scioccante sui delusi cittadini della ex RDT. “Oggi molti pensano di aver perso il paradiso quando cadde il muro” dice un abitante della Germania est, un altro uomo di 38 anni ringrazia dio per aver vissuto durante la RDT, perché solo dopo la sua fine ha visto gente senza un tetto, mendicanti e poveri che temono per la propria sopravvivenza. Oggi la Germania, così la descrivono in molti, è uno ‘stato schiavo’ e una ‘dittatura capitalista’, alcuni rifiutano del tutto la riunificazione perché la Germania appare essere troppo dittatioriale e capitalista, certamente non democratica. Queste opinioni, secondo Schroeder, sono allarmanti: “Temo che la maggioranza dei tedeschi dell’est non si riconoscano con l’attuale sistema sociopolitico”. Un altro cittadino dell’est sostiene nell’articolo dello Spiegel che “nel passato la gente si divertiva e godeva della propria libertà anche in un campeggio”. Ciò che più gli manca è “quella sensazione di amicizia e solidarietà”. Il suo verdetto sulla RDT è chiaro: “Per quanto mi riguarda, in quei tempi non vivevamo in una dittatura come quella di oggi”. Non solo vuole vedere di nuovo la parità salariale e pensionistica ma si lamenta del fatto che la gente ricorre all’inganno e alle menzogne dappertutto nella Germania riunificata. Le ingiustizie oggi vengono perpetrate in modo più ambiguo rispetto al passato, quando i salari da fame e la microcriminalità erano fenomeni del tutto sconosciuti.[10]

In risposta allo spirito nostalgico del comunismo, ampiamente diffuso nell’intera regione, e al radicale cambio d’opinione secondo cui l’ultimo leader della Polonia comunista, il generale Wojciech Jaruzelski, è molto più popolare del prima riverito ma ora marginalizzato Lech Walesa, ex leader del sindacato Solidarnosc, Nobel per la pace ed ex presidente della Polonia e icona dell’anticomunismo, i ferventi anti- comunisti polacchi hanno rivisto il codice penale e vi hanno incluso la proibizione di qualunque simbolo del comunismo. Sotto questa nuova legge degna dell’Inquisizione cattolica medievale, i polacchi possono essere multati e messi in prigione se trovati a cantare l’Internazionale, o se portano una bandiera rossa, una stella rossa o l’insegna della falce e il martello e altri simboli dell’era comunista, o se indossano una maglietta del Che Guevara. Allo stesso modo, il governo conservatore della Repubblica Ceca sta cercando di mettere fuorilegge il partito comunista delle regioni della Boemia e Moravia (anche se nell’ultima ha ottenuto l’undici per cento alle ultime elezioni tenute in maggio 2010 ed è rappresentato in entrambe le camere del parlamento) apparentemente perché la dirigenza si rifiuta di eliminare la sacrilega parola “Comunista” dal nome del partito. Molti paesi ex-comunisti membri della UE hanno chiesto a Bruxelles di far pressione affinché fosse proibito in tutta la comunità europea negare i crimini dei vecchi regimi comunisti. “Il principio della giustizia dovrebbe garantire un giusto trattamento per le vittime di tutti i regimi totalitari”, hanno scritto in una lettera indirizzata alla Commissione europea di giustizia i ministri degli esteri della Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia, Lituania e Romania, e hanno insistito sul fatto che “ il perdono pubblico, la negazione e la trivializzazione grossolana dei crimini dei regimi totalitari” dovrebbero essere criminalizzati in tutti i paesi membri della UE. Il parlamento europeo, dietro istigazione di deputati anti-comunisti provenienti da paesi post-comunisti, ha già approvato una controversa risoluzione sul “totalitarismo” che equipara il comunismo con il nazismo e fascismo. Ma queste misure punitive non hanno minimamente intaccato l’epidemia della nostalgia per il comunismo: la maglietta più in voga tra i berlinesi dell’est in questo momento riporta la seguente frase: “Ridatemi il mio muro. E questa volta fatelo due metri più alto!”

È il turno dei paesi ex-comunisti? 

Con l’attenzione dei governi occidentali rivolta alle tensioni e ai conflitti del mondo arabo, si tende ad ignorare o dimenticare le crisi che attanagliano le nazioni ex-comuniste. Date le dilaganti diseguaglianze, la miseria, la corruzione dei governi e la criminalità organizzata che hanno caratterizzato l’ordine post-comunista, la situazione in queste terre non è meno incendiaria di quella del Nord Africa e del Medioriente e presto potrebbe diventare più agitata di quel che si può immaginare ora. È possibile tracciare uno scenario futuro simile a quello della Tunisia, Egitto e addirittura della Libia?

Per ora, i pazienti cittadini di questi paesi dopo aver sofferto già tanto, stanno stringendo i denti nella speranza che le prossime elezioni portino al potere un messianico salvatore su un cavallo bianco che – assistito dalla generosa assistenza dell’Occidente dalle tasche apparentemente mai vuote – alla fine possa liberare le loro società, colpite dal collasso economico e dalla povertà, dall’abisso in cui sono precipitate. La gente comune che vive in quei paesi crede che le rivoluzioni democratiche e le grandi aspettative siano state tradite, sequestrate o rubate da varie ‘forze oscure’, dall’élite ex-comunista che ha rimpiazzato il passato potere politico con quello economico, alla corrotta alleanza (agli occhi della popolazione di sinistra) tra gli ambiziosi pseudo democratici locali e gli avidi capitalisti occidentali, e infine, a una insidiosa cospirazione che coinvolge l’FMI, la Banca Mondiale, la Soros Foundation e la ‘finanza ebraica internazionale’ (di solito, secondo gli estremisti della destra nazionalista). Si può dire, insieme a Sir Robert Chiltern della commedia di Wilde Un marito Ideale, che “Quando gli dei vogliono punirci esaudiscono le nostre preghiere”.

Solo il tempo può dire se le preghiere esaudite dei paesi ex-comunisti saranno state una punizione del cielo. D’altro canto, potrebbero sorgere nuove idee su come resistere al potere schiacciante delle banche internazionali e delle corporazioni con l’adozione di riforme di tipo progressista con l’obiettivo di creare un ordine mondiale democratico libero dai signori della globalizzazione e dall’élite compradora locale ad essi asservita.

Note

[1] George Jahn, “In Romania, Turmoil Fuels Nostalgia for Communism,” Washington Post, 11 gennaio, 2011.
[2] Michael Hudson e Jeffrey Sommers, “Latvia Provides No Magic Solution for Indebted Economies,” Guardian.co.uk, 20 dicembre, 2010.
[3] “There’s More at Stake than Just Freedom of the Press,” Der Spiegel International, 19 gennaio, 2011. 
[4] “Saakashvili Has Turned Georgia into A Police State,” Interfax, 11 febbraio, 2011.
[5] “45% of Romanians Say ‘Ceauşescu, Please Forgive Us for Being Drunk in December (1989)’,” Bucharest Herald, 29 dicembre, 2010.
[6] I risultati di questa indagine condotta tra un campione rappresentativo di rumeni tra il 22 ottobre e il 1 novembre 2010 sono stati pubblicati dall’Istituto per lo Studio dei Crimini del Comunismo e per la Memoria degli Esiliati Rumeni, questo il link: http://www.crimelecomunismului.ro/en/about_iiccr
[7] Jahn, “In Romania, Turmoil Fuels Nostalgia for Communism.”
[8] ‘Ostalgia’ deriva dalla parola in tedesco Ost (est) e Nostalgie (nostalgia) e si riferisce al diffuso senso di appartenenza a molti aspetti della vita della RDT.
[9] Julia Bonstein, “Majority of East Germans Feel Life Better under Communism,” Der Spiegel International, 3 luglio, 2009. 
[10] Ibid. In un articolo scritto sul Guardian in occasione del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, un’accademica della ex-Germania dell’est lamenta il crollo della RDT che offriva “eguaglianza sociale e di genere, piena occupazione e la mancanza di paure esistenziali, e sosteneva le rendite”. Secondo lei l’unificazione ha “portato divisione sociali, disoccupazione diffusa, ricatti, un crasso materialismo dove si va avanti sgomitando”. Bruni de la Motte, “East Germans Lost Much in 1989: For Many in the GDR the Fall of the Berlin Wall and Unification Meant the Loss of Jobs, Homes, Security and Equality,” Guardian.co.uk, 8 novembre, 2009.
Titolo originale: "The Tragic Failure of "Post-Communism" in Eastern Europe"

Fonte: http://www.globalresearch.ca
Link
08.03.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RENATO MONTINI


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Ces Allemands nostalgiques du «paradis» perdu de RDA


Patrick Saint-Paul, correspondant à Berlin
30/06/2009 | Mise à jour : 11:05

Oubliés les privations de libertés, les bas salaires, les pénuries, l'interdiction de voyager : la moitié des Ossies regrettent le régime communiste.

Près de vingt ans après la chute du mur de Berlin, de nombreux Allemands de l'Est continuent à cultiver une nostalgie pour leur pays disparu. Au regard de la crise économique, qui frappe durement l'Allemagne, certains d'entre eux n'hésitent plus à comparer la RDA à une sorte de «paradis social», où régnait la sécurité de l'emploi. Selon un sondage publié lundi, près d'un Allemand sur cinq originaire d'ex-RDA est nostalgique du mur de Berlin et du régime communiste est-allemand.

Selon ce sondage réalisé par un institut de Leipzig et publié dans le magazine culte de l'Est Super Illu, 17 % des Allemands de l'Est approuvent la phrase : «Il aurait mieux valu que le Mur ne tombe pas. Avec le recul, la RDA était avec son socialisme un meilleur État.» Parmi les chômeurs, «l'Ostalgie» - la nostalgie envers l'Est - atteint des proportions records : 44 % des chômeurs souhaiteraient le retour du régime communiste, qui fournissait un travail et un logement à tous.

Plus de la moitié des Ossies (Allemands de l'Est) se considèrent comme des «citoyens de seconde zone», alors que 41 % s'estiment au contraire traités sur un pied d'égalité avec les Allemands de l'Ouest. Depuis la réunification en 1990, l'ex-RDA a bénéficié d'investissements publics massifs mais n'a jamais rattrapé le niveau de vie de l'Ouest. Les salaires et les retraites restent inférieurs à l'Est, où le taux de chômage est en moyenne deux fois plus élevé qu'à l'Ouest.

Selon une autre étude, dont les résultats ont été publiés dans le dernier numéro de l'hebdomadaire Der Spiegel, 57 % des Allemands de l'Est n'hésitent pas à défendre en public l'ancien régime du parti unique (SED). Et 49 % approuvent la phrase : «La RDA avait davantage de bons côtés que de mauvais côtés. Il y avait quelques problèmes, mais on pouvait y vivre bien.» Certains ont totalement oublié les privations de libertés, les bas salaires, les pénuries, l'interdiction de voyager à l'étranger et l'étroite surveillance de la Stasi, la police secrète. Ainsi, ils sont 8 % à juger que «l'on vivait mieux et plus heureux en RDA qu'aujourd'hui».


Le danger de la banalisation


Pour l'historien Stefan Wolle, une nouvelle forme d'Ostalgie a vue le jour. «La nostalgie de la dictature dépasse de loin le cadre des anciens fonctionnaires du régime», explique-t-il. Certains jeunes issus de l'Allemagne de l'Est n'hésiteraient pas à idéaliser la RDA, bien qu'ils ne l'aient pas connue. Ceux-là ont fait de la défense du pays de leurs parents une question de fierté. Une inquiétante étude publiée l'année dernière avait souligné le manque d'information de la jeunesse est-allemande concernant la dictature communiste de RDA et pointé les défaillances du système éducatif sur cette page de l'histoire allemande.

Une majorité de jeunes Allemands de l'Est ignorait qui avait construit le mur de Berlin et pensait que le dictateur Erich Honecker, secrétaire général du SED, avait été élu démocratiquement, ou encore que l'environnement était mieux protégé en RDA qu'à l'Ouest.

Klaus Schroeder, le politologue qui avait mené l'étude, met en garde contre la banalisation de l'ancienne dictature communiste par une jeunesse qui n'a pas connu la RDA et qui tient son savoir de discussions familiales et non de l'enseignement dispensé à l'école. «Les jeunes Allemands de l'Est ne sont même pas une moitié à dépeindre la RDA comme une dictature et une majorité d'entre eux considèrent la Stasi comme un service secret normal», déplore Schroeder. Spécialisé dans les recherches sur la RDA à la Freie Universität de Berlin, Schroeder affirme que «beaucoup d'Allemands de l'Est considèrent la moindre critique de l'ancien système comme une agression personnelle». Cependant, selon l'étude publiée par Super Illu, ils sont aussi une écrasante majorité à ne pas souhaiter de retour en arrière. Près des trois quarts des Ossies (72 %) se disent «heureux de vivre dans l'Allemagne réunifiée avec son économie sociale de marché, malgré tous les problèmes de la reconstruction à l'Est».





Restiamo umani. L' "omicidio mirato" di Vittorio Arrigoni

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Il blog di Vittorio Arrigoni:

Sullo strano rapimento e l' "omicidio mirato" di Vittorio Arrigoni si vedano anche i link:

http://www.infopal.it/leggi.php?id=18080 
http://www.gennarocarotenuto.it/5396-uccidete-vittorio-arrigoni/
http://www.indika.it/?p=481
http://italy2.copyleft.no/node/12443
http://www.radiocittaperta.it/index.php?option=com_content&task=view&id=193&Itemid=9

A proposito della "Freedom Flottilla II" e delle intimidazioni cui l'iniziativa è sottoposta si veda invece:


VERSO LA MANIFESTAZIONE DEL 14 MAGGIO. Con la Freedom Flotilla per la fine dell'assedio di Gaza

Le minacce di Berlusconi

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Da: Yousef Salman <y_salman@...>

Oggetto: Addio caro Vittorio

Data: 15 aprile 2011 08.53.46 GMT+02.00


CARO  VITTORIO,

Di sicuro i tuoi assassini  conoscevano chi eri e cosa rappresentavi. Non è importante chi erano gli assassini e cosa rappresentano, ma alla fine dei conti, hanno commesso un delitto e un brutale odioso assassinio.
Hanno ucciso un uomo libero, un amante della libertà e della giustizia, un amico della pace e del popolo palestinese, che tu ha difeso, hai amato e che hai fatto della sua causa una ragione di esistenza e di vita.
Non so chi sono e cosa rappresentano, ma so che NON sono palestinesi, che sono un pericolo serio e costante per i palestinesi e che sono degli assassini della Palestina, della sua causa, del suo popolo e dei suoi veri e sinceri amici. Sono nemici dell'umanità che Vittorio ha sempre cercato di difendere  e fare vincere in Palestina.
Vittorio potevi rimanere in Italia a fare la bella vita e so che tu appartiene a una grande famiglia, benestante e ricca di grandi valori, hai  lasciato il tuo benessere per venire a vivere fra i più poveri e sfortunati  della terra, nell'inferno di Gaza e hai voluto sposare la giusta causa del popolo più disgraziato e sfortunato al mondo.
La morte drammatica tua, Vittorio non è diversa ed è simile con quella del grande artista palestinese ebreo, Juliano Mer Khamis, ucciso una settimana prima nel Campo profughi di Jenin.
Lo so che il destino dei liberi sognatori, dei veri rivoluzionari, degli onesti idealisti è in contrasto con ed in scontro continuo contro il mondo dell'ignoranza, dell'estremismo, della prepotenza, della pazzia e della repressione e della brutalità
dell'occupazione israelo-sionista alla Palestina. Lo so e lo sappiamo che l'arma dell'ignoranza e dell'estremismo è  la pallottola, la violenza e l'odio ed in pochi attimi può sterminare una vita buona ed innocente  dedicata
a favore e al  servizio della causa palestinese e del suo popolo.
Di sicuro chi ti ha ucciso, sa chi sei e cosa rappresenti, la carica ideale, i valori che porti e che difendi e di sicuro è riuscito a fare e realizzare ciò che non è riuscito a fare e realizzare da tempo  il nemico comune: l'occupante israeliano.
E' l'occupazione israeliana è l'unica parte vantaggiato dalla tua scomparsa,  grande e caro amico Vittorio.
Vittorio ti sei innamorato della Palestina e di Gaza in particolare ma anche i palestinesi e particolarmente quelli di Gaza, si sono innamorati di te, Vittorio e della tua bella Italia.
Vittorio sarai sempre nei nostri cuori e viverai sempre nella nostre lotte, per una Palestina libera, laica e democratica.
ADDIO CARO FRATELLO E RESTIAMO ANCORA UMANI..

Dr. Yousef Salman
Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia
http:/www.palestinercs.org


(english / italiano)

La situazione sociale in Serbia e dintorni

1) Il 10% dei serbi vive sotto la soglia della povertà
2) Disoccupazione e povertà in Serbia
3) Rising social protests in the Balkans


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fonte: Notiziario Vie dell' Est - http://www.viedellest.eu/

06 aprile 2011 - Serbia

Il 10% dei serbi vive sotto la soglia della povertà

In Serbia 700mila persone, pari a circa il 10% dell’intera popolazione, vivono al di sotto della soglia di povertà. Ciò vuol dire, come ha detto alla tivù B92 il ministro del Lavoro, Rasim Ljajic, che tali famiglie più bisognose (in media di tre persone) hanno un reddito mensile inferiore a 18.500 dinari (circa 181 euro), parecchio al di sotto del paniere minimo di consumi stimato in 23mila dinari (225 euro).
“La Serbia non è Belgrado, dove si vive mediamente bene, e a 30 chilometri a nord e a sud della capitale la situazione è ben diversa”, ha ammesso Ljajic. Secondo il ministro, la popolazione in queste aree “è in una situazione catastrofica, conseguenza delle privatizzazioni sbagliate e dei mancati progressi nel processo di transizione”. La gente, ha concluso, “in queste aree vive ancora negli anni Novanta”.
Sempre in tema di povertà, a Veliki Trnovac, isola interamente albanese nel sud povero della Serbia, la popolazione ha un’unica speranza: quella di ricongiungersi un giorno con il vicino Kosovo. I quasi diecimila abitanti del paesino presso Bujanovac (l’unico della Serbia a non avere un solo abitante di etnia serba), scrive l’agenzia Ansa, vivono in una condizione di arretratezza e miseria estreme che alimentano la voglia di secessione e le critiche al governo centrale di Belgrado.


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Disoccupazione e povertà in Serbia


Mangiano male e sono sovrappeso, fumano e bevono troppo, lo stipendio non basta per coprire i bisogni più essenziali e soprattutto molti non hanno lavoro. Da una serie di indagini rese pubbliche in questi mesi in Serbia emerge una società in forte crisi

Come  dimostra una recente indagine dell’Istituto nazionale per le statistiche, il numero dei disoccupati in Serbia è salito dall’ottobre del 2008 all’ottobre del 2010 da 457.205 a 565.880 unità. L'indagine - commissionata dall’Agenzia internazionale per il lavoro e dall’Agenzia della comunità europea per la statistica, Eurostat - mostra come il tasso di disoccupazione sia aumentato in due anni dal 14% al 20%. Per gli uomini è cresciuto dal 12,1% al 19% mentre per le donne dal 16,5% al 21,2%.


Dati diversi dall’Ufficio nazionale di collocamento

L’Ufficio nazionale di collocamento offre dati che mostrano un’immagine ancora peggiore. Secondo le loro informazioni, in Serbia vi sarebbero circa 730.000 disoccupati. Ma molti media nel Paese affermano che il loro numero si attesterebbe sul milione di persone.
All’Ufficio nazionale di collocamento intanto c’è grande aspettativa per i nuovi programmi statali messi in campo per creare nuovi posti di lavoro, per i quali si è passati da un budget di 36 milioni di euro del 2010 a 54 milioni per il 2011. Dejan Jovanović, direttore dell’Ufficio nazionale di collocamento, si augura che almeno 60.000 persone quest’anno otterranno un nuovo impiego, grazie ai programmi finanziati col budget statale.
È già stato avviato un programma orientato ai giovani, chiamato “La prima occasione”, che dovrebbe garantire loro un primo impiego e molte agevolazioni alle aziende che li assumono. All'inizio del 2011 è stato introdotto anche un nuovo programma chiamato “Pratica professionale” (Stručna praksa) rivolto a 5.000 giovani di età inferiore ai 30 anni nel quale, oltre alle aziende del settore privato, saranno incluse anche quelle statali.
Jovanović sostiene che ci saranno inoltre risorse speciali messe a disposizione dei giovani imprenditori. “Noi vogliamo sostenere la piccola imprenditoria in Serbia e per questo programma spenderemo 300 milioni di dinari (circa 3 milioni di euro) – spiega Jovanović – prevediamo l’apertura di 2.000 negozi da parte di persone iscritte sulla nostra lista di collocamento. Siamo in grado di garantire 160.000 dinari a tutti quelli che avranno voglia di avviare un’impresa ma prima li dobbiamo istruire per farlo. Una delle idee di questa agenzia è anche di aiutare i comuni poco sviluppati dove il datore di lavoro riceverà tra i 300.000 (circa 3.000 euro) e i 400.000 dinari (circa 3800 euro) per ogni nuovo dipendente assunto”.
Al programma ha preso parte un’azienda tedesca a Vranje, Serbia meridionale, presso la quale entro la fine del 2011 400 persone otterranno un nuovo posto di lavoro. “È molto importante che in questa parte del Paese si offrano nuovi posti di lavoro perché è sottosviluppata", ha dichiarato il premier Mirko Cvetković. Ma per il presidente dell’Associazione delle piccole e medie imprese, Milan Knežević, questi programmi sono solo parziali e non rappresentano una vera soluzione ai problemi. La sfida per il Paese a suo avviso è piuttosto quella di creare l’ambiente dove gli investitori esteri ma anche locali possano creare nuovi posti di lavoro. “Le misure a breve termine non potranno mai dare risultati soddisfacenti. Si tratta solo di improvvisazione e spesso questo serve per affermare la forza politica, l’abuso di potere, il guadagno e la promozione personale”, ha aggiunto Knežević.


Un potere d’acquisto quasi inesistente

Dai dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come il potere d’acquisto dei cittadini serbi, nel 2010, è notevolmente diminuito: i prezzi per il cibo sono saliti del 20%, l’abbigliamento aumentato del 6% e il prezzo della benzina del 10%. E le buste paga sono rimaste “magre”.
Saša Đogović, economista dell’Istituto per le indagini di mercato (IZIT), spiega che i cittadini serbi spendono più della metà del proprio per il cibo e la casa. “Circa il 56% dello stipendio se ne va per i bisogni essenziali, solo per il cibo spendono il 41%. In Bulgaria per esempio la cifra è minore, è circa del 34,7% e questo mostra che la Serbia, rispetto agli altri paesi balcanici, si trova in una pessima posizione”,  afferma Đogović.
I dati dell'Istituto per le indagini di mercato dimostrano che per comprare cibo al supermercato all’inizio del 2010 servivano circa 4.500 dinari a settimana (44 euro circa), mentre adesso la cifra è aumentata a 6.000 dinari (circa 58 euro).
Negli ultimi due anni a Belgrado (che ha un livello di vita più alto delle altre città) sono aumentate le cucine popolari dove mangiano 10.185 belgradesi. Il segretario per la protezione sociale della città di Belgrado, Vladan Ðukić, ammette che le cucine popolari sono ormai 46, raddoppiate rispetto all’anno scorso. “Nelle città europee le persone muoiono di fame per la strada, da noi ancora non è successo”, tiene però a precisare.
Non si prevede, tra l'altro, che l'attuale tasso di inflazione, pari al 10,3%, diminuirà nei prossimi 6 mesi. In queste condizioni non sono solo i disoccupati in difficoltà, ma anche chi lavora, per non parlare dei pensionati, non può permettersi che acquistare generi di prima necessità. Il portale B92 ha intervistato alcuni cittadini di Belgrado che hanno detto che non comprano assolutamente nulla. Altri affermano: “Spendo per i figli e basta. Spendo solo per il cibo, se dovessi aver bisogno di qualcos’altro dovrei chiedere il mutuo o un prestito”. Che non rimane davvero niente per il resto lo dimostrano anche i dati statistici forniti dalla stessa emittente: solo lo 0,7% del reddito va per l’educazione e il 4,5% per la salute. E se si pensa che lo stipendio medio in Serbia è di 34.444 (335 euro circa) dinari è fuori di dubbio che resta molto poco per gli extra.


Gli unici non in crisi sono i matrimoni

I cittadini della Serbia, come dimostrano i dati dell’Istituto nazionale di statistica, nel 2010 si sposavano come nel 2009 ma sono calati il numero dei divorzi. Questo non vuol dire che i serbi abbiano imparato ad apprezzare di più la famiglia ma si tratta della sicurezza economica che è più stabile in due. Come afferma il sociologo Ognjen Radonjić della Facoltà di filosofia, è normale che la crisi matrimoniale sia maggiore nei Paesi più ricchi e quindi non è strano che da noi i matrimoni resistano. “La pessima situazione economica influenza le persone che non decidono così facilmente di divorziare”, dice Radonjić. “In generale, la mancanza di soldi influenza tutti gli aspetti della vita. C’è troppa differenza tra i ricchi e i poveri e la povertà spesso è seguita dalla criminalità e dalla mancanza di valori. E non c’è neanche la solidarietà tra le generazioni, perché col passare degli anni siamo sempre più tirchi ed egoisti”.


La salute peggiora, troppa preoccupazione

L’anno scorso lo stress era la diagnosi più diffusa in Serbia e un quarto dei cittadini abusavano di alcool. “La causa del peggioramento della salute è sicuramente l’alcool e il cibo pesante e unto – sostiene il dottor Petar Božović dell’Istituto per la salute pubblica Dr Milan Jovanović Batut - molte più persone soffrono di malattie al fegato ma almeno, con la legge che proibisce il fumo nei luoghi pubblici si spera che diminuirà il numero delle persone che fumano. Sulla tavola si trovano cibi di poca qualità, non c’è frutta e verdura, tutto è troppo grasso e condito. Quindi non sorprende che le persone siano sovrappeso e che le malattie come il diabete siano in aumento.”


Debiti fino al collo e aiuti statali

E se non ci sono soldi, ci si indebita. Da dati dell'Istituto nazionale di statistica emerge come i serbi si stanno indebitando, nel 2011, del 29% in più rispetto all’anno precedente ed ora il debito complessivo con le banche ammonta a oltre 5 miliardi di euro.
Lo Stato aiuta quotidianamente circa 800.000 persone con vari mezzi: denaro, pasti caldi, servizi vari. A gennaio di quest’anno il numero delle famiglie che hanno ricevuto aiuto per i propri figli  è cresciuto del 5% rispetto alla media dell’anno scorso. Ed anche se questi 2.034 dinari (circa 20 euro) al mese, stanziati dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, non sembrano una cifra significativa, ad essi non rinunciano i genitori di 395.000 bambini della Serbia.
“Le cifre stanziate in aiuto di famiglie con figli sono davvero una cosa simbolica ma sono comunque rilevanti per il nostro budget”, ha dichiarato Zoran Martinović, segretario di Stato per il ministero del Lavoro e le Politiche sociali. “Vista la situazione non è immaginabile aumentare questa cifra nei prossimi mesi”, ha concluso.
Emblematica la chiosa di un recente articolo pubblicato da B92: “Neanche quest’anno è successo il miracolo, siamo ancora la nazione più vecchia, non abbiamo avuto un grande numero di nascite dei bambini e le previsioni di sociologi, medici ed economisti non sono rosee. Dicono che quest’anno sarà ugualmente brutto come quello precedente.”

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Rising social protests in the Balkans


By Markus Salzmann 
15 April 2011


Political and social unrest has increased in the Balkan region during the past weeks and months. Young people in particular have protested against the corrupt elite layers in the former Yugoslavian federal republic which, at the behest of the International Monetary Fund and the European Union, have enforced drastic austerity programs with calamitous consequences for the population.

In Croatia, protests continue against the administration of Jadranka Kosor, but currently with significantly less participation. While 10,000 demonstrated last month, the current protests involve just a few hundred.

The main reason for this development is the lack of perspective of the protests, whose only formulated goal is new elections—despite the sobering experiences with all the established political camps since Croatia’s independence.

Particularly those under the age of 30 are affected by unemployment, whose official level is almost 20 per cent. A further ten percent of Croats work but do not receive any wage or receive payment only sporadically. The few remaining social benefits are so low that they do not permit a normal life, with basic prices increasing rapidly. Fuel prices alone have risen by more than 30 percent within two weeks.

Prime Minister Kosor has lost a massive amount of support since last year’s election. In her party, the right-wing conservative HDZ (Croatian Democratic Union), several factions are fighting fiercely. Kosor hardly gives any press conferences and at public appearances she is often seen fighting back tears.

The social democratic opposition is unable to benefit from the government crisis. Its leader, Zoran Milanovic, is visibly cautious in criticizing Kosor and, according to polls, his SDP is hardly winning any support. Like the HDZ, the SDP is torn by political infighting and corruption scandals.

In the absence of a genuine political alternative, right-wing forces have been increasingly able to dominate the protests. Ivan Pernar, a 25-year-old nurse who helped organize the protests in the Croatian capital via Facebook, openly states his right-wing, nationalist views. He has founded the so-called “Alliance for Reforms” and hopes to enter parliament in the event of early new elections.

According to Pernar, the demand for a “new system” especially affects the “monetary sovereignty” of Croatia. In defence of the latter, Pernar not only rails against the European Union bureaucrats sitting in Brussels, but also against all those who strive for a reconciliation with the neighboring state of Serbia. At demonstrations he demands “more capitalism” together with “nationalization of banks”.

Pernar was an activist for the Green Party for some time before becoming an admirer of the Dutch racist and Islamophobe Geert Wilders. With such forces leading protests, it is no surprise that ultra-right groups are trying to use the protests to their advantage.

Alongside right-wing peasant associations and violent hooligans from the Dinamo Zagreb soccer club, known as the “Bad Blue Boys”, the protest movement is dominated by war veterans. These veteran associations are openly fascist organizations and consider themselves the heirs of Ustasha, the fascist movement of the 1920s and 30s.

These right-wing forces are supported by the ruling powers. The initial protests were announced through Facebook but now that participation has shrunk and is dominated by right-wing groups, all of the country’s major newspapers are printing the dates and places of new planned protests.

In Montenegro several thousand people also protested every week against political corruption and social decline. They followed an appeal on the internet network Facebook, calling for a peaceful demonstration “against the mafia” in front of the parliament building in the capital city of Podgorica.

The state situated on the Adriatic Sea is stuck in a massive economic crisis. Serbia has currently halted all exports of wheat and flour in order to combat growing domestic prices and the growing protests by poorer social layers. This means that Montenegro now has to cover 90 per cent of its demand for wheat from other sources—an impossible task for the destitute country, given current market prices. This will further increase social tensions.

The Serbian government itself is confronted with growing popular unrest. In late March more than 10,000 public servants protested in the capital of Belgrade against low wages and miserable working conditions. Doctors, policemen and other public servants joined with protesting teachers who have been struggling to obtain pay raises since January. The teachers’ protests were supported by many of their students.

The teachers are demanding the payment of unpaid wages and a change in education laws which de facto excludes poorer layers of rural youth from higher education. In 2011, the wage increases for the educational sector were set at three per cent, but the teachers’ union is demanding 20 per cent. Education minister Obradovic has bluntly refused the union’s demands, referring to the government’s austerity policy.

In the wake of the financial crisis, the Serbian government of Premier Mirko Cvetkovic reduced public spending and suspended wage increases. The government and the IMF agreed to lower the budget deficit from 4.8 percent to 4 percent.

The wages of employees in the private sector are even lower than those in the public sector. Average incomes in Serbia are around 35,000 Dinar per month (app. € 350). Officially, the country has between 700,000 and one million unemployed.

Ultra-right forces in Belgrade are also seeking to exploit disillusionment and distrust of the government to their own advantage. On 5 February, the Progress Party (SNS), which is the biggest opposition party in the Serbian parliament, organized a mass demonstration attended by approximately 55,000 people.

The protests in Belgrade were directed against Cvetkovic’s government. Under the slogans “Wake up, Serbia” and “Fight for change”, the SNS demanded early new elections and threatened an “ongoing blockade” of Belgrade if their demands were not met. The organisation has announced another demonstration in Belgrade on 16 April.

According to new surveys, the SNS would emerge as the clear winner in a fresh election, with far more votes than Cvetkovic’s EU-oriented government coalition. The SNS and their smaller partners are estimated to have the support of around 42 per cent of the electorate; the Democratic Party, the mainstay of the government coalition, has just 24 percent.

The SNS is a spin-off party from the ultranationalist Radical Party (SRS) led by Vojslav Seselj, who is charged with war crimes by the International Criminal Tribunal for former Yugoslavia. The SNS was founded by Tomislav Nikolic, former vice president of the SRS. Nikolic voted for the association agreement of Serbia with the European Union, while party chairman Seselj rejected it. In response, Nikolic founded a new faction in September 2008, which combined support for entry into the EU with nationalism and hatred towards Croatia.

It comes as no surprise that all of the major parties of Serbia, including the nationalist SNS, are striving for entry into the EU. They represent a small elite which hopes to gain access to the international financial markets and enrichment through the EU while the working class foots the bill.

The powerful EU member states are observing this process with alarm. Last year, Klaus Mangold, chairman of the Eastern Europe Commission of the German Economy, said that Serbia was a mainstay for German companies in this region. By signing numerous other free-trade agreements, including with Russia and Turkey, the country would open new markets of great interest for German companies.

Germany is Serbia’s most important trade partner, and the fourth largest direct investor. In 2009, Serbia’s imports from Germany amounted to more than €1.3 billion. Its exports amounted to almost €600 million. While German direct investments in 2004 were just €278 million, they already amounted to €1.2 billion in 2010. Thus, they have increased fourfold within a few years.

In Serbia, just a small layer benefits from these trading relations, along with European banks and big companies. For broad masses of the population, entry into the EU will only mean price increases and massive social cuts.

After the worldwide financial crisis, in which the Serbian Dinar lost a quarter of its value, Serbia received a credit worth €3 billion from the IMF in 2009, to allow the country to refinance its debts with foreign private banks. To obtain credit from these banks, the government drastically cut spending in all areas.

For this reason the Serbian population is widely hostile to the EU. According to a survey from the start of 2011, more than 60 per cent are opposed to entry to the EU, with less than 30 percent in favour.

The policies of the European elites, which only mean poverty and social misery for the broad mass of the population, must be rejected by the workers and youth of the region, along with the nationalist positions which have driven former Yugoslavia into years of civil war. The only progressive alternative is the turn towards a socialist and international perspective, by establishing a Socialist Balkan Federation in the context of the United Socialist States of Europe.




Torino, 19 aprile 2011

presso il Cine Teatro Baretti
Via Baretti 4
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nell'ambito della rassegna PORTOFRANCO - IL CINEMA INVISIBILE AL BARETTI


martedi 19 aprile - ore 21.00

OCCUPAZIONE IN 26 QUADRI

Regia di Lordan Zafranovic
Jugoslavia • 1978 • 112'
E' prevista la presenza in sala del regista Lordan Zafranovic e dello storico Eric Gobetti

Grande successo della cinematografia est-europea, l'occupazione in 26 quadri è il capolavoro di Lordan Zafranovic, uno degli autori più anticonformisti della Jugoslavia di Tito. Un grande affresco, drammatico e grottesco, l'occupazione italiana a Dubrovnik durante la seconda guerra mondiale. Un film per guardare in faccia un pezzo della nostra storia, per confrontarsi con la memoria che l'Italia fascista ha lasciato oltre Adriatico.


LA SCHEDA DEL FILM: 

IL PROFILO DEL REGISTA E LE PASSATE INIZIATIVE CON E SU LORDAN ZAFRANOVIC: