Informazione


La lurida coscienza della guerra in Libia

1) Mani sporche sulla guerra in Libia (S. Cararo)
2) Roma. Pacifisti contestano davanti alla direzione del Partito Democratico
3) Primo Maggio di guerra (P. Tacchino)
4) La "fabbrica del falso" sulla guerra in Libia (V. Giacché)
5) Del Boca: le condoglianze a Gheddafi


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Mani sporche sulla guerra in Libia

di Sergio Cararo*

Nella guerra di Libia, stanno emergendo una dietro l'altra tutte le assai poco nobili motivazioni che hanno portato le maggiori potenze europee della Nato a scatenare una operazione militare vera e propria contro quello che fino a tre mesi era ritenuto “un membro decisivo del partenariato euro-mediterraneo”.

Ormai sono sempre meno coloro disposti ad accettare la motivazione ufficiale che ministri e bollettini della Nato ripetono come un mantra ossia “la protezione dei civili”. Gli ultimi bombardamenti della Nato poi hanno colpito gli edifici della televisione e dell'agenzia di stampa libica. Cosa hanno a che fare con la “protezione dei civili” a Bengasi o a Misurata? E' tempo di cominciare a chiamare le cose con il loro nome.


In questo caso sono i fatti – più che le opinioni – a inchiodare le "mani sporche"  dei governi della Nato che hanno riempito il Mediterraneo di navi militari e riempito di missili e bombe le città libiche, siano esse vicine o lontane dal fronte della guerra civile che oppone le milizie di Gheddafi a quelle del Cnt di Bengasi. 

 
  1. La missione militare di “protezione civile” è diventata una caccia all'uomo con bombardamenti che si configurano come tentativi di omicidio mirato contro Gheddafi e i suoi familiari. In pratica siamo di fronte ad un terrorismo di Stato, in qualche modo eccitato dalla vicenda dell'uccisione di Osama Bin Laden, che punta all'eliminazione fisica del “nemico di turno” come presupposto alla soluzione politica o negoziata del conflitto;

  2. La missione di “protezione dei civili” si dissolve qualora i civili assumono le fattezze dei profughi che dall'Africa o dal Maghreb fuggono verso le coste italiane su carrette e mezzi di fortuna. Le navi militari della Nato o li ignorano – e li lasciano morire nella tomba d'acqua del Mediterraneo – o si limitano a lanciare qualche bottiglietta d'acqua o qualche scatola di biscotti. Dopodichè le regole di ingaggio finiscono lì.

  3. L'eliminazione del regime di Gheddafi sta assumendo i contorni di un “grosso affare” in molti sensi. Da un lato il sequestro dei beni finanziari libici all'estero, ha portato nelle casse delle banche dove erano depositate un bottino di quasi 120 miliardi di dollari. Si tratta dei beni della Lia (Lybian Investment Authority), della Central Bank of Lybia e della National Oil Corporation, congelati dalle sanzioni. Per aggirare il divieto di utilizzarli a proprio piacimento, le banche e i governi della Nato hanno escogitato un trucchetto con enormi conseguenze politiche e diplomatiche: hanno dovuto creare un soggetto. E' questa la spiegazione della fretta con cui alcuni paesi hanno riconosciuto il Cnt di Bengasi. Occorre tener conto che già il 19 marzo (con il conflitto appena iniziato) a Bengasi erano già state costituite la Central Bank of Bengasi e Libyan Oil Company, due soggetti giuridici in grado di dare un quadro legale al sequestro dei beni libici dovuto alle sanzioni.

  4. Nei mesi scorsi, qualcuno deve aver pensato che il presidente francese Sarkozy fosse stato “mozzicato dalla tarantola”. Il suo oltranzismo e la sua fregola, hanno trascinato nei bombardamenti sulla Libia i governi di Usa, Gran Bretagna e poi l'Italia. Qual'era la ragione di questa escalation da parte dell'establishment francese? Alcuni hanno detto che erano ragioni elettorali e di calo di consensi. Come abbiamo visto alcune delle motivazioni erano altre e molto più concrete. Ma ce ne sono altre che attengono al ruolo colonialista della Francia in Africa e che solo in queste settimane sono state portate alla luce e all'attenzione di chi troppo facilmente dimentica il passato e il presente coloniale delle potenze europee (Italia inclusa) nelle relazioni con la sponda sud del Mediterraneo e il continente africano.

    Per la Francia, il fronte libico era del tutto speculare a quello in Costa d'Avorio, il quale nello stesso periodo in cui si è iniziato a bombardare la Libia, ha visto l'intervento militare francese per deporre con la forza l'ex presidente ivoriano Gbagbo. Motivo? Gbagbo, come Gheddafi, per quanto fossero discutibili sul piano democratico, avevano però cercato di sganciare i paesi africani – aderenti all'Unione Africana – da quello che era il Cfe, cioè l'unità di conto monetaria che vincola le economie e addirittura gli accordi commerciali con altri paesi da parte dei paesi africani francofoni .... alle decisioni della Francia. Il cambio di regime in Libia come in Costa d'Avorio sono stati perseguiti sistematicamente e pesantemente dal governo francese sin dall'inizio di tutta la vicenda.

  5. Qualcun'altro si domanderà: ma le rivolte del mondo arabo come si connettono a tutto questo? Una parte della risposta viene dalla filosofia dell'amministrazione Obama su quanto sta accadendo in Medio Oriente: “evolution but not revolution”. La modernizzazione possibile e i cambiamenti che stanno intervenendo in questa regione strategica, possono vedere al massimo una “evoluzione” nel senso della struttura politica con riforme che introducano meccanismi simili (ma non identici) a quelli dei paesi occidentali. Ma guai se dovessero mettere in discussione anche la struttura economico-sociale: rapporti di proprietà, nazionalizzazione delle risorse, distribuzione delle royalties sul petrolio etc. In quel caso altro che rivoluzione democratica, se non dovessero bastare i militari dei vari governi, regimi, monarchie arabe, le cannoniere della Nato sono già posizionate nel Mediterraneo e nel Mar Arabico. Chiaro il segnale?

Se queste osservazioni sono vere – e abbiamo la netta sensazione che lo siano – è evidente come a questo punto la Francia e le altre potenze della Nato perseguano l'omicidio di Gheddafi come un passaggio necessario per far quadrare l'operazione. Ne hanno creato i presupposti legali (la risoluzione dell'Onu, il riconoscimento di un nuovo soggetto di governo attraverso il Cnt di Bengasi) e ne stanno perseguendo la realizzazione con i “bombardamenti mirati”.

A fronte di tale presupposto e di tale evoluzione della guerra, chi accetta ancora di nascondersi dietro il dito della “protezione dei civili” è un complice di una operazione di stampo nitidamente coloniale che – esattamente un secolo dopo l'invasione italiana della Libia – si sta realizzando sotto i nostri occhi tra l'inerzia e la complicità delle “forze democratiche” e le grandi difficoltà che incontra il movimento contro la guerra in un contesto in cui “l'imperialismo cattivo” stavolta non è quello statunitense ma quello dal “volto umano” della nostra cara, vecchia e maledetta Europa.

Domenica prossima, a Roma, le reti del movimento No War che non hanno rinunciato a mobilitarsi contro questa guerra dal carattere sempre più palesemente coloniale, terranno una nuova assemblea nazionale per discutere come gettare sabbia e indignazione dentro questo ingranaggio. Ci si vede alle ore 10.00 in via Galilei 53. E' un appuntamento che pochi possono permettersi il lusso di perdere.

* editoriale di Contropiano, giornale comunista online, dell'11 maggio



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Roma. Pacifisti contestano davanti alla direzione del Partito Democratico


di  Redazione Contropiano

Oggi pomeriggio, un folto gruppo di attivisti della Rete romana contro la guerra, hanno inscenato una manifestazione di protesta davanti alla sede nazionale del Partito Democratico a Roma nella centralissima via Sant'Andrea delle Fratte.

Nei cartelli e negli slogan i motivi della contestazione. “Il PD ha votato a favore della guerra”; “Non esistono guerre umanitarie”, “l'art.11 va rispettato”.

Gli attivisti contestano al PD di aver votato in Parlamento a favore della guerra e dei bombardamenti sulla Libia invece di incalzare il governo sulle sua contraddizioni.

Critiche anche verso il Presidente della Repubblica Napolitano che – secondo gli attivisti della Rete contro la guerra – ha il dovere di difendere anche l'art.11 della Costituzione e non di fare la sponda a chi ha voluto portare l'Italia a fare la guerra in Libia. Già alla fine di marzo la rete contro la guerra aveva infatti manifestato sotto il Quirinale.

Gli attivisti fanno riferimento ai sondaggi secondo i quali la maggioranza dell'opinione è contraria all'intervento militare italiano in Libia ma anche in Afghanistan, eppure la maggioranza parlamentare continua a sostenere le missioni militari all'estero. Per questo hanno chiesto un incontro con la direzione del PD ritenendo che di fronte agli sviluppi della guerra nel Mediterraneo ognuno deve assumersi le proprie responsabilità anche di fronte ai propri elettori.

Nei volantini distribuiti ai passanti gli attivisti annunciano una assemblea nazionale del movimento contro la guerra per domenica prossima a Roma e la partecipazione alla manifestazione nazionale di sabato a sostegno della Freedom Flotilla che intende raggiungere Gaza rompendo il blocco navale israeliano.

L'iniziativa ha provocato parecchio sconquasso nel quadrante della città politica.  Polizia e carabinieri si sono precipitati in forze identificando gli attivisti, ma il sit in è proseguito tra battibecchi e discussioni. Mentre davanti alla sede del PD si procedeva all'identificazione, altri attivisti ne hanno approfittato per volantinare nelle strade circostanti. Il responsabile dell'Area Mediterranea del PD è uscito dalla sede dicendosi disponibile a discutere... ma solo dopo le elezioni...ballottaggi inclusi. Ovvero non prima di giugno! La guerra in Libia non è decisamente tra le priorità del Partito Democratico.


[...]

Qui di seguito il volantino distribuito durante la contestazione alla direzione nazionale del Partito Democratico

 

VERGOGNA! L'ITALIA BOMBARDA LA LIBIA CON VOTO BIPARTISAN

Perché oggi protestiamo davanti alla sede del Partito Democratico

Le bombe sono un crimine e bombardare significa uccidere i civili e non solo i soldati.

I bombardamenti mirati non esistono.

La cosa la cosa più paradossale e vergognosa, è che i sostenitori dei bombardamenti, dei bombardieri e dell’impegno militare italiano, giustificano la loro guerra “per proteggere i civili” mentre le loro navi li ignorano se stanno morendo in mezzo al Mar Mediterraneo, mentre con le loro bombe li uccidono nelle città libiche, mentre negano il cessate il fuoco e i corridoi umanitari, li costringono a fuggire come profughi e rimangono come inetti quando arrivano sulle nostre coste
La “protezione dei civili” è in realtà diventata un cavallo di Troia che consente alle potenze della NATO di entrare in Libia per conquistarla con un cambio di regime, è diventato il pretesto mediatico per giustificare la guerra e acquisire consenso.

La risoluzione dell’ONU che prevedeva la No Fly Zone “a protezione dei civili” è stata in realtà usata come via libera alla guerra ed oggi viene completamente violata dalle bombe delle NATO e dunque anche dai bombardamenti italiani

L’anomalia italiana vede un Presidente della Repubblica sostenere una guerra in violazione dell’art.11 della Costituzione.
L’anomalia italiana è anche un Partito Democratico – principale partito dell’opposizione – che dice si alla guerra, si alle bombe e dunque si alla politica del governo

Siamo indignate e indignati e facciamo appello alla coscienza civile e pacifica del movimento di lotta nel nostro paese per ridare forza e voce al ripudio della guerra
Per il cessate il fuoco in Libia
Per l’immediata cessazione dei bombardamenti
Per l’apertura di un vero negoziato che ponga fine alla guerra civile in Libia
Per il ritiro dell’Italia da questa guerra che sta diventando un crimine

Oggi protestiamo ad alta voce davanti alla direzione del Partito Democratico

Sabato 14 maggio saremo in piazza  nella manifestazione per la Palestina e  a sostegno della Freedom Flotilla diretta a  Gaza per rompere l’assedio dei palestinesi (ore 14.30 piazza della Repubblica)

Domenica 15 maggio alle 10.00 terremo una Assemblea Nazionale contro la guerra a Roma, (Sala di Via Galilei 53).

Rete romana contro la guerra

nowaroma@...



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PRIMO MAGGIO DI GUERRA


Chi non conoscesse quanto sta accadendo e si limitasse a comprenderlo dalle immagini fornite dai cortei di questo Primo Maggio e dal concerto romano, offerto dai sindacati Cgil, Cisl e Uil, penserebbe innanzi tutto che si celebrano con orgoglio i 150 anni dell’Unità d’Italia mentre nel nostro Paese esistono gravi problemi riguardanti la disoccupazione, il mondo del lavoro, la legalità, l’ecologia; ma senz’altro che l’Italia non sta facendo la guerra alla Libia.
Come dalle case sventolano i tricolori e non le bandiere della pace, così i palloncini, simbolo di questa giornata, sono decorati con la bandiera italiana.
Non ci sono striscioni contro la NATO e la scelta europea e italiana di aggredire lo Stato libico con azioni che ormai vanno platealmente anche oltre lo stesso mandato dell’ONU, come è avvenuto per il bombardamento in cui sono stati uccisi il figlio e i nipoti di Muhammar Gheddafi.
La crisi politica ed economica italiana non possono giustificare un miope pensare esclusivamente al proprio orticello.
La scrittrice tedesca Christa Wolf, parlando dell’avvento del nazismo, ricorda come le nefandezze accadessero sotto gli occhi di tutti, ma si andasse avanti fingendo che tutto fosse normale. Sparivano gli handicappati: erano morti d’influenza in ospedale.
Da noi la Costituzione diventa sempre più evanescente: ora la maggiore forza parlamentare di opposizione dichiara di credere che essa sia esclusivamente improntata a difendere il diritto al lavoro e la divisione dei poteri, senza alcun riferimento al ripudio della guerra (così il Segretario del PD in una intervista televisiva durante le celebrazioni del 25 aprile).
D’altro canto, perché dobbiamo mettere in crisi le nostre coscienze civili.
L’Italia non sta facendo la guerra: lo dice un esperto di diritto quale è il nostro Presidente della Repubblica; lo conferma, dal maggiore partito di opposizione, un ex magistrato, con una preparazione giuridica ineccepibile, il quale sostiene che “per senso di responsabilità internazionale si devono avallare i bombardamenti”; i giuristi non prendono posizioni forti ed esplicite; anche i cortei del primo maggio ci infondono lo stesso messaggio. Come non crederci?
La mancanza di consapevolezza delle nostre mire e dei nostri crimini coloniali, passati e presenti, confonde innanzi tutto le nostre menti, ci abitua a respirare nei minuscoli e sempre più angusti spazi che il mercato ci concede: via via si dimenticano la sovranità degli altri Stati, la dignità degli stranieri che arrivano, dei nostri concittadini e anche di noi stessi.
2 Maggio 2011
Piera Tacchino

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Martedì 10 Maggio 2011 12:47

La "fabbrica del falso" sulla guerra in Libia


di  Vladimiro Giacché


Il collasso dell'informazione occidentale sulla guerra i Libia sotto l'egemonia della "fabbrica del falso". Un saggio di Vladimiro Giacché.

 
 

La fabbrica del falso e la guerra in Libia

 
 

“Attraverso la ripetizione, ciò che inizialmente appariva solo come accidentale e possibile, diventa qualcosa di reale e consolidato”

G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie del Geschichte, in Sämtliche Werke, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1971, Bd. 11, p. 403.

 

L’attacco della Nato contro la Libia iniziato il 19 marzo 2011 rappresenta un caso emblematico a più riguardi. In primo luogo, conferma in modo eclatante una verità più generale: nel mondo contemporaneo la propaganda, la guerra delle parole e delle immagini è ormai parte della guerra stessa. In secondo luogo, evidenzia la confusione che regna in una sinistra che – anche quando si pretende “radicale” e conseguente – in Italia come in tutti i paesi occidentali, ha dimostrato una sorprendente arrendevolezza e subalternità rispetto alla propaganda e all’informazione ufficiale. Si tratta di un fenomeno tanto più significativo in quanto anche in questo caso – come già era accaduto per l’Iraq – gli stessi Paesi aderenti alla Nato si sono presentati all’appuntamento divisi: l’astensione della Germania già in sede Onu si è trasformata in decisa presa di distanza dalle operazioni, e la stessa Turchia ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla conduzione della guerra. Ma mentre ai tempi della guerra di Bush le divisioni nel campo imperialista avevano grandemente giovato al movimento per la pace, in questo caso nulla di questo è avvenuto. Lo stesso gruppo parlamentare della GUE al Parlamento Europeo si è spaccato, e nel nostro Paese si è assistito al grottesco spettacolo di un PD assai più guerrafondaio degli stessi partiti di governo, mentre SEL ha tenuto un atteggiamento inizialmente ondivago (con una parte della base favorevole all’intervento) e soltanto la Federazione della Sinistra ha avuto da subito posizioni intransigenti sull’argomento.

In questo articolo esaminerò i principali dispositivi che la fabbrica del falso ha posto in essere nel caso della guerra di Libia, e proverò ad individuare i motivi di fondo che hanno indotto molti, anche a sinistra, a cedere alla propaganda di guerra. Nel mio argomentare metterò in gioco lo schema interpretativo che ho esposto più diffusamente nel mio libro La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea(DeriveApprodi, 20112). In questo testo proponevo un insieme di strategie di attacco alla verità non assimilabili alla menzogna pura e semplice. Vediamo come queste strategie sono entrate in gioco nel caso libico.

      1. La verità mutilata

La verità viene mutilata quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si colloca, delle circostanze, di ciò che gli sta attorno. O, semplicemente, la si racconta a metà.

Nella famosa sequenza dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Bagdad, divenuta una delle icone della guerra in Iraq, le inquadrature mandate in onda sulle tv internazionali e pubblicate sui giornali erano così ravvicinate da non mostrare che la piazza era praticamente deserta e che la “folla festante” si riduceva a poche decine di iracheni.1 In questo caso la verità viene mutilata dal taglio delle foto, che impedisce di vedere lo spazio in cui ha luogo l’evento, e ne induce una falsa rappresentazione.

Nel caso libico esiste un episodio del tutto parallelo. Si tratta della famosa foto che il 22 febbraio i media di tutto il mondo hanno rilanciato con grande evidenza sotto il nome di “fosse comuni in Libia”. Quello che la foto riprende è in realtà un normale cimitero in cui si stanno preparando alcune tombe singole, ma gli scatti che hanno fatto il giro del mondo non consentono di capirlo. Ma c’è di più: come ha rivelato il giornalista Rai Amedeo Ricucci, lestesse foto erano già state messe in rete mesi fa. Lo stesso Ricucci a questo proposito ha raccontato un episodio interessante. Il caporedattore di un’importante agenzia di stampa italiana, accortosi della bufala, fatto presente al suo direttore che si trattava di foto vecchie. La risposta del direttore è stata: “[questa notizia] gli altri la danno, non possiamo bucare”.2

Questo meccanismo è tutt’altro che nuovo. Il 26 e 30 maggio 2004, il New York Times fece autocritica sull’atteggiamento tenuto nei confronti della guerra in Iraq, ammettendo – in un editoriale firmato dalla direzione del quotidiano e poi in un articolo del garante dei lettori – che alcuni articoli “non erano stati rigorosi a sufficienza”, e si erano giovati di fonti “discutibili”. Di più: il quotidiano ammise che la copertura offerta era stata un fallimento “non individuale ma istituzionale”: un “fallimento” fatto anche di titoli strillati in prima con notizie false. In quel contesto ilNew York Times fece riferimento anche all’“ansia di scoop”, quale movente che avrebbe indotto a pubblicare notizie senza verificarne in misura adeguata l’attendibilità. Anche Franck de Veck (ex direttore del settimanale tedesco Die Zeit) ha attribuito una parte della colpa delle notizie false pubblicate nel caso iracheno alla necessità per i giornali di decidere rapidamente cosa mettere in pagina: “meglio un’opinione, anche non suffragata da prove, che nessuna”.3

Lo stesso è avvenuto nei primi giorni dei disordini in Libia. Se tutti i giornali aprono sui 10.000 morti in Libia, notizia lanciata dalla televisione saudita Al-Arabiya il 24 febbraio e assolutamente inverificabile, io – giornalista della redazione x – che faccio? “Prendo un buco” o la metto anch’io? Da un punto di vista di etica dell’informazione, la scelta dovrebbe essere ovvia: non la metto. In pratica succede quasi sempre il contrario: perché il fatto che tutti mettano una notizia non verificata mi copre se risulterà non vera. E in effetti, la notizia in questione si è rivelata falsa, come false erano le generalità dei presunti funzionari della Corte Penale Internazionale che ne sarebbero stati la fonte. Ma ha contribuito a creare il clima psicologico per predisporre l’opinione pubblica occidentale alla decisione di effettuare un intervento militare in Libia. Lo stesso vale per l’episodio raccontato da Ricucci, con l’aggravante – in quel caso – che la verifica era stata fatta e aveva dato esito negativo.

 
      1. La verità messa in scena

Il mosaico delle verità dimezzate (le presunte atrocità commesse dai soldati di Gheddafi, mentre ovviamente i soldati lealisti ammazzati o umiliati dai rivoltosi della Cirenaica non vengono mostrati, o – quando lo sono – vengono etichettati come “mercenari”) e delle pure e semplici falsità finisce per comporre una più generale verità messa in scena. Una rivolta tribale è trasformata in rivoluzione democratica, gli scontri armati tra ribelli e truppe regolari sono trasformati in “genocidio” ad opera di queste ultime (memorabili alcuni titoli in prima del Fatto Quotidiano), e un personaggio come Gheddafi si trasforma, da un giorno all’altro, da affidabile partner d’affari a una via di mezzo tra Adolf Hitler e Idi Amin Dada; ovviamente, in parallelo alla demonizzazione del dittatore, c’è l’idealizzazione degli insorti, che attinge vette di notevole lirismo. Lo prova tra gli altri un titolo di Repubblica del 23 marzo: “Al fronte in sella a una Kawasaki i sorridenti guerrieri della rivoluzione”; con tanto di sottotitolo rock“Un inno ispirato a Jim Morrison per l’esercito della nuova Libia”. Il messaggio sottinteso di questa ridicola propaganda di guerra: loro sono come noi, Gheddafi e i suoi sono dei barbari o – come pure è stato detto – “beduini”.

La principale verità messa in scena riguarda però le motivazioni dell’intervento militare occidentale, ossia il presunto diritto all’“ingerenza umanitaria”. Un memorabile testo di Danilo Zolo riferito all’aggressione alla Jugoslavia, come noto giustificata nello stesso modo, reca come titolo le prime parole di una frase di Proudhon: “Chi dice umanità cerca di ingannarti”.4 Sono parole di profonda verità. E non da oggi. Chiunque conosca la storia del colonialismo non avrà difficoltà a rinvenire i precedenti di questa giustificazione. A metà Ottocento, a sentire re Leopoldo del Belgio, la sua Associazione Internazionale per il Congo – uno dei principali strumenti del colonialismo belga – intendeva “rendere dei servigi duraturi e disinteressati alla causa del progresso”. Il raffinato storico dell’arte Ruskin nel 1870 vedeva nell’Inghilterra “un’isola che impugna lo scettro, fonte di luce e centro di pace per il mondo intero”; un’Inghilterra il cui dovere, per adempiere a tale missione, era quello di “fondare nuove colonie il più lontano e il più rapidamente possibile, insediandovi i più energici e valorosi tra i suoi uomini”, per poi “radunare in sé la divina conoscenza di nazioni lontane, passate dalla barbarie all’umanità e redente dalla disperazione alla pace”.5 Oggi la stessa litania la sentiamo nella forma del cosiddetto “imperialismo dei diritti umani” (Ignatieff), o – addirittura – dell’“imperialismo benevolo” (Kaldor). È una litania che negli ultimi anni è stata intonata più volte: a proposito del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Iraq, e ora della Libia.6 Ora, è logico che chi si rende colpevole di una guerra di aggressione preferisca ammantare le proprie azioni con motivazioni altruistiche. Un po’ meno logico è che si dia credito a queste giustificazioni autoapologetiche.

Ma c’è qualcos’altro da dire a questo riguardo: l’“ingerenza umanitaria”, dagli anni Novanta in poi, venuto meno il contrappeso di potere rappresentato dall’Unione Sovietica, è stata il grimaldello con cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno scardinato i principi di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli stabiliti nella Carta dell’Onu del 1948 (art. 1, par. 2 e art. 2, par. 7).7 Purtroppo, quello che oggi sembra difettare a sinistra è la capacità di capire il funzionamento di questo grimaldello e le sue conseguenze devastanti non soltanto per la pace nel mondo, ma per la stessa autodeterminazione delle nazioni.

 
      1. La verità rimossa

Speculare alla verità messa in scena è la verità rimossa. La verità messa in scena ha infatti tra le sue principali finalità proprio quella di nascondere verità scomode. Che in questo caso sono più d’una.

La prima riguarda ovviamente i veri motivi dell’intervento in Libia. Che sono essenzialmente due, tra loro legati: l’opportunità di controllare – dividendolo – un Paese come la Libia e di mettere direttamente le mani su importanti giacimenti petroliferi. “Direttamente” significa: senza le onerose (per le compagnie petrolifere occidentali)royalties che Gheddafi aveva imposto per il petrolio estratto dal territorio libico. Questo risultato sarebbe raggiunto qualora si avverasse la previsione formulata il 28 marzo dal quotidiano arabo (ma stampato a Londra) al-Quds al-Arabi: il risultato dell’intervento militare occidentale potrebbe essere la divisione della Libia in “due stati, un Est ricco di petrolio in mano dei ribelli e un Ovest povero, diretto da Gheddafi… Una volta garantita la sicurezza dei pozzi petroliferi, potremmo trovarci di fronte ad un nuovo emirato petrolifero in Libia, a bassa densità di popolazione, protetto dall’Occidente e molto simile agli Emirati del Golfo Persico”.

Che l’obiettivo sia questo, e non la “protezione dei civili”, ce lo dice meglio di mille parole quello che sta succedendo sul campo. La Risoluzione 1973 dell’Onu, che prevedeva lo stabilimento di una “no-fly zone” per “proteggere la popolazione civile”, è stata da subito violata da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Che hanno immediatamente compinciato a colpire obiettivi a terra, anche quando si trattava di scontri tra l’esercito libico e i ribelli armati, e anche quando gli obiettivi colpiti erano lontani dal luogo delle operazioni. I più obiettivi, tra gli osservatori, ne hanno dato atto. Qualcuno pacatamente e senza troppo scandalizzarsi. Il generale Fabio Mini, ad esempio, ha scritto il 30 marzo perRepubblica un articolo a suo modo esemplare, che recava questo titolo: “Attacchi a terra e forze speciali. La vera guerra degli alleati per liberare la Libia da Gheddafi”. Ancora più chiaro il sottotitolo: “Non solo no-fly zone: così combatte l’Occidente”. Anche Sergio Romano si è limitato a descrivere quanto accaduto e a prevedere quanto presumibilmente accadrà: “abbiamo constatato che la no-fly zone è divenuta di fatto una guerra combattuta dal cielo (almeno per ora) contro lo stato di Gheddafi per garantire agli insorti una vittoria che sarebbe altrimenti improbabile… Dominati dal timore di fallire, gli alleati si vedranno costretti ad alzare progressivamente la soglia del loro intervento sino a trasformare la protezione dei civili in una vera e propria alleanza con i ribelli”.8

Altri, per deformazione professionale più attenti alle forme giuridiche, qualche preoccupazione l’hanno invece manifestata. È il c

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(Della stessa autrice, sulla aggressione alla Libia si veda anche l'articolo
"Un altro intervento della NATO? Rifanno il colpo del Kosovo?"

Diana Johnstone on ICC and Libya

1) Why are They Making War on Libya?
2) Do We Really Need an International Criminal Court?


By Diana Johnstone on the same issue also to read:


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March 24, 2011

Reasons and False Pretexts

Why are They Making War on Libya?

By DIANA JOHNSTONE

Reason Number One: Regime change.

This was announced as the real objective the moment French president Nicolas Sarkozy took the extraordinary step of recognizing the rebels in Benghazi as "the only legitimate representative of the Libyan people". This recognition was an extraordinary violation of all diplomatic practice and principles. It meant non-recognition of the existing Libyan government and its institutions, which, contrary to the magical notions surrounding the word "dictator", cannot be reduced to the personality of one strongman. A major European nation, France, swept aside all those institutions to proclaim that an obscure group of rebels in a traditionally rebellious part of Libya constituted the North African nation’s legitimate government.

Since factually this was clearly not true, it could only be the proclamation of an objective to be reached by war. The French announcement was equivalent to a declaration of war against Libya, a war to defeat Qaddafi and put the mysterious rebels in power in his place.

False Pretext Number One: "to protect civilians".

The falsity of this pretext is obvious, first of all, because the UN Resolution authorizing military action "to protect civilians" was drawn up by France – whose objective was clearly regime change – and its Western allies. Had the real concern of the UN Security Council been to "protect innocent lives", it would have, could have, should have sent a strong neutral observer mission to find out what was really happening in Libya. There was no proof of rebel claims that the Qaddafi regime was slaughtering civilians. Had there been visible proof of such atrocities, we can be sure that they would have been shown regularly on prime time television. We have seen no such proof. A UN fact-finding mission could have very rapidly set the record straight, and the Security Council could then have acted on the basis of factual information rather than of claims by rebels seeking international aid for their cause.

Instead, the Security Council, now little more than an instrument of Western powers, rushed ahead with sanctions, referral of alleged present or expected "crimes against humanity" to the International Criminal Court, and finally an authorization of a "no-fly zone" which Western powers were certain to interpret as a license to wage all-out war against Libya.

Once the United States and its leading NATO allies are authorized to "protect civilians", they do so with the instruments they have: air strikes; bombing and cruise missiles. Air strikes, bombing and cruise missiles are not designed to "protect civilians" but rather to destroy military targets, which inevitably leads to killing civilians. Aside from such "collateral damage", what right do we have to kill Libyan military personnel manning airports and other Libyan defense facilities? What have they done to us?

Reason Number Two: Because it’s easy.

With NATO forces bogged down in Afghanistan, certain alliance leaders (but not all of them) could think it would be a neat idea to grab a quick and easy victory in a nice little "humanitarian war". This, they can hope, could revive enthusiasm for military operations and increase the flagging popularity of politicians able to strut around as champions of "democracy" and destroyers of "dictators". Libya looks like an easy target. There you have a huge country, mostly desert, with only about six million inhabitants. The country’s defense installations are all located along the Mediterranean coast, within easy reach of NATO country fighter jets and US cruise missiles. Libyan armed forces are small, weak and untested. It looks like a pushover, not quite as easy as Grenada but no harder than Serbia. Sarkozy and company can hope to strut their victory strut in short order.

False Pretext Number Two: Arabs asked for this war.

On March 12, the Arab League meeting in Cairo announced that it backed a no-fly zone in Libya. This provided cover for the French-led semi-NATO operation. "We are responding to the demands of the Arab world", they could claim. But which Arab world? On the one hand, Sarkozy brazenly presented his crusade against Qaddafi as a continuation of the democratic uprisings in the Arab world against their autocratic leaders, while at the same time pretending to respond to the demand of… the most autocratic of those leaders, namely the Gulf State princes, themselves busily suppressing their own democratic uprisings. (It is not known exactly how the Arab League reached that decision, but Syria and Algeria voiced strong objections.)

The Western public was expected not to realize that those Arab leaders have their own reasons for hating Qaddafi, which have nothing to do with the reasons for hating him voiced in the West. Qaddafi has openly told them off to their faces, pointing to their betrayal of Palestine, their treachery, their hypocrisy. Last year, incidentally, former British MP George Galloway recounted how, in contrast to the Egyptian government’s obstruction of aid to Gaza, his aid caravan had had its humanitarian cargo doubled during a stopover in Libya. Qaddafi long ago turned his back on the Arab world, considering its leaders hopeless, and turned to Africa.

While the Arab League’s self-serving stance against Qaddafi was hailed in the West, little attention was paid to the African Union’s unanimous opposition to war against the Libyan leader. Qaddafi has invested huge amounts of oil revenues in sub-Saharan Africa, building infrastructure and investing in development. The Western powers that overthrow him will continue to buy Libyan oil as before. The major difference could be that the new rulers, put in place by Europe, will follow the example of the Arab League sheikhs and shift their oil revenues from Africa to the London stock exchange and Western arms merchants.

Real Reason Number Three: Because Sarkozy followed BHL’s advice.

On March 4, the French literary dandy Bernard-Henri Lévy held a private meeting in Benghazi with Moustapha Abdeljalil, a former justice minister who has turned coats to become leader of the rebel "National Transition Council". That very evening, BHL called Sarkozy on his cellphone and got his agreement to receive the NTC leaders. The meeting took place on March 10 in the Elysée palace in Paris. As reported in Le Figaro by veteran international reporter Renaud Girard, Sarkozy thereupon announced to the delighted Libyans the plan that he had concocted with BHL: recognition of the NTC as sole legitimate representative of Libya, the naming of a French ambassador to Benghazi, precision strikes on Libyan military airports, with the blessings of the Arab League (which he had already obtained). The French foreign minister, Alain Juppé, was startled to learn of this dramatic turn in French diplomacy after the media.

Qaddafi explained at length after the uprising began that he could not be called upon to resign, because he held no official office. He was, he insisted, only a "guide", to whom the Libyan people could turn for advice on controversial questions.

It turns out the French also have an unofficial spiritual guide: Bernard-Henri Lévy. While Qaddafi wears colorful costumes and dwells in a tent, BHL wears impeccable white shirts open down his manly chest and hangs out in the Saint Germain des Près section of Paris. Neither was elected. Both exercise their power in mysterious ways.

In the Anglo-American world, Bernard-Henri Lévy is regarded as a comic figure, much like Qaddafi. His "philosophy" has about as many followers as the Little Green Book of the Libyan guide. But BHL also has money, lots of it, and is the friend of lots more. He exercises enormous influence in the world of French media, inviting journalists, writers, show business figures to his vacation paradise in Marrakech, serving on the board of directors of the two major "center-left" daily newspaper, Libération and Le Monde. He writes regularly in whatever mainstream publication he wants, appears on whatever television channel he chooses. By ordinary people in France, he is widely detested. But they cannot hope for a UN Security Council resolution to get rid of him.


Diana Johnstone is the author of Fools Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions. She can be reached at  diana.josto@...



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CounterPunch  Weekend Edition
May 6 -8, 2011

A Pretext for War

Do We Really Need an International Criminal Court?

By DIANA JOHNSTONE

A little over four years ago, CounterPunch ran an article I wrote based on my presentation at an international conference held in Tripoli on the International Criminal Court. At a moment when the ICC is being used, predictably, to justify the NATO aggression against Libya, including the targeted assassination of Moammer Qaddafi, or a ground invasion ostensibly to capture him, I think it would be appropriate to rerun this article.--DJ

We agree. AC/JSC.

Year after year, people in the Arab countries are helpless spectators to the ongoing destruction of Iraq and Palestine by the United States and Israel. They see families wiped out by bombs in Afghanistan, Iraq and Lebanon. They see Arabs tortured and humiliated in Abu Ghraib and in Guantanamo. They see Israel regularly carrying out "targeted" assassinations in the Occupied Territories (splashing death around the target) while extending its illegal settlement of land belonging to Palestinians. Probably no people have greater cause to yearn for an equitable system of international justice. But where are they to look for it?

Well, what about the International Criminal Court (ICC)? The ICC is supposed to punish perpetrators of war crimes and crimes against humanity. It has been in operation since July 2002, but seldom gets as much attention as it received during a symposium in mid-January at the Academy of Graduate Studies in the Libyan capital, Tripoli. Underlying the two-day discussion on the "ambition, reality and future prospects" of the ICC was the question: is the ICC a first baby step toward international justice? Or is it just another element of Western "soft power", imposed on small countries?

Although Libyan leader Moammer Gadhafi has expressed the second view, on balance most of the legal experts and academics -- from Libya and other Arab countries, but also from Europe, China and South America -- tended to lean toward the first view. Although nobody denied the evident shortcomings of the ICC, lawyers and jurists generally see it as "better than nothing" and point out that democratic legal systems have evolved from institutionalized power relations toward greater justice.

Selectivity

Meanwhile, a new war front was opening up. Urged on by the United States, Ethiopia invaded Somalia to restore disorder. U.S. war planes bombed fleeing members of the Islamic Courts Council that only recently managed to end the clan fighting that had ravaged Mogadishu for some fifteen years. The newly installed, U.S.-backed president, Abdulli Yusuf Ahmed, 73, announced that there would be "no talks" with the defeated Islamists, who were to be wiped out as they fled.

Now it so happens that among the war crimes listed in the Statute of Rome that governs the ICC is this one (Article 8.2.b.xii): "Declaring that no quarter will be given". This is exactly what the Ethiopian-U.S.-backed conquerors were doing. But there was no chance that the ICC would deal with this latest outburst of international criminal behavior.

Indeed, after four and a half years of existence, the ICC has taken just one suspect into its custody: Thomas Lubanga Dyilo, head of a rebel militia in the impenetrable Ituri forest in the eastern part of the Democratic Republic of Congo (ex-Zaïre). He is held under Article 8 (war crimes), section 2.e.vii on charges of recruiting children under the age of 15 to fight in his militia.

This is certainly bad behavior, but considering all that is going on in the world today, it hardly seems to rank among "the most serious crimes of concern to the international community as a whole" (Article 5, defining the crimes within jurisdiction of the court). A French judge working as an investigator in the ICC Prosecutor's office, Bernard Lavigne, acknowledged that since it is clearly unable to deal with all the crimes in the world, the Court is necessarily selective. He defended the selection of this lone suspect by the need to start off with an air-tight case that the Prosecution was sure to win.

Therein, however, lies one of the ICC's more subtle and insidious vices. Although the Statute formally upholds the "presumption of innocence", all the details point to a Court whose job is not meant to sort out the innocent from the guilty, but to punish the (presumed) guilty. Politically, the creation of the ICC responds to demands of various NGOs, given great resonance by Bosnia and especially Rwanda, to "end impunity" and to comfort victims. The underlying political assumption is that both the criminals and the victims can be easily identified prior to trial -- the trial being more a demonstration of the concern of the international community for justice than the search for a justice, and a truth, that may be elusive or seriously contested.

Like the ad hoc tribunals for Yugoslavia and Rwanda, the ICC, despite its title, is not essentially set up to deal with international conflicts, but rather to administer "international" justice to internal conflicts, in countries too weak to resist its authority.

The total impotence of the ICC to deal with the most dangerous crimes truly "of concern to the international community as a whole", those that outrage public opinion not only in the West but in all parts of the world, those that seriously threaten world peace, is most strikingly due to:

-- the fact that the crime of aggression is not covered;

-- the fact that the United States and its citizens are immune to prosecution, first of all because the United States has not ratified the ICC Statute, and secondly, because the United States has used its unprecedented economic and political clout to pressure countries into signing Bilateral Immunity Agreements (BIAs) that exempt Americans from prosecution. One hundred and two countries have signed BIAs with the United States.

Aggression exempted

Article 5 of the Rome Statute limits the jurisdiction of the Court to:

(a) The crime of genocide;

(b) Crimes against humanity;

(c) War crimes;

(d) The crime of aggression.

However, it goes on to specify that the Court "shall exercise jurisdiction over the crime of aggression once a provision is adopted [...] defining the crime and setting out the conditions under which the Court shall exercise jurisdiction with respect to this crime." In short, the crime of aggression is for the time being exempted from the Court's jurisdiction.

The formal reason is that aggression is "not defined". This is a specious argument since aggression has been quite clearly defined by U.N. General Assembly Resolution 3314 in 1974,

which declared that: "Aggression is the use of armed force by a State against the sovereignty, territorial integrity or political independence of another State", and listed seven specific examples including:

-- The invasion or attack by the armed forces of a State of the territory of another State, or any military occupation, however temporary, resulting from such invasion or attack, or any annexation by the use of force of the territory of another State or part thereof;

-- Bombardment by the armed forces of a State against the territory of another State or the use of any weapons by a State against the :territory of another State;

-- The blockade of the ports or coasts of a State by the armed forces of another State...

The resolution also stated that: "No consideration of whatever nature, whether political, economic, military or otherwise, may serve as a justification for aggression."

The real reason that aggression remains outside the jurisdiction of the ICC is that the United States, which played a strong role in elaborating the Statute, before refusing to ratify it, was adamantly opposed to its inclusion. It is not hard to see why..

This went against the nearly unanimous opinion of most of the world, which recalls that the Nuremberg Tribunal condemned Nazi leaders above all for the crime of aggression, as the "supreme international crime" which "contains within itself the accumulated evil of the whole".

It may be noted that instances of "aggression", which are clearly factual, are much easier to identify than instances of "genocide", whose definition relies on assumptions of intention.

Defenders of the ICC stress that "aggression" may be defined, and thus come under the active jurisdiction of the Court, at the Review Conference which should be held in 2009 to consider amendments. Even so, an amendment comes into force only one year after ratification by seven eighths of State Parties to the Statute, and applies only to State Parties (which so far notoriously do not include the United States). And should the United States turn around and choose to ratify the Statute, it may still declare that for a period of seven years it does not accept the jurisdiction of the Court for its nationals (Article 124). All this means that the earliest conceivable (but highly improbable) date when U.S. crimes, including aggression, might be brought under ICC jurisdiction would be 2017. Even then, there is scarcely any possibility that an American citizen, or any person acting on behalf of the United States, would end up in the dock at the ICC.

For one thing, the ICC must turn over jurisdiction to any State which proves "willing and able" to try the case in its own courts.

Moreover, Article 16 allows the Security Council to suspend any ICC investigation or prosecution for a period of 12 months. The suspension can be renewed indefinitely. These days, the Security Council is generally viewed throughout the world as an instrument of U.S. policy.

The BIAs would still apply.

And incidentally, employing poison gases counts as a war crime, but not the use of nuclear weapons.

In short, the ICC is established according to double standards to deal with small fry.

A court for "failed states"

Indeed, it is hard to see how the ICC can deal with any but extremely weak or "failed" States. According to Article 17, a case is not admissible unless the State concerned is genuinely "unwilling or unable" to investigate and prosecute it. The Court itself can determine whether the State concerned is "unwilling or unable".

At this point, the scene grows very murky. The Democratic Republic of Congo cooperated in turning over the case of Thomas Lubanga Dyilo to the ICC because he was a rebel against the State, and that troubled State has reason to want to be in the good graces of the ICC. But what if a State refuses, or shows itself "unwilling or unable" to pursue a case? What then? The ICC has no police force of its own. Will it then call on the Security Council to authorize arrest -- meaning military action on the territory of the "unwilling" State?

The preamble to the Rome Statute emphasizes that "nothing in this Statute shall be taken as authorizing any State Party to intervene in an armed conflict or in the internal affairs of any State". But this seems to be contradicted by the provisions of the Statute itself in regard to "unwilling" States.

Rather than a Court to keep the peace, the ICC could turn out to be -- contrary to the wishes of its sincere supporters -- an instrument to provide pretexts for war.

"If you can't beat them, join them."

It appeared from the Tripoli symposium that Arab intellectuals have an ambivalent attitude toward the ICC. On the one hand, many fear that the ICC can be instrumentalized to serve what they see as the long term U.S.-Israeli policy of breakig up Arab States and fragmenting the Middle East along ethnic or religious lines, as a way of "divide and rule". In such a strategy, ethnic conflicts over territory and resources can be depicted by Western media and NGOs as one-sided cases of "genocide" requiring urgent international intervention. The trial run was Yugoslavia, and Iraq is the prime example.

Jurists themselves, professionally attached to the construction of a new legal institution, may be oblivious to strategic aspects. But the very emphasis on applying criminal law to political conflicts tends to reinforce the Manichean view (typical of the Bush administration and of Israel) that the world's troubles are due to "bad guys", "terrorists", criminals that must be rooted out and punished. This precludes analysis of underlying causes of conflicts.

Like other Arab States, except for Jordan (and two formerly French territories, Djibouti and the Comoro Islands), Sudan is not a Party to the Rome Statute and thus does not fall under ICC jurisdiction. This fact has not prevented the mounting campaign for international intervention to stop what is described as "genocide" in Darfur. Some observers on the ground contend that this campaign is characterized by a limitless inflation of the number of casualties, to upgrade massacres to the status of "genocide". Whatever the reality, the call for "intervention", implying military intervention, is not accompanied by any clear explanation of how this would solve the underlying problems of religious identity and claim to scarce resources that have caused the crisis in Darfur. The well-financed and (largely) well-intentioned campaign to "save Darfur" actually tends to eclipse any effort to find genuine political and economic solutions by way of negotiation carried out by parties familiar with the history and culture of the region.

As can be seen in Afghanistan and elsewhere, the armed "rescue" of a country or region tends to be followed by a sharp drop in interest, and above all of the economic and practical aid promised at the outset.

In Tripoli, some argued that Sudan would be better placed to defend itself from impending military intervention if it were Party to the ICC. As a Belgian lawyer put it, for small countries the problem is to "avoid being entrapped", and for this purpose it is better to join the ICC than to stay out of it.

Many Arab and Third World intellectuals are tired of standing on the sidelines and "complaining". Joining the ICC might be a way to "join the world" and improve their own countries. This viewpoint seems particularly frequent among women lawyers and human rights NGOs.

But as one participant put it, "Inside or outside; the small countries are on the sidelines".

The view from Tripoli

To conclude with a subjective note, from the peaceful atmosphere of Tripoli the rabid Bushist-Blairist fantasies about the deadly threat from "Islamo-fascism" seem particularly grotesque. The semi-socialist regime installed 37 years ago by Colonel Moammer Kadhafi has widely redistributed oil revenues, educating the population and creating a large middle class thanks to a service sector (largely bureaucratic) that employs some 80 per cent of the population. This makes it a singularly tranquil society -- some bureaucrats may be superfluous, but they are not homeless, begging or thieving. Colonel Kadhafi is eccentric, sleeping in tents instead of palaces, but it is hard to avoid the feeling that he has been demonized not for his faults but for his support to Arab unity (which failed), to the Palestinians and to other liberation causes -- which was natural for a country like Libya that had been the victim not so very long ago of a ruthless colonization by Mussolini's forces, which subjected the local population to summary executions, mass deportations and concentration camps. Looking around, one may conclude that Kadhafi's "soft" dictatorship could well be the best transitional modernizing regime that exists in the Arab world.

In any case, the ICC symposium followed its own ambivalent course without interference from the government. The overall impression was of a great thirst for peace, development and justice -- all under threat from the fanatic Western "war on terror". Islamic extremism is a problem to be dealt with in a growing number of Arab countries (not Libya, apparently, where the devout but moderate Muslim practice seems to preempt the extremists), but which is clearly aggravated by U.S. aggression and Israeli persecution of the Palestinians.

Justice and globalization

I give the last word to excerpts from the contribution of a retired Libyan gentleman who has held high positions in the past, but now prefers to remain anonymous:

"The dominant system is oriented towards an international business law considered as the supreme reference overhanging all national law and of course international public and private law. The WTO has defined in this context an arsenal of principles and procedures all the way to and including a juridical system based on the negation of the elementary principles of separation of powers that characterize democracy.

"This is totally unacceptable. We need exactly the opposite. We need a business law that is respectful of the rights of nations, people and labor, and respectful of the environment, rights of communities, women, while ensuring the conditions for further progress of democratization of societies.

"We have to advocate an International Law of the Peoples, which should combine:

"-- The respect of national sovereignty, allowing people to choose their future according to their wishes.

"-- The respect of Human Rights, not only political rights but also social rights and the right to development and peace.

"No solution is reached through abolishing one of the two terms of the equation. We can neither abolish sovereignty nor can we abolish human rights.

"The principle of respect for the sovereignty of nations must be the cornerstone of international law. The fact that this principle is violated today with so much brutality by the democracies themselves constitutes an aggravating, rather than mitigating circumstance. [...] The solemn adoption of the principle of national sovereignty in 1945 was logically accompanied by the prohibition of recourse to war. [...] With the militarization of the globalization process, which is closely associated with the neo-liberal option and with its predilection for the supremacy of international business law, it has become more imperative than ever that priority be given to this reflection on people's rights."

Diana Johnstone is the author of Fools Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions. She can be reached at  diana.josto@...





Da: Iniziativa PARTIGIANI! <partigiani7maggio @ tiscali.it>

Oggetto: Perugia 13/5: Intitolazione della Sezione ANPI a Mario Bonfigli e Milan Tomović

Data: 08 maggio 2011 23.17.13 GMT+02.00



I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA
Storie e memorie di una vicenda ignorata

Per informazioni sul libro si vedano anche:

Per le prossime iniziative pubbliche in programma si veda al sito http://www.partigianijugoslavi.it

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Perugia, venerdi 13 maggio 2011

INTITOLAZIONE SEZIONE ANPI PERUGIA CITTÁ A
MARIO BONFIGLI E MILAN TOMOVIĆ

La notte del 22 settembre 1943 più di mille prigionieri, nella stragrande maggioranza montenegrini, fuggirono dal campo di concentramento PG n. 64 di Colfiorito. Tra di loro c'era uno studente poco più che ventenne, Milan Tomovic. Uno dei tanti che, invece di nascondersi o cercare di tornare  in Patria, decise di fermarsi in Umbria e proseguire qui la lotta contro il nazifascismo.
Inizialmente impegnato nella zona montana sopra Spello, Milan dimostrò subito coraggio e valore, tanto da meritare l'affidamento del comando di un distaccamento della IV brigata Garibaldi di Foligno, attivo ai confini fra Umbria e Marche, nella zona di monte Cavallo. Morì all'ospedale civile di Perugia, dove era stato segretamente portato e ricoverato, il 22 marzo 1944.
Mario Bonfigli, nome di battaglia "Mefisto", medaglia d'argento al Valor Militare della Resistenza, è stato primo comandante della brigata "S. Faustino Proletaria d'Urto", che operava nell'Alta valle del Tevere.
Tenente pilota della Regia Aeronautica, Mario era fuggito dall'aeroporto militare di Fano nei giorni successivi all'8 settembre 1943, con l'obiettivo di passare le linee e dare il suo contributo alla liberazione. L'Umbria fu per lui una scelta casuale e obbligata: il suo aereo, dopo un atterraggio di emergenza a Castiglion del Lago, fu scoperto dai tedeschi e reso inutilizzabile. È a Preggio che Bonfigli prende i primi contatti con la Resistenza, per trasferirsi poi verso Pietralunga. Non abbandonerà più l'Umbria, e resterà a Perugia anche dopo la Liberazione, diventando uno dei principali animatori dell'Anpi provinciale e regionale. Ci ha lasciato lo scorso 29 marzo.

Venerdì 13 maggio, alle ore 19, presso il circolo culturale Macadam, sito in Piazza Giordano Bruno 9, la sezione di Perugia dell'Anpi (Associazione nazionale Partigiani d'Italia) verrà ufficialmente intitolata a Mario Bonfigli e Milan Tomovic, figure diverse ma  ugualmente significative nella lotta per la libertà. Il primo per l'integrità morale, l'umanità, la  voglia mai sopita di combattere che ha saputo trasmettere anche e soprattutto a quei giovani, nipoti di quella generazione, che si sono avvicinati all'Anpi o con cui ha parlato nei suoi frequenti incontri con le scuole. Il secondo per ricordarci che la lotta e il sacrificio per la libertà non ha avuto confini, né esclusività di genere o nazionalità.
La serata sarà anche l'occasione di promuovere, in collaborazione con l'Isuc-Istituto per la storia dell'Umbria contemporanea e con il Cnj-Coordinamento nazionale per la Jugoslavia, una riflessione storica sulla presenza di combattenti jugoslavi (e stranieri in genere) nella Resistenza umbra.
A tale proposito interverranno Dino Renato Nardelli, responsabile della Sezione didattica dell'Isuc, curatore del volume "Montenegrini internati a Campello e Colfiorito 1942-1943. Note biografiche”, Tommaso Rossi, ricercatore dell'Isuc, curatore del volume "Toso. Memorie di un comandante partigiano montenegrino" e Andrea Martocchia, segretario del Cnj, curatore del volume "I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda ignorata".
L'incontro, coordinato da Mirella Alloisio, partigiana e presidente della sezione Anpi di Perugia, vedrà la partecipazione anche di Jacopo Mordenti, nipote di Mario Bonfigli.

per contatti: <anpiperugia @ canaglie.org>





("Arbitrio al posto del diritto internazionale": questo il titolo della analisi dell'IMI - Centro di informazioni sulla militarizzazione, con sede a Tubinga - dedicata allo scandalo dei riconoscimenti internazionali alla secessione "etnica" del Kosovo. Il PDF è scaricabile dal link


2.5.2011

IMI-Studie 2011/09 - Texte zum IMI-Kongress 2010


Willkür statt Völkerrecht


Das IGH-Gutachten zum Kosovo droht eine neue Ära der Sezessionskriege einzuleiten


Vollständiger Text hier: http://imi-online.de/download/JW_IGH_Kongress2010.pdf 

Wie „kreativ“ man mit der Wahrheit umzugehen versteht, führt die westliche Balkan-Politik, insbesondere der Umgang mit dem im Juli 2010 veröffentlichten Gutachten des Internationalen Gerichtshofs (IGH) zur Unabhängigkeit des Kosovo mehr als deutlich vor Augen. Schon um den NATO-Angriffskrieg gegen Jugoslawien im Jahr 1999 zu rechtfertigen, war man sich keiner noch so perfiden Lüge zu schade – erinnert sei hier nur an das angebliche Massaker von Racak, den Hufeisenplan oder die zahlreichen Völkermord und Ausschwitz-Vergleiche, die sich allesamt als nichtig herausgestellt haben.[1] Dass der Krieg zudem und unter offenem Bruch des Völkerrechts, ohne Mandat der Vereinten Nationen durchgeführt worden ist, passt ins Bild.

Inzwischen räumen selbst manche der damaligen Drahtzieher offen ein, dass nicht die Menschenrechtssituation, sondern geostrategische Erwägungen ausschlaggebend für die Kriegsentscheidung waren. So schreibt Strobe Talbott, seinerzeit stellvertretender US-Außenminister unter Bill Clinton: „Während die Länder überall in der Region ihre Volkswirtschaften zu reformieren, ethnische Spannungen abzubauen und die Zivilgesellschaft zu stärken versuchten, schien Belgrad Freude daran zu haben, beständig in die entgegengesetzte Richtung zu gehen. Kein Wunder, dass die NATO und Jugoslawien schließlich auf Kollisionskurs gingen. Der Widerstand Jugoslawiens gegen den umfassenden Trend zu politischen und wirtschaftlichen Reformen – und nicht die Bitte der Kosovo-Albaner – bietet die beste Erklärung für den Krieg der NATO.“[2]


http://imi-online.de/download/JW_IGH_Kongress2010.pdf 


[1] Seinerzeit war die westliche Intervention ganz wesentlich mit einem angeblich von jugoslawischer Seite gegenüber der kosovarischen Bevölkerung verübten Völkermord begründet worden, obwohl lediglich fünf Tage vor deren Beginn in einer Lageanalyse des Auswärtigen Amtes festgehalten wurde, die Zivilbevölkerung werde in der Regel "vor einem drohenden Angriff durch die VJ gewarnt". Allerdings werde "die Evakuierung der Zivilbevölkerung vereinzelt durch lokale UCK-Kommandeure unterbunden". Weiter hieß es: "Von Flucht, Vertreibung und Zerstörung im Kosovo sind alle dort lebenden Bevölkerungsgruppen gleichermaßen betroffen.“ (Lutz, Dieter S.: "Krieg nach Gefühl" - Manipulation: Neue Zweifel am Nato-Einsatz im Kosovo, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 15.12.2000). Vgl. zu den Kriegslügen u.a. Hofbauer, Hannes (Hg.): Balkankrieg, Wien 2001.

[2] Klein Naomi: Die Schockstrategie. Der Aufstieg des Katastrophen-Kapitalismus, Frankfurt 2009, S. 457f. Hervorhebung JW.


Jürgen Wagner