Informazione

VULCANO MITROVICA
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di Alessandro Di Meo
http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.com/

6 febbraio 2010

Un senso di impotenza e scoramento ci assale ad ascoltare le parole di
padre Andrej, monaco del monastero di Dečani, uno dei simboli del
Kosovo e Metohija che rischia di essere lasciato al proprio destino
dalla forte diminuzione del contingente italiano, chiamato al
sacrificio afghano dai vertici Nato e Usa. La sua preoccupazione è
pari alla tenacia con la quale il monastero verrà difeso, ci dice, fin
quando esisterà anche un solo serbo nella terra di Lazar e Miloš.
La partita si giocherà, a detta anche del capo del contingente
italiano in Kosovo, colonnello Grasso, il prossimo 25 aprile, quando
ci sarà l’intronizzazione del nuovo patriarca Irenej nel patriarcato
di Peć, a pochi chilometri da Dečani. Quello sarà il momento in cui
il Kosovo “indipendente”, il Kosovo governato da ex criminali di
guerra ora in giacca e cravatta, questi si!, ritenuti affidabili dal
mondo politico occidentale, dovrà dimostrare di essere anche
“tollerante e democratico”. Ci riuscirà, siamo pronti a
scommetterci, ma bisognerà vedere cosa accadrà quando i riflettori
saranno spenti e le delegazioni internazionali andate via.
Le parole del colonnello sono improntate a una certa tranquillità,
forte anche dell’arrivo, ci dice, di altri contingenti fra i quali
quello turco.
Nessuno sembra rendersi conto del peso che certe decisioni hanno sullo
stato d’animo delle minoranze serbe. Che siano anche i turchi a
garantire pace e sicurezza in un territorio che è stato proprio dai
turchi dominato per secoli e secoli, costringendo il popolo serbo a
sacrifici immani ancora nelle memoria di intere generazioni appare,
francamente, come l’ennesimo affronto ai serbi, che già hanno dovuto
subire, negli anni più recenti, oltre alla guerra, lo schiaffo di
vedere la propria incolumità affidata al contingente tedesco, che solo
nella II guerra mondiale, in divisa SS, ha provocato eccidi
inenarrabili. E nel marzo del 2004, quando un pogrom antiserbo fu
scatenato dagli albanesi sotto gli occhi “distratti” della Kfor
anche tedesca, questa diffidenza serba ha trovato, fatalmente, conferma!
Ma il vero termometro della situazione è Kosovska Mitrovica nord, dove
l’acqua e la corrente elettrica continuano a venire razionate per i
continui boicottaggi degli albanese a sud, che gestiscono il flusso.
“Qui siamo tutti armati!”, ci dicono nostri amici di Mitrovica
nord. Armati, in attesa che il vulcano esploda. Perché la volontà
della missione Eulex di realizzare ad ogni costo il famigerato piano
Athisaari, non sarà mai accettato dai serbi che non vogliono staccarsi
definitivamente da Belgrado. Perché se questo dovesse mai accadere,
anche per i serbi rimasti nei ghetti di tanti sperduti e dimenticati
villaggi, sarà la fine. E con loro, sarà la fine per i monasteri
ortodossi, molti dei quali patrimonio dell’Unesco, come Dečani,
Gračanica, Patriarcato di Peć e altri ancora... Forse non verranno
distrutti, ma è già partito il revisionismo che li trasformerà in
pietre fondanti, e improbabili, di culture non ortodosse, prime fra
tutte, quella albanese musulmana. Soprammobili per un business
turistico gestito dalla mafia locale e dalla letale equidistanza di
tante ong dal gippone facile!
Intanto, contraddizioni emergono ma non sembrano turbare politiche
estere ne scelte che la comunità internazionale continua a proporre a
danno dei serbi. A Kosovska Mitrovica nord, a pochi metri dal ponte
sull’Ibar che, come il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, è divenuto
testimone della storia fra i due popoli, negozi gestiti da albanesi
con tanto di bandiere Usa e Uck e vecchi manifesti elettorali
inneggianti agli “ex criminali” Haradinaj e Taqhi, in un via vai di
auto senza targa, con targa albanese, con targa serba, vedono tanti
serbi fare spesa perché tutto costa meno. E si può pagare in dinari.
Ancora a Mitrovica nord, il cimitero turco è intatto e libera è la
visita ai defunti... a Mitrovica sud, il cimitero ortodosso è
distrutto e per visitarlo si rischia la propria incolumità anche se
scortati dalla nuova polizia kosovara, formata da ex militanti
dell’Uck. Sempre a nord, un villaggio albanese vive in assoluta
tranquillità e libertà di movimento proprio vicino al monastero
ortodosso di Sokolica dove le monache non si oppongono certo alla
visita di donne albanesi che chiedono grazia di fertilità. Percorrendo
la strada che da Vranje, uno dei luoghi più bombardati dalla Nato, ti
porta in Kosovo, poco prima delle nuove frontiere imposte dall’Eulex,
un villaggio albanese mostra il profilo di minareti musulmani
intatti, senza contingenti Kfor a protezione. Siamo in Serbia! Ma a
Gračanica, i militari Kfor vigilano giorno e notte, coi loro mitra
spianati, sul monastero e sulla comunità serba ghettizzata. Siamo in
Kosovo!
Tutto questo mentre a Belgrado molti albanesi del Kosovo portano i
propri figli a curare gravi malattie, gentile regalo delle bombe
all’uranio impoverito, che non hanno fatto distinzioni. Letale
equidistanza...
La sensazione che ancora una volta volontà e scelte politiche tutte
occidentali stiano giocando sulla pelle della povera gente è forte.
Così come la sensazione che il vulcano esploderà a breve. Per questo
c’è bisogno della mobilitazione del mondo culturale e
associazionistico non colluso con queste scelte, per questo è stato
lanciato l’appello da Un Ponte per... per la protezione delle
minoranze serbe e dei monasteri ortodossi
(vedi: http://www.unponteper.it/sostienici/petizione.php)
Non è da sottovalutare il pericolo che si sta correndo in quella terra.
Il continuo ricatto a cui è sottoposto il governo serbo, al quale ora
si richiede addirittura di entrare nella Nato, e sarebbe l’ennesima
provocazione per il popolo serbo del quale molti stigmatizzano il
senso di persecuzione atavico ma che, a leggere la storia moderna e
non, sembra davvero inevitabile... questo continuo ricatto non tiene
conto dell’orgoglio di un popolo da sempre avanguardia dell’Europa
ma dall’Europa sempre trattato come merce di scambio sul mercato
dell’opportunismo occidentale.
Nel frattempo, le 15 famiglie serbe rimaste a Belo Polije,
simboleggiate dall’anziano Radomir che ci offre rakija col sorriso
sulle labbra, nonostante il tumore che lo affligge e nonostante
l’anziana moglie malata di Parkinson, non hanno nemmeno legna a
sufficienza per scaldarsi nel rigido inverno balcanico. Ma a chi
interessa il loro piccolo, lontano destino quotidiano?


10 Febbraio, Giornata della provocazione nazionalista e fascista

1) Impedita a Pontedera celebrazione clericonazista

2) Foibe: PdL scatenato contro il recente libro di Pirjevec e Bajc


=== 1 ===

06-FEB-10 14:12
FOIBE: COMITATO ANTIFASCISTA OCCUPA SALA, NO INCONTRO
(ANSA) - PONTEDERA (PISA), 6 FEB - Il Comitato antifascista toscano della Valdera ha occupato stamane la sala Carpi di Pontedera (Pisa) dove nel pomeriggio è prevista la commemorazione dei caduti delle Foibe da parte dell'Unione nazionale combattenti e reduci della Repubblica di Salò. Gli esponenti antifascisti hanno posizionato uno striscione con scritto "Ora e sempre resistenza" all'interno della sala e contestano la decisione del Comune di Pontedera di concedere lo spazio, gestito dall'Arci, ai nostalgici di Salò. Sul posto sono presenti carabinieri e agenti di polizia a presidiare la zona. E' intervenuto anche l'assessore alla Cultura di Pontedera Stefano Tognarelli per trovare una mediazione. (ANSA)


06-FEB-10 18:52
FOIBE:COMITATO ANTIFASCISTA OCCUPA SALA,INCONTRO ALTRA SEDE
(V. 'FOIBE: COMITATO ANTIFASCISTA OCCUPA...' DELLE 14:12) (ANSA) - PONTEDERA (PISA), 6 FEB - La commemorazione delle vittime delle Foibe da parte dell'Unione nazionale combattenti e reduci della Repubblica di Salò si è svolta questo pomeriggio nel centro "Sete sois sete luas" a Pontedera (Pisa), invece che alla sala Carpi, sede inizialmente prevista, occupata stamani da esponenti del Comitato antifascista toscano della Valdera. Una decina in tutto i partecipanti alla commemorazione. "Molti hanno rinunciato per il caos che si è creato alla sala Carpi - ha detto Bruno Buti, presidente per Pisa, Lucca e Massa dell'associazione che si rifà alla Repubblica sociale e coordinatore toscano e di Pisa della Fiamma tricolore - e questo é senza dubbio un'ingiustizia, perché avevamo pagato la concessione dello spazio direttamente al Comune. Non mi aspettavo che l'amministrazione comunale approvasse un'occupazione di quel genere, così come non mi aspettavo che la propositura di Pontedera ci negasse l'invio di un prete per recitare un rosario in onore dei nostri caduti. Abbiamo contattato anche un diacono, ma anche lui ha avuto paura di collaborare con noi per questa ricorrenza". L'occupazione della sala Carpi da parte del Comitato antifascista si è poi conclusa nel pomeriggio. La zona è stata presidiata a lungo dalle forze di polizia. Non ci sono stati incidenti.(ANSA).

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ULTERIORI INFORMAZIONI GIUNTE DA PONTEDERA

Circa due settimane fa l'organizzazione fascista Fiamma Tricolore affiggeva manifesti con la croce celtica in grande evidenza. Il coordinamento antifascista si recava allora in Comune e contestava al sindaco che nella Giornata della Memoria il Comune avesse autorizzato l'affissione di un manifesto del genere. 
Successivamente uscivano comunicati stampa e nel giro di pochi giorni la Fiamma, i reduci di Salò ed i nazisti di Forza Nuova organizzavano per il 6 febbraio una messa in suffragio delle vittime del comunismo, con dibattito pubblico.
Il Comitato antifascista scriveva allora una lettera aperta alla Chiesa, ottenendo che nessun prete impartisse messa per una iniziativa del genere.
Rimaneva la manifestazione, autorizzata in un locale comunale. Rifondazione Comunista organizzava un presidio a 60 metri, e l'ARCI e i Cobas chiedevano al Comune la revoca della autorizzazione. 
Dopo il successo della occupazione della sala da parte degli antifascisti, il Comitato emetteva il comunicato che segue. 
[ringraziamo Federico dei Cobas di Pisa per le informazioni]


La Valdera Antifascista, che riunisce realtà, associazioni e collettivi, si sono presentati alle ore 11 nella saletta Carpi dove alle 15 era prevista una manifestazione di Fiamma Tricolore e dei nostalgici di Salò.

Gli antifascisti hanno pacificamente presidiato lo spazio chiedendo al Sindaco Millozzi di revocare l’utilizzo della sala comunale che ospita un cineclub gestito dall’Arci. Ma il Sindaco non ha accettato di incontrare la Valdera Democratica e Antifascista e ha inviato al suo posto un Assessore che ha confermato la volontà dell’Amministrazione di lasciare la sala pubblica alla iniziativa dei nostalgici fascisti. La nostra ferma opposizione ha costretto la Questura di Pisa a cercare una interlocuzione con il Sindaco che alla fine ha ricevuto una nostra delegazione in Comune . E’ impensabile che si attribuisca a un semplice disguido di qualche ufficio la concessione della sala ai fascisti, è impensabile che si possa dare una copertura religiosa a questi “signori” (a proposito della annunciata partecipazione di un cappellano militare ad una cerimonia in favore delle vittime delle foibe)”.

Abbiamo ottenuto la revoca della sala e la mobilitazione si è conclusa alle 17. con un partecipato presidio in Piazza Curtatone.

E’ inaccettabile che i fascisti trovino legittimità e spazio da parte della Giunta, spazi per operazioni di revisionismo storico che mirano a cancellare la Resistenza per affermare invece i valori e le pratiche di odio del fascismo con tutte le sue stragi commesse in Italia e in Europa.

Le foibe sono l’ennesimo pretesto per operare una riscrittura della storia volta a cancellare le responsabilità fasciste e italiane nel genocidio della popolazione nei Balcani: centinaia di migliaia di jugoslavi perirono per mano italiana nei campi di concentramento, presenti per altro sullo stesso territorio italiano. Molti degli scampati da questi campi si unirono poi alla Resistenza contribuendo alla liberazione del nostro paese dal nazifascismo

Ma con la scusa delle Foibe i fascisti si vogliono accreditare con le campagne xenofobe e razziste dei nostri giorni, con atti di violenza quotidiana.

Sia ben chiaro che noi non daremo, né ora né in futuro, alcuna legittimazione AI FASCISTI e e non offriremo spazio alcuno ad operazioni di natura fascista che si ripercuotono sui lavoratori, sui migranti, sulle giovani generazioni.


Comitato ANTIFASCISTA E ANTIRAZZISTA VALDERA


=== 2 ===

Da: comitatoantifasc_pr @...

Oggetto: Foibe: PdL scatenato contro il recente libro di Pirjevec e Bajc

Data: 06 febbraio 2010 18:57:13 GMT+01:00


Pdl del Friuli scatenato contro lo storico Pirjevec autore insieme ad altri del libro "Foibe. Una storia d'Italia" pubblicato in novembre da Einaudi. Uno dei coautori del libro, Gorazd Bajc, interverrà alla contromanifestazione sulle foibe di giovedì 11 sera al cinema Astra di Parma
 

“Negare, come ha fatto lo storico dell’Università di Capodistria Joze Pirjevec, che la tragedia delle foibe sia da attribuirsi alla volontà di effettuare una pulizia etnica premeditata, frutto di un’azione politica tesa all’eliminazione di quanti si opponevano all’annessione alla Jugoslavia dopo la fine della seconda guerra mondiale, significa non prendere in considerazione fatti storicamente assodati. E’ necessario dare urgentemente corso all’iter per la costituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta, affinché venga fatta definitivamente luce su questi tragici fatti”.
A chiederlo in una mozione i consiglieri regionali friulani del Pdl Roberto Novelli (primo firmatario), Daniele Galasso, Franco Baritussio, Piero Tononi, Roberto Marin, Paolo Ciani, Maurizio Bucci, Piero Camber, Bruno Marini e Gaetano Valenti ed il capogruppo dell’Udc Edoardo Sasco.
A scatenare la reazione del Pdl i contenuti del volume “FoibeUna storia d’Italia” di Pirjevec, appunto.
Nel testo presentato dal centrodestra si chide alla Giunta regionale di intervenire presso il governo nazionale e il Parlamento.
“Sull’argomento foibe – rileva Novelli – si pensava che si fosse ormai giunti a una consolidata verità, ma la pubblicazione del volume “Foibe. Una storia d’Italia” di Pirjevec ha riacutizzato un vulnus notevole nell’animo degli italianiIn un’intervista rilasciata a un quotidiano locale di lingua slovena, lo storico dell’Università di Capodistria definisce l’esodo di centinaia di migliaia di italiani giuliano-dalmati (da 250mila a 350mila), come il rifiuto di un popolo di indottrinati dal nazionalismo e dal fascismo a sentirsi razza eletta, a farsi comandare dagli s’ciavi, per giunta comunisti, definito come trauma psicologico”.
Prosegue Novelli: “Lo stesso autore confuta anche la tesi per cui nelle foibe di Basovizza vi sarebbero 2.500 corpi e altrettanti in quella di Brsljanovicadi Opicina, sostenendo che si dovrebbe effettuare una scrupolosa perlustrazione delle grotte stesseDel resto lo storico dell’Università di Capodistria riserva il termine tomba comune per indicare le foibe, sostenendo che tali voragini sono state volutamente cementificate e ostruite con materiale esplosivo al fine di evitarne l’esplorazione, e quindi, l’esatto numero delle vittime ivi giacenti e la loro nazionalità”.
Pirjevec sostiene, infine – prosegue l’esponente del Pdl – che ci sarebbe una sorta di continuità tra la propaganda nazista sulle foibe istriane e la loro riscoperta degli anni Novanta, attraverso un’operazione politica e culturale revisionista, fino all’istituzione, nel 2004, del Giorno del Ricordo (10 febbraio). Secondo Pirjevec si tratterebbe, invece, di una decisione mossa da pura propaganda politica in un’Italia soggetta a crisi d’identità e coesione e che sarebbe legata alla questione della determinazione dei confini. Non a caso è stato scelto il 10 febbraio, quando è stato firmato il Trattato di Parigi, con il quale l’Italia ha perso gran parte del territorio dell’allora Venezia Giulia. Quelle di Pirjevec sono affermazioni che stridono con le testimonianze di tutte le persone che hanno vissuto il dramma dell’esodo dall’Istria e l’opera di epurazione perpetrata dai soldati titini durante e dopo la fine del secondo conflitto mondiale, secondo le quali le foibe rappresentano a tutti gli effetti fenditure carsiche in cui i partigiani jugoslavi gettarono i corpi dei nemici.Anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2007, ricostruendo le tragiche vicende seguite prima all’8 settembre 1943 e poi al 25 aprile 1945, ha  dichiarato che vi fu un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri connotati di una pulizia etnica”.
“E’ necessario, quindi – conclude Novelli – che si faccia chiarezza tramite la costituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle foibe. Non per volontà revanscista o semplice spirito di parte, ma per un’oggettiva analisi storica, unica fonte di verità e di giustizia, finalizzata ad una serena e duratura amicizia tra i popoli”.




Roma febbraio 2010
II SETTIMANA ANTIREVISIONISTA

Italianizzazione forzata, pulizia etnica, oppressione, sfruttamento, guerra, colonialismo, stragi di civili, 
oltre la mitologia degli "italiani brava gente", oltre le amnesie della repubblica... NOI RICORDIAMO TUTTO!

mercoledì 10 febbraio 2010 - ore 15,30
cimitero di Prima Porta: "E questo è il fiore del partigiano..."



sabato 13 febbraio 2010 - ore 19,30 
al Blow (via di Porta Labicana 24 - San Lorenzo): Il revisionismo e l'uso politico della storia 

dibattito con gli storici Gino Candreva, Davide Conti, Sandi Volk


Promuovono:
Collettivo Militant - Collettivo studentesco Senza Tregua



Da: partigiani7maggio  @...

Oggetto: [vocedelgamadi] Partigiani jugoslavi in Appennino: una storia ignorata

Data: 05 febbraio 2010 22:21:12 GMT+01:00


L'articolo che segue uscirà sul prossimo numero - n. 1, gen-feb 2010 - de l'ernesto: www.lernesto.it

PARTIGIANI   JUGOSLAVI  IN  APPENNINO


Una storia ignorata



La vicenda degli jugoslavi rinchiusi nei campi di detenzione fascisti della Penisola fino all’ 8 Settembre del 1943, ed il contributo da questi offerto alla Resistenza antifascista e antinazista italiana, sono stati finora noti solo a pochi specialisti e in modo frammentario.

Eppure, questi partigiani animarono la lotta di Liberazione nelle sue prime fasi lungo quasi tutta la dorsale appenninica, da Genova fino alla Puglia con episodi rilevanti soprattutto in Umbria e nelle Marche dove gli “slavi” furono presenti quasi ovunque e presero parte a quasi tutte le azioni più importanti.

Gli jugoslavi erano in maggioranza già esperti nella guerriglia perché l’avevano condotta nel loro paese, contro gli eserciti di occupazione tedesco e italiano, nonché contro i collaborazionisti locali, fino alla cattura e alla deportazione in Italia. Inoltre, la gran parte di loro erano giovanissimi militanti della SKOJ (la struttura giovanile del Partito Comunista jugoslavo), con una formazione ideologica solida ed una piena coscienza del nemico da affrontare. Con la loro esperienza e con la loro determinazione antifascista, essi dettero, fin dall’inizio, un valido contributo alla formazione del movimento partigiano in Italia e al consolidamento della capacità combattiva delle giovani reclute.

Abbiamo cominciato ad interessarci a questa storia negli ultimi anni, per esserne venuti a conoscenza in maniera pressochè casuale, nell'ambito delle nostre attività di solidarietà internazionalista e controinformazione sulla Jugoslavia e nell'ambito delle battaglie contro il revisionismo storico e la diffamazione della Resistenza, divenute purtroppo sempre più necessarie e frequenti. Con rammarico, abbiamo dovuto constatare che vicende di così vaste dimensioni ed implicazioni hanno trovato uno spazio pressoché trascurabile nella scrittura della storia dell’Italia contemporanea e della stessa lotta antifascista: nell’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza (1) - che, tra la letteratura che abbiamo trovato, è l’unico caso in cui si sia perlomeno tentata una ricostruzione complessiva di questi fatti attraverso una specifica voce “Jugoslavi in Italia”, in chiusura della stessa è scritto: “la partecipazione jugoslava alla Resistenza Italiana non è stata ancora esaminata in modo organico”. Questo dopo tre decenni dalla conclusione di quella lotta. 

Oggi sono passati ormai quasi 65 anni e la situazione non è cambiata, anzi il passare del tempo ha reso ovviamente più difficile ogni ricostruzione e indagine da fonte diretta: i testimoni ancora in vita sono rimasti in pochi e naturalmente anziani; le fonti documentarie, che già negli anni ’70 erano disperse e mal gestite, sono spesso diventate irreperibili; ed infine, l’approccio a quelle vicende è diventato “indigesto” a molti sia dal punto di vista politico che professionale.

Consapevoli di tutte queste difficoltà, abbiamo in ogni caso deciso di intraprendere un lavoro di ricerca e di divulgazione al grande pubblico che mettesse in risalto quel carattere internazionalista che fu anche della Resistenza italiana, oltrechè – ed è cosa nota, anche se abbastanza trascurata anch'essa - della omologa Lotta Popolare di Liberazione in Jugoslavia cui parteciparono centinaia di migliaia di italiani, soprattutto ex militari delle truppe di occupazione. Abbiamo inteso così tra l'altro contrastare le tendenze revisionistiche che vogliono presentare la Lotta di Liberazione in Europa in termini esclusivamente nazionali se non nazionalistici. (2)

E' nato dunque il progetto Partigiani Jugoslavi in Appennino, in virtù del quale si è via via costituita una rete molto ampia di contatti e di collaborazioni - con storici professionisti, sezioni ANPI ed Istituti di Storia, appassionati conoscitori delle vicende in questione e testimoni dei fatti residenti in molte province italiane. Infatti se in un primo momento abbiamo cominciato a seguire le tracce degli Jugoslavi, in gran parte sloveni e montenegrini, che erano fuggiti dopo l’8 Settembre dal campo d’internamento di Colfiorito, nei pressi di Foligno, e da quello di Renicci nei pressi di Anghiari in provincia di Arezzo, subito ci siamo resi conto che la questione abbracciava un'area geografica molto più ampia.

Gli jugoslavi che fuggirono dai campi d’internamento si dispersero nelle campagne circostanti accolti dalle popolazioni locali, molti di essi si unirono o contribuirono alla formazione delle brigate partigiane che si stavano componendo in quei giorni del settembre 1943.

A Bosco Martese, prima tappa della Resistenza Teramana, ma anche italiana, tra il 12 e il 25 settembre si concentrarono tutte le forze antifasciste della provincia di Teramo; si trattava di soldati italiani sbandati, ma anche di moltissimi ex prigionieri stranieri appena scappati dai campi di concentramento della zona: neozelandesi, inglesi, americani e numerosi prigionieri politici della Jugoslavia, in particolare montenegrini.

Nella mattinata del 25 settembre del ’43, l'avanguardia di una colonna tedesca motocorrazzata che transitava per Teramo, dietro informazione dei fascisti, si portava verso il bosco e catturava 7 partigiani. Ma nei pressi di Bosco Martese la colonna tedesca fu investita dal fuoco dei cannoni e delle mitragliatrici dei partigiani. Furono bloccati 30 camion e fu catturato il comandante della colonna, il maggiore austriaco Hartmann. I sette partigiani furono fucilati, e di conseguenza il comando partigiano teramano decise di giustiziare Hartmann.

Questo episodio divenne noto come “la prima battaglia campale in campo aperto della Resistenza Italiana” (così la definì Ferruccio Parri), meno noto è, però, il fatto che gli “slavi” giocarono un ruolo fondamentale in quella vicenda e nelle successive operazioni della Resistenza nell’Italia Centrale. Le formazioni di Bosco Martese erano state suddivise in tre compagnie, sotto la guida del capitano dei carabinieri Ettore Bianco e del medico condotto Mario Capuani. Di queste compagnie la seconda era comandata da Dušan Matijašević aiutato da Svetozar Čućković. 

Dopo il 25 settembre le compagnie si dispersero, ma gli stranieri si diressero in massa verso la zona di Acquasanta Terme in provincia di Ascoli. La “sacca” dell’acquasantano divenne presto il rifugio di un numero impressionante di fuggiaschi stranieri, in particolare antifascisti jugoslavi. Arrivarono infatti molti altri da nord, dai campi di reclusione delle Marche - Servigliano presso Fermo, Collegio Gentile presso Fabriano, eccetera - ma anche dall’Umbria e dalla Toscana. In Umbria, anche grazie al recente interesse degli storici dell'ISUC di Perugia, è particolarmente noto il campo di Colfiorito presso Foligno dove nelle “casermette” furono internati migliaia di Montenegrini.

Memorie commosse di quei giorni sono contenute nei libri di Dragutin “Drago” Ivanovic, classe 1923, che abbiamo intervistato nella sua casa dove vive ancora a Lubiana. Drago ha scritto moltissimo su quelle vicende sin dagli anni ’70. Subito dopo la pensione ha preso a ripercorrere i sentieri della sua detenzione e della sua resistenza antifascista sul suolo italiano. Le sue memorie sono note alla storiografia italiana solamente per quanto riguarda il campo di Colfiorito in cui anch’egli fu detenuto, ma altrettanto interessante per la nostra storia è il periodo successivo, fino al suo trasferimento in Puglia ed il rientro in Jugoslavia di nuovo inquadrato a combattere in una delle cosiddette Brigate d’Oltremaredell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.

Dopo l’8 Settembre altri internati montenegrini di Colfiorito erano invece rimasti in Umbria unendosi alla Brigata Garibaldi nei dintorni di Foligno e di Spello (3); altri ancora si unirono alle formazioni partigiane delle Marche centro-settentrionali oppure  andarono più a sud e si unirono al nucleo dei fuggiaschi dal carcere di Spoleto.

Il battaglione degli jugoslavi formatosi a partire da questo nucleo spoletino fu chiamato “ Tito”, il suo comandante militare era Svetozar Leković, detto Tozo, di Berane (Montenegro), che nel dopoguerra lavorerà come ingegnere presso l’Istituto Tecnico Militare di Belgrado; vice commissario politico era Bogdan “Boro” Pesić, il quale diventerà invece redattore del quotidiano belgradese Politika. Con alterne vicende, visto che talvolta gli “slavi” tennero un profilo politico – militare più autonomo, il battaglione Tito fu collegato all’importante Brigata Gramsci il cui commissario politico era Alfredo Filipponi. Gli “slavi” della Gramsci compirono una serie di azioni di disturbo tali da costituire una vera e propria spina nel fianco per lo schieramento tedesco impegnato a fronteggiare l’avanzata da sud delle truppe alleate. Nei primi mesi del ’44 il territorio di ben 12 comuni della Valnerina era sotto il controllo della Brigata Gramsci che era stata suddivisa in 5 battaglioni, tra cui appunto il battaglione Tito. Il territorio dei comuni di Scheggino, S. Anatolia di Narco, Vallo di Nera, Cerreto di Spoleto, Preci, Visso, Norcia, Cascia Poggiodomo, Monteleone e Leonessa venne praticamente abbandonato dalle forze nazifasciste costituendo il primo territorio libero dell’Italia Centrale. Per oltre quattro mesi in Umbria visse la Prima Repubblica Partigiana, esempio di una nuova era che le popolazioni sentivano avvicinarsi ineluttabilmente.

Nell’aprile del ’44 il comando tedesco di concerto con quello fascista, decise una massiccia “operazione di polizia” in Valnerina: una serie di battaglie contro forze preponderanti impegnarono i partigiani, che tuttavia riuscirono a sganciarsi con il minor danno possibile grazie anche alla capacità dei comandanti ed in special modo di Tozo. Dopo questa azione il battaglione Tito si diresse verso Visso ed il versante marchigiano. 

Questo è proprio il periodo della sanguinosa controffensiva tedesca. La pressione degli Alleati sulla linea Gustav, in particolare i durissimi scontri presso Cassino, avevano creato tra i tedeschi una tensione crescente imponendo la elaborazione di piani e di manovre per il consolidamento del controllo del territorio, incluse azioni di “bonifica” nelle retrovie. Un obiettivo prioritario di tali azioni non poteva che essere la cancellazione della presenza delle “bande” partigiane del Centro Italia: con le loro azioni di disturbo, compiute con frequenza e decisione crescenti lungo le strade consolari quali la Salaria e la Flaminia tali “bande” diventavano inammissibili per il gigante tedesco. Protagonisti di tali importantissime azioni erano molto spesso proprio gli jugoslavi: quelli organizzati attorno al comandante Tozotra le provincie di Terni e di Rieti, e quelli attivi nell’entroterra marchigiano.

Un’altra storia interessante è quella che riguarda i prigionieri del campo di Renicci, in provincia di Arezzo. In questo campo erano stati fatti confluire i deportati della cosiddetta “provincia di Lubiana”, dunque molte migliaia di sloveni la gran parte dei quali avevano già fatto tappa prima nell’inferno di Arbe/Rab, poi a Gonars (UD); oltre a costoro c’erano anche prigionieri politici albanesi, croati e antifascisti italiani soprattutto anarchici, molti tra questi ultimi erano stati trasferiti a Renicci dai lager del sud e delle isole che nei primi mesi del ’43 dovettero essere sgomberati per l’avanzare degli Alleati.

Nel campo di Renicci i reclusi avevano già espresso anche apertamente, quando era stato loro possibile, la loro opposizione e resistenza ai trattamenti più vessatori. Tra l’altro nel campo esisteva una cellula politica comunista clandestina che faceva capo a Lojze Bukovac. (4)

Bukovac dopo la sua fuga da Renicci si unirà all’VIII Brigata Garbaldi Romagnola. In seguito all’offensiva tedesca che si stava spingendo dal sud verso il nord delle Marche fino all’alta Marecchia e alla Romagna, Bukovac ripiegherà in Toscana e di nuovo nell’aretino. Bukovac ricorda : “... [dopo il 18 aprile 1944, provenienti dall’ Emilia Romagna] ci ritirammo in Toscana dove ci siamo riuniti alla brigata  “Pio Borri” verso la metà del mese di maggio. Il commissario della brigata “Borri” Dušan Bordon, un giovane studente originario del capodistriano, divenuto poi nostro eroe nazionale (nel dopoguerra a Capodistria gli è stata intitolata una scuola) era caduto in un combattimento nei pressi di Caprese Michelangelo il 13 aprile 1944...” (5)

In effetti in quel durissimo scontro a fuoco avvenuto nel corso di un rastrellamento fascista, per proteggere la ritirata dei compagni erano caduti, oltre allo studente Dušan Bordon, comandante del reparto, il russo Piotr Fesipović, mentre un altro montenegrino, tale Pelović, era stato catturato e immediatamente fucilato. Il reparto della GNR comunque paga con 12 morti e 10 feriti.

Non mancano gli episodi che coinvolgono gli jugoslavi anche più a Nord, fino a Genova, dove il comandante della brigata partigiana che liberò la città era jugoslavo: Anton “Miro” Ukmar. Ukmar in effetti era sfuggito da un lager in Francia; unitosi alla Resistenza italiana, venne nominato comandante della VI zona operativa, che sugli Appennini, poco lontano da Genova, disponeva di un vasto territorio liberato. Con le sue divisioni il compagno “Miro” prese parte alla liberazione di Genova e ne fu comandante della piazza al termine del conflitto. Ukmar – che sarà poi decorato con l’Alta onorificenza americana “Stella di Bronzo” ed eletto cittadino onorario di Genova - contribuì alla formazione di ben otto divisioni partigiane in Liguria. Di queste divisioni facevano parte alcune brigate comandate da Jugoslavi, tanto che portavano il nome di battaglia degli stessi come “Istriano”, “Montenegrino” eccetera. (6) Molti di questi partigiani jugoslavi caddero in combattimento e la maggioranza di loro , negli anni '50, si trovava sepolta nel cimitero di Genova.

Partigiani jugoslavi risultano caduti e sepolti fin nella provincia di Piacenza, a Cairo Montenotte e a Torino (ben 10 nel cimitero della città piemontese).

Il comandante partigiano Giuseppe Mari “Carlo”, in alcuni testi del dopoguerra provò a ricostruire gli organigrammi di tutte le formazioni della Resistenza marchigiana in cui gli jugoslavi avevano svolto un ruolo di primo piano, elencando molte centinaia di nomi... Non è questa la sede per ricordare questi nomi, o quelli dei combattenti jugoslavi delle altre regioni, nemmeno i più importanti. Bisogna invece sapere che negli anni '70 la RFS di Jugoslavia promosse la costruzione di alcuni Sacrari in cui furono raccolte la stragrande maggioranza delle spoglie dei partigiani caduti nelle diverse regioni italiane dopo l'8 Settembre, assieme alle spoglie di chi era caduto di stenti e di malattie nei campi di internamento prima dell’8 Settembre. I più importanti tra tali Sacrari si trovano a Roma (Prima Porta), nel cimitero di Sansepolcro (Arezzo), e a Barletta. Al di là delle spoglie contenute nei Sacrari, molte sepolture sono rimaste in diverse piccole località dell’Italia Centrale, dal cimitero internazionale di Pozza e Umito (Acquasanta Terme, in provincia di Ascoli), a Cantiano (PU: tre i fucilati), alla tomba di Franko Tugomir a Penna San Giovanni (AP)... Tante sono poi le lapidi e i monumenti in cui tutti questi partigiani sono ricordati.

Per quelli che sopravvissero, l’epilogo della vicenda è nelle Puglie. La regione dalla fine del ’43 diventò base strategica e retrovia dei partigiani slavi: sia per quelli che combattevano lungo la dorsale appenninica e che, attraverso le Puglie, dovevano tornare in patria, sia per quelli che combattevano nei Balcani e che talvolta, feriti, proprio in Puglia potevano essere trasferiti e curati in appositi centri, in seguito agli accordi intercorsi tra Churchill e Tito.

Questi avvenimenti sono ben ricordati anche da “Drago” e da Bukovac. I combattenti jugoslavi erano ospitati in centri di raccolta, ricoverati in ospedali, addestrati militarmente in località sparse in tutta la regione da Bari fino al Salento passando per Gravina e Grumo Appula. A Gravina un’epigrafe tuttora collocata all’ospedale ricorda i medici partigiani jugoslavi che prestarono opera di generosa assistenza medica al popolo nel 1944 – 45. A Grumo Appula è rimasta traccia della presenza dei soldati jugoslavi presso l’attuale scuola elementare (allora ospedale militare), e traccia della sepoltura di molte decine di loro nel locale cimitero, dove esiste una stele con iscrizione in serbocroato “riscoperta” solo di recente. La principale testimonianza, però, è nel cimitero di Barletta che ospita l'altro impressionante Sacrario jugoslavo, in cui giacciono le spoglie di oltre 800 partigiani jugoslavi.

Molti ex combattenti jugoslavi sono tornati varie volte in Italia, in forma privata o ufficiale, a ritrovare i loro compagni di lotta, i vecchi amici, le persone che fraternamente li avevano protetti e nascosti. Sempre sono stati “accolti come fossero fratelli per tanto tempo rimasti lontano da casa”. (7) Ciononostante, il complesso delle loro vicende è stato via via avvolto dall'oblio. Il mancato approfondimento sul contributo degli jugoslavi alla Resistenza Italiana ha causato, a nostro avviso, un danno imperdonabile e probabilmente irreparabile, per lo meno dal punto di vista strettamente storiografico, ma anche dal punto di vista sociale e politico, per il mancato consolidarsi dei legami di fratellanza e solidarietà. Crediamo di non allontanarci dal vero se affermiamo che la mancata comprensione da parte italiana della tragedia Jugoslavia alla fine del XX secolo, con la cancellazione sanguinosa dello Stato unitario degli "slavi del sud", sia stata anche frutto di questo colpevole oblio. In ogni caso questo vuoto storiografico, sul quale noi interveniamo adesso apponendo il nostro enorme "punto interrogativo", dovrà essere oggetto di una riflessione collettiva e di serie, anche se talora assai scomode, considerazioni storiche e politiche.

Il progetto Partigiani Jugoslavi in Appennino si sta concretizzando in queste settimane nella preparazione di un primo testo, di carattere sintetico-divulgativo corredato di materiali fotografici e tabelle, che contiamo di dare alle stampe entro il 65.mo della Liberazione. Si tratta di un testo scritto a più mani, con il coinvolgimento e l'aiuto di alcuni storici professionisti. (8) Altra documentazione che stiamo raccogliendo – ad esempio, interviste e riprese video – potrebbe essere utilizzata successivamente per interventi multimediali. Saranno approntate anche alcune pagine internet con le informazioni essenziali. Si tratta comunque di un lavoro collettivo, per il quale potrebbero ancora rivelarsi preziosi i contributi di chiunque abbia informazioni o documentazione inedita da fornire. (9)

               

Andrea Martocchia

Susanna Angeleri

per il Progetto Partigiani Jugoslavi in Appennino



Note:
1) Curata da P. Secchia e E. Nizza, La Pietra, Milano 1976
2) “Il dramma del popolo giuliano-dalmata è stato creato da un moto d'odio e furia sanguinaria, e dal piano slavo annessionista che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”: questa la posizione del presidente Napolitano sulla Resistenza jugoslava, espressa in forma pubblica nel febbraio 2007 creando tra l'altro un incidente diplomatico con la Croazia.
3) Si ricorda in particolare la figura di Milan Tomović, ucciso da una malattia respiratoria contratta durante la guerra e sepolto a Perugia.
4) In particolare la testimonianza di Bukovac è stata raccolta da Carlo Spartaco Capogreco nel suo “Renicci – Un campo di concentramento in riva al Tevere” (Fondazione Ferramonti, 1998) dove si analizzano sia le prime forme di resistenza dei reclusi, sia le successive vicende di quelli che, dopo l’8 Settembre, si unirono alla Resistenza Italiana.
5) Intervista a cura di C.S. Capogreco, vedi nota 4.
6) Una brigata era comandata da un certo “Battista”, di Lubiana. Una delle divisioni , la “Garibaldi – Mingo”, era comandata dallo jugoslavo Grga “Boro” Čupić, già detenuto nel campo di internamento di Fossano in provincia di Cuneo.
7) G. Mari: “La Resistenza in Provincia di Pesaro e la partecipazione degli jugoslavi”, Pesaro 1964.
8) In questa sede non possiamo elencare il grande numero di persone a cui siamo grati e che ci stanno aiutando, alcune delle quali appariranno come coautori del testo che sarà dato alle stampe.
9) Invitiamo a contattarci all'indirizzo: partigiani7maggio @ tiscali.it