Informazione


(Oltre alle fonti utilizzate dall'Osservatorio sui Balcani di Brindisi per questo interessante articolo, segnaliamo anche:
- un articolo di Politika di dicembre 2008, che già segnalava le commesse irachene per gli aerei prodotti a Pancevo
http://www.politika.rs/rubrike/Drustvo/Polece-lasta.lt.html
- una sintesi della storia della produzione aereonautica jugoslava
http://www.aeroflight.co.uk/waf/yugo/yugo-aviation-industry.htm )



La Serbia va in guerra in Iraq!…Pancevo contro Al Qeda

ovvero la vendita di aerei antiguerriglia serbi all'aviazione irachena

 

Che pressioni e forme di compensazione fossero minacciate od offerte al governo serbo in cambio dell’accettazione di fatto dello status di stato sovrano al Kosovo (e quindi liberare ingenti risorse militari NATO dal saliente balcanico dove sono bloccate dal lontano 1991), si sapeva o  la si immaginava. Negli ultimi tempi la NATO dovendo preventivare un aumento di uomini e mezzi sul fronte afgano ha fatto pressioni sui serbi e sui loro protettori storici, i russi affinchè si raggiunga un accordo su quella spinosa questione.

E’ direttamente dalla Russia e dal suo giornale più prestigioso, la PRAVDA che veniamo a conoscere i dettagli relativi ad un importante fornitura di armamenti all’Iraq da parte delle industrie belliche della Serbia ed in particolare da  quelle site nel polo più bombardato dalla NATO nel 1999, quello della città martire di Pancevo.

Apprendiamo così che attraverso l’intermediazione della compagnia di import-export YUGOIMPORT-SDR è in atto una fornitura di armamenti dell’ordine di ben 235 milioni di dollari al governo e alle forze armate del nuovo Iraq del dopo-Saddam Hussein

Tra i prodotti che saranno al più presto forniti all’esercito iracheno in guerra contro ribelli sanniti e sciiti, gruppi legati ad Al Qeda e combattenti arabi alla ricerca del martirio contro gli occupanti americani , vi sono 20 aeroplani Lasta 95 versione Lasta 3 .

Si tratta dell’ultimo prodotto di aeroplani da addestramento e multiruolo dell’industria by Utva Aircraft Factory che ha le sue maggiori officine a Pancevo e che vide ridotti in carcasse i sei prototipi di questo aeroplano che si trovavano nei suoi laboratori nel marzo 1999 quando i bombardieri NATO la colpirono

Ebbene, con grandi sforzi ed ostinazione degni di miglior causa, il Lasta 95 rinato come l’Araba  Fenice dalle sue ceneri, in questi ultimi anni è stato sviluppato in tre versioni la cui ultima ha ricevuto un cospicuo ordine dalla nuova Aeronautica Serba per sostituire i suoi vecchi addestratori UTVA LASTA 75 , ma anche un ordine di ben 20 esemplari dalle forze armate irachene con una successiva opzione di altri 15.

Come già successo in altre occasioni, ( vedasi il caso della vendita dei Siai Marchetti italiani alla Libia nel 1971   ) aerei venduti come addestratori  che siano impiegati in funzione antiguerriglia ( lo fece Gheddafi con i nostri SIAI negli anni 80 contro i ribelli del Ciad,) è cosa che si fa ma non si dice. In questo caso invece, tutto si svolge alla luce del sole e la specifica dell’ordine iracheno è relativa alla versione armata dell’addestratore , con 100 kg di bombe, mitragliatrici da 12, 7 mm e razzi. Il secondo prototipo in uscita dalle officine di Pancevo , dopo il volo del primo prototipo nella versione da addestramento nel febbraio 2009 sulla base militare  Serba di Batajnica ( anch’essa duramente colpita dalle bombe intelligenti della NATO nel 1999), volerà presto su quell’aerodromo nella versione armata antiguerriglia.

Subito dopo si partirà alla fornitura per l’aviazione irachena ed incassare dei preziosi dollari per maestranze ed ingegneri che correvano il rischio di veder chiudere la loro azienda.Naturalmente prevediamo che al costo pattuito degli aerei si aggiungerà in seguito quello dei piloti  e degli specialisti che dovranno addestrare il personale militare iracheno ed in seguito quello delle manutenzioni straordinarie e dei pezzi di ricambio. Sarà un ritorno alla grande ed anche l’occasione per rivedere  i piloti  militari exyugoslavi ritornare a volare sul deserto come ai tempi della Yugoslavia  capofila dei paesi non allineati.

Che la notizia sia un duro colpo per chi si oppose strenuamente ai bombardamenti della NATO e che ugualmente condanna l’aggressione all’Iraq è un dato di fatto e preferiamo non aggiungere altri commenti

Riferimenti , link e foto sull’argomento li troverete sulla pagina

per notizie sulla vendita:

http://english.pravda.ru/photo/report/lasta-4347

http://en.wikipedia.org/wiki/Utva_Lasta

rivista RID  numero 10 ottobre 2009 pag 18

sul primo volo del 5 febbraio 2009

http://www.flightglobal.com/blogs/aircraft-pictures/2009/02/prototype-utva-lasta-95lasta-3.html

 http://www.youtube.com/watch?v=yVfDw2qsSAk

sulla base di Batajnica

http://en.wikipedia.org/wiki/Batajnica_Air_Base

 

http://web.archive.org/web/20030304081203/http://pavicevic.virtualave.net/

airbases/batajnica/batajnica.htm

Antonio Camuso
Osservatorio sui Balcani di Brindisi
http://www.pugliantagonista.it/osservatorio.htm
osservatoriobrindisi@...

Brindisi 14 ottobre 2009

nota:  le foto sono tratte da wikipedia


(Un articolo apparso sulla rivista marxista tedesca Ossietzky ripercorre le tappe che hanno portato alla nuova "legittimazione" dell'impiego delle truppe tedesche al di fuori della Germania... con finalità geopolitiche non tanto diverse da quelle di Bismarck e Hitler.) 

Ossietzky 21/2009 (ca. 12.10.2009)

Durch Einheit zum Krieg

Rolf Becker

Thomas Mann, Tagebucheintrag, 26. August 1947: »Ich ahne bestimmt, daß die Slaven aus Osteuropa wieder mit den vereinten Kräften des Westens werden hinausgeworfen werden und Deutschland bis auf die Ukraine wohl alles erhält, was Hitler wollte.«

Wenige Tage später schreibt er an Agnes Elizabeth Meyer: »Rußland mag im eigenen Lande nicht zu besiegen sein, aber es mit vereinten Kräften aus Deutschland wieder hinauszuwerfen, samt den Polen, ist bestimmt möglich, und wenn man sich erinnert, daß schon Hitler, wäre er nur ein bißchen manierlicher gewesen, alles hätte haben können, was er wollte (siehe ›München‹), so schweben einem Zukunftsbilder vor, die es voreilig erscheinen lassen, sich der Furcht vor Deutschland zu entschlagen. Man wird den Kontinent Deutschland ›anvertrauen‹. Aber ob ein deutsches Europa auch ein europäisches Deutschland bedeuten wird? Ich zweifle. Auf Macht wird es wieder hinauslaufen, und mir graut vor deutscher Macht.«

Als Thomas Mann diese Ahnungen und Befürchtungen im Sommer 1947 äußert, ist die Teilung Deutschlands in zwei Staaten noch nicht absehbar. Deren Gründung war Resultat der sich seit dem Ende des 2. Weltkriegs verschärfenden Ost-West-Konfrontation. Das Bündnis der Westalliierten mit der Sowjetunion hatte 1945 sein Ende gefunden, nachdem es seinen Zweck, die Niederringung des faschistischen Deutschland, erfüllt hatte. Der Hauptwiderspruch zwischen den beiden unterschiedlichen Gesellschaftssystemen Kapitalismus und Sozialismus, der vorübergehend durch gemeinsame Interessen überlagert worden war, bestimmte wieder die Politik. Die geografische Trennungslinie entlang der Elbe – zwischen den bereits während des Krieges vereinbarten Besatzungszonen – wurde für viele Jahre zur gefährlichsten Grenze der Welt, zum Aufmarschgebiet von West- und Ostblock. Das weitreichende militärische Patt zwischen den beiden Machtblöcken unter Führung der USA und der Sowjetunion, in die Geschichte eingegangen als »Kalter Krieg«, sowie die Einbindung der beiden deutschen Staaten in die sich feindlich gegenüberstehenden Bündnissysteme verhinderten bis 1989, daß sich bewahrheiten konnte, wovor nicht nur dem Schriftsteller Thomas Mann graute.

Mit dem Zusammenbruch der sozialistischen Staaten und der Wiederherstellung deutscher Einheit änderte sich das. Aus dem politisch gefesselten Kapitalismus wurde der entfesselte, in Europa unter Führung Deutschlands. Der Zweifel Thomas Manns, »ob ein deutsches Europa auch ein europäisches Deutschland bedeuten wird«, bestätigte und bestätigt sich. Von einer Vereinigung, die den gemeinsamen Willen derer voraussetzt, die sie vollziehen, konnte und kann keine Rede sein: Die DDR, der erste Versuch eines sozialistischen Deutschland, wurde zurückgeführt in den Nachfolgestaat des Deutschen Reiches, die BRD, der – mit Hilfe der USA – die Restauration des vermeintlich zugleich mit der Naziherrschaft niedergerungenen Kapitalismus in Deutschland gelungen war.

»Mein Eigentum, jetzt habt ihrs auf der Kralle« (Volker Braun): Deutschland wuchs nicht nur geografisch und demografisch, sondern auch ökonomisch und politisch; lediglich an den sozialen, kulturellen und geistigen Erzeugnissen hatte man bei der Aneignung der »neuen Länder« kein Interesse. Dem Machtzuwachs dienten hingegen die Übernahme der Volksarmee und ihre Eingliederung in die 1956 gegen breite Proteste aufgestellte und inzwischen hochgerüstete Deutsche Bundeswehr. 

Bereits 1991, kaum daß die Einheit formal vollzogen und die Souveränität des »neuen« Deutschlands international nicht mehr eingeschränkt war, zu einem Zeitpunkt, als die übrigen europäischen Staaten noch für Verhandlungen, also friedliche Wege bei Zusammenschluß Europas eintraten und entsprechend die Einheit Jugoslawiens ebenso wenig in Frage stellten wie die USA, drängte die Regierung der wiedererstandenen deutschen Großmacht auf die Zerschlagung der letzten sozialistischen Bastion in Europa – trotz der absehbaren Konsequenz militärischer Auseinandersetzungen. Mit der Anerkennung Sloweniens und Kroatiens im Dezember 1991 konfrontierte die damalige CDU/FDP-Regierung unter Helmut Kohl als Kanzler und Hans Dietrich Genscher als Außenminister ihre europäischen Partner mit vollendeten Tatsachen, die – nach der Anerkennung weiterer Teilrepubliken der jugoslawischen Föderation – schließlich zum Krieg führten. Vergeblich hatte UN-Generalsekretär de Cuellar wenige Wochen zuvor noch gewarnt, daß eine Anerkennung von Slowenien und Kroatien zu einer Ausweitung der Aggression führen werde.

Der Vorbereitung auf Angriffskriege anstelle des bis dahin gesetzlich festgeschriebenen Verteidigungsfalles diente die Neudefinition der »Verteidigungspolitischen Richtlinien« der Bundesregierung von 1993 zur Sicherung der »vitalen Sicherheitsinteressen« Deutschlands: »Aufrechterhaltung des freien Welthandels und des ungehinderten Zugangs zu Märkten und Rohstoffen in aller Welt ... Wenn die internationale Rechtsordnung gebrochen wird oder der Frieden gefährdet ist, muß Deutschland auf Anforderung der Völkergemeinschaft (sprich: in Abstimmung mit der Führungsmacht USA; R.B.) auch militärische Solidarbeiträge leisten können. Qualität und Quantität der Beiträge bestimmen den politischen Handlungsspielraum Deutschlands und das Gewicht, mit dem die deutschen Interessen international zur Geltung gebracht werden können.« Die Verabschiedung dieser neu definierten Aufgaben der Bundeswehr, die nichts weniger als die Möglichkeit auch exterritorialer Einsätze beinhalteten, ging von den Medien fast unkommentiert, vor allem ohne Widerspruch seitens der Gewerkschaften über die damals noch Bonner Bühne. 

1994 zog das Bundesverfassungsgericht nach und machte auch rechtlich den Weg frei für »out-of-area«-Einsätze der Bundeswehr – abhängig lediglich von der Zustimmung des Bundestages; inzwischen folgten weitere Entscheidungen zur »Bekämpfung des internationalen Terrorismus« und zur »Stabilisierung der gesellschaftlichen Verhältnisse« in Afghanistan. 

Fünf Jahre später, am 24. März 1999, kurz nach 20 Uhr, trat Gerhard Schröder als Bundeskanzler der ein halbes Jahr zuvor gewählten Bundesregierung aus SPD und Grünen mit der Erklärung vor die Kameras des deutschen Fernsehens: »Heute abend hat die NATO mit Luftschlägen gegen militärische Ziele in Jugoslawien begonnen.« Es stünden »zum ersten Mal nach Ende des 2. Weltkrieges deutsche Soldaten im Kampfeinsatz« (wahrheitsgemäß hätte der Satz lauten müssen: »zum ersten Mal seit Beginn des 2. Weltkriegs beteiligen sich deutsche Soldaten an einem Angriffskrieg«). Schröders Begründung: Das Bündnis wolle »weitere schwere und systematische Verletzungen der Menschenrechte unterbinden« und »eine humanitäre Katastrophe im Kosovo verhindern«. Die Verlogenheit seiner und entsprechender Erklärungen seiner Minister Fischer und Scharping wurden festgeschrieben zum – wie Ossietzky-Mitherausgeber Otto Köhler es nennt – »Gründungsmythos der Berliner Republik«. Ein Mythos, mitgetragen bis heute von der Führung des DGB, der den Angriff auf Jugoslawien wie 1914 mit seinem »Ja« zum Krieg absegnete.

Mit Ausnahme des Afghanistankrieges werden Einsätze deutschen Militärs – ob im Kosovo, dessen Abtrennung von Serbien und Anerkennung als eigenständiger Staat international nach wie vor nicht durchsetzbar ist, oder als Seestreitkräfte am Horn von Afrika – von den Medien, aber auch von der Öffentlichkeit kaum noch hinterfragt. Umso bemerkenswerter folgendes Zitat von Stefan Fröhlich aus Politik und Zeitgeschichte vom 20.10.2008 (Herausgeber: Deutscher Bundestag in Abstimmung mit der Bundeszentrale für politische Bildung): »Inwieweit sind die aus den globalen Herausforderungen und Bedrohungszusammenhängen heraus formulierten Interessen tatsächlich plausibel und angemessen im Sinne einer für Deutschland unmittelbaren Betroffenheit? Oder ist die deutsche Außenpolitik mit der sukzessiven Ausweitung ihres geostrategischen Aktionsradius zur Unterstützung von internationalen Friedensmissionen dazu übergegangen, deutsche Interessen stillschweigend mit globalen Interessen gleichzusetzen? Die heutige Beteiligung der Bundeswehr an dem sogenannten Hybrideinsatz von Vereinten Nationen (UN) und Afrikanischer Union in Darfur, an den UN-Militärbeobachtermissionen in Südsudan (Unmis), Georgien (Unomig) und Äthiopien (Unmee) sowie an der UN-Truppe im Libanon (Unifil), schließlich das deutsche Engagement in den NATO-geführten Missionen unter UN-Mandat im Kosovo (Kfor, 2230 Soldaten) und in Afghanistan (Isaf, derzeit 3825 Soldaten) unterstreichen zwar den Willen zur Übernahme von globaler Verantwortung, zeugen aber von diesem Dilemma. In einer Welt, in der sich plausibel Szenarien konstruieren lassen, in denen asymmetrische (vor allem terroristische) Bedrohungen, damit verbundene Prozesse des Staatszerfalls und der Auflösung von Macht auch die deutsche Sicherheit bedrohen (können), wird es zunehmend schwieriger, außenpolitische Prioritäten zu definieren und die internationale Ordnung im Sinne eigener Interessen zu beeinflussen.«

Zu rechtlichen Absicherung internationaler Einsätze der Bundeswehr wurden 2003 die »Verteidigungspolitischen Richtlinien« erneut umformuliert: »Nach Artikel 87a des Grundgesetzes stellt der Bund Streitkräfte zur Verteidigung auf. Verteidigung heute umfaßt allerdings mehr als die herkömmliche Verteidigung an den Landesgrenzen gegen einen konventionellen Angriff. Sie schließt die Verhütung von Konflikten und Krisen, die gemeinsame Bewältigung von Krisen und die Krisennachsorge ein. Dementsprechend läßt sich Verteidigung geografisch nicht mehr eingrenzen, sondern trägt zur Wahrung unserer Sicherheit bei, wo immer diese gefährdet ist. Die Vereinbarkeit internationaler Einsätze der Bundeswehr, die im Rahmen von Systemen kollektiver Sicherheit durchgeführt werden, mit der Verfassung wurde durch das Bundesverfassungsgericht und den Deutschen Bundestag bestätigt.«

Wohlgemerkt: Die Neuformulierung, die jeden militärischen Einsatz, wo und wann auch immer, ermöglicht, wurde im Vorfeld der derzeitigen weltweiten Wirtschaftskrise verabschiedet, die keineswegs überwunden ist und deren politische Konsequenzen bislang kaum absehbar sind.

»Wodurch überwindet die Bourgeoisie die Krisen?«, lautet eine zentrale Frage im Kommunistischen Manifest. Die Antwort von Marx und Engels: »Einerseits durch die erzwungene Vernichtung einer Masse von Produktivkräften; anderseits durch die Eroberung neuer Märkte und die gründlichere Ausbeutung alter Märkte. Wodurch also? Dadurch, daß sie allseitigere und gewaltigere Krisen vorbereitet und die Mittel, den Krisen vorzubeugen, vermindert.«

»Eroberung neuer Märkte« – spätestens dann, wenn »die gründlichere Ausbeutung alter Märkte« im Widerstand der Bevölkerungen ihre Grenze findet. Nur wo sollen diese neuen Märkte sein? In Rußland? China? Selbst unsere in Berlin, Brüssel und Washington regierenden politischen Gegner dürften da scheuen. 

Und wir? Die Konkurrenz innerhalb unserer Gesellschaften reicht bis zum Jede und Jeder gegen Jede und Jeden auch innerhalb der arbeitenden Klassen. »Die Lohnarbeit beruht ausschließlich auf der Konkurrenz der Arbeiter unter sich« (Kommunistisches Manifest). Nach dem Zusammenbruch der sozialistischen Staaten ist diese Konkurrenz nur im gemeinsamen Widerstand gegen den Angriff des Kapitals zu überwinden. Trotz der »Unlust der Massen, sich zu empören«, die Brecht in seiner Antigone-Fassung konstatiert – hier und nur hier können wir, müssen wir ansetzen. Beim kleinsten Konflikt, wo immer sich Menschen zur Wehr setzen. Veränderung statt Anpassung. Der Passivität entgegenwirken, auch der eigenen, das Begriffene nicht preisgeben, sondern weitervermitteln, mit dem Gegeneinander zugleich unsere Schwäche überwinden. »Es setzt sich nur so viel Vernunft durch, als wir durchsetzen.« (Brecht) 

Der westdeutsche Schriftsteller Claus Bremer schrieb 1983: »Es gibt keine Form / die neu ist solange die / Inhalte alt sind // Es gibt keine Form / die neu ist solange uns / das Weiße Haus droht // Stoppt den dritten Welt- / krieg der für das Weiße Haus / schon begonnen hat // Willst du dem Frieden / dienen bist du gezwungen / für ihn zu kämpfen«


Erschienen in Ossietzky 21/2009




www.resistenze.org - associazione e dintorni - s.o.s. yugoslavia - 13-10-09 - n. 290

E' morto Ibraj Musa,
albanese kosovaro, partigiano della giustizia, della libertà e dell'amicizia tra i popoli: del Kosovo, della Serbia e della Jugoslavia.
 
Con profondo e sentito cordoglio informiamo che è morto a Nis dove era rifugiato e profugo con la sua famiglia, Ibraj Musa, albanese kosovaro, capofamiglia di uno dei nuclei familiari adottati dalla nostra Associazione, all'interno del Progetto Kosovo Metohija.
Un uomo con una storia di vita quasi unica e forse irripetibile.
La sua vita, le sue scelte di vita sono state un pezzo di storia del novecento, un pezzo di storia dei Balcani e dei suoi popoli. Ed egli l'ha vissute da protagonista, con coscienza e coraggio.
 
Musa Ibraj era nato il 24 Aprile 1923; aveva 13 figli da tre matrimoni: la prima moglie albanese, la seconda rom e l'attuale, la signora Rosa, serba.
Veterano della II Guerra Mondiale, durante l'occupazione nazifascista della Jugoslavia, ha combattuto nella Resistenza come partigiano, prima in Albania, poi in Serbia e infine in Bosnia. Egli e la sua famiglia vivevano a Osek Hila, villaggio a 5 Km da Djakovica, abitato da 1600 albanesi e poche decine di serbi.
Dopo l'aggressione della Nato e la conseguente occupazione del Kosovo nel giugno '99, che ha dato via libera alle forze terroriste dell'UCK nella provincia serba, come altre migliaia di famiglie di albanesi kosovari, gli Ibraj sono dovuti scappare in Serbia per non essere uccisi dai secessionisti.
Infatti furono da essi definiti come "traditori" e "collaboratori" dei serbi, per il solo fatto di non credere nell'indipendenza ed essersi battuti per l'unità e l'amicizia tra i popoli del Kosovo, contro le violenze e le sopraffazioni terroriste dell'UCK.
 
Per questo la sua famiglia ha pagato forse il prezzo più alto di tutte le famiglie degli scomparsi nel Kosovo Metohija, pur essendo albanesi kosovari: tre figli e tre nipoti rapiti ed assassinati dalle bande UCK, di cui 5 identificati ed uno ancora disperso. Ibraj ha saputo dei corpi ritrovati solo poco prima di morire, in quanto il figlio maggiore superstite, che andò ad identificare i propri fratelli, nipoti e un suo figlio, non lo disse al vecchio Musa, per non dargli ulteriore dolore.
La vicenda di quest'uomo, un vero e proprio pezzo di storia vissuta dei Balcani, che ha attraversato gli avvenimenti succedutisi nel secolo scorso, con grande coraggio, sempre partigiano, nel senso più pieno di questo termine, schierato cioè dalla parte della sua gente, della giustizia, della libertà, costi quel che costi: dal 1941 quando prese la via della montagna per combattere i nazifascisti, fino al 1998 quando fu eletto comandante della "Milizie di autodifesa albanesi del Kosovo" contro il terrorismo e le violenze dell'UCK. Queste milizie erano formate in gran parte da kosovari albanesi, ed in molti paesi miste, erano presenti in oltre 130 comuni del Kosmet, come forma di autodifesa per proteggere la popolazione civile dalle bande e dalle imposizione violente dell'UCK,.
 
Quando, attraverso l'Associazione Srecna Porodica, con cui abbiamo uno dei Progetti di solidarietà per il Kosovo Methoija, ci fu proposta questa famiglia da sostenere, come vittima del terrorismo UCK, non sapevamo tutta la storia del vecchio Musa; fu per noi una giornata indimenticabile quando ci recammo nella loro attuale disagiata casa, a Hum un paese di campagna vicino a Nis, dove vivono come profughi, per scappare dalle ritorsioni dei criminali UCK, oggi "padroni" del Kosovo sotto comando NATO.
 
Quel giorno facemmo un intervista video dell'incontro, dove Ibraj Musa ci raccontò della sua straordinaria e incredibile storia di vita. Quando gli feci alcune domande riguardo il presente e le vicende più recenti, riguardanti gli avvenimenti tragici accadutigli nella guerra del Kosovo, egli, che nonostante gli 85 anni di età, era di una lucidità e vitalità stupefacenti, mi rispose che dopo aver conosciuto e combattuto i nazifascisti, null'altro poteva spaventarlo, e che dato che anch'essi alla fine furono cacciati e spazzati via dal popolo, stessa sorte toccherà ai banditi ed assassini dell'UCK.
 
Sulla sua esperienza di comandante di queste Milizie locali di autodifesa (formatesi nel maggio giugno 1998), egli disse:
" ...Quando vidi quello che stavano facendo contro la nostra gente per costringerli ad andare con loro e contro i nostri amici e paesani serbi, per cacciarli dal villaggio che era di tutti noi, decisi che dovevamo organizzarci per impedire all'UCK di entrare nel paese e terrorizzare la nostra gente…ho deciso semplicemente questo... abbiamo sempre vissuto insieme, perché questi banditi volevano distruggere tutto quanto era stato cercato di fare? A quale scopo? I popoli devono vivere insieme in pace, onestà e lealtà reciproca... Questo era la Jugoslavia... ".
 
Il vecchio Musa fu indicato dalla sua gente grazie alla sua storia di combattente partigiano ed al rispetto di cui era circondato, e considerato uomo giusto e saggio.
Quando gli chiesi quale fu il momento preciso che gli fece prendere una decisione così difficile e che avrebbe avuto conseguenze drammatiche per lui e la sua famiglia, egli rispose: "… una notte vennero alla nostra casa e in altre case, gente dell'UCK e ci disse che avremmo dovuto andarcene da Osek Hila ed abbandonare il villaggio perché ci sarebbero stati attacchi contro la polizia serba e l'esercito jugoslavo nei giorni seguenti. Noi ed il resto del villaggio rifiutammo, perché quello era il nostro paese e la nostra terra. Nei giorni seguenti tornarono ancora una volta ma stavolta per minacciarci. Poi la mattina trovai questo pezzo di carta di quaderno attaccato sulla porta di casa…".
 
Musa ci fece vedere questo foglio con su scritto con una penna a sfera:
"O state con noi o bruceremo le vostre case. Arruolati con i tuoi fratelli.
 UCK (Ushtria Clirimtare e Kosoves ).".
"...Allora capimmo cosa stava per succedere, abbiamo raccolto tutto quello che avevamo come armi, fucili da caccia, accette, coltelli e cominciammo a vigilare e non girare più soli... formammo delle pattuglie di noi del villaggio 24 ore al giorno, notte e giorno. Alcuni giorni dopo individuammo tre dell'UCK che si aggiravamo nelle vicinanze delle case, li disarmammo e li consegnammo alla polizia, che ci dette il permesso di tenere le loro armi e di restare armati...". 
 
Il figlio maggiore che era con noi nella stanza a quel punto ci fa vedere appesi dietro alla porta un Kalashnikov ed un fucile da caccia, che ancora possedevano.
Alla domanda come si erano procurati le armi per la loro Milizia egli rispose che in Kosovo, quasi tutti, da sempre possedevano un arma, ribadendo che: "...ogni arma della Milizia era nostra, dovevamo avere solo il permesso di tenerle legalmente, per il resto erano nostre...".
Queste Milizie furono poi autorizzate in tutto il Kosovo, a tenersi le armi che sequestravano all'UCK.
"...Noi cercavamo di costringerli a restare fuori dal villaggio, cercando di evitare conflitti armati e violenze. In questo modo in tutto il nostro villaggio fino al giugno '99, non ci fu neanche una casa bruciata. ..Neanche una gallina è rimasta ferita... Nessuna devastazione o distruzione è stata permessa, né da una parte, né dall'altra...".
"...Non tutti erano d'accordo nel villaggio, perché una contrapposizione così netta, poteva esporre il villaggio a rappresaglie terroriste, infatti quando furono istituite queste milizie per l'autodifesa locale, alcuni suoi membri furono uccisi dall'UCK in altri villaggi, così molti avevano paura e non entrarono direttamente; ma visto come è andata... facemmo un buon lavoro e con buoni risultati... Poi è arrivata la NATO...".
 
Sulla sua situazione e della sua famiglia oggi, egli rispose: "...oggi viviamo qui in Serbia come profughi, ma solamente profughi senza una casa ed un lavoro, perché la Serbia è anche il mio paese, e sempre in tutta la mia vita abbiamo vissuto, come albanesi kosovari, insieme. Nel bene come nelle cose brutte, e qui non mi sento straniero, ma certamente non mi sento bene, oggi viviamo in tanti in questa piccola casa, con due piccole pensioni, le spese sono tante, soprattutto quelle sanitarie e per l'affitto, è una vita molto dura e difficile. A tutti ci manca il nostro Kosovo, la nostra gente, i nostri vicini, albanesi, serbi, rom, con cui abbiamo vissuto insieme e in pace per oltre 50 anni... Poi sono arrivati quei maledetti terroristi dell'UCK... e hanno fatto quello che sapete, e sulla mia famiglia si sono accaniti, e si sono presi il sangue dei miei figli e nipoti. Si sono vendicati perché non siamo stati loro complici... maledetti... perché siamo stati leali e corretti con il nostro stato, in cui abbiamo sempre vissuto e ci aveva sempre rispettato e accettato. Perché dovevamo andare con loro e distruggere tutto quello che avevamo costruito faticosamente insieme con gli altri? ...Forse dovevamo cercare di avere di più e più cose, questo è normale, è giusto. Per migliorare e correggere cose sbagliate, questo sì... Ma perché uccidere, distruggere, bruciare case, chiese, ammazzarsi tra fratelli, paesani, amici... Perché avremmo dovuto diventare complici di terroristi e criminali, che terrorizzavano la propria stessa gente? ...Questo per noi non poteva essere accettabile, siamo sempre stati leali e onesti cittadini del nostro paese, perché dovevamo diventare criminali?..Perché? Forse loro avevano i loro obiettivi, interessi, profitti, qualcuno li usava, ma quelli non potevano essere gli interessi della nostra gente albanese del Kosovo... E poi si è visto cosa hanno fatto del nostro Kosovo oggi, aiutati dai loro amici americani... Un regno governato da banditi e delinquenti, dove vi è solo criminalità e paura, per la gente semplice, per il popolo... Anche nel nostro villaggio oggi, c'è solo paura e la gente onesta è silenziosa solo per paura, ce lo dicono loro stessi di nascosto... Per questo avremmo dovuto collaborare con loro?...Io ho fatto il partigiano contro i nazifascisti nella II guerra mondiale, ma noi eravamo partigiani per liberare il nostro popolo, non per terrorizzarlo e farlo ubbidire. E' una bella differenza non pensi?...Che mi diano del traditore non mi tocca, "loro" sono dei traditori della nostra gente, perché gli hanno portato solo odio e sofferenze per i loro sporchi interessi...".
 
Dopo alcuni secondi di silenzio e l'ennesima sljiva offertaci in segno di amicizia, così concludeva:
"...Sai, figlio mio, troppe tragedie abbiamo vissuto, tanto dolore abbiamo nel cuore, la nostra vita è stata stravolta e ferita da tutti gli avvenimenti successi, questo non si può più cambiare, questo ci accompagnerà fino alla tomba... ed io sono vicino al mio giorno. Ma per loro che restano bisogna avere fiducia e speranza che qualcosa cambierà, che tornino tempi più giusti, di pace, di amicizia, di onestà. Io di guerre ne ho fatte tante, ma sempre dalla parte delle cose giuste. Mai per me stesso, ma per la nostre genti, i nostri popoli. Per questo sono sereno e riesco ancora a sorridere e spero che un giorno si rivedrà un paese libero e giusto... Io non ci sarò, ma ci saranno i miei nipoti, ed i nipoti e figli delle nostre genti, e torneranno a vivere, lavorare e divertirsi insieme, uniti come fratelli... Vedrai che sarà così... La storia non la può fermare nessuno... Però ora voglio abbracciarti per l'aiuto che ci hai portato con la vostra Associazione. Per me e per tutta la nostra famiglia è un onore avervi qui nella nostra piccola casa, avervi potuto accogliere come amici e fratelli. Perché da oggi questo saremo... Grazie per l'aiuto, ma soprattutto grazie che ci avete riconosciuti degni della vostra solidarietà e ci avete tenuti in considerazione... Da ora in poi la nostra casa sarà sempre anche la tua, figlio mio...".
 
Penso sia inutile sottolineare che un GRAZIE senza limiti, siamo noi che sentivamo di dirgli e dovergli, il nostro modesto contributo economico non può avere alcun tipo di paragone con la vita vissuta e l'operato della vita di un uomo così. Un uomo giusto, onesto, semplice, un uomo che ha attraversato la storia sempre in piedi e a testa alta, pagando prezzi umani terribili, ma anche un uomo con cui abbiamo riso e sorriso di piccole cose, di aneddoti della sua esistenza. Per esempio del succo di frutta che gli toccava bere, perché la moglie ed il figlio non gli lasciavano più bere la sljivovica... così mi è toccato, essendo seduto accanto a lui, una sequela di brindisi continui... anche per lui, mi diceva, dovevo sacrificarmi... Ed ho "dovuto" sacrificarmi... volentieri.
Non so se con queste righe sono riuscito a ricordare degnamente quest'uomo e la sua storia, ma due cose sono certe: una è che per la nostra Associazione, che ha potuto averlo come parte dei suoi progetti solidali (che continueranno), è stato un onore avere la sua amicizia e rispetto (per questo la nostra riconoscenza va a Radmila Vulicevic, nostro referente a Nis, ed al suo lavoro, che sono stati il tramite, in quanto la famiglia Ibraj sono membri dell'Associazione Srecna Porodica).
La seconda è che la speranza e l'impegno che un tempo migliore si delinei all'orizzonte dei popoli, nel Kosovo, nei Balcani e nel mondo, può avvenire solo con l' apporto e l'esempio di vita, di uomini così. Di uomini come Ibraj Musa, albanese kosovaro del Kosovo Metohija, cittadino e costruttore della Jugoslavia, coraggioso difensore del Kosovo e dei popoli che lo abitavano, e leale ed onesto cittadino della Serbia poi.
 
D'ora in poi Membro onorario della nostra Associazione SOS Yugoslavia- SOS Kosovo Metohija.
Anche nel suo ricordo ed esempio, andiamo avanti nel nostro impegno di solidarietà e amicizia tra i popoli, e nello specifico con il Progetto Kosovo Metohija.
 
“...Tu paladino della libertà, torrente d’entusiasta giovinezza
or mandi a noi di luce, un caldo raggio dal tuo sepolcro.
E giunge a noi. Perché... sentisti, ...del dolor,
e come un cavaliere del poema ariostesco,
...offristi il tuo soccorso.
Ora... altri innalzano il tuo vessillo e lottano e resistono
Per l’avvenire comune...”.
(Stralci adattati di V. Nazor, poeta jugoslavo, di un poema dedicato ai partigiani italiani, che combatterono in terra jugoslava contro il nazifascismo)
 
 
Addio Musa Ibraj... i HVALA (Grazie)!
 
Enrico Vigna, Associazione SOS Yugoslavia – SOS Kosovo Metohija



(Da mesi si susseguono analisi e prese di posizione allarmate, in campo occidentale, per una possibile "fine" della Bosnia-Erzegovina di Dayton e persino per un conseguente ritorno al conflitto armato. L'articolo che segue sottolinea la cattiva coscienza di tali posizioni, ricordando che la Bosnia-Erzegovina è uno Stato sostanzialmente privo di sovranità, per il quale dalla cessazione delle ostilità - 1996 - fino ad oggi i colonizzatori stranieri hanno speso in media 300 dollari all'anno pro-capite in aiuti, una cifra che fa impallidire persino gli aiuti giunti per la ricostruzione di Germania o Giappone dopo la II Guerra Mondiale... Le politiche imposte dall'esterno hanno portano ad un taglio drastico dei servizi di cui si poteva gratuitamente fruire durante il socialismo, nonchè alla privatizzazione e ad un impoverimento generalizzato, e ad una disoccupazione che è attualmente del 27%. In questa situazione la gente si chiede a che cosa dovrebbe servire il "miraggio" dell'entrata nella UE - prima responsabile del disastro socioeconomico ma anche, a ben vedere, dello scoppio della guerra fratricida nel 1992 - e prova oramai una totale avversione per la "politica". E mentre da fuori si punta il dito sempre e solamente sulla parte serba, accusata di voler "spaccare il paese" perchè ne difende la attuale struttura confederativa - proprio quella di Dayton! -, si dimentica generalmente di descrivere quello che succede in importanti contesti: ad esempio a Mostar. A Mostar lo sciovinismo croato, dopo avere trasformato la città in una macelleria distruggendone persino il celeberrimo ed antico simbolo - il ponte di epoca turca - ne impedisce tuttora l'amministrazione ordinaria: la costituzione di una Giunta comunale è in sospeso sin dalle ultime elezioni, svolte addirittura un anno fa. Tutto a Mostar marcia attraverso "istituzioni parallele" fondate sull'appartenenza religiosa. E la lobby cattolica - quella di Medjugorije, per intenderci, che è ad un tiro di schioppo -, con i suoi interessi in effetti non solamente religiosi, è stata il fattore determinante di questa cancrena. A cura di Italo Slavo)



Bosnia faces collapse

By Paul Mitchell 
8 October 2009

A number of reports have pointed to the increasing threat of Bosnia and Herzegovina collapsing. Some have talked about the possibility of war breaking out.


In October 2008, former Bosnian High Representative Paddy Ashdown and Richard Holbrooke, now US Special Envoy to Pakistan and Afghanistan, warned that Bosnia was a “powder keg” and “in real danger of collapse.”

In February 2009, US Director of Intelligence Dennis Blair told the US Congress that Bosnia’s survival as a multi-ethnic state was “seriously in doubt.” The Dayton Agreement that ended the Bosnian war in 1995, Blair continued, had “created a decentralized political system that has entrenched rather than eradicated ethnic prejudices and insecurities.”

The following month the International Crisis Group, which numbers former presidents, ministers and businessmen amongst its members, warned that the Dayton agreement “is arguably under the greatest threat since the war ended in 1995.”

In May, the US Congress passed a resolution on Bosnia calling for the appointment of a new US special envoy to the Balkans region and for the post of High Representative—created by the Dayton agreement as a pro-consular official with ultimate authority in Bosnia—to continue. It called on the European Union to reconsider its plans to pull out the European peacekeeping force, EUFOR, which replaced the NATO-led one in December 2004. Also in May US Vice President Joseph Biden visited the Balkans and warned the Bosnian parliament not to fall back into “old patterns and ancient animosities.”

Last month, professors Patrice McMahon and Jon Western warned in Foreign Affairs magazine that 14 years after the agreement was signed, Bosnia “now stands on the brink of collapse.” More ominously, they say that Bosnians “are once again talking about the potential for war.”

In their article “The Death of Dayton: How to Stop Bosnia From Falling Apart,” McMahon and Western explain that Bosnia was once touted as “the poster child for international reconstruction” and received financial and logistical support that made the post-World War II rebuilding of Germany and Japan “look modest” in comparison.

By the end of 1996, they say, the country was occupied by 60,000 troops and the focus of reconstruction efforts by 17 different foreign governments, 18 United Nations agencies, 27 intergovernmental organizations, and about 200 nongovernmental organizations. Since then the country has received over $14 billion in foreign aid, equivalent to $300 per person per year, which compares to $65 per person in Afghanistan. Much of that aid has vanished into thin air. One investigation revealed that more than $1 billion in aid—nearly one-fifth of the total handed out between 1996 and 1999—had disappeared.

Despite all this assistance, McMahon and Western complain, Bosnia’s economy is stalled and there is huge unemployment and poverty. The country remains divided into the two semi-independent entities created by the Dayton agreement: the Federation of Bosnia and Herzegovina, inhabited mainly by Bosnian Muslims and Bosnian Croats, and the Serb-dominated Republika Srpska, each with its own government controlling taxation, educational policy, and even foreign policy. A single Bosnian army has been created, but each brigade is comprised of ethnically based battalions.

According to McMahon and Western, Bosnian Serb leader Milorad Dodik is actively pursuing secession for Republika Srpska and Bosnian Croat politicians are demanding more autonomy within the Federation. Haris Silajdzic, the Bosnian Muslim representative in the collective presidency, has called for a more centralized state (there are already 160 government ministers) and the dissolution of Republika Srpska.

Dodik has attempted to downplay warnings of collapse and war. In a letter to the New York Times (September 21, 2009) he asserted that “there is absolutely no threat of a return to violence” and for those making “alarmist cries” to stop. But in the next breath he boasts that his Republika Srpska has survived the financial storm better than the Federation and that “We do not support the centralized model that some in the international community have sought to impose on Bosnia and Herzegovina.”

At the same time Dodik was writing, Rajko Vasic, general secretary of the largest Serb party, the Alliance of Independent Social Democrats, reacted to statements by the Bosnian Muslim Party of Democratic Action that the “patriots of Bosnia” would prevent the country’s dissolution as itself “a direct threat of war.”

Nowhere is ethnic division more defined than in the Federation capital of Mostar. The Croat majority now live mainly in the western part of the city, and the Bosnian Muslims in the east. Of the 24,000 Serbs that lived in Mostar before the war, only a handful remain. Many Croats have taken advantage of their right to Croatian citizenship to emigrate to Croatia, with a recent report suggesting that their number has dropped from about 820,000 before the war to 466,000 today.

The administration of Mostar is collapsing largely as a result of attempts by Croat politicians to impose a Croat identity on the city. They argue that Sarajevo is “Muslim” and Banja Luka is “Serb,” but the Croats have no capital of their own. As a result, there has been no mayor, budget or functioning city council since elections in October 2008. City workers have not been paid for months. Councillors have failed on 14 separate occasions to elect a mayor or create any common institutions. Even a basic utility such as the Mostar water company operates as two parallel structures, with a Croat director and staff overseeing supply to the Croat west bank, while a Bosnian Muslim director looks after the supply to the eastern side of the city.

The situation in Bosnia is a foreign policy disaster for the US and EU and a tragedy for the Balkan peoples. The Balkans region was meant to be the arena in which the US established the ground rules and the EU would take over, flexing its muscles for the first time following the launch of the Common Security and Defence Policy a decade ago. The EU’s main strategy in the region has been to offer the prospect of EU membership, but several EU member states are now opposed to further enlargement of the bloc until fundamental “reforms” are carried out.

Increasing numbers of people in the Balkans region are questioning the advantages of EU membership in a period of global recession. Bosnia has been forced to take out a $1.6 billion emergency loan from the International Monetary Fund. As a result, “structural adjustment” is to be speeded up involving more privatizations, wage cuts and reductions in social and war-related benefits—entailing what the IMF describes as “extreme public discomfort” and a threat to “social stability.” This takes place in a country in which the population already suffers 27 percent unemployment and 25 percent poverty rates.

The Western powers are largely responsible for the region’s division into ethnically based regimes dominated by nationalists. The US and Germany in particular deliberately engineered Yugoslavia’s break-up along ethnic lines, with a complete indifference to the inevitable tragic consequences of their intervention. It was inevitable, given the history and politics of Yugoslavia, that the piecemeal break-up of the federation would lead to civil war and create new ethnically based states incapable of providing a progressive solution to the problems facing the Balkan people—entrenched poverty, unemployment, crime and corruption.

The situation brought about by the Western powers and the nationalist politicians in Bosnia has led to a collapse in support for the country’s political institutions. A recent poll showed Bosnia “outperforms all other [World Values Survey] transformation countries” in showing “no interest at all” in politics. Most young people are “outside the political process,” and nearly 80 percent of all Bosnians feel that none of the political parties represent their interest.


The inability of the EU, the US and various ethnically based governments to solve the social disaster in the Balkans can only be resolved by the building of an internationalist party based on the perspective of the United Socialist States of the Balkans.


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