Informazione


Ma se l'uomo morde il cane non fa notizia? La torbida xenofobia dei media italiani

 


Cosa succederebbe in Italia se un pregiudicato romeno ubriaco investisse sulle strisce una signora italiana con due bambini e la riducesse in fin di vita? La risposta è facile, diverrebbe in un lampo prima notizia su tutti i media e molti sciacalli sarebbero pronti a organizzare fiaccolate, a chiedere mano dura, espulsioni e a fare passeggiate vestiti come Humphrey Bogart. Cosa succede se avviene il contrario? Questa settimana ne abbiamo avuto una ATROCE dimostrazione pratica. E i media italiani ne escono in maniera vergognosa.

di Gennaro Carotenuto


La storia, nella sua crudezza, è semplice. Il giorno 20 novembre in pieno giorno, nella città di Roma, la cittadina rumena Marinela Martiniuc, 28 anni, attraversava sulle strisce nei pressi di una scuola. Spingeva una carrozzina con suo figlio Elias di appena quattro mesi e teneva per mano sua nipote Adina di 12 anni.

Sono stati spazzati via da un'auto guidata da un cittadino italiano, in evidente stato di ebbrezza, e appena uscito di galera. Il neonato è stato sbalzato a 20 metri di distanza, la piccola Adina ha avuto multiple lesioni alle gambe. La signora Martiniuc è stata per 24 ore incosciente ed in pericolo di vita. Tutt'ora è ricoverata in condizioni critiche.

Nessun giornale o gr o tg ha ritenuto opportuno diffondere la notizia. Questa è stata diffusa oggi, cinque giorni dopo, solo in una lettera inviata da Anna Maffei, presidente dell'Unione cristiana evangelica battista italiana, pubblicata dal quotidiano Il Manifesto.

Maffei invita a una riflessione sul ruolo dei media nella costruzione del clima di insicurezza e di crescente intolleranza e xenofobia fra la gente comune. Ha ragione: i media mainstream oramai formano un compatto partito del pregiudizio e utilizzano il loro sterminato potere per diffonderlo ad arte. Per un'elementare regola giornalistica infatti, se i romeni e solo i rumeni (o i rom che per il giornalista medio è lo stesso) sono tutti stupratori, assassini, ladri, autisti ubriachi, l'ennesimo cane che morde l'uomo non deve far notizia. Ma se è l'uomo italiano (pregiudicato e ubriaco) a mordere la cagna rumena, questa non dovrebbe essere una notizia più del suo stereotipato opposto? Non dovrebbe causare scandalo e vergogna che un nostro connazionale abbia ridotto in fin di vita una donna straniera e due bambini?

Sarebbe un triste paradosso, ovviamente, se solo per questo i media facessero un buon servizio all'informazione. La Maffei centra perfettamente il punto. Oggi i media mainstream, manipolando e scegliendo le notizie in maniera intenzionale, rappresentano un generatore di insicurezza sociale, intolleranza e xenofobia. E i giornali italiani che strillano l'investimento (o lo stupro, o l'omicidio) di una cittadina italiana da parte di un cittadino straniero, ma nascondono il caso opposto e sminuiscono sistematicamente i crimini dei quali gli stranieri sono vittime, vanno definiti per quel che sono: razzisti.

Per turpi fini (politici o commerciali che siano) si stanno prestando a mettere in pericolo la convivenza civile in questo paese e stanno giocando con la nostra democrazia. E' tempo che chi ha a cuore la convivenza civile in questo paese chieda sistematicamente loro conto delle loro intenzioni e malintenzioni. Un altro giornalismo è possibile.






Dalla Rete Nazionale DISARMIAMOLI abbiamo ricevuto in questi giorni, e volentieri giriamo, quanto segue.
Per maggiori informazioni e per contatti:

Rete nazionale Disarmiamoli!
www.disarmiamoli.org  info@...
3381028120  3384014989


--- 15 novembre ---

Afghanistan, l’esercito italiano attacca. Il governo Prodi acconsente.

Comunicato stampa della Rete nazionale disarmiamoli!
 
Nel silenzio complice di tutte le forze di governo, in queste settimane si sono susseguiti cruenti scontri armati che hanno visto partecipare direttamente, dal cielo e da terra, le truppe italiane presenti in Afghanistan.
Basta leggere la “voce del padrone”, cioè Il Sole24ore.
 
6.11.07 pag.7
Il giornalista Gianandrea Gaiani, in un articolo dal titolo “Le forze alleate perdono terreno”, rivela che “nella provincia occidentale di Farah, una delle quattro poste sotto il comando italiano di Herat...Le forze speciali e gli elicotteri da combattimento Mangusta verrebbero impiegati intensamente per contrastare i talebani, ma finora non sarebbe stata lanciata in battaglia la forza di intervento rapido italo – spagnola”
 
Quattro giorni dopo, il cosiddetto “intervento rapido” è stato lanciato.
 
Sempre Gianandrea Gaiani, il 10.11.07 a pag 10 del Sole24Ore nell’articolo dal titolo “Offensiva NATO in Afghanistan”, ci dice che “...le truppe afgane ed italiane hanno ripreso il controllo del distretto di Gulistan...uccidendo una ventina di talebani. Il contrattacco ( è stato) guidato dal comando NATO di Herat, retto dal generale Fausto Macor....I combattimenti a Gulistan sono durati diversi giorni coinvolgendo gli elicotteri da combattimento Mangusta e le forze speciali della Task force 45, ma secondo indiscrezioni sarebbero stati risolti con l’arrivo da Herat dei mezzi corazzati Dardo dei bersaglieri....indiscrezioni riferiscono di scontri di retroguardia tra le forze alleate e i talebani...”
 
Di fronte a queste notizie, sicuramente inserite nelle rassegne stampa di tutti i componenti il Parlamento, le recenti interrogazioni parlamentari di alcuni deputati della cosiddetta “sinistra radicale” sul ruolo dei militari italiani in Afghanistan, ci fanno fortemente sospettare un cinico gioco delle parti.
 
Il nostro paese è in guerra e la Legge Finanziaria 2008, in difficoltà solo per i giochi di potere di Dini e Mastella, rafforza lo stato di belligeranza dell’Italia in tutti i fronti sui quali i militi di ventura tricolori sono stati dispiegati.
 
L’uso massiccio delle “armi di distrazione di massa” è direttamente proporzionale alla gravità delle scelte fatte.
 
Quale spazio si meritano coloro i quali votano queste scelte? Certo non nelle piazze del movimento contro la guerra.
 
La rete nazionale Disarmiamoli!



--- 17 novembre ---

TRUPPE ITALIANE SOTTO ATTACCO: 
DALL’AFGHANISTAN  NOTIZIE  DIMEZZATE

 

Cinque razzi caduti sull'aeroporto di Herat, in Afghanistan, controllato dai militari italiani dell'Isaf. I Taliban rivendicano, aggiungendo che l'obiettivo erano i militari della Forza d’assistenza alla sicurezza (Isaf) della Nato, che nella provincia di Herat è sotto comando italiano. Il giorno prima le forze italiane erano sfuggite ad un attentato, nella provincia occidentale di Farah.
Questi i fatti descritti da stampa e tv in questi giorni.
I nostri “bravi ragazzi” sotto il fuoco dei talebani mentre, come sappiamo, sono in quel paese in missione di pace, a “ridurre il danno” portato da altre forze della coalizione, meno inclini alla soldatesca solidarietà italiana.

 

Nessuna parola sulle recentissime operazioni militari che, nella zona di Farah, hanno visto scendere in campo le truppe speciali italiane, gli elicotteri Mangusta ed i blindati Dardo, inviati a rafforzare l’esercito con il voto bipartisan di senatori e deputati. Nelle operazioni militari decine di afgani sono stati uccisi, per i dispacci d’agenzia rigorosamente talebani.

 

Nessun collegamento tra questi attacchi e l’elezione a Presidente del Comitato militare della NATO - massimo organo militare collegiale dell'Alleanza - dell'ammiraglio Giampaolo Di Paola, capo di Stato maggiore della Difesa italiana.
Il Comitato militare della NATO è l'interlocutore del Consiglio Atlantico, l'organo politico della Nato. Il suo compito è elaborare strategie militari e durante le crisi esprimersi sull'uso della forza, come nel caso dell’attuale guerra in Afghanistan.

 

La gestione oculata delle notizie dai fronti di guerra è parte integrante della guerra stessa. Gli avvenimenti descritti ne sono un esempio eclatante.

 

Dopo anni nei quali i “nostri” contingenti sono riusciti a mimetizzarsi nelle caserme di Herat e Kabul, l’offensiva della resistenza afgana costringe anche gli italiani ad uscire e combattere, con immaginabili conseguenze per il prossimo futuro, nel quale le campagne stampa deformanti potrebbero rivelarsi insufficienti a legittimare l’attività armata e i possibili nuovi lutti.
Ciò dipenderà anche dalla capacità del movimento contro la guerra nel produrre corretta informazione sui tragici e quotidiani combattimenti in Afghanistan.

 

Rilanciare sin da subito la mobilitazione contro la presenza delle truppe italiane all’estero deve essere uno degli obiettivi centrali del movimento, gettando così le basi per una nuova, grande mobilitazione contro il rifinanziamento delle missioni nel febbraio 2008, contro un governo che fa dell’interventismo estero l’elemento strategico per il rilancio della cosiddetta “azienda Italia”.

 

La Rete nazionale Disarmiamoli!


--- 23 novembre ---

Per coloro che ancora non lo avessero capito
L'ITALIA E' IN GUERRA
 
Un kamikaze si è fatto saltare in aria accanto a un ponte in costruzione a Kabul, uccidendo nove civili, tra i quali sei bambini e un militare italiano, il maresciallo capo Daniele Paladini. Ferite anche dodici persone, compresi tre militari italiani. I bimbi morti stavano uscendo da una scuola situata nei pressi, allorché sono stati investiti dall'esplosione. L'attentato è avvenuto nella Valle di Pagman, una località ad una ventina di chilometri a nord-ovest da Kabul, mentre era in corso l'inaugurazione di un ponte da parte dei militari del contingente italiano.
Recentissimi dati dicono che il territorio dell’Afghanistan, a sei anni dall’inizio dell’occupazione, è oggi in mano per il 54% alle varie realtà che lottano contro gli occupanti, talebane ma non solo.
In questo contesto le truppe italiane di stanza ad Herat ed a Kabul sono costrette sempre di più ad esporsi nel conflitto.
All’inizio di novembre nell’area di Farah e a Gulistan, forze speciali italiane, elicotteri da combattimento Mangusta mezzi corazzati Dardo dei bersaglieri sono stati impiegati intensamente contro gli insorti. Decine le vittime afgane in questi combattimenti.
DI QUESTO LA STAMPA E LA TV ITALIANE NON HANNO PARLATO.
Sono seguiti due tentativi di attacco diretto contro gli italiani, il primo con una bomba stradale, il secondo con lancio di razzi nell’aeroporto controllato dalle “nostre” truppe.
Omettendo le notizie della precedente offensiva italiana gli attacchi successivi appaiono come “a freddo”, verso truppe impegnate nella “costruzione della pace”.
Il governo Prodi persegue una strategia di guerra, mascherata da una retorica che ogni giorno suona come esercizio di nauseante ipocrisia, per i cittadini ed ora anche per i militari.
La guerra è guerra, e l’ulteriore aumento dell’11% di spesa per il comparto militare nella Legge Finanziaria 2008 chiarisce ancora di più le intenzioni di questo esecutivo per il futuro.
ULTIMA DOVEROSA NOTA:
L’attentato costato la vita al maresciallo capo Daniele Paladini è il terzo contro gli italiani in pochissimi giorni, e segue un massacro simile costato la vita ad oltre 40 bambini, avvenuto pochi giorni fa durante l’inaugurazione di uno zuccherificio, alla presenza delle autorità del governo fantoccio Karzai e delle truppe NATO.
Perché in questa situazione di guerra aperta le truppe italiane/NATO promuovono iniziative propagandistiche ad esclusivo uso e consumo della stampa occidentale, mettendo così a rischio la vita dei civili afgani, soprattutto bambini?
VIA SUBITO LE TRUPPE ITALIANE DALLA GUERRA AFGANA.
LE UNICHE SPESE DA SOSTENERE SONO QUELLE
PER IL CARBURANTE NECESSARIO AL RITORNO DELL’ESERCITO.
 
La Rete nazionale Disarmiamoli!

 



Kosovo: Die Lunte brennt

1) Juergen Elsaesser: Die Lunte brennt (16.11.2007)
2) GFP: Angelpunkt (20.11.2007)
3) GFP: Mit kreativen Tricks (05.11.2007)
4) IMI: Deutschland erwägt einseitige Anerkennung des Kosovo, NATO probt Balkan-Kriegseinsatz (25.10.2007)
5) GFP: Dayton II (09.10.2007)
6) Benjamin Schett: Die Zukunft des Kosovo (22.06.2007)



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www.jungewelt.de
Junge Welt, 16.11.2007

Die Lunte brennt

Vor dem Ende der Kosovo-Verhandlungen am 10. Dezember wachsen die Spannungen - auch im benachbarten Mazedonien

Von Jürgen Elsässer

Der Angriff der Albaner hat bereits begonnen. Am 7. November kam es zu einem stundenlangen Feuergefecht zwischen mazedonischen Sicherheitskräften und einer Rotte der skipetarischen Untergrundbewegung UCK in der Nähe der Stadt Tetovo. Dabei wurden acht UCK-Führer getötet, ein Hubschrauber der Polizei stürzte aus ungeklärten Gründen ab. Einige der UCK-Leute waren zuvor aus einem Gefängnis im Kosovo ausgebrochen, wo sie Haftstrafen wegen früherer Straftaten verbüßten. Nach der Schießerei riegelten Hunderte NATO-Soldaten die Grenze ab, die in der Nähe Mazedonien von der serbischen Provinz trennt.

In derselben Gegend rund um Tetovo begann die UCK im Frühjahr 2001 einen Krieg gegen den mazedonischen Staat, der bis zum September desselben Jahres dauerte und mit der von der EU erzwungenen Beteiligung der UCK-Führer an der Regierung in Skopje endete. Daß die Kämpfe jetzt nach sechs Jahren Pause wieder aufflackern, hat mit der angespannten Situation im Kosovo zu tun. Die dortige Provinzregierung hat angekündigt, nach dem absehbaren Scheitern der internationalen Verhandlungen - ihr Ende ist auf den 10. Dezember festgelegt - einseitig und ohne UN-Unterstützung einen eigenen Staat auszurufen. Ihr Argument: Die Bevölkerung - zwei Millionen Menschen, zu 9o Prozent Albaner - stehe hinter diesem Schritt. Doch mit diesem Argument könnte auch Westmazedonien die Eigenstaatlichkeit beanspruchen, denn dort ist die ethnische Situation ähnlich, und unter Berufung auf die »Selbstbestimmung« könnten sich schließlich beide Mini-Republiken mit dem Mutterland am Ende zu einem Großalbanien vereinigen.

Vielleicht läßt sich die jüngste Geschichte des Kosovo ganz gut mit dem Werdegang eines wichtigen UCK-Kommandeurs illustrieren. Dieser Xhezair Shaqiri, bekannter unter seinem Kriegsnamen Kommandeur Hoxha, kämpfte 1999 in der 171. UCK-Brigade zunächst gegen die Serben. Nachdem dieser Krieg mit Hilfe der NATO gewonnen war, wechselte Xhezair über die Grenze und nahm im Frühjahr 2001 in der 112. Brigade am UCK-Aufstand in Mazedonien teil. Dort war er Kommandant einer Einheit aus teilweise ausländischen Gotteskriegern im Raum Tetovo. Als diese Formation im Juni 2001 von der mazedonischen Armee bei Aracinovo eingekesselt war, wurde sie von der US-Armee ausgeflogen. Neben Xhezair und seinen Mudschahedin befanden sich auch 17 US-Militärberater des Pentagon unter den Geretteten.


UCK, CIA und BND

Im März 2004 war Xhezair zurück im Kosovo und führte ein antiserbischen Pogrom an. Drei Tage lang brandschatzte ein Mob von 50000 Aufrührern die Wohnstätten und religiösen Heiligtümer der serbischen Minderheit. Xhezair hatte nach eigenen Angaben die Leitung im Gebiet um Prizren und Urosevac inne. NATO-Dokumente bezeichnen ihn als Koordinator eines geheimen Netzes, das Angehörige der formell aufgelösten UCK geknüpft haben, die heute im Kosovo-Schutzkorps und in der Kosovo-Polizei ihren Dienst verrichten - in Formationen also, die von der UN-Verwaltung UNMIK und dem NATO-Besatzungskorps KFOR legalisiert worden sind. Daneben verdächtigt die NATO den Mann guter Kontakte zu Al Qaida und zur Hisbollah. Das hingegen dürfte eher eine Schutzbehauptung sein: Gegenüber dem heute-journal des ZDF brüstete sich der UCK-Kommandant nämlich im November 2004 damit, »auf der Gehaltsliste des BND, der CIA und eines österreichischen Geheimdienstes« zu stehen. Der BND gab den Sachverhalt zu, betonte jedoch, man habe Xhezair einige Wochen vor den Pogromen als Informanten »abgeschaltet«.

Dieser Xhezair hat sich nun zurückgemeldet. Am 28. August kündigte er an, er wolle in dem mazedonischen Dorf Tanusevci ein Referendum über den Anschluß an das Kosovo durchführen. Nach Medienberichten wagen sich Vertreter der Staatsmacht nicht mehr in diese Region, die Behörden bestreiten dies. Im gleichen Zeitraum begannen vermummte Kämpfer mit Überfällen in der Nähe der Grenze zum Kosovo, am 24. Oktober wurden dabei ein Polizist getötet und zwei verwundet. Am 10. November warnte Xhezair, die UCK habe mit den mazedonischen Sicherheitskräften noch »Rechnungen zu begleichen«. Und weiter: »Wir werden auf die Polizei warten, wo immer sie hinkommt«.

Terroristen wie Xhezair haben nach dem Abzug der jugoslawischen und serbischen Sicherheitskräfte am 10. Juni 1999 das Kosovo in eine Todeszone für alle Nicht-Albaner verwandelt. Die zunächst über 50000 Soldaten der NATO-geführten Schutztruppe KFOR waren nicht in der Lage, in der Region von der Größe Hessens für den Schutz von Menschenleben, geschweige denn für die Einhaltung der Menschenrechte zu sorgen - obwohl ihre Stationierung zu diesem Zweck vom UN-Sicherheitsrat mit der Resolution 1244 mandatiert worden war. Ende August 1999 erschien in Koha Ditore, einer der größten albanischen Tageszeitungen des Kosovo, ein Leitartikel ihres Herausgebers Veton Surroi. Er war Mitglied der kosovo-albanischen Delegation in Rambouillet gewesen und hatte dort die Führungsrolle des UCK-Chefs Hashim Thaci akzeptiert, ist also nicht gerade ein Gegner der Untergrundkämpfer. Unter der Überschrift »Kosovo-Faschismus - die Schande der Albaner« rechnete er mit den neuen Herren des Kosovo ab: »Die heutige Gewalt - mehr als zwei Monate nach der Ankunft der NATO-Truppen - ist mehr als nur eine emotionale Reaktion. Es ist die organisierte und systematische Einschüchterung aller Serben, weil sie Serben sind und deswegen kollektiv für das verantwortlich gemacht werden, was im Kosovo geschah. Diese Verhaltensweisen sind faschistisch.«


Terror lohnt sich

Im November 2003 bilanzierte der damalige serbische Ministerpräsident Zoran Zivkovic, ein durchaus NATO-freundlicher Politiker, beim Staatsbesuch in Berlin: »In den letzten vier Jahren sind trotz des Protektorats 2500 Serben und andere Nicht-Albaner ums Leben gekommen.«

Heute ist das Kosovo weitgehend ethnisch rein. Die Zahl der verjagten Serben und Roma gab das UN-Hochkommissariat für Flüchtlinge im Frühjahr 2004 mit 230000 an, die Regierung in Belgrad ging von mindestens 350000 aus. Nur noch zwischen 70000 und 120000 Angehörige von Minderheiten harren in der Provinz aus. Die Serben und Roma leben vor allem im Nordteil von Mitrovica sowie in von der NATO geschützten Ghettos und Enklaven.

Trotz dieser Gewalt förderte die westliche Politik in der Folge die Abspaltung der Provinz vom Gesamtstaat, das heißt, sie belohnte die Gewalttäter. Seit 2005 jagte ein tendenziöser Expertenbericht den nächsten. Den Anfang machte im Januar eine Studie der International Crisis Group (ICG), wonach es zu einer Eigenstaatlichkeit des Kosovos »keine akzeptable Alternative« gebe. Die ICG wird unter anderem vom US-amereikanischen Multimilliardär George Soros finanziert.

Ende April 2005 legte eine von der EU eingesetzte Balkan-Kommission ihren Kosovo-Bericht vor. Darin empfahlen eine Reihe ehemaliger europäischer Spitzenpolitiker wie der frühere italienische Premier Guiliano Amato, Exbundespräsident Richard von Weizsäcker, der Schwede Carl Bildt und der Exaußenminister Serbien-Montenegros, Goran Svilanovic, einen Fahrplan zur staatlichen Unabhängigkeit der Provinz. Demnach soll das Kosovo in etwa zehn Jahren EU-Mitglied werden, ohne vorher die volle Unabhängigkeit erlangt zu haben. In einer ersten Phase gehe die UN-Verwaltungshoheit der Provinz auf die Europäische Union über (eingeschränkte Unabhängigkeit). In einer zweiten Phase gebe die EU-Administration immer mehr Kompetenzen an die lokalen Behörden ab. In einer dritten Phase begännen Beitrittsverhandlungen zwischen dem Kosovo und der EU (gelenkte Souveränität), an deren Abschluß schließlich die volle EU-Mitgliedschaft stehe. Der Belgrader Widerstand soll ausgehebelt werden, indem auch Serbien selbst (wie allen anderen Staaten des Westbalkan) die Mitgliedschaft in der EU angeboten wird.

Auf diese Vorgaben stützte sich der Finne Martti Ahtisaari, unter dessen Ägide im Februar 2006 in Wien die sogenannten Endstatusgespräche für das Kosovo begannen. Der Diplomat war dafür vom UN-Sicherheitsrat beauftragt worden - ungeachtet der Tatsache, daß er als Mitglied der erwähnten International Crisis Group seine mangelnde Unparteilichkeit bereits unter Beweis gestellt hatte. Den Kurs der aggressivsten westlichen Kräfte für diese Verhandlungsrunde hatte die FAZ vorgegeben: »Unabhängigkeit notfalls gegen Serbien und Rußland. Das Völkerrecht steht auf dem Amselfeld im Konflikt mit der Wirklichkeit« - so der Aufmacher einer Sonderdoppelseite Mitte Dezember 2005. Wie sicher sich die Albaner der westlichen Unterstützung waren, zeigt ihre Personalpolitik: Ihr Delegationsleiter in Wien wurde Hashim Thaci - der frühere politische Chef der UCK. Ebenfalls im Frühjahr 2006 wurde Agim Ceku Ministerpräsident des Kosovo - er war im Krieg 1999 der UCK-Oberkommandierende gewesen.


Die Wiener Verhandlungen

Tatsächlich schien es zunächst so, als ob die Serben bei den Wiener Verhandlungen keine Chance hätten, weil sie im internationalen Macht-Ranking beständig nach unten rutschten: Ende April 2006 verfügte die Europäische Union ein Einfrieren der Assoziierungsgespräche mit Serbien unter dem Vorwand, daß der vom Haager Tribunal gesuchte bosnisch-serbische General Ratko Mladic nicht ausgeliefert wurde - was den internationalen Rückhalt der Regierung des demokratisch-konservativen Premiers Vojislav Kostunica weiter verminderte. Am 21. Mai beschloß Montenegro per Referendum den Austritt aus dem Staatenbund mit Serbien - zahlreiche Hinweise auf drastische Manipulationen blieben unberücksichtigt. Anfang September fuhren die Separatistenparteien bei der ersten Wahl im unabhängigen Montenegro einen überzeugenden Sieg ein - die proserbischen Parteien stürzten ab. Anfang Oktober verlor beim Urnengang in Bosnien-Herzegowina die Partei der serbischen Hardliner, die Serbische Demokratische Partei (SDS), ihre Spitzenstellung, und die für den Westen berechenbaren Sozialdemokraten übernahmen die Regierung.

Mit den Serben, so mochte es dem Westen scheinen, konnte man alles machen. Überheblich verkündete der UN-Chefunterhändler Ahtisaari im September 2006, daß er seinen Job als UN-Chefunterhändler für das Kosovo zum Jahresende aufgeben werde: Eine einvernehmliche Lösung sei nicht zu finden, da Belgrad - im Unterschied zu Pristina - jedes Entgegenkommen verweigere. Die Sezession schien beschlossene Sache.

Doch am 19. Oktober 2006 kam die Wende: Der Sicherheitsrat verlängerte das Mandat von Ahtisaari plötzlich um ein halbes Jahr, bis Ende Juni 2007. Was war geschehen? Zum einen hatte Kostunica die Zugehörigkeit des Kosovo zu Serbien Ende Oktober 2006 durch eine Volksabstimmung bestätigen lassen. Formal war es darin um eine neue Verfassung gegangen, die für Serbien nach der Trennung Montenegros notwendig war, aber der Kosovo-Passus in der Präambel hatte den Diskurs im Land dominiert. Die lebhafte Debatte und das klare Ergebnis errichteten für den Westen, der sich gerne auf Demokratie und Selbstbestimmung beruft, ein unübersehbares Stopsignal. Hätte er dieses überfahren, hätte er damit rechnen müssen, daß die Regierung in Belgrad gestürzt und die ­NATO-feindliche Radikale Partei (SRS) die Macht übernehmen würde. So blieb bei den Wahlen im Januar 2007 alles beim alten.

Noch wichtiger war, daß Rußland die slawischen Brüder dieses Mal ausnahmsweise nicht im Stich gelassen hat. Präsident Wladimir Putin machte mehrfach und unmißverständlich klar, daß es einer Unabhängigkeit des Kosovo in der UNO nicht zustimmen werde.


NATO-Staat Kosovo

Als Athisaari am 21. Februar 2007 seinen Plan präsentierte, versteifte sich der Widerstand Belgrads und Moskaus noch. Die »konditionierte Unabhängigkeit« nach Lesart des Finnen hätte die Abtrennung von 15 Prozent des serbischen Staatsgebietes bedeutet. Serbische Politiker warnten insbesondere vor dem Annex 11 des Dokuments, wonach die Rolle künftiger ziviler Beobachter in dem neuen Staat »begrenzt sein würde, so daß Kosovo unter der Autorität der NATO stünde« (Aleksandar Simic, einer der Sicherheitsberater der serbischen Regierung). Der serbische Erziehungsminister Zoran Loncar argumentierte ähnlich: »Die Frage der albanischen Minderheit diente der NATO nur als Rauchvorhang, um ihren ersten militärischen Marionettenstaat zu schaffen ... Die NATO hat Serbien zuerst bombardiert, dann ihre Truppen in die Provinz Kosovo gebracht und will jetzt, durch den gescheiterten Ahtisaari-Plan, ihren ersten Militärstsaat auf serbischem Territorium errichten.« Simics Schlußfolgerung: »Die Durchsetzung des Ahtisaari-Plans würde Bondsteel praktisch zur Hauptstadt eines unabhängigen Kosovo machen.« Mit Bondsteel ist der derzeit größte US-Stützpunkt in Südost- und Osteuropa gemeint, wo ständig bis zu 5000 GIs stationiert sind.

Ahtisaaris Vorstoß scheiterte schließlich. Die großmäulige Ankündigung der Kosovoalbaner, noch vor dem G-8-Gipfel Anfang Juni 2007 ihren Staat auszurufen, wurde nicht realisiert. Dazu trugen, neben dem unüberwindbaren Widerstand Rußlands im Sicherheitsrat, auch Widersprüche innerhalb der EU bei. Außer dem traditionell proserbischen Griechenland hatten auch die Regierungen in Bratislava, Bukarest und vor allem in Madrid aus ihrer Abneigung gegenüber der Gründung eines neuen Albanerstaates keinen Hehl gemacht, da sie einen Präzedenzfall für ihre eigenen Minderheiten fürchten. Zwar sind nach der Auflösung der Sowjetunion (1991) bzw. des sozialistischen Jugoslawien (1992) eine ganze Reihe neuer Staaten entstanden - aber dabei handelte es sich ausschließlich um frühere Teilrepubliken. Das Kosovo dagegen hatte nie diesen Status, sondern war immer nur eine untergeordnete Verwaltungseinheit Serbiens gewesen. Würde aus der Provinz Kosovo ein selbständiger Staat, so könnten auch Regionen wie Transnistrien (in Moldawien), Abchasien (in Georgien), Tsche­tschenien (in Rußland), aber auch das Baskenland (in Spanien) sowie die ungarischen Regionen in der Südslowakei und in Westrumänien dasselbe verlangen.

Am 20. Juli übertrug der UN-Sicherheitsrat das Verhandlungsmandat von Ahtisaari auf eine Troika. Seither bemühen sich der EU-Beauftragte Wolfgang Ischinger zusammen mit dem russischen Emissär Alexander Botsan-Chartschenko und dem US-Vertreter Frank Wisner um einen Kompromiß, mit dem beide Seiten leben können. Am 18. September faßte der britische Independent den Verhandlungsstand schon mit den Worten zusammen »Die Unabhängigkeit ist vom Tisch«. Tatsächlich enthält ein 14-Punkte-Plan der Troika für die heiße Phase der Gespräche das U-Wort gar nicht mehr und bewegt sich damit näher an den Belgrader Vorstellungen einer »konditionierten Autonomie« als an den Staatsgründungsphantasien in Pristina.

Alle gutgemeinten Ideen scheitern aber an der beinharten Haltung der Kosovo-Albaner, die sich durch die Unterstützung aus Washington bestärkt fühlen können. Bereits beim Staatsbesuch in Tirana Ende Mai 2007 hatte Präsident George W. Bush angekündigt, den neuen Staat mit der diplomatischen Anerkennung zu belohnen, auch wenn er völkerrechtswidrig - das heißt ohne UN-Beschluß - ausgerufen würde. Das Kalkül der US-Hardliner hat die FAZ im September 2007 ganz gut erkannt: »Jedenfalls ist die Zukunft des Kosovo ein Keil, der (einen Teil der) Europäer und Amerikaner auseinandertreibt, denn Washington steht im Verdacht, die Kosovo-Albaner in deren Unabhängigkeitsfuror noch anzufeuern. Und dieser Keil fährt zwischen die Europäer mit einer Wucht, die es, was die Außenpolitik betrifft, seit dem inneren Zerwürfnis wegen der amerikanischen Irak-Politik nicht mehr gegeben hat.« Um so verrückter, daß das Blatt der Bundesregierung empfiehlt, die Spaltungsstrategie der USA zu unterstützen und auch ohne Konsens in der EU den neuen Albanerstaat anzuerkennen. »Wenn nicht alle daran teilnehmen müssen, muß es eine Gruppe interessierter tun, eine >Koalition der Willigen<. (...) Frankreich, Großbritannien, Deutschland und Italien müssen, wenn es nicht anders geht, die Sache in die Hand nehmen.«


Eine Kettenreaktion

Folgt die Bundesregierung diesen Ratschlägen, so droht eine Kettenreaktion, zunächst auf dem Balkan.

-In Bosnien-Herzegowina hat die Führung der Republika Srpska angedroht, dem Beispiel der Kosovoalber zu folgen und ihre »Entität« aus dem Gesamtstaat zu lösen. Um dies zu verhindern, hat der internationale Hochkommissar am 19. Oktober die Vetorechte aufgehoben, die den Serben bisher in der Regierung zustanden. Im Gegenzug ist der serbische Ministerpräsident zurückgetreten, die serbischen Abgeordneten wollen künftig das Parlament blockieren. De facto ist damit das Land schon gespalten. Dagegen könnte die Besatzungsmacht EUFOR vorgehen - wenn ihr Mandat am 21. November durch den Sicherheitsrat verlängert wird. Rußland hat bereits mit dem Veto gedroht.
-Falls Belgrad, wie angekündigt, gegen ein unabhängiges Kosovo Sanktionen verhängt und die Grenzen sperrt, könnten die Kosovo-Albaner ihre Glaubensbrüder im Sandschak im Südwesten Serbiens mobilisieren. Nach der jüngsten Expertise der serbischen Staatssicherheit BIA hat sich dort ein terroristischer Fokus gebildet. Im Gegensatz zur gemäßigten moslemischen Mehrheit um Mufti Adem Zilkic ist es Saudi-finanzierten Wahabiten um Mufti Muamer Zukorlic gelungen, Anhänger um sich zu scharen. Unterstützt werden sie dabei vom US-Botschafter Cameron Munter.
-Im Kosovo selbst wird es im Falle der Unabhängigkeit zu Protestreaktionen der Serben in und um ihre Hochburg Nord-Mitrovica kommen, möglicherweise unter Beteiligung bewaffneter Freischärler. Vergeltungsaktionen könnten auf Südserbien (Presevo-Tal) und Mazedonien übergreifen, wo sich die Truppen von Kommandeur Hoxha bereithalten.

Die Bundeswehr befindet sich mitten in diesem Hexenkessel. Wäre es nicht das einfachste, die 3000 deutschen KFOR-Soldaten würden sich völkerrechtskonform verhalten - also gemäß der UN-Resolution 1244, auf deren Grundlage ihre Stationierung erfolgte? Dann müßte sie alle Personen verhaften, die die »Souveränität und territorialen Unversehrtheit der Bundesrepublik Jugoslawien« (beziehungsweise ihres Rechtsnachfolgers Serbien) verletzen. Wenn das rechtzeitig vor dem 10. Dezember geschieht, könnte man sich manchen Ärger hinterher ersparen.


=== 2 ===


Angelpunkt 

20.11.2007


BERLIN/PRISTINA (Eigener Bericht) - Vor der vorletzten Verhandlungsrunde über die Zukunft des Kosovo erklärt der künftige kosovarische Ministerpräsident Hashim Thaci die Gespräche in der deutschen Presse zur Farce und bestätigt die Sezession unmittelbar nach Verhandlungsende am 10. Dezember. Die Abspaltung wird Thaci zufolge in Abstimmung mit der EU und den USA erfolgen und ist trotz der Widerstände mehrerer EU-Mitglieder sowie Moskaus nicht mehr zu verhindern. Die bevorstehende Eigenstaatlichkeit des Kosovo, das binnen weniger Monate in den Internationalen Währungsfonds (IWF) und in die Weltbank aufgenommen werden soll, schürt neue Gewalt bewaffneter Separatisten in Mazedonien; sie streben den Anschluss ihrer Wohngebiete an das Kosovo an. In Bosnien-Herzegowina dagegen, wo die serbischen Bevölkerungsteile ein Sezessionsreferendum nach kosovarischem Vorbild für sich in Anspruch nehmen, bestehen Berlin, Brüssel und Washington auf der Bewahrung der staatlichen Integrität. Dies gilt als notwendig, um serbische Positionen nicht zu stärken. Auch hier drohen die Spannungen zu eskalieren. Mit der Sezession krönt die kosovarische Regierung jahrelange Vorbereitungsarbeiten Berlins. Umgekehrt dient Pristina - wie bereits in den 1940er Jahren - als Angelpunkt für die Schwächung Serbiens und die "Neuordnung" Südosteuropas.

Verhandlungs-Farce

Wie der künftige Ministerpräsident des Kosovo, Hashim Thaci, erklärt, dessen Partei bei den Wahlen am vergangenen Samstag stärkste Kraft in Pristina wurde, wird es bei den internationalen Gesprächen über die Zukunft des Kosovo keine Lösung mehr geben. Die Verhandlungen der sogenannten Troika (mit Politikern aus Deutschland, der USA und Russland) gehen am heutigen Dienstag in die vorletzte Runde. Thaci zufolge werden die Kosovo-Albaner "die Agenda der Troika" bis zum 10. Dezember "respektieren". "Danach wird das Kosovo aber seine eigene Agenda haben."[1] Thaci kündigt die Sezession in Abstimmung mit Washington und Brüssel an. Seinem Urteil zufolge werden auch Griechenland und Zypern schließlich einwilligen, um nicht ein "isolierter Teil der EU" zu werden. Die beiden Staaten weigern sich noch, die gegen internationales Recht verstoßende Abspaltung des Kosovo anzuerkennen. Auch Russland unterstützt weiter den Verbleib der Provinz im serbischen Staatsverbund. Der Vorsitzende des Auswärtigen Ausschusses der Duma, Konstantin Kosocev, sprach sich in der vergangenen Woche für zeitlich unbegrenzte Verhandlungen aus und erklärte, Moskau werde niemals eine einseitige Unabhängigkeit des Kosovo anerkennen.[2]

Willkür

Angesichts der bevorstehenden Sezession des Kosovo wachsen Separatismus und Kriegsgefahr auch in anderen Teilen des ehemaligen Jugoslawien. So nehmen in Bosnien-Herzegowina Bestrebungen zu, die Republik Srpska mit ihrer serbischen Bevölkerung von der bosnisch-kroatischen Föderation abzuspalten. Ursache der Krise ist die geplante Reform der Bundesorgane, welche die antiserbische Politik Berlins und der EU fortführt. Der mit Vollmachten der UNO ausgestattete Gouverneur Miroslav Lajcak will die Pflicht zur Einstimmigkeit im Ministerrat abschaffen und stattdessen das Mehrheitsprinzip einführen. Damit erhielten die bosnischen und kroatischen Vertreter die Möglichkeit, ihre serbischen Kollegen gegen deren Willen zu überstimmen. Angesichts seiner damit verbundenen Entmachtung drohte der Regierungschef der Republik Srpska, Milorad Dodik, mit dem Rückzug aller Serben aus den bosnischen Bundesorganen und warnte vor einer "Eliminierung der Republik Srpska". Für den Fall, dass die Abstimmungsregeln tatsächlich geändert werden, kündigte er ein Referendum über die Sezession der Republik Srpska aus dem bosnischen Staat an.[3] Sein Vorhaben ist dem Inhalt nach praktisch identisch mit den kosovarischen Abspaltungsplänen, wird aber von Berlin bekämpft, da es der Stärkung serbischer Positionen dient.

Gewalt

Neue, durch die Abspaltung des Kosovo motivierte separatistische Gewalt droht auch in Mazedonien. Dort kam es am 7. November in der Nähe von Tetovo erstmals seit 2001 zu einem stundenlangen Feuergefecht zwischen mazedonischen Sicherheitskräften und UCK-Einheiten. Dabei wurden acht UCK-Freischärler getötet, ein Hubschrauber der Polizei stürzte ab. Einige Freischärler waren zuvor aus einem Gefängnis im Kosovo ausgebrochen.[4] Nach der Schießerei riegelten hunderte NATO-Soldaten die nahe gelegene Grenze zwischen Mazedonien und dem Kosovo ab. In West-Mazedonien stellt die albanische Bevölkerungsgruppe ähnlich wie im Kosovo die Mehrheit, starke Kräfte streben die Sezession des Gebiets und seinen Anschluss an das Kosovo an. Ziel ist letztlich die Bildung eines großalbanischen Staates unter Einschluss aller albanischen Siedlungsgebiete.

Vorgänger

Damit knüpfen die albanischen Separatisten an die Politik an, die ihre Vorgänger gemeinsam mit dem nationalsozialistischen Deutschland verfolgten. Nach dem deutschen Angriffskrieg auf Jugoslawien im April 1941 wurde das Kosovo zwischen den Bündnispartnern der Hitler-Regierung aufgeteilt. Die Deutschen sicherten sich den Nordzipfel der Provinz mit dem für ihre Rüstungsindustrie kriegswichtigen Zink- und Bleiwerk Trepca bei Kosovska Mitrovica. Bulgarien annektierte die östlichen Distrikte. Das größte Gebiet kam unter italienische Kontrolle und wurde am 12. August 1941 mit dem von Rom beherrschten Königreich Albanien und mit Teilen des heutigen Mazedonien zu "Großalbanien" vereint - zum ersten Mal in der Geschichte und als Ergebnis der deutschen Aggression gegen Belgrad.

Deutschfreundlich

Probleme ergaben sich nach der italienischen Kapitulation im September 1943. Damals besetzten deutsche Truppen das Gebiet. Berlin wünschte sich ein unter deutscher Vorherrschaft stehendes, ethnisch homogenes "Großalbanien", scheiterte jedoch zunächst mit dem Versuch, eine deutschfreundliche Marionettenregierung in Tirana zu installieren. Von diesem Zeitpunkt an nutzte das Deutsche Reich das Kosovo als eigentlichen Angelpunkt seiner Albanienpolitik. Im Herbst 1943 rekrutierte die Wehrmacht ein aus rund 2.000 deutschfreundlichen Kosovo-Albanern bestehendes Bataillon, das als Eliteeinheit nach Tirana geschickt wurde; es half bei der Installierung eines albanischen Kollaborationsregimes und wurde vor allem zur Partisanenbekämpfung eingesetzt.

Vernichtungspolitik

Vom Kosovo aus beteiligten sich Albaner auch an der deutschen Vernichtungspolitik. Im Februar 1944 gab Hitler den Befehl, die SS-Division "Skanderbeg" aufzubauen. Ihre 6.500 Mann wurden aus den albanischen Einheiten der 13. SS-Bosniaken-Gebirgsdivision sowie aus albanischen Milizen zusammengestellt.[5] Ihr Standort war Prizren - dort ist heute die Bundeswehr stationiert -, sie operierte hauptsächlich im Kosovo und hatte den erklärten Auftrag, das "ethnisch-reinrassige Albanien" zu "schützen". Die SS-Division "Skanderbeg" zog plündernd, vergewaltigend und mordend durch die Wohngebiete der Serben, Juden und Roma im Kosovo und kämpfte gegen jugoslawische Partisanen, während die deutschen Besatzer Juden und Roma in die Konzentrations- und Vernichtungslager deportierten.

Kollaborateure

Wegen der intensiven Kollaboration der kosovo-albanischen Bevölkerung mit den Deutschen war es für Widerstandskämpfer fast unmöglich, im Kosovo Fuß zu fassen. Selbst als Ende 1944 die Partisanen die Wehrmacht in die Flucht getrieben und Albanien befreit hatten, blieb das Kosovo noch im deutschen Einflussbereich. Während die von Enver Hoxha geführten Partisanen im November 1944 Tirana eroberten, stützten die Deutschen eine antikommunistische Regierung im Kosovo unter Führung des langjährigen Kollaborateurs Xhafer Deva mit der Lieferung großer Mengen an Waffen, Munition und Lebensmitteln. Der Widerstand der Deva-Truppen gegen Titos Partisanen dauerte von November 1944 bis Mai 1945 und konnte erst durch den Einsatz von dreißigtausend Partisanen zerschlagen werden.



[1] "Einen Kompromiss mit Serbien erwarten wir nicht"; Frankfurter Allgemeine Zeitung 19.11.2007
[2] Russija nece dati Kosova; www.pressonline.co.yu 11.11.2007
[3] Bosnien-Herzegowina vor Zerfall?; St. Galler Tagblatt 31.10.2007
[4] Die Lunte brennt. Vor dem Ende der Kosovo-Verhandlungen am 10. Dezember wachsen die Spannungen auch im benachbarten Mazedonien; junge Welt 16.11.2007
[5] Matthias Küntzel: Der Weg in den Krieg. Deutschland, die NATO und das Kosovo, Berlin 2000


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Mit kreativen Tricks 

05.11.2007


BERLIN/BELGRAD/PRISTINA (Eigener Bericht) - Noch vor der heute beginnenden Verhandlungsrunde über die Zukunft des Kosovo drohen Berlin und Brüssel mit der Anerkennung einer baldigen Sezession. Wie bei der EU verlautet, widersetzen sich nur noch zwei Mitgliedstaaten dem seit Jahren von Berlin geförderten Ansinnen. Internationales Recht, das dem Vorhaben entgegensteht, könne man mit "Tricks" und "kreativen" Interpretationen geltender Rechtssätze aushebeln. Da Jugoslawien, dessen "Souveränität und territoriale Unversehrtheit" die Resolution 1244 des UN-Sicherheitsrates garantiert, nicht mehr existiere, mache die Abspaltung des Kosovo "keinen großen Unterschied mehr". Die Ankündigung erneuter Willkürmaßnahmen gegen Serbien, die wie der Krieg im Frühjahr 1999 trotz russischen Vetos durchgesetzt werden sollen, erinnert an die Ursprünge des Kosovo-Konfliktes im Jahr 1912. Bereits damals suchte Berlin mit allen Mitteln den Einfluss Belgrads und Moskaus in Südosteuropa einzuschränken. Paris und London gaben den deutschen Erpressungen nach, um Schlimmeres zu verhindern - vergeblich: Der Konflikt spitzte sich weiter zu.

Wie BRD und DDR

Bereits vor den aktuellen westlichen Drohungen haben serbische Politiker die Verhandlungspläne des deutschen Diplomaten Wolfgang Ischinger scharf kritisiert. Ischinger vertritt Brüssel im Rahmen der sogenannten Kosovo-Troika, der die EU, die USA und Russland angehören; er plädiert für eine Gestaltung des serbisch-kosovarischen Verhältnisses nach dem Modell der Beziehungen zwischen der BRD und der DDR.[1] Der serbische Außenminister Vuk Jeremic sprach schon vor mehreren Tagen von einem besonders schwierigen Verhandlungsauftakt. Der serbische Kosovo-Minister Slobodan Samardzic warnte davor, das Gesprächsthema von der Erörterung der Statusfrage zur Erörterung künftiger Beziehungen zwischen dem Kosovo und Serbien zu verschieben.[2] Belgrad weist dieses Ansinnen strikt zurück und fordert als Ausgangspunkt der Verhandlungen, dass beide Seiten auf einseitige Akte - etwa eine Sezessionserklärung - verzichten.

Präzedenzfall

Der Zeitplan für die letzten Gesprächsrunden ist klar terminiert. Auf das heutige Treffen in Wien soll am 20. November eine weitere Verhandlungssitzung in Brüssel fogen. Wenn auch dort keine Lösung erzielt wird, soll am 27. November eine mehrtägige Konferenz beginnen. Der Vertreter der EU in der Troika, der deutsche Botschafter in London und Kosovo-Beauftragte Wolfgang Ischinger, verlangt einen Abschluss der Verhandlungen zum 10. Dezember. Das Parlament in Pristina hat angekündigt, an diesem Tag einseitig die Unabhängigkeit zu erklären. Die USA haben dafür bereits ihre Unterstützung zugesagt. Angestrebt werde demnach eine streng kontrollierte Sezession, in deren Rahmen die im Kosovo verbleibende Mission von EU und NATO ermächtigt bleibe, Entscheidungen zu treffen. Die serbische Regierung warnt nach wie vor, ein solcher Schritt verstoße gegen das Völkerrecht, schaffe einen gefährlichen Präzedenzfall und stelle die Stabilität der gesamten Region in Frage.

Unklar

Medienberichte bestätigen nun, dass in Berlin die Entscheidung gefallen ist, einer Sezession des Kosovo unter westlicher Kontrolle zuzustimmen.[3] Demnach erklären sich inzwischen 25 der 27 EU-Staaten mit dieser Lösung einverstanden.[4] Auch Spanien und die Slowakei sind inzwischen dazu bereit, obwohl sie eine Zunahme separatistischer Aktivitäten im eigenen Land befürchten und auf lange Sicht um ihre eigene territoriale Integrität bangen müssen. Nur Griechenland und Zypern setzen sich noch zur Wehr [5]; ihr Widerstand gilt in Berlin jedoch als überwindbar. Unklar ist, wie Moskau auf die Abspaltung reagieren wird. Der Kreml unterstützt bislang seinen traditionellen serbischen Verbündeten - trotz des scharfen Gegensatzes zu Berlin, der in Südosteuropa eine lange Tradition aufweist.

Eigenständig

Bereits der Ursprung des Kosovo-Konflikts ist auf das Bemühen Berlins zurückzuführen, den deutschen Einfluss in Südosteuropa auf Kosten Moskaus auszuweiten. Am 13. März 1912 hatten Serbien und Bulgarien unter Mitwirkung Russlands einen "Balkanbund" gegründet, dem sich wenig später Griechenland und Montenegro anschlossen. Der Bund richtete sich primär gegen das Osmanische Reich und zielte darauf ab, die osmanische Herrschaft in Südosteuropa zurückzudrängen. Am 17. Oktober 1912 eröffneten die Staaten des Balkanbundes den Krieg gegen Konstantinopel. In wenigen Wochen war die osmanische Armee besiegt. Sie verlor die Kontrolle über Mazedonien, Thrakien, das Kosovo und Albanien. Die Partner des Balkanbundes sahen als Ergebnis des Krieges die Bildung eines größeren bulgarischen Staates und die Ausweitung Serbiens auf das Kosovo und Albanien vor. Damit hätten Belgrad und sein Bündnispartner Moskau erstmals eine Chance auf eine eigenständige Handelspolitik in Europa erhalten.

Deutscher Prinz

Die deutsche Regierung jedoch wollte sich damit unter keinen Umständen abfinden. Reichskanzler Bethmann-Hollweg erklärte am 2. Dezember 1912, das Deutsche Reich fühle sich berechtigt, "an der Neuregelung der Dinge, die die Folge des Krieges sein wird, mitzuwirken, denn an der künftigen Gestaltung der ökonomischen Dinge am Balkan sind wir sehr wesentlich interessiert".[6] Berlin drängte die übrigen europäischen Großmächte, eine Konferenz zur Grenzziehung in Südosteuropa einzuberufen, die im Dezember 1912 in London tatsächlich stattfand. Großbritannien und Frankreich ging es vor allem darum, einen Krieg Deutschlands und Österreichs gegen Serbien und Russland zu verhindern. Aufgrund des Berliner und Wiener Druckes wurde auf der Londoner Konferenz die Gründung des Staates Albanien beschlossen. Damit war ein serbischer Adriahafen verhindert worden. Zum ersten Herrscher Albaniens wurde der deutsche Prinz von Wied eingesetzt. Die Londoner Konferenz gestand Serbien lediglich das Kosovo zu, um Belgrad und Moskau nicht gänzlich zu verprellen.

Weltkrieg

Der Keim des heutigen Konfliktes war damit gelegt. Doch auch so ließ sich der deutsch-öst

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Minsk,  IX međunarodni sastanak komunističkih partija 

Komunisti sveta protiv nezavisnosti Kosova


(sull'incontro di Minsk in occasione del 90. anniversario dell'Ottobre si veda anche:

Minsk: Il P.C. portoghese all'Incontro Internazionale: 

Minsk: Intervista a Tatjana Golubiova - P.C. della Bielorussia (KPB)

Minsk: Incontro dei Partiti Comunisti e Operai di (foto e video)


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http://komunisti.50webs.com/skoj17.html

Minsk,  IX međunarodni sastanak komunističkih partija posvećen 90-to godišnjici Velike oktobarske socijalističke revolucije

Komunisti sveta protiv nezavisnosti Kosova

 

Na 9 međunarodnom sastanku komunističkih i radničkih partija sveta, koji će se održati od 3-5.novembra u Minsku, Belorusija, i biti posvećen obeležavanju 90 godišnjice Velike Oktobarske Socijalističke Revolucije, delegacija Nove komunističke partije Jugoslavije (NKPJ)  u kojoj će biti i predstavnici Saveza komunističke omladine Jugoslavije (SKOJ), na čelu sa generalnim sekretarom Brankom Kitanovićem, predložiće tekst zajedničke rezolucije protiv drskih pokušaja imperijalista Sjedinjenih Američkih Država i Evropske unije da iz sastava Srbije izdvoje Kosovo, na taj način što bi te države priznale Ģnezavisnostģ Kosova koju će, kao najavljuje, jednostrano proglasiti marionetski proimperijalistički režim u Prištini. S obzirom da je stav međunarodnog komunističkog pokreta da je Kosovo okupaciona zona NATO pakta i da su ranije, na sedmom i osmom međunarodnom sastanku komunističkih i radničkih partija sveta u Atini i Lisabonu, donesene rezolucije protiv nasilnog menjanja granica u Evropi i stvaranja novih kvazi država pod okupacijom i protektoratom imperijalizma SAD i EU, informacije kojima NKPJ raspolaže u ovom trenutku govore da će u Minsku biti usvojena i ova treća rezolucija protiv nezavisnosti Kosova i o nepovredivosti teritorijalnog integriteta i suvereniteta Srbije. NKPJ će zatražiti od komunističkih i radničkih partija zastupljenih u Evropskom parlamentu ( a to su KP Francuske, Italije,Španije, Portugala, Grčke, Češke i Kipra ) da i u tom parlamentarnom telu istupe protiv nezavisnosti Kosova i zatraže donošenje rezolucije kojim bi se osudilo eventualno jednostrano proglašavanje nezavisnosti od strane marionetskog proimperijalističkog režima u Prištini.

Sekretarijat SKOJ-a
31. oktobar 2007. god.


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KONFERENCIJА KOMUNISTIČKIH PАRTIJА SVETА U MINSKU I MOSKVI

 

Povodom proslave 90 - godišnjice Velike oktobarske socijalističke revolucije od 1 - 9. novembra u Minsku i Moskvi 83 komunističke partije sa svih kontinenata održale su konferenciju, uz mnogobrojne manifestacije radnog i svečanog karaktera. Sa prostora bivše SFRJ na konferenciji su učestvovali: Branko Kitanović, Generalni sekretar Nove komunističke partije Jugoslavije, članovi Sekretarijata Branko Ivanović i Roman Mulić, kao i čan Centralnog komiteta Teodor Stanković.

 

U prvom delu Konferencije ičestovao je i Pero Ođžaklijevski iz Makedonije. Branko Kitanović je podneo referat o značaju i poukama Velikog oktovra koji je naišao na izvanredan prijem kod učesnika. Članovi delegacije NKPJ bili su veoma aktivni u diskusijama i u svim manifestacijama koje su pratile jubilarne skupov u Belorusiji i Rusiji. Pozdravni telegram učesnicima uputio je predsednik Belorusije Аleksandar Lukašenko.

 

Sedmog novembra Komunistička partija Ruske Federacije organizovala je višekilometarski marš po centralnim ulicama Moskve, a potom je nekoliko stotina hiljada ljudi učestvovalo na veličanstvenom mitingu ispred spomenika Karla Marksa. Po završetku mitinga, neposredno ispred Crvenog trga, usledio je џinovski vatromet kakav nije viđen od raspada SSSR-a Istog dana mitinzi i marševi organizovai su i u drugim gradovima Rusije. Pre podne 7. novembra Savez veterana Otaџbinskog rata organizovao je paradu na Crvenom trgu. Istog dana sve delegacije komunističkih partija položile su vence u mauzoleju B.I.Lenjina i na spomenik J.V.Staljina.

 

Tokom čitave minifestacije vezane za 90-godišnjicu Velikog oktobra učesnici sa svih kontinenata istakli su da su ideje i pouke Oktobarske revolucije sa protekom vremena sve aktuelnije i da one žive u srcima, mislima i delima stotine miliona ljudi u socijalističkim državama , u Latinskoj Аmerici, u komunističkim i drugim progresivnim partijama. One su neodvojive od besmrtnog dela Marksa, Engelsa, Lenjina, Staljina i drugih velikana naučnog socijalizma.

 

Na konferenciji je naglašeno da se idejno i akciono jedinstvo komunista sveta može graditi isključivo na bazi marksizma-lenjinizma i da se ne sme dozvoliti nikakvo zagađivanje komunističke ideologije raznim socijalidemokratskim, anarhističkim, trockističkim i drugim reformističkim penetracijama u teoriji i praksi kompartija. Zaključeno je da treba jačati sveukupnu koordinaciju između komunističkih partija, zasnovanom na proleterskom internacionalizmu. U tom smislu, neophodna je što veća saradnja međunarodnom časopisu Solinet (koji izdaje KP Grčke), preko interneta i u međunarodnom časopisu "Marksizam i savremenost", koji se štampa takođe na više jezika u Ukrajini. NKPJ je formacijski članica Solidneta, a Branko Kitanović je član redakcije časopisa "Marksizam i savremenost". Moraju se čvršće koordinirati i druge akcije Međunarodnog komunističkog pokreta.

 

Naredna konferencija komunističkih partija sveta održaće se u Brazilu 2008.g. U međuvremenu organizovaće se susreti kompartija planete u Moskvi, Kijevu, Аtini, Havani, Karakasu, Kalkuti, Pragu, Briselu i u drugim regionima sveta. Konferencija kompartija Balkana biće održana 2008.g. u Solunu, a potom u Beogradu. Na konferenciji u Moskvi usvojene su rezolucije o podršci Kubi (protiv blokade i permanentnog pritiska SАD), oslobodilačkoj borbi naroda Iraka, Аvganistana i Palestine, protiv izgradnje raketnog štita SАD u Poljskoj i Češkoj, o podršci Venecuele i DNR Koreji. U rezoluciji o Kosmetu, koju je podnela NKPJ, stoji da se ne sme dozvoliti stvaranje nezavisne druge albanske države na teritoriji Srbije.

 

Osmog novembra Branko Kitanović je održao predavanje u Institutu za filozofiju Ruske akademije nauka o situaciji u Srbiji i na celom postjugoslovenskom prostoru. Istakao je da je Nova komunistička partija, kao jedina marksističko-lenjinistička partija na prostoru bivše SFRJ izložena žestokoj informativnoj blokadi i da je raznim proceduralnim trikovima i nedemokratskom izbornom zakonu sprečena da od 2000-te godine učestvuje na parlamentarnim izborima u Srbiji. Naime, po navedenom zakonu, Partija treba da prezentira Izbornoj komisiji 10 hiljada u praksi 11000 potpisa predlagača. Potpisi se sa svim podacima daju na sudu, odnosno predlagači time izjavljuju da će glasati za komuniste. Time je prekršeno demokratsko načelo o tajnosti glasanja. Drugo, uz potpis se daju svi podaci iz lične karte, što zaposleni u državnim ustanovama, prosveti i kod privatnika može stvoriti niz problema. Treće, blizu 40 odsto građana Srbije živi u mestima gde nema sudova, čime je njihovo pravo da predlažu kandidate za poslanike faktički ukinuto. Četvrto, potpise prati plaćanje takse. I peto, u zakonu ne stoji da je sud obavezan da Partiji stavi na raspolaganje službenika za overu potpisa tokom celog predizbornog procesa. Pa u praksi ispada da sudovi "nemaju" službenika za overu potpisa za NKPJ. Sem toga, NKPJ je podvrgnuta ingormativnoj i drugim blokadama i pritiscima.

 

Petog dana Konferencije komunističkih partija sveta delegacija Mađarske komunističke radničke partije, na čelu sa Đulom Tirmerom, vratila se u Budimpeštu, jer je 6. novembra održano suđenje celom rukovodstvu Mađarske partije zbog navodih "zločina u vremenu komunizma". I celo rukovodstvo je osuđeno na po dve godine zatvora uslovno. Ovaj brutalan neofašistički potez mađarske vladajuće vrhuške uzazvao je gnev i revolt svih učesnika konferencije. Odlučeno je da se odmah krene u kampanju za ukidanje ove inkvizicijske presude. Predstavnici kompartija Poljske, Slovačke, Češke, Bugarske, Mađarske, Rumunije i NKPJ dogovorili su se, posle razgovora sa venecuelanskim komunistima, da krajem ove ili početkom naredne godine posete Venecuelu.

 

Svi članovi delegacije NKPJ odlikovai su beloruskim i ruskim odrednima Oktobarske revolucije. Radi se o kopijama pozlaćenih ordena Oktobarske revolucije koji su dodeljivani u vreme postojanja Sovjetskog saveza.

 

Delegacija NKPJ razgovarala je sa rukovodstvom Komunističke partije Ruske Federacije o lično sa drugom Genadijem Zjuganovom o predstojećim parlamentarnim i predsedničkim izborima u Rusiji. Obavešteni smo da, i pored žestokih pritisaka i diskriminacija kojima su podvrgnuti, ruski komunisti očekuju veoma značajan uspeg na narednim izborima.

 

10.11.2007.g.
ZА NKPJ BEOGRАD
Branimir Ivanović
Operativni sekretar