Informazione

RADIO SKANDERBEG


È bene ogni tanto dare un'occhiata al sito di Radio Radicale... tanto
per sapere quali nuove destabilizzazioni bollono in pentola. Infatti,
la loro posizione ufficiale e le loro priorità coincidono
perfettamente con quelle del Dipartimento di Stato USA.

Sulle questioni della Grande Albania hanno una trasmissione ed una
pagina dedicata:

http://fainotizia.radioradicale.it/user/nura-artur

Tra le altre cose si legge:

"Veton Surroi, presidente del Partito ORA in Kosovo e membro del
gruppo dei negoziatori kosovari albanesi, mentre si è incontrato con
il capo dell’ufficio tedesco a Prishtina, Karl Albrecht Vokalek, ha
dichiarato che alla fine del processo dei negoziati sul Kosovo,
l’Unione Europea ha bisogno della leadership tedesca, perché, secondo
Surroi, alla fine questo caso sara fondamentale per l’integrazione
storica europea nella unione dei popoli liberi"

Sembra scritto nel 1943... ed invece siamo nel 2007.

(Segnalato da Luca S.)


Protest march in Ljubljana – capital city of Slovenija ex republic of former Jugoslavija!

70000 protestors took the streets of Slovenijan capital Ljuljana on 17th.November 2007. 
Trade unions, pensioners and students, left wing  activists, anti war movements and comunists groups walked together and demanded higher salaries for workers. The average salary is about 1200 Euros per month in Slovenija but 75% of workers did not earn this sum of money. 80000 workers are working for miserable minimum salary which is only 350 – 400 Euro per month. Slovenija has the highest inflation rate in EU - 5,2% - and it is caused by the Euro as new currency. The protest was organized by SSS - Svobodni Sindikati Slovenije (Free Unions of Slovenija). There are about 20% of 2 million inhabitants of Slovenija that live in poverty. Food prices and electricity  went skyhigh for 25 – 30 % in year 2007 in Slovenija.

A picture of the demonstration: 
Demonstrators also protested against the right wing neo-fascist PM of Slovenija, Janez Jansa, one of war mongers and profiteers of Jugoslav wars back in 1991! PM Jansa was one of the organizers of weapons' smuggling in Croatia and Bosnia in 1991-1994, he had charge of Defense minister in government in this years. His bunch of war profiteers broke the international law and UN weapons' embargo in the area of former Jugoslavija.

Death to fascism – freedom to the people! Fight for solidarity and social state! Socialism not capitalism! 

Revolutionary bureau for public information Slovenija / Slovenija communist commitee.
Rudolf Baloh




Annamaria Rivera*

Razzisti in doppiopetto: dov’è la differenza dai colleghi di destra?

“Liberazione”, 16 nov. 2007, p. 5
 
L’avevo definito razzismo “democratico” o “rispettabile”, quel razzismo subdolo e ipocrita che sorge dalle viscere dell’area un tempo detta di sinistra. Mi sembrava che fosse utile collocarlo in una categoria specifica, non priva d’ironia, per distinguerlo sia dal razzismo istituzionale (che ne è una delle componenti), sia dal razzismo dichiarato e disinibito, se non esibizionista, che caratterizza settori della destra, estrema e non. Oggi che si dispiegano gli effetti della campagna inaugurata dai sindaci “democratici” con il Patto per la sicurezza, devo ricredermi: dal punto di vista fenomenologico, il ciclo del razzismo avviato dagli apprendisti stregoni democratici ben poco si differenzia dalle classiche campagne razziste, se non per l’irresponsabilità con la quale si è scoperchiato il vaso di Pandora facendone uscire mostri incontrollabili. Ciò che si va squadernando sotto i nostri occhi è un fenomeno vetusto, descritto dagli storici ripetute volte: un’isteria collettiva, alimentata dal potere e dalle agenzie comunicative al suo servizio, che finisce per sfuggire al loro stesso controllo e per incanalarsi nella direzione della caccia alle streghe o del pogrom.
Anche sul versante delle retoriche cui fa ricorso, il razzismo rispettabile poco s’allontana dal razzismo tout court, se non per contorsioni verbali e sfumature d’accento dovute a qualche pretesa finezza intellettuale. Un certo ministro, davvero persuaso d’essere sottile, ha dichiarato che le misure sicuritarie servono proprio a bloccare il dilagare dell’intolleranza fra la gente comune. Insomma, secondo il principio dell’omeopatia, per prevenire il razzismo ordinario conviene somministrare qualche buona dose di razzismo istituzionale.
Ancora più sottili si credono i tanti soloni democratici che, non potendo esibire dati statistici, discettano di “insicurezza percepita”: un’altra insopportabile litania, che nasconde la convinzione che la plebe sia naturalmente portata ad attribuire a qualche capro espiatorio le ragioni del proprio disagio sociale. Ne discende l’idea, classicamente populista per non dir peggio, per la quale al grido di dolore che si leva dalla plebe in cerca di capri espiatori si debba rispondere con la punizione o l’allontanamento del capro espiatorio
Ho abitato per molti anni in una città del Sud che aveva guadagnato il titolo di capitale dello scippo: la microcriminalità era parte della vita sociale quotidiana, il borseggio e lo scippo erano incidenti considerati banali dalla maggioranza della popolazione, l’eventualità d’essere depredata del magro salario mentre salivi sull’autobus o andavi al mercato era realisticamente contemplata e talvolta si realizzava. L’insicurezza era dunque un dato reale, non solo percepito, e la qualità della vita collettiva ne era condizionata. Ma né a me né ad altri è mai passato per la mente di additare capri espiatori, di reclamare una legge d’emergenza contro i giovani sottoproletari di quella città, squisitamente “autoctoni”, di auspicare la distruzione del CEP, il quartiere a più alta densità di microcriminalità giovanile.
Voglio dire che oggi sembrano ormai dimenticati i principi elementari che distinguevano non dico la sinistra ma qualsiasi cultura liberale: per esempio,  che il sociale si spiega col sociale, non con la criminologia o con qualche rabberciata teoria razzialista; che mali, iniquità e contraddizioni sociali si affrontano e si risolvono con politiche sociali, non con la sospensione delle garanzie democratiche, con speciali misure repressive, con deportazioni di massa. Ormai morto per i più sembra essere perfino il principio basilare per cui, se è vero che il sociale si spiega con il sociale, nondimeno ciascuno, in ultima istanza, è responsabile, personalmente, dei propri discorsi e delle proprie azioni. E’ innegabile: per una molteplicità di fattori materiali e culturali, oggi i ceti popolari si sentono abbandonati, ingannati, insicuri, e ne hanno ben ragione. Altrettanto innegabile è che nel nostro paese –come altrove, del resto- v’è un progressivo scadimento della qualità della vita collettiva, che in parte è il riflesso dello scadimento della vita politica. Ma il salto fra un vissuto d’insicurezza e di anomia sociali nonché d’incertezza del futuro e la xenofobia detta e praticata non è ineluttabile. Chi lo sostiene fa del positivismo d’accatto e mostra, appunto, d’aver gettato alle ortiche, insieme a tutti gli altri, anche il principio della responsabilità personale.
Di questo principio fa strame il decreto sicurezza, che reintroduce il criterio barbarico della colpa e della punizione collettive, che sospende le garanzie democratiche per una specifica categoria di persone connotata etnicamente, se non razzialmente, che, prima ancora d’essere approvato, incita, almeno simbolicamente, alla vendetta istituzionale e popolare contro quella categoria, con la distruzione perfino degli insediamenti rom autorizzati e attrezzati a spese dei Comuni (i cittadini non avrebbero forse ragione di protestare per l’ingiustificata distruzione di beni pubblici che essi stessi hanno contribuito a sovvenzionare?).              
Ciò che colpisce è che pochi (questo giornale è una delle rare eccezioni positive) osino dire che il re è nudo: cioè che, se oggi in certi settori popolari serpeggiano odio, disprezzo e aggressività verso i “diversi”, non è per qualche legge naturale ma perché lorsignori non solo non hanno fatto niente per attenuare le concrete ragioni sociali dell’insicurezza, ma hanno sollecitato, eccitato e legittimato quei sentimenti con una ben orchestrata campagna; che, se tali pulsioni si esprimono in discorsi ed atti razzisti, di essi sono responsabili personalmente coloro che li pronunciano o li compiono, che siano signori o plebei; che, infine, discorsi ed atti razzisti sono da sanzionare anche con gli strumenti che la legge mette a disposizione. Avete sentito qualcuno, in questo infausto periodo, invocare una severa applicazione delle leggi per coloro che istigano all’odio razziale? A tal proposito e per inciso, conviene ricordare che ben dieci mesi fa il consiglio dei ministri ha approvato il ddl che reintroduce le norme della legge Mancino depenalizzate nella precedente legislatura: non è pochino chiedere un semplice atto dovuto in cambio del consenso ad un decreto che si configura come una legge d’eccezione? Chiunque abbia cultura democratica non dovrebbe rifiutare una misura legislativa speciale, qualunque sia il suo contenuto, che è stata concepita sull’onda di una campagna razzista?   
In un tempo lontano August Bebel definì “socialismo degli imbecilli” il fenomeno della presenza di pregiudizi antiebraici nelle organizzazioni socialiste e democratiche. Come possiamo definire l’attitudine odierna di quei democratici che cinicamente lanciano o aderiscono a campagne sicuritarie ed eterofobiche (non volendo dire “razziste”) per mediocri ragioni di bottega e di consenso, per quel mimetismo autolesionistico che li spinge a scimmiottare goffamente gli avversari? Lorsignori si offenderebbero se li definissimo socialisti, quindi non ci resta che l’aggettivo “imbecilli”. Sì, giocare col fuoco del razzismo è da perfetti imbecilli, non solo perché questo gioco la destra sa condurlo meglio di loro, non solo perché le pulsioni più oscure, che essi hanno sollecitato e incoraggiato, già stanno diventando pogrom, ma anche perché quelle pulsioni, ben lontane dal tramutarsi in consenso in loro favore, prima o poi gli si rivolteranno contro.
Almeno dalla metà dell’Ottocento, le campagne razziste muovono, in modo esplicito o implicito, dalla paura della decadenza, dall’ossessione della degenerazione, biologica o sociale. L’elaborazione di dottrine e ideologie razziste, conviene ricordare, non è appannaggio esclusivo del pensiero reazionario: v’è un filone interno alle correnti di riforma sociale che è interno alla stessa storia del razzismo. Basterebbe ricordare due figure centrali nella storia delle teorie razzialiste: Cesare Lombroso, socialista animato dall’intento della redenzione delle “classi pericolose”, e George Vacher de Lapouge, uno dei grandi teorici del razzismo scientista e dell’eugenismo, il quale si dichiarava socialista, ateo e libertario. L’ansia di purificarsi dal disordine, l’utopia di città, società, umanità perfettamente ordinate, razionali, libere da difetti fisici e da patologie sociali è trascesa facilmente nel progetto di annientare i soggetti sociali deboli, indocili, anomali, che con la loro stessa esistenza testimoniano del disordine. Oggi quest’ansia s’incarna in governanti e politici, gazzettieri e imbonitori televisivi che condividono un mediocre senso comune conformista, perbenista e repressivo: piccoloborghese, si potrebbe dire, se non fosse che tanti piccoloborghesi sono ben più umani e capaci di razionalità politica. L’ossessione paranoide dell’ordine e della sicurezza, della bonifica sociale e della reductio ad unum non ha mai annunciato alcunché di buono.

 

*Antropologa dell’Università di Bari, autrice de: La guerra dei simboli, Dedalo, Bari 2005; Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia. DeriveApprodi, Roma 2003; coautrice de L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001.



Balkanalysis.com
November 18, 2007

Kosovo auf Deutsch

By David Binder*


Forget about status negotiations for a moment. The
near-term outlook for Kosovo is unalterably grim: an
economy stuck in misery; a bursting population of
young people with “criminality as the sole career
choice;” an insupportably high birthrate; a society
imbued with corruption and a state dominated by
organized crime figures.

These are the conclusions of “Operationalizing of the
Security Sector Reform in the Western Balkans,” a
124-page investigation by the Institute for European
Policy commissioned by the German Bundeswehr and
issued last January.

This month the text turned up on a weblog. It is
labeled “solely for internal use.”

Provided one can plow through the appallingly dense
Amtsdeutsch - “German officialese” - that is already
evident in the ponderous title, a reader is rewarded
with sharp insights about Kosovo.

Occasionally a flicker of human frustration with the
intractability of Kosovo’s people appears in the
stolid German text. That reminded me of an encounter
44 years ago in the fly-specked cafeteria of
Pristina’s Kosovski Bozur Hotel, occupied by a lone
guest drinking a beer. He introduced himself as an
engineer from Germany.

What was he doing here?” I inquired. “Ich verbloede,”
he replied - “I am stupefying myself.” - (or, I am
making myself stupid).

In this text, the authors make clear that Germany’s
interest in Kosovo rests on its “geographic proximity”
and its roles as the most important supplier of troops
and provider of money for the province.

Failure would mean “incalculable risks for future
foreign and security policy” of the Federal Republic.
The authors point out a “grotesque denial of reality
by the international community” about Kosovo, coupling
that with the warning of “a new wave of unrest that
could greatly exceed the level of escalation seen up
to now.”

The institute authors, Mathias Jopp and Sammi Sandawi,
spent six months interviewing 70 experts and mining
current literature on Kosovo in preparing the study.

In their analysis the political unrest and guerrilla
fighting of the 1990s led to basic changes which they
call a “turnabout in Kosovo-Albanian social
structures.” The result is a “civil war society in
which those inclined to violence, ill-educated and
easily influenced people could make huge social leaps
in a rapidly constructed soldateska.”

“It is a Mafia society” based on “capture of the
state” by criminal elements. (”State capture” is a
term coined in 2000 by a group of World Bank analysts
to describe countries where government structures have
been seized by corrupt financial oligarchies. This
study applied the term to Montenegro’s Milo
Djukanovic, by way of his cigarette smuggling and to
Slovenia, with the arms smuggling conducted by Janez
Jansa). In Kosovo, it says, “There is a need for
thorough change of the elite.”

In the authors’ definition, Kosovan organized crime
“consists of multimillion-Euro organizations with
guerrilla experience and espionage expertise.” They
quote a German intelligence service report of “closest
ties between leading political decision makers and the
dominant criminal class” and name Ramush Haradinaj,
Hashim Thaci and Xhavit Haliti as compromised leaders
who are “internally protected by parliamentary
immunity and abroad by international law.”

They scornfully quote the UNMIK chief from 2004-2006,
Soeren Jessen Petersen, calling Haradinaj “a close and
personal friend.” UNMIK, they add “is in many respects
an element of the local problem scene.”

They cite its failure to improve Kosovo’s energy
supply, and “notable cases of corruption that have led
to alienation from Kosovo public and to a hostile
picture of a colonialist administration.” They
describe both UNMIK and KFOR as infiltrated by agents
of organized crime who forewarn their ringleaders of
any impending raids. “The majority of criminal
incidents do not become public because of fear of
reprisals.

Among the negative findings listed are:

The justice system’s 40,000 uncompleted criminal
cases;

The paucity of corruption-crime investigations (10-15
annually);

The province’s 400 gas stations (where 150 would
suffice), many of which serve as fronts for brothels
and money-changing depots;

A Kosovo Police Service “dominated by fear, corruption
and incompetence”;

The study sharply criticizes the United States for
“abetting the escape of criminals” in Kosovo as well
as “preventing European investigators from working.”
This has made Americans “vulnerable to blackmail.”

It notes “secret CIA detention centers” at Camp
Bondsteel and assails American military training for
Kosovo (Albanian) police by Dyncorp, authorized by the
Pentagon.

In an aside, it quotes one unidentified official as
saying of the American who is deputy chief of UNMIK,
“The main task of Steve Schook is to get drunk once a
week with Ramush Haradinaj.”

Concerning the crime scene the authors conclude that
“with resolution of the status issue and the
successive withdrawal of international forces the
criminal figures will come closer than ever to their
goal of total control of Kosovo.”

Among the dismal findings of the German study are
those on the economy:

Sinking remission of money from Kosovans working
abroad, a primary source of income for many Kosovo
families, pegged now at 560 million euros per annum;

Some 88 percent of the land now in private ownership,
meaning ever more sub dividing of plots, usually among
brothers, leading to less and less efficient
agriculture;

Proliferation of NGOs - now numbering 2,400 – the
great bulk of which exist for shady purposes;

A hostile climate for foreign investors, frightened by
political instability and the power of mafia
structures.

A central issue in Kosovo is an “inexhaustible supply
of young people without a future and therefore ready
for violence,” the study says. The only remedy for
dealing with this “youth bulge” is to open northern
Europe’s gates to young Kosovans seeking jobs, the
authors say.

In anticipation of a transfer of oversight from the UN
to the European Union, the authors warn: “the EU is in
danger of following too strongly in the wake of a
failed UN and to disintegrate under the inherited
burden unless they make an open break with practices
and methods of UNMIK.” One of the experts they
interviewed put it more bluntly: “the EU is inheriting
from UNMIK a fireworks store filled with pyromaniacs.”

In the estimate of the authors neither NATO nor the EU
or UN appear capable of self examination, much less
self-criticism. The authors draw a picture of
self-satisfied incompetents in all international
organizations dealing with Kosovo.

However, in their depiction, Kosovans appear equally
beholden to legend - in their case of historic
exploitation - such that if they finally achieve
independence, all will suddenly be well. In the past
Kosovans could and did always blame somebody else for
their troubles: Ottomans, Yugoslavs, Serbs.

Now they have begun to blame UNMIK. But what will
happen if they have only themselves to blame?



*David Binder (born 1931) was a correspondent for The
New York Times from 1961 until 2004. He specialized in
coverage of central and eastern Europe, based in
Berlin, Belgrade and Bonn. The current piece was
published in Belgrade’s Politika on July 16, 2007.

http://www.balkanalysis.com/2007/11/18/kosovo-auf-deutsch/