Informazione
In morte dell’ex presidente USA George Herbert Walker Bush (1924-2018), si stanno già sprecando i commenti giornalistici e istituzionali che ne esaltano la figura. Preparatevi a una scorpacciata di buone parole e santificazioni postume. Molti commentatori che quando parlano di Putin aggiungono sempre in automatico, quasi fosse un secondo cognome, la formula «ex-spia-del-Kgb», trascureranno, altrettanto in automatico, un dettaglio biografico che riguarda Bush, l’essere stato direttore della Cia.
Poiché nei fatti quella dei Bush è una dinastia, come per tutte le dinastie ci si deve muovere dai patriarchi, a partire dal nonno del defunto, ossia Samuel Prescott Bush, tra il 1914 e il 1918 un fedelissimo di Percy A. Rockfeller (padrone della City Bank e della Remington Arms Co.), amministratore della War Industries Board (industria a produzione militare che si espanse moltissimo grazie alla prima guerra mondiale), socio del magnate della finanza Bernard Baruch e del ‘banchiere nero’ Clarence Dillon , habitué dei circoli esclusivi dell’alta finanza che originarono il CFR (Council of Foreign Relations).
Si deve poi passare a suo figlio (e padre del defunto), Prescott Sheldon Bush, amministratore e socio della Union Banking Corporation (UBC) [Ben Aris, Duncan Campbell, “How Bush’s grandfather helped Hitler’s rise to power,” «The Guardian», 25 settembre 2004. http://www.guardian.co.uk/usa/story/0,12271,1312540,00.html.] Il suo partner più importante in Germania era l’industriale nazista Fritz Thyssen: la banca fu fondata per finanziare la riorganizzazione dell’industria tedesca. Investiva ad esempio nell’Overby Development Company e nella Silesian-American Corporation (diretta dallo stesso Bush), da cui l’industria bellica di Hitler si approvvigionava di carbone anche dopo l’entrata in guerra degli USA. Investiva inoltre nella compagnia di navigazione Hamburg-Amerika Line (poi denominata Hapag-Lloyd dopo la fusione con un’altra società), le cui navi, negli anni trenta, fornivano le milizie naziste di armi provenienti dagli Stati Uniti. L’attivismo del senatore Prescott Sh. Bush fu premiato: venne insignito dal regime nazista dell’‘Aquila tedesca’. Il certificato di attribuzione di questa onorificenza in data 7 marzo 1938 fu firmato da Adolf Hitler e dal segretario di Stato Otto Meissner, come risulta dagli archivi del Dipartimento della Giustizia statunitense. Nel corso del 2001 sono venuti a galla dei documenti impressionanti sui traffici di Prescott Sh. Bush. Queste recenti ricerche dimostrano che quel Bush installò una fabbrica nei pressi di Auschwitz, dove lavorarono, ridotti in schiavitù, i prigionieri dei vicini campi di concentramento [Gli archivi vennero compulsati da John Loftus, presidente del Florida Holocaust Museum. Si veda Toby Rodgers, “Heir to the Holocaust, How the Bush Family Wealth is Linked to the Jewish Holocaust”, in «Clamor Magazine», maggio-giugno 2002.]
La nostra attenzione a questo punto può finalmente spostarsi su George Herbert Walker Bush, vicepresidente nell’amministrazione Reagan (1981-1989) e poi 41° presidente degli Stati Uniti (1989-1993). I suoi vasti interessi in zone oscure della morale politica hanno spaziato dalla copertura di certi traffici di droga a quelli di armi e petrolio, solo a stare alla vicenda Iran-Contra.
Citiamo alcuni passaggi di questa sfolgorante e spregiudicata carriera. Seguendo le orme dei suoi familiari, George debutta molto presto nei circoli anticomunisti dell’alta finanza nordamericana. Oltre ad aver occupato le massime cariche alla Casa Bianca, il suo cursus honorum lo vede fra i coordinatori del fallito sbarco nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961, poi punto di riferimento del narco-dittatore panamense Noriega, infine superconsulente di Carlyle Group , ossia uno dei principali azionisti di molti fornitori delle forze armate americane. Ma fu anche direttore della CIA tra il 1976 e il 1977. Tra il 1981 e il 1986 – da vicepresidente degli Stati Uniti – Bush selezionò decine di figure chiave dell’amministrazione coinvolte in colossali traffici nel mercato internazionale della droga.
Nello stesso periodo, e anche questa è cosa ben nota, furono molto fitti e costanti i rapporti tra la famiglia Bush e quella bin Lāden (tanto che entrambe hanno ricoperto posizioni rilevanti nel Carlyle Group). Khalifa, Bin Mafouz, Salem bin Lāden (fratellastro di Osāma) erano nel consiglio di amministrazione della BCCI quando scorrevano immensi flussi di denaro per l’affare Iran-Contra. Quando, alla fine del 1980, alcuni emissari repubblicani s’incontrarono in segreto a Parigi con i khomeinisti moderati per far rimandare il rilascio degli ostaggi americani a Teheran e sconfiggere così Jimmy Carter alle elezioni, George padre arrivò in tutta fretta al vertice a bordo dell’aereo di Salem bin Lāden. I bin Lāden investirono nel Carlyle Group circa 1,3 miliardi di dollari e James Baker, a capo dello staff di Bush Senior, ha ammesso ufficialmente che Bush ha incontrato i bin Lāden anche nel novembre 1998 e nel gennaio del 2000.
Possiamo dunque cogliere già con pochi cenni che questo pezzo di “patriziato americano” rappresentato dalla dinastia dei Bush si tramanda una grande spregiudicatezza nei rapporti di potere con presunti nemici. Dentro le guerre, dentro i grandi affari dell’industria a produzione militare, dentro le consorterie di petrolieri che brindano all’uccisione dei Kennedy e al trionfo delle petromonarchie.
Sono strutture di potere che durano al di là delle singole persone, al punto che perfino una persona di ridottissime capacità come George W. Bush, figlio di George Herbert Walker Bush, è riuscito poi a diventare anche lui presidente, orgogliosamente dichiaratosi «a president of war» e dunque corresponsabile dei grandi disastri bellici di cui oggi ereditiamo le conseguenze.
Non uniamoci perciò alle canonizzazioni di Bush. Misuriamo semmai la serietà dei giornali dalla capacità di farne il vero ritratto.
Quando Nina scopre di essere serba ha 7 anni e vive in Croazia. La sua vita si trasforma in un incubo
TATJANA ĐORĐEVIĆ
Giornalista freelance e corrispondente dall'Italia per vari media serbi
Diretto dal regista croato Nebojsa Sljepcevic, Srbenka (miglior documentario a Cannes 2018) indaga con una inaudita profondità il modo in cui le minoranze, e in particolare i suoi membri più giovani, vivono il presente e come interpretano il passato. Sullo sfondo, una Croazia che non ha mai chiuso i conti con la guerra.
“Una volta ho chiesto a mia madre: Mamma, sono Srbenka? All’epoca, non sapevo esattamente come si dicesse ‘serba’. Ho iniziato a piangere, perché fino all’età di sette anni pensavo di essere croata”. Inizia cosi la storia di Nina, la protagonista del documentario Srbenka. Il titolo nasce proprio dall’errore di pronuncia della piccola Nina.
Premiato come miglior documentario al Festival di Cannes, il film segue le prove dello spettacolo teatrale “Aleksandra Zec”, diretto dal famoso e controverso regista croato Oliver Frljic, che cerca di esaminare l’omicidio della dodicenne serba Aleksandra (interpretata da Nina), uccisa insieme ai suoi genitori nel dicembre del’91. L’episodio è altamente discusso in Croazia, visto che gli autori di questo crimine ad oggi non sono stati perseguite penalmente. E quando lo spettacolo esordì in scena nel 2014 a Rijeka subì pesanti condanne da parte di media, associazioni, politici e veterani di guerra.
Il regista Nebojša Sljepčević conobbe Nina durante le prove dello spettacolo di Frljic, quando la ragazza casualmente rivelò come avesse scoperto di essere serba. Così nacque l’idea di portare in pellicola Srbenka, un ritratto amaro della società croata contemporanea. Frontiere News ha avuto l’occasione di intervistare Nebojša Sljepčević, che sarà in Italia il 4 novembre per il Festival dei Popoli, a Firenze.
Srbenka descrive le condizioni della minoranza serba in Croazia; quello che emerge sui serbi è applicabile per tutte le minoranze che oggi provano disagio in Europa?
Non è facile generalizzare. Ad ogni modo la crescita dell’intolleranza in Europa è evidente e certamente le minoranze la percepiscono maggiormente. Il documentario Srbenka parla di tutte le minoranze, non solo quelle etniche, ma anche quelle sessuali e politiche.
Il registra Frljic riesamina il passato; lei invece racconta il presente e quindi la situazione attuale della società croata?
Sì, esatto. Non ho pensato neanche un minuto di fare un film che raccontasse il passato, anche se noi che veniamo dai Balcani non possiamo fuggire da quello che c’è stato qui. Anche quando fai un film che racconta il presente, allo stesso tempo parli del passato. Purtroppo il passato influenza le nostre vite e viene usato per manipolare il popolo. Sebbene siano passati venti anni dalla guerra, il ricordo è ancora fresco. In certi ambienti è preferibile che le ferite non guariscano e che i traumi rimangano aperti.
Xenofobia e intolleranza sono parte evidente della società croata. Di chi è la colpa?
Dei politici. Negli ultimi venti anni, in Croazia ha governato l’HDZ (Unione democratica croata), un partito di centrodestra che ha impoverito il Paese e che cerca di nascondere la sua incompetenza facendo emergere nemici fittizi, esterni ed interni. E’ possibile indicare il momento preciso in cui, all’improvviso, l’estremsimo ha iniziato a crescere. E’ successo quando la Croazia è entrata nell’Unione Europea; in quel momento l’HDZ smise di interpretare la parte del partito europeista.
Dall’altra parte, l’SDP (il Partito socialdemocratico di Croazia) non sa dare risposte alla domande importanti. Sempre a causa dell’incompetenza. Ciò apre le porte ai movimenti populisti, che molto spesso usano parole d’odio per mobilitare i propri seguaci. Ma non solo, anche la Chiesa fa la sua parte. Non è molto raro sentire preti che dall’altare diffondono messaggi d’intolleranza oppure riabilitino i criminali di guerra. In Croazia al momento ci sono diversi movimenti conservatori che cercano di ridurre i diritti delle donne e delle minoranze nazionali attraverso il referendum.
Come Nina, altre persone nel documntario raccontano della loro vita nella Croazia del dopoguerra. Da quello che dicono sembra che la guerra non sia mai finita. A chi conviene questa situazione?
A molti. La guerra è una grande vetrina per il futuro, come abbiamo visto in Croazia. Parallelamente alla guerra, c’è stata una forte privatizzazione, di cui ancora oggi sentiamo le conseguenze. Stimolare la paura e l’odio è un modo perfetto per sviare l’attenzione dai problemi reali e dai veri colpevoli.
Del resto anche dalla Serbia arrivano messaggi radicali che alimentano le ostilità. L’estremismo si nutre di estremismo. Proprio in questo momento alcuni media stanno cercando di usare il mio film per diffondere odio. A loro la verità non interessa.
Se da un lato il suo documentario ritrae la società croata attuale, dall’altro fa emergere concetti come democrazia, riconcilazione e tolleranza. Pensa che il suo film potrebbe contribuire a migliorare il clima sociale?
Penso che la pace e la tolleranza non sono valori garantiti, per essi è necessario combattere, sempre. Un film non può cambiare il mondo o fare miracoli, ma penso che ogni contributo a questa lotta sia importante.
Srbenka ha vinto il premio Doc Alliance al Festival di Cannes, il premio per il miglior documentario al Sarajevo Film festival, mentre l’Accademia Europea del Cinema l’ha inserito tra i migliori quindici documentari europei del 2018. Si aspettava questo successo?
Ho girato il film pensando solo al pubblico locale. Eppure già dall’anno scorso, quando abbiamo proitettato la versione incompleta del fim al Sarajevo Film Festival, ho capito che mi ero sbagliato. Le reazioni degli spettatori stranieri sono state molto emozionanti. Mi hanno dato varie motivazioni per spiegarmi perché il film era stato gradito. Quella che mi ha colpito di più è quella secondo la quale gli spettatori stranieri nel film riconoscono la stessa situazione nei loro paesi.
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FIUME | I retroscena, l’evolversi dei fatti assieme a tutta la fortissima carica emotiva che hanno portato alla realizzazione del pluripremiato spettacolo “Aleksandra Zec” – progetto d’autore del regista Oliver Frljić, allestito dal Teatro HKD di Zagabria, che debuttò nel 2014 –, sul controverso omicidio di una dodicenne, appunto Aleksandra Zec. È questo il fil rouge del documentario “Srbenka” di Nebojša Slijepčević, trasmesso in prima visione giovedì scorso nell’Art cinema “Croatia” di Fiume, quale primo appuntamento della stagione 2018/2019.
La pellicola inizia con la toccante testimonianza di una ragazza di 18 anni, l’età che avrebbe oggi Aleksandra Zec se fosse ancora viva, la quale descrive in lacrime i diversi maltrattamenti subiti nel corso della propria vita soltanto per il fatto di essere serba e di vivere come tale in Croazia. Sta seduta al buio in mezzo al palco, vestita di nero, e difficilmente tira fuori le parole. La sua devastante testimonianza accompagna la proiezione del film come voce fuori campo. Subito dopo viene descritto il processo d’allestimento dello spettacolo diretto da Frljić.
Un caso terribile
Il lavoro teatrale narra il terribile e vergognoso caso della dodicenne assassinata nel 1992, assieme ai propri genitori, dalla Polizia militare croata e di come gli esecutori, per un errore processuale, si trovino ancora oggi a piede libero, e pertanto del tutto impuniti. Nel raccontarlo, il regista lavora con un gruppo di attrici e attori e con quattro dodicenni, una delle quali – lo spiega nella pellicola – è di nazionalità serba. Ciascun attore del cast racconta nel documentario l’emozione provata nel rapportarsi con la storia della piccola Aleksandra, ed evoca alcuni traumi della sua infanzia legati alla guerra nell’ex Jugoslavia e di che cosa comporti e quanto influisca semplicemente il fatto di essere di nazionalità diversa in seno alla società croata. Da qui il titolo del documentario, “Srbenka”, che vuole essere una storpiatura del termine “serba”, poiché la bambina nel chiedere ai genitori di quale nazionalità fossero, non riusciva a ripeterla correttamente.
Oltre a documentare la messa in scena e le emozioni degli attori, il cortometraggio riporta anche le reazioni di una parte della società croata – quella di estrema destra di stampo xenofobo – con tutta la sua avversione verso la scelta di affrontare la storia di una sola ragazzina serba assassinata, mentre furono circa 400 i bambini morti nella Guerra patriottica in Croazia. A tale proposito, nel documentario di Slijepčević, il regista Oliver Frljić annuncia la sua intenzione di confrontarsi anche con queste terribili vicende, ma non certamente nei Teatri della Croazia, in quanto sostiene che la società croata non abbia bisogno di questo processo catartico e di questo tipo di confronto con il passato. “Di ciò hanno bisogno ben altri”, dice nel film. Quello che il documentario trasmette è lo stato di cose di una società profondamente traumatizzta, che non ha fatto ancora i conti con il passato e dove la percezione della minoranza serba non è del tutto cambiata. È ancora sempre un elemento estraneo che in molti suscita odio e di cui non bisogna fidarsi.
Alla première fiumana, oltre a un nutrito pubblico, erano presenti anche il regista Nebojša Slijepčević assieme alla troupe cinematografica del documentario interamente girato a Fiume. Il regista ha spiegato i meccanismi e le difficoltà incontrate durante la realizzazione del cortometraggio, ma ha parlato pure della sua grande soddisfazione per il successo internazionale avuto dall’opera. “Srbenka” si è imposta l’anno scorso vincendo nella sezione Docu Rough Cut Boutique del Festival cinematografico di Sarajevo. Più recentemente si è aggiudicata il premio Doc Alliance al Film Festival di Cannes, mentre l’Accademia filmica europea l’ha inserita tra i migliori 15 documentari europei del 2018. Tra gli spettatori nel “Croatia”, anche diversi esponenti del mondo culturale fiumano, tra cui gli stessi attori che hanno partecipato alla realizzazione dello spettacolo teatrale..
“Novine” alla seconda stagione
L’Art cinema fiumano prosegue intanto la sua ricca programmazione. Uno dei prossimi appuntamenti è per domani, alle ore 20.30, con la proiezione dei primi due episodi della seconda stagione della fiction “Novine” (“Il Giornale”), di Dalibor Matanić, l’unica serie televisiva croata acquistata dalla Netflix – e disponibile pertanto in oltre 190 Paesi –, prodotta dall’emittente televisiva croata (HRT).
SERBIA, LEADER ULTRANAZIONALISTA CONDANNATO IN APPELLO MA EVITA IL CARCERE (di Andrea Tarquini, 12 aprile 2018)
http://www.repubblica.it/esteri/2018/04/12/news/serbia_leader_ultranazionalista_serbo_condannato_in_appello_ma_evita_il_carcere-193652881/
Abstract: Scholars have long debated the impartiality of the ICTY. Some argue that the Tribunal is biased while others argue that it fairly and impartially seeks justice for all the victims of the war. The present study offers a narrower approach to the question of possible bias by examining whether certain case variables were associated with case outcomes. The results show strong evidence of an association between the ethnicity of the accused (and of the victims) and the verdict and years sentenced, which calls into question the Tribunal’s impartiality. Nonetheless, the main goal of this study was not to question or dispute its decisions but to assess the validity of certain grievances against the Tribunal. For instance, the Serbs feel the Tribunal has not delivered justice for their victims and—as a result—their ‘collective suffering’ has been disavowed by the other communities in the region as well as by the West. Western political elites have largely rejected the validity of the Serbs’ claim and have attributed their belief to a denial by the Serbs of their role in the war. Unfortunately, the contentious nature of this debate has contributed to the lack of peacebuilding and reconciliation efforts in the region.
https://www.cnj.it/home/en/international-law/8923-milano-1-12-2018-g-torre-award-ceremony.html
La PREMIAZIONE dei vincitori si terrà a Milano sabato 1 dicembre p.v., dalle ore 10:30 presso la Galleria Milano, Via Turati 14. Per ragioni organizzative gli interessati a partecipare [ad eccezione dei membri di Jugocoord ed invitati] devono inviare richiesta di iscrizione all'indirizzo jugocoord @ tiscali.it specificando: nome, cognome, telefono di ciascun partecipante. Solo in caso di raggiungimento del massimo della capienza sarà inviata risposta negativa entro 1-2 giorni dalla sottomissione della richiesta.
Programma:
ORE 11:00: Saluti e introduzione del segretario della associazione promotrice Jugocoord Onlus: Andrea Martocchia.
ORE 11:15: Dichiarazione della Giuria del Concorso a cura del membro delegato: Jean Toschi Marazzani Visconti.
ORE 11:30: Premiazioni ed interventi dei vincitori
Stefan Karganović: "ICTY and Srebrenica" [Il TPIY e Srebrenica]
Jovan Milojevich: "When justice fails: Re-raising the Question of Ethnic Bias at the International Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY)” [Quando la giustizia fallisce: riprendendo la questione del pregiudizio etnico al Tribunale penale Internazionale sulla ex Jugoslavia (TPIY)]
ORE 12:00: Proiezione di stralci dal documentario "De Zaak Milosevic" ("Il caso Milosevic", di Jos de Putter / VPRO, Olanda 2003, V.O. sottotitolata).
ORE 12:15: Interventi degli invitati:
Gen. Giorgio Blais, già responsabile di missioni militari all'estero, esperto di Diritto internazionale ed umanitario e protezione dei Beni Culturali
Tiphaine Dickson, già avvocato difensore in casi di crimine internazionale, capo consulente al Tribunale Penale Internazionale sul Ruanda, ex consigliere legale nel processo Milosevic e ora docente alla Scuola di Amministrazione Mark O. Hatfield della Portland State University (Stati Uniti)
Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera, autore di saggi sulle questioni jugoslave tra cui "Imputato Milosevic. Il processo ai vinti e l'etica della guerra"
Slobodan Lazarević, giornalista, presidente del Consiglio Direttivo della Associazione Sloboda–Libertà, Belgrado
ORE 12:45: Discussione e conclusioni.
ORE 13:15: Aperitivo.
I lavori si terranno nelle lingue INGLESE ed ITALIANO
Slobodan Milošević per qualcuno è pericoloso anche da morto
Nel corso del tempo trascorso dal 1993, anno in cui il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia fu istituito, ci sono stati altri decessi in cattività. Sei giorni dopo Babic, morì in cella il grande imputato di questo processo, Slobodan Milosevic. Un infarto, si disse, per giunta alla vigilia della condanna. L’ex presidente serbo aveva più volte avanzato il sospetto che i suoi carcerieri lo stessero avvelenando. Sospetti, non suffragati però da evidenze di alcun tipo. Come, peraltro, di dubbi non sorretti da prove ce ne sono stati più d’uno per le morti improvvise di alcuni dei reduci di quella guerra, rinchiusi nella prigione di Scheveningen. In ogni caso, restando a Milosevic, pur senza voler sminuire le sue colpe, va ricordato che nel 2016, dieci anni dopo la sua scomparsa, il Tribunale penale internazionale ha stabilito che non fu responsabile di crimini di guerra in Bosnia. I giudici dell’Aja lo hanno scritto a chiare lettere nella sentenza di duemila e cinquecento pagine con cui hanno condannato a quarant’anni di carcere il leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic. Anzi, in quella sentenza è stato addirittura dato atto a Milosevic di aver cercato di convincere Karadzic che «la cosa più importante di tutte era mettere fine alla guerra» e che «l’errore più grande dei serbo-bosniaci era di volere la sconfitta totale dei musulmani in Bosnia». Ed è così potuto accadere che (sempre nel 2016) Prokuplje, una cittadina di trentamila abitanti nel Sud della Serbia, annunciasse l’intenzione di costruire un monumento a Milosevic. E che il capo dello Stato, Tomislav Nikolic, un ex leader del dissenso serbo, non ritenesse di dirsi «contrario» mettendo in imbarazzo l’uomo destinato a succedergli, l’allora primo ministro Aleksandar Vucic (il quale, nel merito del giudizio da dare sull’iniziativa di Prokuplje, se l’è cavata dicendosi «combattuto»).
Morale: il pur scrupoloso lavoro dei giudici dell’Aja ha avuto l’effetto di produrre addirittura una iniziale riabilitazione di Milosevic. Senza peraltro dare soddisfazione alle vittime di quella guerra degli anni Novanta. Come dimostra un effetto del già citato «caso Karadzic»: il 24 marzo 2016 la Corte dell’Aja ha condannato Radovan Karadzic — l’uomo che si vantò della «pulizia etnica» — a quarant’anni di carcere per dieci capi di imputazione su undici (quanti ne aveva individuato dall’accusa). Ripetiamo, dieci su undici: Karadzic è stato ritenuto responsabile del massacro di Srebrenica (1995), di altri cinque misfatti contro l’umanità e quattro di guerra. Ma è stato assolto dall’accusa di genocidio in sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sarebbero macchiate di esecuzioni, stupri di massa e avrebbero gestito campi di concentramento con l’intenzione di uccidere quanti più musulmani possibile. I giudici hanno sentenziato che di ciò non esisteva prova certa, ed è bastato questo perché il senso della loro decisione fosse capovolto. Un superstite di quelle stragi, Amir Kulagiv, ha dichiarato: «La condanna appare come un premio per quello che Karadzic ha fatto, non una punizione... Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti». Dopodiché nella Republika Srpska, uno staterello bosniaco controllato dalla Serbia, la casa dello studente di Pale, (cittadina da cui fu lanciato l’assedio a Sarajevo), è stata battezzata con il nome di Karadzic e alla cerimonia di inaugurazione hanno presenziato la moglie del condannato nonché il Presidente Milorad Dodik. Ecco: chi è curioso di sapere come possa accadere che dei criminali di guerra possano, dopo qualche tempo, diventare oggetto di venerazione potrà d’ora in poi studiare con profitto il caso jugoslavo.
Quanto a noi, resta il dilemma che ci perseguita dai processi di Norimberga e Tokio, i quali sanzionarono le colpe di tedeschi e giapponesi alla fine della Seconda guerra mondiale. Si può considerare «giusto» un Tribunale che, al termine di un conflitto (a maggior ragione se si tratta di una guerra civile), scopra e punisca esclusivamente reati commessi dagli sconfitti? Possibile che non si riesca a trovare neanche una macchiolina sull’abito dei vincitori? Siamo proprio sicuri — ad esempio — che i musulmani bosniaci di Alija Izetbegovic non abbiano qualche morto sulla coscienza? E c’è qualcosa da dire anche a proposito di noi europei, delle Nazioni Unite, dell’Occidente nel suo insieme. Il generale serbo Ratko Mladic il 4 giugno del 1995 incontrò il generale francese Bernard Janvier che comandava le forze Onu nella ex Jugoslavia ed era disposto a qualsiasi concessione pur di ottenere la liberazione dei suoi caschi blu, in gran parte francesi, trasformati dai serbi in scudi umani. Mladic, in cambio del loro «rilascio», chiese la fine dei raid aerei della Nato; la ottenne e marciò su Srebrenica da cui il colonnello Thom Karremans, al comando del battaglione di caschi blu olandesi, l’11 luglio si ritirò chiudendo un occhio, anzi tutti e due, su quel che stava per accadere. Risultato una carneficina con un bilancio finale di ottomila morti. Per quella strage, pochi giorni fa, a fine novembre, Mladic è stato, giustamente, condannato all’ergastolo. Ma forse avrebbe dovuto essere sanzionato con un simbolico giorno di prigione anche qualcuno di coloro che consapevolmente gli consentirono di uccidere quelle migliaia di persone. Non tutti. Almeno uno.
Cela ressemble fort à une erreur du protocole. Lors des cérémonies du 11 novembre à Paris, Aleksandar Vučić s’est retrouvé fort mal placé... Un « outrage » selon la Serbie, qui rappelle sa contribution essentielle à la Première Guerre mondiale et les très lourdes pertes alors subies...
понедељак, 05 новембар 2018
Француски председник Емануел Макрон, наравно, има права да позива у госте кога жели. На Србији је да сама оцени да ли је његов позив Председнику Србије израз истинског уважавања, с обзиром на чињенице и околности, или позив - из намере или непажње - садржи и дозу цинизма, лицемерја па чак и понижавања.
Присуство српског Председника на свечаности поводом 100-те годишњице победе у Првом светском рату у Паризу, уз исти третман српске и заставе тзв. „Републике Косово“, српског Председника и назови председника једне криминалне творевине, може се јавности представљати овако или онако, зависно од оријентације политичара или медија. Суштински посматрано, то би било пристајање на понижавање Србије и српске нације, непоштовање преко 1,200.000 српских жртава палих током одбране од агресора и окупатора Србије укључујући Косово и Метохију.
Позивање и истоветан третман Председника Србије и њених вековних државних симбола као и назови председника једне незаконите, криминалне творевине и њених симбола на свечаности поводом 100 година од победе у Великом рату, представља ругање историји. Прихватање позива, у тим условима, и евентуални разговори Председника Србије и представника Приштине, значили би да Председник Србије, у име српског народа, потврђује исправност тезе домаћина да је представнику Приштине место управо међу 80 шефова држава и влада у тој јединственој прилици којом се обележава јубилеј једног од најважнијих догађаја у историји Европе. Да ли то српски народ, заиста, жели и није ли то саучествовање у покушају ревизије историје?
Покушаји релативизације указивањем на то да се застава и представници криминалне творевине појављују и на другим скуповима по Европи усмерени су да скрену пажњу са суштине и крајње неумесни. Политичке акробате европске елите производе масу догађања, али то не умањује изузетан историјски значај обележавања 100-годишњег јубилеја победе у Великом рату какав ових дана предстоји у Паризу. Ако о ичему, такви покушаји говоре о непрекидном снижавању нивоа поштовања јавности, здравог разума као и националног и државног достојанства.
Прихватање разговора о питању будућности Покрајине Косова и Метохије са представником Приштине на маргинама скупа у Паризу, био би додатни знак мирења са понижавањем.
Поставља се питање када је српска дипломатија сазнала да ће српска и застава тзв. «Републике Косово» имати исти третман на свечаностима у Паризу и да ће тамо присуствовати и представник Приштине и шта је тим поводом предузето да Париз преиспита те елементе програма који су Србији неприхватљиви те, ако је то учињено, какав је био одговор званичног Париза?
«Један на један» у тзв.. преговорима у Брислу, уз комесара ЕУ, није исто што «један на један» у Паризу где су шефови универзално признатих држава или влада, односно, чланица УН. Ако састајања и разговори у формату који је једној страни испоручивао концесије без преседана а другој наметао само обавезе, одрицања од сопственог Устава и понижавања уопште имају смисла, онда свакако не може бити оправдања нити логички и морално одрживог објашњења да се они везују за тако узвишену прилику која се дешава само једном у 100 година и чији је основни смисао одавање почасти борцима палим за слободу од агресије и цивилним жртвама.
Повеља УН, резолуција СБ 1244 и Устав су стубови формата преговора који, иако несавршен, једини даје прилику за уравнотежене преговоре и долажење до одрживог решења. Бриселски формат чија је искључива улога заштита геополитичких интереса Запада, односно НАТО-а, непогрешиво води гомилању конфликтног потенцијала, са несагледивим последицама.
Чини се да се креатори концепта обележавања овог великог јубилеја, укључивањем Приштине, њених симбола и представника, нису одмакли од стереотипа 90-тих година прошлог века и само-наметнуте перцепције о вечитој „српској кривици“ због чега и данас верују да Срби, „по дефолту“, морају прихватати сва понижења и све диктате?
Зашто би се изостајање највишег представника Србије са свечаности која садржи елементе најгрубљег вређања националног и државног достојанства карактерисало као пут ка самоизолацији Србије, а не знак јасне мере самопоштовања? Зашто би то уопште била грешка Србије а не знак озбиљне декаденције моралних, политичких и цивилизацијских критеријума, као и одсуства визије домаћина који је чак није узео у обзир да ни 5 чланица ЕУ не признаје самопроглашену творевину на територији Покрајине Косово и Метохија?
Реч је о ароганцији и притиску не само према Србији и српском народу већ и према Русији, Кини, Индији и многи другим земљама и нацијама растуће моћи које поштују основне норме међународних односа и одлуке СБ УН и које не прихватају преседане, једностране одлуке и било чији ексклузивитет.
Срби пали током Првог светског рата, бранили су слободу Србије са Косовом и Метохијом у свом саставу. Како би они, или њихови потомци, данас примили вест да се током прославе поводом 100-те годишњице њихове победе састају Председник Србије и бивши командант терориста и сецесиониста, који је, уз друго, индициран као један од одговорних за етничко чишћење и злочине против Срба?
Исти третман државни симбола и представника Србије која је дала 1,2 милиона живота за победу савезника у Првом светском рату, с једне стране, и симбола сецесионистичке творевине и бившег вође терориста, с друге, срамота је и симптом цивилизацијског посрнућа.
Изостајање Председника Србије због немирења са вређањем националног и државног достојанства, као и из пијетета према 1.200.000 српских жртава је начин да се Европи пошаље досад најозбиљнији сигнал да се Србија не мири са понижавањем својих бивших савезника и да не прихвата трговину Косовом и Метохијом?
Ваља размислити и о томе колико је Срба било на Косову и Метохији пре јуна 1914, ко је вршио њихово етничко чишћење, као и коју су улогу имали Албанаци са Косова и Метохије у победи савезника у Првом светском рату? Јер, ипак, реч је о обележавању великог јубилеја победе у Првом светском рату, а не о спорту, или климатског загревању.
Европи је катарза потребнија него Србији. Зарад њене сопствене будућности. Катастрофалне грешке које је учинила злочиначком агресијом против Србије 1999. и признавањем криминалне сецесије 2008. не може се оправдати или гурнути под тепих данас – као што нешто слично недавно изјави чешки председник Милош Земан.
Живадин Јовановић
Oggetto: Malagurski: Francuska ponizila Srbiju, odgovorimo istinom!
Data: 12 novembre 2018 20:23:12 CET
A: Jugocoord
Da BELGRADO – Lo scorso 11 novembre è ricorso il centenario della fine della Prima guerra mondiale. Oltre 80 capi di stato si sono recati a Parigi per celebrare la firma dell’armistizio che mise fine a quella nefandezza che uccise oltre quindici milioni di giovani europei. Eppure, anche questa volta, l’Europa si è dimenticata dei Balcani e quello che sembra un apparente errore di protocollo si è tradotto in un’offesa per la storia della Serbia e il suo sacrificio nella Grande Guerra.
Sul palco installato sotto il maestoso arco di trionfo parigino, il presidente della Serbia Aleksandar Vucic è stato relegato in una posizione marginale, in seconda fila, dirimpetto ad Emmanuel Macron, Donald Trump e Vladimir Putin, rappresentanti delle forze vincitrici della guerra. A indispettirlo davvero, però, il fatto che il presidente del Kosovo Hashim Thaci sedesse proprio dietro i presidenti di Russia e Francia. Nonché la posizione della presidente della Croazia Kolinda Grabar-Kitarovic: in prima fila, spalla a spalla coi grandi del mondo.
Per Vucic – alchimista abile a trasformare il suo carisma internazionale in sostegno interno presentandosi come uomo della provvidenza – è stato un vero smacco. Oltre il danno la beffa, vien da dire.
L’importante è partecipare?
No, l’importante non è partecipare, ma ricordare. Ancora una volta, l’Europa, attraverso i suoi leader, dà l’impressione di non essere in grado di scindere la storia dalla politica. “Thaci aveva una posizione migliore della nostra. La posizione della presidente della Croazia Kolinda Grabar-Kitarovic qualcuno la motiverebbe con l’ordine alfabetico. Io non l’ho capito. Non voglio esporre i miei dubbi. Se mi chiedete se questo sia l’attuale rapporto di forze, no, non lo è”, ha dichiarato Vucic in conferenza stampa dopo la cerimonia. Eppure il dubbio resta.
Senz’altro, è chiaro che in Europa non si riesce a fare una cerimonia di ricordo senza darle una contestualizzazione con la politica odierna. E questo fa male alla memoria storica. La Serbia è stato il paese che più di tutti soffrì la Prima guerra mondiale. Si stima che i morti furono oltre un milione, di cui più dei due terzi civili, ovvero quasi il 30% della popolazione, il 60% degli uomini del paese, e più di un milione e duecentomila i feriti.
Inoltre, è in Serbia che cominciò la guerra, dopo un ultimatum di 48 ore di Vienna che non lascia dubbi su chi volesse annientare chi. E’ in Serbia – sul monte Cer e sul fiume Kolubara – che l’eroica resistenza serba, nonostante la netta inferiorità numerica, mostrò agli alleati che era possibile vincere le potenze centrali. Ed è soprattutto grazie alle truppe serbe se nel 1918 fu possibile sconfiggere gli eserciti dell’intesa grazie allo sfondamento del fronte macedone, portato avanti insieme ai generali francesi Franchet d’Esperey, Adolphe Guillaumat e Maurice Sarrail. E quindi perché la Francia di Emmanuel Macron mette Vucic in seconda fila, ovvero in secondo piano?
Memoria politica
Il dovere di ricordare il sacrificio della Serbia non ha nulla a che fare con le sue rivendicazioni nazionali, passate o presenti. Citare l’insoddisfazione di Vucic non significa in alcun modo fare eco alle sue politiche. La maggior visibilità di Croazia e Kosovo rispetto alla Serbia è poco rispettoso solo della storia, non dell’odierna sovranità di Zagabria e Pristina. Ed è un fatto storico, piaccia o meno, che la Croazia nel 1914 non esisteva come stato indipendente ma come provincia di quell’impero che iniziò la guerra, mentre il Kosovo era parte della stessa Serbia.
L’errore di protocollo, o peggio sciatteria, degli organizzatori del centenario purtroppo va a rafforzare quelle teorie del complotto che nella Serbia di Vucic sono sempre di moda. E sono errori che paga tutta l’Europa. Il palco installato sotto l’arco che celebra le vittorie di Napoleone rappresenta infatti la nostra memoria; l’ordine delle sue file il posto occupato dai nostri ricordi. E il messaggio trasmesso, più o meno involontariamente, è che oggi Croazia e Kosovo sono più importanti della Serbia, a prescindere dagli eventi storici. Forse perché si ritiene che Croazia e Kosovo siano più capaci della Serbia nel mantenere oggi quella pace conquistata cent’anni fa?
Chi scrive non ha alcun interesse a rivendicare la supremazia della Serbia, piuttosto la volontà di preservare una memoria che non sia ostaggio di convenienze politiche, giochi di potere e interessi di parte.
Cent’anni fa l’Europa ripartì con quei “quattordici punti” che vollero restituire centralità alle nazioni per secoli dominate da potenze straniere. Dimenticarci oggi di quella centralità è un errore grave che il nostro continente ha già commesso, garantirle il giusto spazio nella nostra memoria europea è invece un obbligo morale..