Informazione

SPACCARE I PAESI VA BENE - MA SOLO QUELLI DEGLI ALTRI


Lo spagnolo Xavier Solana - che da segretario generale della NATO nel
1999 guidò i bombardamenti con bombe a grappolo ed uranio impoverito
su piazze, ponti, treni passeggeri, industrie chimiche jugoslave - è
anche il grande sponsor della cancellazione della Jugoslavia dalle
carte geografiche europee per avere voluto la creazione di una
precaria "Unione di Serbia e Montenegro" (nel 2003) ed il successivo
referendum atto a demolire anche di quest'ultima (svoltosi pochi
giorni fa).

MONTENEGRO: REFERENDUM; SOLANA, DELIRANTI RAFFRONTI CON SPAGNA

(ANSA) - BRUXELLES, 22 MAG - Ogni raffronto tra il referendum
sull'indipendenza in Montenegro e il dibattito in corso in Spagna
sull'autodeterminazione dei Paesi Baschi ''sfiora il delirio'': cosi'
l'Alto rappresentante Ue alla politica estera, Javier Solana, ha
risposto alle domande che gli ponevano i cronisti di Madrid dopo il
voto a Podgorica. Al termine di un incontro con la stampa nel quale
ha commentato la vittoria dei 'si'' al referendum montenegrino,
Solana ha sottolineato che non e' possibile stabilire ''alcuna
somiglianza'' fra questo voto e ''altri paesi europei''. Ogni
raffronto su questo punto ''sfiora il delirium tremens'', ha
sottolineato l'Alto rappresentante. (ANSA) RIG
22/05/2006 13:48

In occasione dell'uscita del prossimo numero di "Contropiano per la
rete dei comunisti", anticipiamo l'articolo di fondo di questo numero.
Gli altri temi del nr. 2/2006 di Contropiano:
1) Dibattito su "Rappresentanza politica e accumulazione delle
forze per una ipotesi politica di classe e indipendente"
2) L'avviso ai naviganti (di Giorgio Gattei)
3) Il "bambino e l'acqua sporca". La Rete dei comunisti apre il
dibattito sul Novecento
4) Scala mobile: banco di prova del nuovo governo. Salari al palo
5) Reportage sul movimento contro la precarietà in Francia
6) La rivolta dei latinos dentro e alle frontiere degli Stati
Uniti (Bianca Cerri)
7) Resistenza globale: intervista al FPLP, intervento di Mufid
Keteish (Libano)

Mail: cpiano @...
Sito : http://www.contropiano.org
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Il soft power dell'Europa
Guerra sporca in Iraq ma guerra "pulita" in Afganistan?

Il tragico inganno del "peace keeping"

Le manifeste ambizioni del nucleo duro del governo Prodi

di Sergio Cararo*


In un mondo minacciato dalla guerra e dalla disperata ricerca degli
Stati Uniti tesa a mantenere ed estendere la propria egemonia
globale, in molti ambiti cerca di riaffacciarsi l'ambizione ad un
multilateralismo nella gestione delle relazioni internazionali che
ridimensioni la supremazia statunitense, ricostruendo così quelle
condizioni di equilibrio che, nel bene e nel male, il bipolarismo est-
ovest aveva assicurato dalla fine della II Guerra mondiale alla fine
degli anni Ottanta.

Nella crisi e nella guerra irachena, gli Stati Uniti ed i loro
alleati più stretti si sono posizionati sul terreno della guerra
preventiva e sulla strategia della sicurezza nazionale USA, mentre il
resto del mondo - incluse potenze di un certo rilievo come Francia,
Germania, Russia, Cina - si sono sottratte al coinvolgimento in una
aggressione militare diretta come quella scatenata in Iraq. Lo
stesso posizionamento non è avvenuto però sull'Afganistan (dove sono
aumentate ad esempio le truppe spagnole ritirate invece dall'Iraq) né
sulla destabilizzazione della Siria (dove Francia e USA parlano lo
stesso linguaggio) né sulla neutralizzazione delle ambizioni nucleari
iraniane.

Nel dibattito sull'urgenza di un nuovo multilaterismo nelle relazioni
internazionali si è affacciata una sorta di divaricazione tra i
sostenitori dell'hard power cioè dell'esercizio diretto, brutale e
frontale della forza militare nelle aree strategiche ed i sostenitori
del soft power che affida invece ad un mix di pressioni diplomatiche,
tavoli di negoziato, sanzioni economiche, interventi militari con la
copertura dell'ONU, l'eliminazione dei problemi o dei governi scomodi
ed il controllo delle aree strategiche.

Su questa seconda opzione si sono schierati i governi, le elitè
intellettuali, le forze politiche moderate, progressiste o liberali
che hanno rigettato il brutale intervento militare anglo-statunitense
contro l'Iraq. In realtà queste forze hanno sostenuto anche posizioni
incoerenti, rendendosi responsabili dell'aggressione alla Jugoslavia
o dell'occupazione dell'Afganistan come modello di intervento
"multilaterale", ma criticando l'attacco e l'occupazione dell'Iraq in
quanto modello di intervento "unilaterale". Su tutti pesano poi le
opzioni in cantiere sia negli USA che in Europa per neutralizzare
l'Iran, destabilizzare la Siria, occupare il Darfur per tenere la
Cina fuori dagli assetti africani, determinare chi vincerà la
competizione tra il progetto statunitense del "Grande Medio Oriente"
o quello europeo del "Mercato Unico Euro-Mediterraneo" del 2010.


Soft power, peace keeping, governance: il nuovo lessico del colonialismo

Il cuore della opzione fondata sul soft power e l'intervento
"multilaterale", coincide in larga parte con i principali governi
europei, alle prese anch'essi con la definizione di una propria
dottrina di politica militare ed internazionale adeguata alle
possibilità e alle ambizioni del processo che ha portato alla moneta
unica, all'Unione Europea ed al suo Trattato Costituzionale comune.

In questa ambizione europea va inquadrato il nuovo governo Prodi, un
governo il cui nucleo duro è rappresentato dagli interessi che
spingono verso il Partito Democratico (dai DS al Corriere della Sera,
dalla Margherita alla Confindustria) contorniato dai partiti che
hanno dato vita all'Unione e che sembrano destinati ad un ruolo di
garanzia della stabilità e di marginalizzazione dai poteri
decisionali. Il governo Prodi maneggia questi problemi assai meglio
del suo predecessore Berlusconi, troppo limitato da un appiattimento
controproducente sulle posizioni statunitensi e israeliane. Il nuovo
esecutivo lancia suggestioni accattivanti utilizzando anglismi che
non inquietano più di tanto l'opinione pubblica ed anche settori
della sinistra: soft power, peace keeping e governance saranno
categorie che sentiremo spesso aleggiare quando il governo italiano
dovrà decidere di prendere parte a missioni militari all'estero o a
contribuire al depotenziamento della resistenza globale emersa in
questi anni a livello internazionale contro il neocolonialismo e
l'imperialismo.


In Italia riecheggiano i toni della "guerra umanitaria"

Attendere ancora per sganciare l'Italia dalla guerra, potrebbe essere
fatale, sia per chi è presente sul campo a Nassiriya o in Afganistan,
sia per le conseguenze all'interno del nostro paese, sia per la
prevedibile escalation regionale e globale della guerra in Medio
Oriente.

Mentre la guerra contro il popolo iracheno e afgano continua, le
prospettive di una nuova aggressione all'Iran si fanno ogni giorno
più forti, tornano a farsi sentire anche i templari del "peace
keeping" che quelle truppe, magari, vorrebbero portarle rapidamente
anche in Sudan e in Africa. Due esempi tra tutti: il discorso di
investitura di Giorgio Napoletano e la coraggiosa trasmissione
Report, che domenica 14 maggio ci ha invece offerto un servizio sui
militari italiani in Afganistan decisamente "embedded" e che non
avrebbe affatto sfigurato nelle trasmissioni delle reti Mediaset come
la famigerata "Terra" di Toni Capuozzo. Dunque l'arrivo dei DS al
governo, ci riconsegna un TG3 e le sue rubriche pronte a legittimare
il modello del "peace keeping" e a riaprire e ripetere la vergognosa
pagina del 1999, quando sostennero apertamente e spudoratamente i
bombardamenti "umanitari" contro la Jugoslavia.

La cornice dentro cui il governo Prodi intende dispiegare la sua
azione politica e internazionale, risiede ancora nel ruolo e nelle
ambizioni dell'Unione Europea.

Il primo ministro belga Guy Verhofstadt, qualche tempo fa, riassumeva
bene il ruolo, la percezione e le ambizioni internazionali
dell'Europa "L'Unione Europea gode nel mondo di una fama più moderata
che gli Stati Uniti. L'Europa è rappresentata come un esempio di
cooperazione multilaterale. E' chiamata per mediare e pacificare
nell'ambito di conflitti complessi. L'Europa è vista come un
continente sensibile alle sfide sociali ed ecologiche" (1).

A questa immagine dell'Europa come soggetto capace di cooperazione
multilaterale e di mediazione dei conflitti, fa la sponda anche
Romano Prodi, attuale Presidente del Consiglio in Italia: "L'Europa
si presenta al mondo come il più straordinario esempio di governo
democratico della globalizzazione.Dal Baltico ai Balcani l'Europa sta
dimostrando in modo tangibile quanto essa sia in grado di fare, come
potenza regionale, per la sicurezza e la stabilità internazionale".
Rivendicando "con serenità e con orgoglio" come l'Europa abbia fatto
la sua parte nel Kosovo (sic!), Prodi va un po' oltre e sottolinea
come in questa prospettiva regionale, " le sfide saranno quella del
Mediterraneo e dell'arco dei paesi che si collocano immediatamente al
di là delle frontiere dell'Europa riunificata". Prodi definisce
dunque una precisa area di influenza del modello europeo e del
modello concettuale/operativo con cui intervenire in questa area che
nel 2010 dovrà entrare a far parte del Mercato Unico Euro-
Mediterraneo.(2)


Dal peace keeping al peace-enforcement. Fare la guerra senza dirlo

Secondo un assioma del tutto informale, la divaricazione sugli
strumenti di intervento ed ingerenza nelle crisi internazionali
corrisponderebbe anche ad un posizionamento politico: l'hard power e
il peace enforcement sarebbero di destra mentre il soft power e il
peace keeping sarebbe di sinistra.

Al di là di categorie consolatorie o peggio ancora auto-assolutorie,
niente di ciò sarebbe più errato.

L'esperienza fatta nel teatro di crisi africano dalle missioni
militari dell'Unione Europea in Congo o da quelle francesi in Costa
d'Avorio, fa ritenere ad alcuni osservatori militari come "Il peace-
keeping tradizionale stia lasciando il passo a forme di tutela della
pace decisamente più risolute" e che l'Unione Europea potrebbe
diventare protagonista anche di un intervento militare nel Darfur, in
Sudan (3)

In realtà, come analizzano egregiamente due giuristi - Luisa Lerda e
Vincenzo Di Ferdinando - siamo in presenza di una "evoluzione" degli
strumenti di intervento militare internazionale.

La dottrina del peace keeping ha raggruppato le operazioni di pace -
a seconda del contesto e del periodo storico - in tre categorie:
operazioni di prima, di seconda e di terza generazione (4).

1) Nelle prime vengono comprese tutte le operazioni poste in
essere nel periodo della guerra fredda e portate a compimento prima
del crollo del muro di Berlino. Esse vengono giustificate in base al
capo VI della Carta delle Nazioni Unite che si occupa della soluzione
pacifica delle controversie. Queste operazioni prevedono l'impiego di
militari con compiti di interposizione previo consenso dello Stato
ospite e le forze militari devono mantenersi neutrali tra le parti in
conflitto. E' previsto l'uso delle armi solo per legittima difesa.

2) Le operazioni di "seconda generazione" hanno visto crescere i
compiti di natura civile e attenuarsi la presenza militare (rimpatrio
dei rifugiati, controllo della regolarità di elezioni o referendum,
assistenza umanitaria). Permangono le caratteristiche di neutralità
delle forze impiegate e del consenso degli Stati che ospitano i
contingenti delle missioni;

3) Le operazioni di "terza generazione" si differenziano
sostanzialmente dalle prime due. Le forze militari sono legittimate
all'uso della violenza con il fine non più di mantenere la pace ma di
imporla (peace-enforcement). Dunque rispetto alle prime due
generazioni, i contingenti militari non sono più neutrali e possono
operare anche in assenza del consenso degli Stati in cui intervengono
i contingenti militari delle missioni internazionali. Questo
meccanismo sarebbe consentito dal capo VII della Carta delle Nazioni
Unite che autorizza l'intervento in caso di minaccia alla pace, ma
questo concetto è stato esteso a dismisura andando oltre la minaccia
alla pace ed inserendovi le "catastrofi umanitarie". La guerra
umanitaria nasce dentro questa ambiguità.

Già con il Trattato Europeo di Amsterdam era emersa un'ampia delega
all'Unione Europea per la costituzione e gestione di operazioni
militari di mantenimento della pace che spaziano dal peace keeping di
prima generazione a quelle più "intrusive" che prevedono l'uso della
forza (peace enforcement). Il recente Trattato Costituzionale europeo
va ben oltre.


Il crescente ruolo delle ONG nelle missioni militari

Se fino ad oggi il peace-keeping ha rassicurato gli animi e
consentito alle forze progressiste di nascondere dietro un dito le
proprie ambiguità su missioni militari neocoloniali o sulle ingerenze
militari umanitarie, nel movimento per la pace sarà bene sbarazzarsi
di ogni benevolenza verso questa categoria.

Il crescente coinvolgimento delle ONG nelle operazioni militari di
ingerenza umanitaria, non deve consertire alcuna forma di complicità.
Anche perché i pianificatori militari del Pentagono, della NATO e
dell'Unione Europea condividono ormai il modello di vero e proprio
"outsorcing della guerra" che affida ad agenzie "civili" sia numero
sia ambiti della sicurezza sia la cooptazione delle missioni
umanitarie dentro le operazioni militari vere e proprie.

Questo connubio immorale tra forze armate e organizzazioni civili, ha
fatto che oggi il peace-keeping sia diventato addirittura materia di
insegnamento nelle università italiane. E' il caso delle università
di Bologna, Roma, Firenze, Pisa, Ferrara, Milano,Torino per citarne
alcune.

In un master di "Peace-keeping and security studies" dell'Università
di Roma Tre è prevista la partecipazione di 30 civili e 26 ufficiali
e dirigenti della Difesa. In un master della facoltà di Scienze
Politiche dell'Università di Milano, su 9 docenti, cinque sono civili
e quattro sono ufficiali delle forze armate. La presentazione di
questo master afferma esplicitamente che "Il master si propone di
favorire la condivisione di una base di conoscenza e di linguaggio
comune tra militari e civili, tanto più necessaria quanto frequente
diviene il loro impiego coordinato".

Un analista militare italiano, Giuseppe Romeo, ci toglie da ogni
imbarazzo: "Le missioni di peace-keeping si sono rivelate la nuova
frontiera delle Forze Armate.Le missioni di peace-keeping non possono
esaurire se stesse soltanto nel concepire l'impiego delle Forze
Armate esclusivamente in missioni umanitarie.In Iraq non si gioca una
partita di peace-keeping ma una partita di vera e propria peace-
enforcing" (5)

Questo salto di qualità è stato incubato e sperimentato proprio nella
ex Jugoslavia e con l'aggressione NATO del 1999 contro la Serbia.

I suoi teorici spaziano da Bernard Kouchner (esponente dei MSF/
Francia ed oggi deputato del PSF) alle teste d'uovo di Soros
riunitesi in quell'International Crisis Group (da adesso ICG) che
porta enormi responsabilità nella dissoluzione della Jugoslavia,
nella campagna serbofobica che l'ha accompagnata finanche alla
privatizzazione e annessione delle miniere di Trepca in Kosovo ed
oggi nella crisi dell'Ucraina.

Alla guida dell'ICG c'è il sig. Gareth Evans, ex ministro degli
esteri laburista australiano e candidato al premio Nobel per la Pace
nel 1994 (che invece fu poi assegnato a Yasser Arafat ed a Shimon
Peres) (6).

Secondo Evans, i conflitti e le catastrofi umanitarie vanno
prevenute. Come? "Le strategie di prevenzione strutturale implicano
la consueta miscela di tecniche - strategie di sostegno diplomatico,
economico, politico, mezzi militari - associate alla minaccia di un
intervento militare e perfino al preventivo dispiegamento di truppe
come è successo in Macedonia nel 1998". Quello indicato da Evans è un
contesto molto significativo perché è esattamente lo stesso in cui il
generale inglese Jackson confessava in una famosa intervista, che i
militari inglesi e americani erano in Macedonia per restarvi a
protezione dei corridoi strategici e degli oleodotti che sarebbero
transitati in quel territorio(7)

L'idea di peace-keeping di Evans e dell'ICG è anch'essa emblematica:
"Esistono diversi livelli di utilizzo della forza militare. Uno di
questi è la minaccia in contesto di prevenzione, finalizzata a
mettere i cattivi sull'avviso che in caso di superamento del limite
si troveranno a fronteggiare una reazione militare. Un altro,
corollario della democrazia preventiva, consiste nella spiegamento
preventivo di forze sul campo, finalizzato a dare un segnale
immediato di impegno simbolico. Il terzo è costituito dal
tradizionale sistema previsto dalla Carta delle Nazioni Unite
consistente nel sostegno della resistenza contro le aggressioni
esterne. Il quarto livello è quello propriamente peace-keeping cioè
di tutela di quelle situazioni in cui si è stabilita una qualche
forma di pace e la presenza militare ha scopi di supervisione,
monitoraggio e verifica della tregua" (8). Dunque il peace-keeping
non è la prima ma l'ultima opzione ad esser presa in considerazione
dei teorici dell'ingerenza umanitaria.

La conclusione che possiamo trarne è che il peace-keeping di terza
generazione e nelle condizioni del XXI° Secolo è ormai una dottrina
politico-militare di ingerenza di un altro paese da parte delle
principali potenze in seno all'ONU, alla NATO o all'Unione Europea.

Quest'ultima, con il Trattato Costituzionale Europeo e con il
documento elaborato da Javier Solana, ha avviato un processo assai
rapido per dotarsi dell'hard power militare, tecnologico e politico
che le consenta - come sostiene Solana - di affrontare le nuove
minacce. "In un'era di globalizzazione, le minacce lontane possono
rappresentare una preoccupazione così come quelle che sono più a
portata di mano" afferma Javier Solana "Il concetto di autodifesa
fino alla guerra fredda si basava sulla minaccia di invasione, ma con
le nuove minacce la prima linea di difesa si trova spesso all'estero.
Le nuove minacce sono dinamiche e se abbandonate, diventeranno sempre
più pericolose. Ciò comporta che dobbiamo essere pronti ad agire
prima che si verifichi la crisi" (9).


I signori della guerra a Washington o Bruxelles parlano la stessa lingua

E' quasi incredibile la connessione tra i concetti strategici
espressi da persone dell'establishment diverse tra loro. Bush e i
neocons teorizzano la guerra preventiva; un laburista come Gareth
Evans teorizza l'intervento militare preventivo sul terreno ; il
rappresentante della politica estera e di sicurezza europea Javier
Solana afferma che occorre essere pronti ad agire preventivamente
anche al di fuori dei confini dell'Unione Europea. Ma non ci avevano
detto che il soft power dell'Europa e il modello del peace-keeping
erano diversi e alternativi all'hard power e alla guerra preventiva
di Bush dei cattivi americani? Ha le idee chiare su questo il prof.
Arturo Colombo che, intervistato dal Manifesto sulla espansione a sud
della missione militare in Afganistan ha sottolineato come "si
tratterà di una missione estremamente pericolosa, anche se continuerà
a operare nella finzione di un'operazione di peace keeping. Questo
secondo elemento, se rappresenta un vantaggio dal momento che
fornisce all'ISAF legittimazione ufficiale, d'altro lato - quando
inizieranno ad arrivare le prime vittime - svelerà l'ipocrisia di
fondo di un'operazione che è anche di guerra mascherata da missione
di pace" (10).

Il ricorso agli anglismi nel linguaggio politico rischia di
confondere non solo le parole e le categorie ma rischia di fare
confusione nelle idee e nelle posizioni politiche della sinistra
italiana e dei movimenti per la pace. Quel "NO alla guerra senza se e
senza ma" ci risulta ancora la bussola giusta per orientare l'azione
politica dei movimenti e della sinistra nei prossimi mesi.


* direttore di Contropiano per la rete dei comunisti

Note:

(1) Guy Verhofstadt "Plaidoyer pour un nouvelle atlantisme", l'Aja,
19 Febbraio 2002
(2) Romano Prodi : « L'Europa, il sogno, le scelte », novembre 2003
(3) Report di www.equilibri.net. Aprile 2004
(4) Luisa Lerda, Vincenzo Di Ferdinando: "Le operazioni di peace-
keeping" nel sistema comunitario", in "Diritto e Diritti", rivista
giuridica ondine
(5) Giuseppe Romeo: "Sicurezza industriale" in Pagine Difesa, 2004
(6) L'ICG è stato costituito nel 1995 con le donazioni di George
Soros. Tra i fondatori ci sono l'ex ambasciatore USA in Jugoslavia
Morton Abramovitz, il giornalista de L'Economist Marc Malloch
Brown,lo scrittore Mario Vargas Llosa, l'ex primo ministro francese
Michel Rocard. Nell'attuale consiglio ci sono Emma Bonino, Jaques
Delors, il generale americano Wesley Clark, Shimon Peres e l'ex
ministro degli esteri polacco Geremek.
(7) Intervista del gen. Jackson ad Alberto Negri su Sole 24 Ore del
24 aprile 1999
(8) Intervista di Moises Naim a Gareth Evans, in "Global" aprile 2001.
(9) Tobias Pfuger in Informationsstelle Militarisierung, novembre
2003/Indymedia
(10) Intervista sul Manifesto del 16 maggio 2006

From: icdsm-italia @...
Subject: [icdsm-italia] After Milosevic's defamation and murder
Date: May 23, 2006 11:21:32 AM GMT+02:00
To: icdsm-italia @yahoogroups.com


After Milosevic's defamation and murder

(I dubbi sulla dinamica dell'assassinio di Milosevic persistono,
visto anche il rifiuto da parte del "Tribunale ad hoc" di desecretare
i referti delle analisi e visite mediche effettuate durante la
detenzione / Vari relatori intervenuti nel corso di una conferenza
recentemente svoltasi in Irlanda hanno posto il problema del
carattere fazioso ed illegale del "Tribunale" / Dopo il misterioso
licenziamento del braccio destro della Del Ponte, Florence Hartmann,
circolano adesso voci riguardo ad una inchiesta aperta per "molestie
sessuali" nei confronti dell'altro collaboratore della "pubblica
accusa", Geoffrey Nice, il quale pure non lavora più per questa
istituzione para-legale...)

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IWPR’S TRIBUNAL UPDATE No. 451, May 5, 2006 -- www.iwpr.net

<< ... Tribunal Update is supported by the European Commission, the
Dutch Ministry for Development and Cooperation, the Swedish
International Development and Cooperation Agency, the Foreign and
Commonwealth Office, and other funders. IWPR also acknowledges
general support from the Ford Foundation... >>

MILOSEVIC TRIAL: FAIR, FAKED OR FANTASY?

Conference delegates debate Hague tribunal’s performance and ask
whether the former Serb leader got a fair hearing.

By Helen Warrell in Galway

More than a month after former Yugoslav president Slobodan Milosevic
was buried with all the pomp and splendour of a lavish Belgrade
ceremony, there is no danger of the subject of his trial being laid
to rest.

This week, tribunal employees, Balkans experts, academics, diplomats
and legal commentators gathered at the Irish Centre for Human Rights
in Galway to attend a conference ambitiously titled “The Slobodan
Milosevic Trial: The Verdict”.

William Schabas, a genocide expert and the centre’s director,
acknowledged the unusual nature of the meeting as he opened the
debate. “I cannot think of a precedent for this happening in
international law,” he said. “We could certainly never do this in
national law.”

The conference was born out of a feeling that the unexpected death of
Milosevic just as the four year case against him was ending called
for some sort of closure, which tribunal judges would no longer be
able to provide.

However, the discussions concentrated not on the guilt or innocence
of Milosevic, but on passing verdict on the tribunal itself. Rather
than being a debate about the strength of the evidence brought
against the ex-president, the focus was on how it had been presented.

Participants looked at whether the trial had been fair, and whether
enough had been done to protect the rights of the former president as
he defended himself.

The overall tone of the conference was critical, and this mood
extended from procedural aspects of the Milosevic trial all the way
to back to first principles, with some participants suggesting the
tribunal was politicised from the start and thus had little hope of
being fair.

The opposing view was not heard so strongly in Galway - that the
undoubted problems the Hague court has encountered along the way
should not obscure the bigger picture. Supporters of the Hague
process have argued strongly elsewhere that war criminals must be
brought to account and some kind of closure sought among the
communities involved in a conflict – and that participants on all
sides should be subject to investigation.

One speaker who did make this point was Michael Scharf, director of
the Frederick K Cox International Law Centre at Case Western Reserve
University, who said that with the advent of the Hague court, "the
era of impunity has been replaced by an era of accountability".

Stephen Kay, Milosevic’s court-assigned counsel, was among those who
expressed concern that the political history behind the tribunal may
have compromised its ability to dispense justice in a fair and
coherent manner.

He insisted that ad hoc tribunals such as the International Criminal
Tribunal for the Former Yugoslavia host “political trials” which end
up being “weighed down by the dead hand of the international
community from which they are born”.

Kay and co-counsel Gillian Higgins were present on each day of the
trial, and were responsible for writing Milosevic’s legal submissions
to the court. From the unique vantage point of someone who had close
contact with Milosevic, Kay is adamant that the action brought
against his client was an example of “selective justice”.

“[The Hague cases] are put forward as trials for the benefit of the
community out of which the conflict is arising. But we all know that
states and nations get away [with illegal actions] if they are on the
right side of the United Nations Security Council,” he said.

Fairness depends partially on all parties being subject to the same
rules and conditions, and Kay and others at the Galway conference
suggested this was not the case in the Milosevic trial.

John Laughland, a British journalist who is currently writing a book
that argues that the trial was a “corruption of international
justice”, asked why the Yugoslav tribunal had failed to indict NATO
for war crimes following its controversial air strikes on Kosovo
between March and June 1999.

David Scheffer, former ambassador-at-large for war crimes in the US
State Department, replied that his government had been “very engaged”
with the tribunal prosecution on this issue and had felt “very
strongly” that there was no need for an investigation.

Scheffer also firmly denied that the American government had lobbied
the prosecutor to indict Milosevic in 1999. “[The Hague tribunal] is
an independent court,” he said.

Despite such assurances, there have been frequent criticisms that the
Milosevic indictment –166 pages of allegations concerning crimes in
Bosnia, Croatia, and Kosovo – was not the work of an independent body.

The Bosnia indictment, which accuses Milosevic of genocide and
complicity in genocide against Bosnian Muslims, came under particular
criticism from Schabas, who said that “sticking on a genocide count”
in order to “keep a third of Yugoslavia happy” was no way to run a
trial.

He argued that even the most famous instance of genocide in the wars
in the former Yugoslavia, the 1995 Srebrenica massacre in which some
8,000 Bosnian Muslim men and boys were killed by advancing Bosnian
Serb troops, was not ordered by Milosevic or any of the Serb
leadership in Belgrade.

Kay went further to suggest that the infamous Scorpions video, which
appears to show Bosnian Serb paramilitaries carrying out executions
at Srebrenica, was “not part of the evidence against Milosevic”,
and “was just shown [during the trial] so that the world media would
report it”.

This was not the only criticism that Milosevic’s counsel levelled at
the fairness of the trial.

Gillian Higgins suggested that the length and breadth of the
indictment had taken an “inordinately excessive” toll on all the
parties involved. She cited the fact that in the Milosevic
indictment, deportation alone was listed as eight different forms of
criminal conduct in 64 locations spanning 13 municipalities. The
prosecution’s exhibits amounted to 85,526 pages of printed material
and 117 videos.

“Was the scope of the trial too broad and far-reaching to be fair?”
she asked.

Higgins’s conclusion was that although international trials are not
inherently unfair, “the larger the battlefield and the longer the
war, the harder it is to protect the rights of the accused”.

Throughout the trial, many observers suggested that the conflict
within the courtroom was aggravated by Milosevic himself. However,
when Scharf said that Milosevic had obstructed the trial, he met with
a storm of criticism.

Higgins objected strongly to the characterisation of Milosevic as
disruptive and said the judges had never referred to him in this way.

Defending the former president’s often antagonistic stance, Higgins
said, “The courtroom is a place of battle, and that is what Milosevic
was prepared for.”

Schabas agreed that Milosevic “was not obnoxious and difficult in the
courtroom”, while Kay said that it had been “pure political
expediency” and not obstructiveness on Milosevic’s part that had
caused people to object to him representing himself.

Kay feels strongly that the question of Milosevic’s right to defend
himself is key to the successful working of the whole trial. “You
have to structure the trial so that the man who knows the case best
can argue that case,” he said. “No lawyer in the world knew that case
better than Milosevic.”

But in all their criticisms, Milosevic’s lawyers were careful not to
lay blame on individuals within the tribunal. Rounding off her
evaluation of the trial, Higgins was surprisingly conciliatory.

“Looking back at the courtroom and the players that toiled day in,
year out, every person in the courtroom worked endlessly to ensure
that the accused’s rights were protected, however differently these
rights were perceived by the parties,” she said.

Another problem highlighted at the conference was the differences of
approach taken by participants in the Hague process.

Michael Johnson, the former chief of prosecutions at the Hague
tribunal, implied that prosecutors had not always agreed on the right
course of action.

“The prosecution is a large institution which doesn’t always speak
with one voice,” he said, adding that differences in culture and
national procedures had led to a diversity of attitudes among
prosecutors, even on such fundamental issues such as the objective of
holding a trial.

“[Within the prosecution] there are those who believe that their
purpose was to prove the history of the conflict. There are [also]
those who strongly believe that the job of the prosecution was to
prove the guilt or innocence of the accused,” said Johnson.

According to Kay, this difference is vital. If the tribunal tries to
create a historical record, it will only distract from the details of
the crimes as they occurred.

“You lose sight of the bodies in the sandpit, the empty villages, the
shelling in the cities,” he said. “This is the material stuff of the
trial.”

But if many at the Galway conference criticised the conduct of the
trial and some of the underlying principles, a few such as Mark
Vlasic, who worked on the Milosevic prosecution case, reminded
everyone that the trial had been prompted by very real acts of violence.

"Witnesses came [to the tribunal] from all over the world. For them,
it was a positive experience: they went back to their cities, towns,
hamlets, villages and told about how they had testified against one
who had caused so much trouble in their countries," said Vlasic.

"It is easy to step back and discuss these trials in an abstract way
but mass graves litter the Balkans. The ICTY [former Yugoslav
tribunal] serves as a forum for these lost souls."

Helen Warrell is an IWPR contributor.

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IWPR’S TRIBUNAL UPDATE No. 453, May 22, 2006 -- www.iwpr.net

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Dutch Ministry for Development and Cooperation, the Swedish
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JUDGES TO DECIDE ON MILOSEVIC DOCUMENTS

Tribunal President Judge Fausto Pocar has asked the same set of
judges who oversaw Slobodan Milosevic’s trial to decide whether
confidentiality measures should be lifted from documents relating to
his medical treatment in The Hague and his efforts to receive care in
Moscow.

The lawyers formerly assigned to the former Yugoslav president’s
defence case, Steven Kay and Gillian Higgins, say Milosevic wanted
the material made public.

They previously considered asking the chamber which handled
Milosevic’s trial – made up of Judge Patrick Robinson, Judge Iain
Bonomy and Judge O-gon Kwon – to address the issue. But they were
informed by the registry that since the case was closed, these judges
were no longer in a position to deal with the issue.

Kay and Higgins’s next move was to approach a chamber tasked with
deciding whether confidential records from the Milosevic trial could
be made available for an inquest and an inquiry. Again, they were
told that they were speaking to the wrong people.

The lawyers subsequently turned to the appeals chamber in an effort
to overturn the latter decision. But that bid was thrown out earlier
this week, with the appeals judges arguing that Kay and Higgins were
no longer formally involved in any case at the tribunal and were
therefore not in a position to petition its judges.

The lawyers had insisted that this fact should be overlooked. The
court had a responsibility to resolve outstanding issues which would
otherwise “perplex” Milosevic’s family and risk damaging the
tribunal’s reputation, they said, especially given the historical
significance of his trial.

The appeals judges insisted that a Dutch inquest and an internal
inquiry into Milosevic’s death, and an audit of the tribunal’s
detention facilities, would provide “ample information” to
Milosevic’s relatives and satisfy public interest in the issue.

In his latest order, published on May 18, Judge Pocar requested
Judges Robinson, Bonomy and Kwon to decide whether “there is any
reason in the interests of justice” for unveiling the documents.

He noted that the choice of chamber took into account the court’s
“trial management and case distribution needs”.

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www.b92.net
B92, Belgrade - April 27, 2006

Nice under investigation? | 09:44 April 27 | B92

THE HAGUE -- Rumours are circulating that Hague Prosecutor Jeffrey
Nice is under sexual harassment investigations.

The Hague did not want to comment on the issue. Hague spokesperson
Anton Nikiforov told reporters that Nice no longer works for the
Tribunal and that he was let go after the death of Slobodan Milosevic.

He also said that the questions posed by the reporters are of a
private and personal nature and do not concern the Tribunal.

"If anything does exist, that is a question that will be handled by
the Sector for Personal Questions in (the UN's headquarters) New
York." Nikiforov said.


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IN DIFESA DELLA JUGOSLAVIA
Il j'accuse di Slobodan Milosevic
di fronte al "Tribunale ad hoc" dell'Aia"
(Ed. Zambon 2005, 10 euro)

Tutte le informazioni sul libro, appena uscito, alle pagine:
http://www.pasti.org/autodif.html
http://it.groups.yahoo.com/group/icdsm-italia/message/204

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ICDSM - Sezione Italiana
c/o GAMADI, Via L. Da Vinci 27 -- 00043 Ciampino (Roma)
tel/fax +39-06-7915200 -- email: icdsm-italia @ libero.it
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*** Conto Corrente Postale numero 86557006, intestato ad
Adolfo Amoroso, ROMA, causale: DIFESA MILOSEVIC ***
LE TRASCRIZIONI "UFFICIALI" DEL "PROCESSO" SI TROVANO AI SITI:
http://www.un.org/icty/transe54/transe54.htm (IN ENGLISH)
http://www.un.org/icty/transf54/transf54.htm (EN FRANCAIS)

L'HDZ SPECULA ECONOMICAMENTE SU TITO


Il 20 maggio scorso per la ricorrenza del compleanno di Tito e per la
Giornata della Gioventù - che nella Repubblica Federativa e
Socialista si festeggiava il 25 maggio - si sono radunate a Kumrovec
in Croazia, paese natio di Tito, tantissime persone giunte in
pullman da ogni dove. In effetti l'avvenimento, con il passare degli
anni, assomiglia sempre di più ad una gran kermesse dove si balla
persino il cocek e l'atmosfera rasenta la provocazione e la presa in
giro. Grande è infatti il desiderio, da parte dei nuovi padroni del
paese, di screditare quella che è tradizionalmente, insieme al 29
Novembre, la più grande festa jugoslavista. Ma il maggior guaio è che
l'amministrazione di Kumrovec è in mano all'HDZ, il partito
antijugoslavo ed ustascioide fondato da Tudjman (e da Mesic prima del
suo "salto della quaglia"); il sindaco ha preteso che ogni
partecipante alla kermesse pagasse 8 kune per accedere al sito - il
che moltiplicato per 10 mila persone fa più di ottanta mila kune
ovvero più di diecimila euro guadagnati per offendere la memoria di
Tito, non certo per festeggiarlo. Dopo un iniziale contrasto si è
venuti ad un compromesso tra gli organizzatori e l'amministrazione,
ma il tutto offre ancora una immagine scabrosa della Croazia e della
regione dello Zagorje. Per festaggiare Tito bisogna pagare la gabella
all'HDZ! "Fra poco ci faranno pagare anche l'aria che respiriamo,
questi maledetti", ritiene giustamente una compagna jugoslava della
Croazia.