Informazione

L'articolo che segue è apparso sul periodico triestino "La Nuova
Alabarda", n. 203 (2/2006) -
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-giorno_del_ricordo_2006.php

Giorno del Ricordo 2006

Dopo il bombardamento mediatico del Giorno del ricordo delle foibe e
dell'esodo, cerchiamo di tirare un po' le somme di quello che può
essere rimasto a futura memoria tra i vari argomenti toccati.
Parliamo della questione del "riconoscimento" ai congiunti degli
"infoibati", ed iniziamo leggendo, nel sito www.governo.it, un
comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri (senza data):
"La legge 30 marzo 2004, n. 92 ha istituito il "Giorno del Ricordo" in
memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, delle
vicende del confine orientale e la concessione di un riconoscimento ai
congiunti degli "Infoibati".
Con successivo provvedimento (DPCM 10 febbraio 2005), è stata
istituita, presso il Segretariato Generale della Presidenza del
Consiglio, la "Commissione incaricata dell'esame delle domande per la
concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati".
Detta Commissione, insediatasi il 6 maggio u.s., ha provveduto, come
prima attività, alla definizione e alla realizzazione dell'insegna e
del relativo diploma, approvati dalla Presidenza del Consiglio dei
Ministri e dalla Presidenza della Repubblica.
Nell'ambito dei lavori della Commissione, sono state esaminate il 100%
delle istanze pervenute nel corso del 2004 e l'80% di quelle pervenute
nel 2005. Ne sono state accolte in totale l'80% circa e rinviate per
supplemento d'istruttoria il rimanente 20%.
Le istanze sono state istruite in rigoroso ordine cronologico di
ricezione e gli accertamenti hanno comportato essenzialmente la
consultazione dell\'ampia documentazione storica bibliografica a
disposizione della Commissione. In taluni casi è stato assai utile il
contributo degli Uffici Storici Militari, come fondamentale l'apporto
fornito dalle varie Associazioni e Centri di studio pertinenti.
Tali risultati hanno consentito, in concomitanza con il 1°
anniversario dell\'istituzione del "Giorno del Ricordo", di
organizzare una specifica cerimonia al Quirinale. In particolare, il
Signor Presidente della Repubblica consegnerà personalmente il
riconoscimento previsto dalla legge 92/2004 ad alcuni degli aventi
titolo il giorno 8 febbraio 2006".

Leggiamo l'art. 3 della legge 30 marzo 2004, n. 92:
"1. Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai
congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall\'8 settembre 1943 al
10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle province dell'attuale
confine orientale, sono stati soppressi e infoibati, nonché ai
soggetti di cui al comma 2, è concessa, a domanda e a titolo onorifico
senza assegni, una apposita insegna metallica con relativo diploma nei
limiti dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 7, comma 1.
2. Agli infoibati sono assimilati, a tutti gli effetti, gli scomparsi
e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati
soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in
qualsiasi modo perpetrati. Il riconoscimento può essere concesso anche
ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita dopo il 10
febbraio 1947, ed entro l'anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta
in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, escludendo quelli
che sono morti in combattimento.
3. Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei
modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano
volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia".
Diciamo ancora che l'insegna metallica è "in acciaio brunito e
smalto", e porta la scritta "La Repubblica italiana ricorda";
riportiamo qui l'elenco dei membri della Commissione, così come
nominati in base al decreto del Presidente del Consiglio 10 febbraio 2005:
- Generale Alberto Ficuciello, Presidente, delegato dal Presidente del
Consiglio dei Ministri;
- Colonnello Massimo Multari, Capo dell'Ufficio Storico presso lo
Stato maggiore dell'Esercito,
- Capitano di vascello Piero Fabrizi, Capo del I Ufficio
dell'U.A.G.R.E. dello Stato maggiore della Marina,
- Colonnello Euro Rossi, Capo dell'Ufficio Storico dello Stato
maggiore dell\'Aeronautica,
- Ten. Colonnello Giancarlo Barbonetti, Capo dell'Ufficio Storico del
Comando generale dell'Arma dei carabinieri;
- Avv. Paolo Sardos Albertini, Presidente del Comitato per i martiri
delle foibe,
- Gen. Riccardo Basile, VicePresidente del Comitato per i martiri
delle foibe;
- Dott. Piero Delbello, Direttore dell'Istituto Regionale per la
cultura istriano-fiumano-dalmata;
- Dott. Marino Micich, rappresentante della Federazione delle
Associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati;
- Dott.ssa Luigia Contini, Viceprefetto, Ministero dell'Interno,
Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione.

Sul quotidiano triestino "Il Piccolo" del 9/2/06 è stato pubblicato
l'elenco di 26 nominativi i cui familiari hanno ricevuto la targa con
la scritta "La Repubblica italiana ricorda". La prima osservazione che
ci viene da fare è che se 26 nominativi costituiscono l'80% del totale
delle istanze presentate nel 2004 e l'80% di quelle presentate nel
2005, come da comunicato governativo, il totale delle domande
presentate dovrebbe corrispondere a meno di cinquanta.
L'esiguità di questo numero di domande ci conferma nella nostra teoria
che il cosiddetto "fenomeno foibe" (allargato a tutti coloro come
descritti nell'articolo delle legge) non abbia comportato migliaia di
morti, ma a questo punto neppure centinaia.
Ma vediamo adesso chi sono i 26 "infoibati" che la nostra Repubblica
"ricorda". A lato dei nominativi abbiamo riportato luogo e periodo di
scomparsa (non risultante dall'elenco del "Piccolo") e di seguito
quanto siamo riusciti a ricostruire del ruolo da loro ricoperto in
vita. Abbiamo tratti i dati dai seguenti testi:
"Caduti, dispersi e vittime civili dei comuni della Regione
Friuli-Venezia Giulia nella Seconda guerra mondiale", a cura
dell'Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione,
volumi relativi alle province di Trieste e di Gorizia; "Albo d'Oro",
di Luigi Papo, "Pola, Istria, Fiume 1943-1945" di Gaetano La Perna;
inoltre da documenti conservati nell'Archivio di Stato di Lubiana
(riferimento archivistico As 1584 zks ae 141) e dalla stampa, sia
dell'epoca, sia contemporanea.
Per l'inquadramento storico, specifichiamo che MVSN è la sigla della
Milizia Volontaria Salvezza Nazionale (un corpo composto da squadristi
inquadrati nell'esercito, le cosiddette "Camicie Nere); MDT significa
Milizia Difesa Territoriale, che era il corrispettivo della GNR
(Guardia Nazionale Repubblicana) nel territorio dell'Adriatisches
Küstenland (territorio staccato dall'Italia ed annesso al Reich
germanico dal 10/9/43, che comprendeva le allora province di Trieste,
Gorizia, Pola e Carnaro, più una parte del Friuli), dove, tutte le
forze armate erano sottoposte al diretto comando germanico. Quindi nel
territorio del Küstenland nessun militare era "a servizio
dell'Italia", neppure l'Italia della golpista Repubblica di Salò: come
pure, oltre ai vari corpi dell'esercito, anche la Pubblica Sicurezza
(PS, che all'epoca non era corpo civile ma militare), la Guardia di
Finanza (GDF, della quale solo negli ultimi giorni di guerra alcuni
reparti furono posti a disposizione del CLN triestino), e la
successivamente istituita Guardia Civica. L'arma dei Carabinieri ha
una storia a parte: fu sciolta per ordine del Reich con decorrenza
25/7/44, ed i militi furono messi di fronte alla scelta di aderire ad
uno dei corpi collaborazionisti o essere deportati in qualche lager
germanico (molti furono coloro che, pur di non essere incorporati
nelle forze armate germaniche, preferirono la deportazione e pagarono
con la vita questa loro fedeltà all'Italia). Di fatto, quindi, chi era
rimasto in zona dopo lo scioglimento dell'Arma poteva essere solo un
ex carabiniere inquadrato in qualche altra formazione militare.
Due parole infine a proposito del CLN (Comitato di Liberazione
Nazionale) triestino, che era fuoriuscito dal CLNAI (Comitato di
Liberazione Nazionale Alta Italia), poiché non voleva sottostare alle
direttive di questo che imponevano una collaborazione con
l'Osvobodilna Fronta-Fronte di Liberazione collegato con l'Esercito di
Liberazione Jugoslavo.

BRUNO Luigi, Fiume 1945.
Guardia scelta di PS, fucilato a Grobnico (presso Fiume) il 16/6/45
(Papo).
CASADIO Alfredo, Trieste 1945.
MDT, scomparso, deportato a Lubiana. Papo scrive che fu arrestato il
3/5/45 nella caserma di via Cologna: ricordiamo che in via Cologna
aveva sede l'Ispettorato Speciale di PS, corpo di polizia politica
noto per l'efferatezza dei metodi di repressione; tale circostanza
risulta anche dalla documentazione comprendente atti dell'OZNA
conservata a Lubiana presso l'Archivio di stato (As 1584 zks ae 141).
CERNECCA Giuseppe, Istria 1943.
Vicesegretario comunale di Gimino, scomparso.
COSSETTO Giuseppe, Istria 1943, infoibato a Treghelizza.
Possidente, segretario del fascio a S. Domenica di Visinada (La Perna).
Capomanipolo MVSN, squadrista sciarpa Littorio (necrologio sul Piccolo
23/11/43).
COSSETTO Norma, Istria 1943, infoibata a Villa Surani.
"Giovane vita tutta dedicata allo studio e alla Patria", leggiamo nel
necrologio apparso sul "Piccolo" del 16/12/43. La vicenda di Norma
Cossetto è però controversa. La giovane, figlia di Giuseppe Cossetto,
era stata attiva nelle organizzazioni giovanili fasciste, e delle
sevizie cui sarebbe stata sottoposta l'unica "testimonianza" che viene
citata è quella di una donna, della quale non viene mai fatto il nome,
che avrebbe visto, dall'interno della propria casa in cui stava
nascosta con le finestre sbarrate, quello che accadeva nella scuola di
fronte a casa sua, anch'essa con le finestre chiuse. Dal verbale
redatto dal maresciallo Harzarich dei Vigili del Fuoco di Pola, che
aveva diretto i recuperi dalle foibe istriane, il corpo della giovane
non appare essere stato oggetto delle mutilazioni di cui parlano le
"cronache", né sarebbe stato possibile stabilire, con le conoscenze
mediche dell'epoca, se fosse stata violentata prima di essere uccisa.
GIULIANO Isidoro, Trieste 1945.
GDF arrestato nella caserma di Campo Marzio, internato a Borovnica e
scomparso.
Da varie testimonianze appare che le guardie di finanza di Campo
Marzio non erano state notiziate dai loro superiori che la formazione
era stata messa a disposizione del CLN triestino, quindi al momento in
cui la IV Armata jugoslava arrivò a Trieste, essi spararono contro di
essa assieme ai militari germanici che erano accasermati nella stesso
edificio. In conseguenza di questo gli jugoslavi arrestarono una
settantina di finanzieri, che furono poi internati a Borovnica, dove
diversi morirono per un'epidemia di tifo.
GUARINI Pasquale, Gorizia 1945.
CC, arrestato 2/5/45; Papo scrive che nel novembre `45 lavorava in
fabbrica a Sebenico.
MAINES Guido.
Non abbiamo trovato questo nome in nessuno dei testi da noi consultati.
MOLEA Domenico, Trieste 1945.
GDF, arrestato nella caserma di via Udine 1/5/45. "Il 16/5/45
trovavasi a Postumia e poi a San Vito di Vipacco, da dove si sono
perdute le sue traccie" (As 1584 zks ae 141).
MUIESAN Domenico, Trieste 1945.
"Mio padre era irredentista, legionario fiumano, volontario della
guerra d'Africa, di sentimenti fascisti insomma" (la figlia Annamaria
Muiesan intervistata da Luca Tron, su "La Nazione", 11/2/96).
"Squadrista delle squadre d'azione a Pirano – violenze" leggiamo nei
documenti conservati presso l'Archivio di stato di Lubiana, tra le
risposte dell'Ufficio del pubblico accusatore a richieste di
informazioni sugli arrestati nei "40 giorni" (elenco nominativo
inviato dall'ACDJ nel dicembre 1945, situazione alla data 17/12/45,
conservato in As 1584 zks ae 141), dove leggiamo anche che fu
"arrestato a Trieste 12/5/45 da due Guardie del Popolo e portato a
Pirano, poi alle carceri di Capodistria".
NARDINI Guido, Gorizia 1945.
Perito industriale, arrestato assieme al fratello Vittorio, scomparso.
NARDINI Vittorio, Gorizia 1945.
Fotografo, arrestato assieme al fratello Guido, scomparso.
NARDINI Mario, Trieste 1945.
"Capitano della milizia" (As 1584 zks ae 141), cioè della MDT; già XI
Legione MACA, secondo lo Stato civile; "tribuno" in Papo; sarebbe
stato internato a Prestranek e scomparso.
PATTI Egidio, Trieste 1945. Sembra essere stato infoibato presso Opicina.
Vice brigadiere del 2. Reggimento MDT "Istria" (Papo); "squadrista,
MVSN, PFR, GNR, rastrellamenti" (As 1584 zks ae 141).
POCECCO Giovanni, Istria 1945.
Milite del 2. Reggimento MDT "Istria", ucciso a Portole il 25/4/45 (La
Perna); secondo Papo le circostanze della morte sono identiche, però
lo mette come "civile".
POLONIO BALBI Michele, Fiume 1945.
"Sottocapo manipolo del 3. Reggimento MDT "Carnaro", scomparso 3/5/45
(a Fiume l'esercito jugoslavo arrivò il 3 maggio, quindi potrebbe
essere "morto in combattimento").
"Sottotenente carrista con la Divisione Ariete in Africa. Rientrato
ferito dall'Africa. Dopo l'8 settembre fu destinato quale comandante
al Comando Tappa presso la Caserma di finanza "Macchi" di Fiume
(nell'elenco di fiumani caduti allegato alla proposta di legge
presentata dal deputato di AN Roberto Menia per la concessione
all'Associazione "Comune di Fiume in esilio" della medaglia d'oro al
"valor militare" alla memoria dei suoi cittadini che in guerra e in
pace hanno servito la Patria, Atti parlamentari XIII legislatura,
Camera dei deputati n. 1565).
PONZO Mario, Trieste 1945.
Colonnello del Genio Navale, poi inquadrato nel Corpo Volontari della
Libertà, l'organizzazione armata del CLN triestino. Fu arrestato
assieme agli altri ufficiali di marina Luigi Podestà ed Arturo Bergera
che avevano organizzato, all'interno del CLN triestino, un'attività di
spionaggio in collaborazione con il commissario Gaetano Collotti,
dirigente nonché noto torturatore dell'Ispettorato Speciale di PS,
così riassunta dallo storico Roberto Spazzali: "Podestà avrebbe
passato a Collotti tutte le informazioni sul movimento partigiano
slavo e il poliziotto lo avrebbe agevolato nei suoi compiti" (in
"…l'Italia chiamò", Libreria Editrice Goriziana). Podestà e Bergera
rimasero in carcere a Lubiana un paio d'anni, poi furono rilasciati;
il colonnello Ponzo morì in prigionia.
RADIZZA Salvatore, Dalmazia 1943.
Papo scrive che si tratta di un operaio ucciso a Meleda nel cimitero
dopo l'8/9/43.
SCIALPI Gregorio, Trieste 1945.
GDF, arrestato nella caserma di Campo Marzio, internato a Borovnica e
scomparso in prigionia.
STEFANUTTI Romeo, Istria 1945.
Milite del 2. Reggimento MDT "Istria", "ucciso dagli slavi nel maggio
`45 nei pressi di Pisino" (Papo).
VERDELAGO Ervino.
Anche questo nominativo non l'abbiamo trovato nei testi analizzati.
VOLPI Ario Dante, Gorizia 1945.
"Aviere RSI prelevato dagli slavi a Gorizia il 13/5/45 e scomparso"
(Papo).
VOLPI Renato, Istria 1943.
Leggiamo sul "Piccolo" del 15/11/43: "volontario in Grecia, in Russia
e sul fronte dell'Italia meridionale"; ventunenne, era rientrato in
Istria dopo avere saputo della morte del padre Edmondo, oste, "ucciso
dai ribelli", ed era stato "catturato ed ucciso". Papo invece scrive:
"Milite 9^ legione Camicie nere, ucciso in prigionia dagli slavi 4/10/43".
ZAPPALÀ Alfio, Fiume 1945.
CC arrestato 13/5/45, scomparso.
ZAPPETTI Riccardo, Istria 1943.
Falegname da Montona infoibato a Gallignana.
ZAPPETTI Rodolfo, Istria 1943.
Capo cantoniere da Montona infoibato a Gallignana.

Questi dunque i 26 "martiri delle foibe" ai quali lo Stato italiano ha
deciso di attribuire la targa ricordo. Fermo restando il nostro
rispetto per tutti i morti, anche per quelli che da vivi non ebbero
comportamenti da noi condivisibili, vorremmo però osservare che
l'attribuzione di questo riconoscimento a militari che avevano
combattuto per la repubblica di Salò o addirittura sotto il comando
dell'esercito di Hitler, non significa rendere giustizia ai morti,
significa semplicemente avere realizzato di carambola quello che non è
stato permesso alla scaduta legislatura parlamentare di approvare per
vie legali, cioè la parificazione e l'equiparazione dei combattenti di
Salò con i combattenti dell'Italia legittima.
Così come ci sembra molto grave che con le parole "la Repubblica
italiana ricorda" (una Repubblica che diciamo nata dalla Resistenza e
che dovrebbe avere come discriminante necessaria l'antifascismo) si
diano dei riconoscimenti anche a dei fascisti convinti, solo perché
uccisi sommariamente.
Possiamo anche riprendere il discorso che già abbiamo fatto su queste
pagine a proposito dell'uso invalso in questo Paese a dare medaglie,
onorificenze, attribuire pubblici riconoscimenti o intitolare strade a
persone che in vita non hanno fatto nulla di eroico o di
particolarmente positivo, ma solo per il fatto che sono morte in modo
violento ed ingiusto. Come se una morte ingiusta potesse di per se
stessa riscattare una vita passata a commettere errori od addirittura
azioni riprovevoli.
Del resto, il nostro Paese aveva già insignito di medaglia di bronzo,
negli anni `50, il torturatore dell'Ispettorato Speciale Gaetano
Collotti per un'azione antipartigiana condotta a Tolmino nel 1943; e
ricordiamo anche che Alma Vivoda, colei che viene ricordata come la
prima partigiana combattente caduta nella nostra regione, non ha mai
avuto un'onorificenza per il suo sacrificio, mentre il carabiniere
Antonio Di Lauro, che l'uccise, ha ricevuto per questa azione una
medaglia… anche questa dalla Repubblica italiana di cui si parlava sopra.
Tornando al riconoscimento agli "infoibati", non vorremmo però si
pensasse che secondo noi tutti coloro che hanno ricevuto questa
onorificenza siano state delle persone riprovevoli o da cui prendere
le distanze. Non abbiamo motivo di credere che i fratelli Nardini di
Gorizia oppure i fratelli Zappetti di Montona avessero commesso azioni
vergognose; però da qui a farne degli eroi, ce ne corre. Altrimenti,
per giustizia, bisognerebbe dare targhe, diplomi, medaglie e via di
seguito a tutti coloro che sono morti sotto i bombardamenti ed a tutti
quelli che sono morti nei campi di prigionia (germanici, ma anche
italiani); ad esempio, vorremmo sapere se i carabinieri che si
rifiutarono di prestare giuramento al Reich per mantenere il proprio
giuramento all'Italia ed hanno perso la vita nei lager nazisti hanno
avuto un qualche riconoscimento, un qualche "ricordo" da parte della
Repubblica italiana.

Se l'istituzione del Giorno del ricordo delle foibe e dell'esodo
avesse voluto essere veramente un'occasione per pacificare le parti
grazie ad un ricordo reciproco ed una reciproca ammissione di torti,
non si sarebbero dati i riconoscimenti che abbiamo visto prima. Questa
è stata per noi invece l'ulteriore conferma che il Giorno del ricordo
del 10 febbraio (inventato come contraltare al Giorno della memoria
del 27 gennaio), serve soltanto ad una, purtroppo non tanto ristretta,
parte politica, per continuare a rivendicare diritti di sangue e suolo
su territori che la storia ha ormai assegnato ad altri Stati sovrani;
per rivalutare il fascismo e per continuare ad infangare la lotta di
liberazione, ribadendo l'equazione "partigiani=infoibatori", siano
stati essi jugoslavi, o italiani; ed infine per proseguire
nell'atteggiamento razzista nei confronti della comunità slovena,
storicamente presente in questi territori, alla quale non si vuole
riconoscere il diritto alla propria cultura e lingua.

Febbraio 2006

From: icdsm-italia @...
Subject: [icdsm-italia] Mira Markovic sull'assassinio del marito
Date: March 29, 2006 6:15:48 PM GMT+02:00
To: icdsm-italia @yahoogroups.com


Traduzione in inglese della lettera scritta dalla vedova di Slobodan
Milosevic, Mira Markovic, e letta in occasione del suo funerale, a
Pozarevac il 18 marzo 2006.

LETTERA DI MIRA MARKOVIC:

Il nostro anniversario era il 14 marzo, il nostro amore era
incominciato il 17 marzo, marzo era il nostro mese e di marzo ci
diciamo addio.
Siamo estati sempre insieme... Hai passato cinque anni in prigione e
da tre anni non ti vedevo. Sei ritornato a casa dalla prigione
dell'Aia ed io non sono lì con te. I criminali che ti hanno
assassinato all'Aia vogliono la mia vita e forse la vita dei nostri
figli. Sei stato assassinato da criminali, che con la vittoria dei
nostri ideali erano stati privati dei privilegi di cui godevano
sfruttando il lavoro degli altri.
Sei ritornato a casa per rimanere per sempre in questo luogo. Io non
sono qui con te, a casa nostra. Ogni lotta contro l'ingiustizia in
avvenire sarà ispirata da te.
Continuerò da dove ti sei fermato tu, amerò i nostri figli, il nostro
paese, la nostra casa, e combatterò per i nostri ideali.
Ti ho aspettato per cinque lunghi anni, ma non sono stata abbastanza
fortunata da rivederti. Adesso sei tu ad aspettarmi.
Con amore, la tua Mira.

---

Fonte: http://www.resistenze.org/sito/te/po/se/pose6c17.htm
dal Giornale"Novosti", 14-03-2006

Intervista alla Dr. Mirjana Markovi´c Milosevic

VOGLIO CHE TORNI A CASA

- Non ho ancora deciso sul luogo della sepoltura di mio marito. Se
fossi nella posizione di decidere, sarei per Požarevac. Purtroppo,
sono ancora ostaggio del mandato di cattura dell'Interpol - ha detto
la moglie di Slobodan Miloševi´c, dr Mirjana Markovi´c.
Lei ha ribadito una sua affermazione al nostro giornale: "Il Tribunale
dell'Aja ha ucciso mio marito", ed ha aggiunto un suo chiarimento: -
Questo perchè si sono trovati nei guai in quanto per il processo erano
rimaste soltanto 37 ore di dibattimento, e loro non avevano prove per
condannarlo legalmente, ma al contempo non potevano neanche liberarlo
– in quanto è ormai chiaro che avevano creato questo tribunale apposta
per lui!

Su che cosa basa le sue affermazioni?

- Slobodan ormai era malato da lungo tempo e lo diventava sempre di
più. Lui richiamava l'attenzione della corte sul fatto che si sentiva
male, però non gli permettevano di curarsi. Non gli hanno neanche dato
la possibilità di avere una pausa per una convalescenza. In realtà,
non sarebbe bastata una convalescenza, servivano delle cure
appropriate. L'ultimo consulto internazionale di medici da Francia,
Russia, Jugoslavia, ha constatato certi cambiamenti vascolari nella
testa, per i quali un'urgente interruzione di tutte le attività
sarebbe stata indispensabile, nonché delle cure ospedaliere. Loro,
però, non gli hanno consentito neanche questo. La pausa che gli è
stata concessa non prevedeva un ciclo di cure. Gli hanno vietato il
viaggio per curarsi a Mosca. Sappiamo che stare sdraiati in una cella
non cura nessuno.

Lui come reagiva a questo?

- Anche a voi è noto che dopo la pausa, lui ha continuato con l'enorme
lavoro, di cui era ormai esausto, e le conseguenze ci sarebbero state
anche per qualsiasi uomo più giovane e fisicamente sano; mentre lui,
come sapete, non lo era più.
L'anno scorso passava tre giorni alla settimana nell'aula del
tribunale. Negli anni precedenti, ci stava anche quattro, cinque
giorni in aula. In queste situazioni succedeva molto spesso che il
mezzo di trasporto che doveva portarlo al Tribunale tardava anche per
due ore, e lui trascorreva questo tempo in una stanza fredda: esausto,
affamato e malato. Tornando dal processo alla cella, stante la mole
delle cose da fare per l'udienza successiva, non aveva neanche più la
lucidità di decidere che cosa doveva fare per primo: mangiare, oppure
prepararsi per la giornata successiva. Aveva cinque milioni pagine da
leggere! Mi diceva che non era mai riuscito ad avvicinarsi a questa
mole di materiali con un qualche metodo e ad utilizzarla a dovere.
Neanche per questo godeva delle condizioni minime necessarie!

Su che cosa si basano i vostri dubbi che sia stato ucciso?

- Devo dire anche che gli capitava di non uscire all'aria aperta per
mesi interi. Le sue domande di mettersi in contatto con il medico
trovavano risposta nella visita settimanale del medico del carcere -
che era al servizio per tutto il carcere! Fosse per una infiammazione
del fegato, per la rottura di una gamba o un controllo della vista...
questo medico era "universale" per tutte le malattie; uno diverso non
veniva preso neanche in considerazione. Questo era il sistema del
Tribunale. Nonostante tutte queste circostanze, Slobodan lavorava
tantissimo, intellettualmente era molto preso, ma molto stanco. Queste
situazioni senza riposo si susseguivano quasi ogni giorno, con una
alimentazione pessima, privato dell'aria aperta... Semplicemente, lo
si portava verso un esaurimento profondo, verso quella fine
sopraggiunta l'altro ieri. Non posso dire se questo che ho fin qui
esposto si potrebbe descrivere con il termine di assassinio indiretto.
Forse sono state aggiunte altre misure fisiologiche al livello del suo
fisico che gli hanno accorciato la vita.

Quali sono le "misure" a cui allude, ha degli esempi concreti di cui
suo marito si è lamentato?

- Mi diceva, per esempio, che nelle cuffie c'era qualcosa che creava
danni alle vene capillari nella testa. Lui aveva richiamato
l'attenzione su questo. Questo è stato un ammonimento che lui ha fatto
al tribunale dell'Aja, voglio dire che non vi sto rivelando alcun
segreto. In tutte le situazioni quando chiedeva la parola per i
problemi di salute, il presidente della Corte gli toglieva la parola.
Tutti lo potevano constatare. A partire da tutto questo, si può
parlare di eliminazione fisica, 37 ore (di dibattimento, ndt) prima
della fine del processo.

Per quale motivo il Tribunale avrebbe voluto evitare di portarlo ad
una condanna?

- Come potevano condannarlo, quando non avevano accertato alcuna prova
di colpevolezza? Nelle 37 ore rimanenti non avrebbero potuto stabilire
nulla che non gli era stato possibile provare in questi cinque anni.
Il loro problema era che non riuscivano a condannarlo legalmente.
Nello stesso tempo, come avrebbero potuto metterlo in libertà, quando
avevano creato un Tribunale apposta per lui! Hanno impiegato tanta
fatica, e portato lì a testimoniare così tanti farabutti, ladri e
bugiardi... Si sono trovati in difficoltà ed hanno deciso che sarebbe
stato meglio che lui fisicamente non ci fosse più. Secondo la loro
opinione questa era una soluzione "elegante". L'hanno perciò ammazzato
gli assassini dell'Aja. Assieme a loro sono responsabili coloro che
hanno partecipato, ideato e finanziato quest'apparato mostruoso del
mondo moderno. Non elenco chi sono loro di persona. Ma quelli che
hanno compiuto questo atto si riconosceranno da soli in queste parole.

Quando ha visto suo marito per l'ultima volta?

- Ci siamo visti esattamente tre anni e due mesi fa. Le mie visite
sono state rese impossibili per via dell'operazione "Sciabola" (ndt:
una retata di migliaia di oppositori in conseguenza dell'omicidio
dell'allora primo ministro Z. Djindijc, poi quasi tutti rilasciati
dopo qualche mese di carcere), quando emisero un mandato di cattura
contro di me. Questo era del tipo "rosso", il più pesante che c'è,
perché avevo messo in contatto - cito esattamente: una certa donna,
segretaria del Governo, con la baby sitter di mio figlio, per cui
questa aveva chiesto ad una segretaria del Governo se poteva fargli
assegnare un appartamento monolocale per lei e per il suo figlio
piccolo. Per questo crimine, per averle messe in contatto, perché la
baby sitter potesse ottenere un appartamento poco più grande di una
grossa scrivania, è stato emanato un mandato di cattura Interpol del
tipo "rosso". Mio marito mi aveva detto che la metà dei paesi non
avevano mai accettato questo mandato, poiché non è possibile che sia
formulato per un tale "crimine". Per dire la verità: non ero affatto
intervenuta per quell'appartamento! Non ho avuto alcun ruolo in tutto
ciò. Naturalmente, è chiaro non solo a me che quest'appartamento non
aveva proprio un bel niente a che fare con un qualche presunto
gravissimo crimine, ma si trattava soltanto di un disegno in modo che
Slobodan avesse ulteriori problemi laggiù e soffrisse di più.

Quando vi siete sentiti con lui per l'ultima volta?

- Nella serata di venerdì scorso. Di solito ci sentivamo di sera
verso le otto e mezza, prima della chiusura della cella. Di solito, mi
chiamava verso le otto di sera. Mi ha detto: "Dormi bene, mia cara!
Quando mi sveglio domattina, ti chiamerò".
Ed è successo quello che è successo.

Avete l'intenzione di ritirare la salma all'Aja? E, secondo lei,
queste circostanze avranno un ruolo sulla determinazione del luogo di
sepoltura?

- Non ho ancora deciso niente. Come posso andare all'Aja per ritirare
la salma, con il mandato di cattura sulla mia testa?

Spera in un'abolizione del mandato di cattura? Nel caso Belgrado lo
revocasse, l'accetterebbe?

- L'accetterei, naturalmente. Come potrei non accettarlo, visto che
vivo come un ostaggio da tre anni, dall'apertura dell'operazione
"Sciabola" fino ad oggi.

(...) E' al corrente del fatto che il mandato di cattura su suo figlio
Marko è stato ritirato...

- So che Marko può andare...

La gente di Požarevac chiede che venga sepolto là, l'SPS è
dell'opinione che la cerimonia si dovrebbe svolgere nel Viale degli
Eroi a Belgrado, subentra anche l'ipotesi Montenegro: cosa ne pensa
lei di tutto ciò? (...) Se fosse lei da sola a decidere, sceglierebbe
Požarevac o Belgrado?

- Se decidessi io da sola? Požarevac, senz'altro. (...)
Per mesi nella cella di Slobodan tenevano accese le video-camere senza
interruzione, le luci erano accese costantemente, tutto affinchè non
potesse dormire. Questa è una delle note forme di tortura, il cui
scopo consiste nel disintegrare nei nervi la persona, non permetterle
di dormire, lavorare, ragionare, cosicchè diventi irritata, incapace
di agire...
Nell'occasione di una mia visita in Olanda dovetti firmare un
documento, che non avrei mai rivelato queste informazioni, proprio
queste di cui la sto informando ora. Dovevo tacere su tutto ciò. Che
orrore! Naturalmente, è tremendo il fatto che nessuno abbia denunciato
che lo sottomettevano a questo, mentre ne erano informati. E' tremendo
che nessuno abbia mai protestato contro tutto questo.

In alcuni media si insinua un dubbio che il suo marito abbia fatto un
gesto autolesionista contro di se'.

- Dovrebbero inventare qualcosa di più originale. Potete discutere su
questo tema con Zdenko Tomanovi´c, penso (ndt.: consigliere legale di
fiducia di Milosevic). E' stato lui a vederlo sempre, anche subito
dopo il decesso. Queste insinuazioni sono talmente teatrali, come
dire... sono il frutto di gente perversa.

Milena MARKOVI´C, Novosti
Da: www.novosti.co.yu (14/03/06)

Traduzione di D. Kovacevic, revisione ed adattamento del testo a cura
di ICDSM-Italia.

---

MILOSEVIC: TORNA ESECUTIVO MANDATO CATTURA CONTRO VEDOVA

(ANSA) - BELGRADO, 23 MAR - La magistratura serba ha riattivato
l'esecutivita' del mandato di cattura per malversazione emesso a suo
tempo nei confronti di Mirjana Markovic, vedova dell'ex leader serbo e
jugoslavo Slobodan Milosevic, che era stata congelata nei giorni
scorsi per consentirle di partecipare ai funerali del marito. La
decisione e' stata presa dopo che Markovic non si e' presentata oggi,
come largamente previsto, a un'udienza del processo che la riguarda,
in corso a Belgrado. L'agenzia Beta riferisce che i giudici hanno
anche confiscato una cauzione da 15.000 euro (...)

23/03/2006 12:03



==========================

IN DIFESA DELLA JUGOSLAVIA
Il j'accuse di Slobodan Milosevic
di fronte al "Tribunale ad hoc" dell'Aia"
(Ed. Zambon 2005, 10 euro)

Tutte le informazioni sul libro, appena uscito, alle pagine:
http://www.pasti.org/autodif.html
http://it.groups.yahoo.com/group/icdsm-italia/message/204

==========================
ICDSM - Sezione Italiana
c/o GAMADI, Via L. Da Vinci 27 -- 00043 Ciampino (Roma)
tel/fax +39-06-7915200 -- email: icdsm-italia @ libero.it
http://www.pasti.org/linkmilo.html
*** Conto Corrente Postale numero 86557006, intestato ad
Adolfo Amoroso, ROMA, causale: DIFESA MILOSEVIC ***
LE TRASCRIZIONI "UFFICIALI" DEL "PROCESSO" SI TROVANO AI SITI:
http://www.un.org/icty/transe54/transe54.htm (IN ENGLISH)
http://www.un.org/icty/transf54/transf54.htm (EN FRANCAIS)

(Il premio Pulitzer che nel 1993 fu assegnato a John F. Burns e Roy
Gutman, per i loro reportage FALSI sui "campi di concentramento" ed
altri "crimini serbi" in Bosnia, va revocato: è la richiesta formulata
da David Binder all'atto della presentazione dell'importante
libro-denuncia di Peter Brock "Media Cleansing: Dirty Reporting,
Journalism and Tragedy in Yugoslavia" - si veda:
https://www.cnj.it/documentazione/bibliografia.htm#brock05 )

http://www.cnsnews.com/ViewSpecialReports.asp?Page=/SpecialReports/archive/200603/SPE20060322a.html

Former NY Times Reporter: '93 Pulitzer Should Be Revoked

By Sherrie Gossett
CNSNews.com Staff Writer
March 22, 2006

Washington (CNSNews.com) - Castigating the press for "journalistic
crimes" committed during its reporting on the Balkans wars of the
1990s, retired New York Times reporter David Binder claims the 1993
Pulitzer Prize for International Reporting awarded to both the Times
and New York's Newsday "should, in all fairness and honesty, be revoked."

Binder was speaking at a press conference for the release of a new
book criticizing the war reporting. Binder wrote the foreword to the
book by Peter Brock, titled "Media Cleansing: Dirty Reporting,
Journalism and Tragedy in Yugoslavia."

"What we're looking at here is a series catalogued by Peter Brock of
journalistic crimes," said Binder. Before mentioning the reporting of
the Times' John F. Burns and Newsday's Roy Gutman, Binder evoked the
memory of what he called Walter Duranty's "phony reporting" for the
New York Times in the 1930s as an example of an undeserved Pulitzer.
Duranty was criticized for having been too deferential to Joseph
Stalin and his plan to industrialize the Soviet Union.

"What Peter [Brock] has unraveled and disclosed in this book involves
at least a couple of Pulitzer prizes that should in all fairness and
honesty be revoked." Binder confirmed to Cybercast News Service that
he was referring to the 1993 Pulitzer Prize for international
reporting, awarded to Burns of the New York Times and Gutman of
Newsday for their reporting in the Balkans. Brock devotes considerable
space in his book to criticizing the reporting of Burns and Gutman.

Binder noted that the Times has gone through "agony" in recent years
over the "terrible professional behavior of its staff members" and
with "what has gone on under its masthead."

"[E]xposure is the best remedy," said Binder.

"I think Peter Brock's book helps a great deal to confront these
egregious crimes of journalism. I think it should be shoved under the
noses of editors all across the press, at least the editors who are
dealing with foreign news ..." said Binder.

The Pulitzer Board at first voted to award the prize solely to Gutman,
according to Binder. "The New York Times got so agitated that John
Burns was passed over that they started lobbying the board. The
Pulitzer is an extremely political award in many if not all cases.
There are all kinds of backstage manipulations that go on."

The centerpiece of Burns' Pulitzer entry was a seven-hour interview
with a captured Bosnian Serb -- Borislav Herak -- who in graphic
statements to Burns, confessed to dozens of murders, including eight
involving rape. Burns' Nov. 27, 1992, article was described by the New
York Times as offering "insight into the way thousands of others have
died in Bosnia."

However, more than three years after the publication of Burns' story,
the Times on Jan. 31, 1996, described Herak as "slightly retarded" and
reported that Herak had retracted his confession and claimed it had
been beaten out of him by guards.

"I was tortured, forced to confess," said Herak. By that time his
testimony already had been used to convict Sretko Damjanovic for the
killing of two Muslim brothers who were later found alive. Both Herak
and Damjanovic, who also said he had been "tortured" into providing a
false confession, were sentenced to death by firing squad.

Author Peter Brock described Burns' interview with Herak as "a
manipulated confession and interrogation in which Burns was the key
participant." Brock faults Burns for failing to tell readers that the
interview took place with a Sarajevo video production crew present and
that "interrogations were conducted by [government] investigators and
by Sarajevo film director Ademir Kenovic."

He also argues that "vital pieces" of Herak's story were missing.
"[T]here was no evidence, corpses or victims, or eyewitnesses to
implicate Herak, except for hearsay from Bosnian government
'investigators,'" Brock writes.

Brock also faults Newsday's Roy Gutman for being unduly influenced by
government propagandists including one source who operated under four
different aliases. Gutman was criticized for not exercising enough
scrutiny before repeating allegations of atrocities and statistics of
the dead and tortured.

Gutman won his Pulitzer partly for "electrifying stories about
'concentration camps'," notes Brock, who criticizes the reporter for
the prominence of "hearsay" and "double hearsay" in his stories, as
well as gratuitous use of the language of the Nazi Holocaust.

Gutman's first five stories about the alleged Omarska concentration
camp in Bosnia were actually filed from Zagreb, in Croatia, Brock
complains. It was Gutman's sixth story on the subject that finally
carried an Omarska dateline, Brock wrote, and that was after the
prison had been shut down.

Both Binder and Brock accuse the press of falling into "pack
journalism" and playing the role of "co-belligerent." The reliance on
Croat and Bosnian Muslim propaganda resulted in distorted reporting
that exaggerated the Serb role in the three-sided conflict and ignored
ethnic cleansing of Serbs, according to Binder and Brock.

Brock went so far as to say the $3,000 Pulitzer Prize money awarded to
Burns and Gutman was "blood money."

"What we're talking about in terms of what I call crimes of journalism
was only ten years ago," said Binder. "It wasn't so long ago that
these, I think revolting things, were happening -- revolting bias,
revolting suppression of other sides of the story."

During his recent appearance at the National Press Club in Washington,
D.C., Binder said it would take "at least a decade" before historians
"clear out that wretched underbrush of lies and concoctions" from
"despicable" politicians "like Richard Holbrooke," an international
negotiator during the administration of former President Bill Clinton
and "certainly the journalists" criticized in Brock's book. The rise
of blogs and media watchdog groups offers a "corrective" for the
public now, Binder contended.

In his call for the revocation of the Pulitzer Prize Peter Brock said
that "in all fairness, if [the Pulitzer board] is not going to revoke
the prize, they ought to give Janet Cooke's Pulitzer back." Cooke was
a Washington Post reporter who won a Pulitzer for a fabricated 1980
story about an eight-year old heroin addict.

As of Wednesday afternoon, there had been no reaction from either the
New York Times or Newsday to Cybercast News Service's several requests
for comment related to this article.

---

----- Original Message -----
From: sparta
Sent: Tuesday, March 21, 2006 5:57 AM
Subject: National Press Club - Conference: Peter Brock's book, Media
Cleansing: Dirty Reporting

"Was the American public duped about Bosnia? We should be asking what
kind of justice is this at The Hague that cases against Serbs are not
over tuned when Muslim witnesses have admitted that they were coached
by Bosnian authorities to lie on the witness stand? What kind of
justice is Carla dela Ponte promoting by keeping Serbs imprisoned for
killing numerous Bosnian Muslims who turned up alive and well in
Sarajevo?"

Date: 17 March 2006
Where: National Press Club, Washington, D.C.
Panelists: Peter Brock, William Dorich, David Binder

************

National Press Club Introduction

Good afternoon, my name is William Dorich, I am the publisher of
GMBooks, established in Los Angeles in 1985. I am also the author of
5 books on Balkan history and religion including my 1992 book Kosovo.

When Peter Brock came to me to publish Media Cleansing: Dirty
Reporting, I was thrilled but I was fully aware that this manuscript
was submitted and rejected by every major publisher in the United
States, revealing an ugly truth that dissenting views are not always
welcome in the media or in the American publishing industry.

In the entire decade of the 1990s during the dismemberment wars of
Yugoslavia not one single article was printed in the New York Times
that was written by a Serbian journalist, author, scholar or political
leader. The same can be said of numerous major newspapers across the
nation including the Los Angeles Times in my city. Serbs were simply
muzzled into silence. Thanks to Madeleine Albright and Richard
Holbrook Serbs were also made Persona non grata here on The Hill and
denied the right to appear before any House and Senate hearings on
Bosnia including the Foreign Relations Committee.

The result, the word Serb has become synonymous with evil. I should
know as I was the victim of two hate crimes and received numerous
death threats for daring to defend, write and publish Serbian views.

Dr. Alex Dragnich, a Serb, is the recipient of the Thomas Jefferson
Award for Outstanding Scholarship at Vanderbilt University where he
taught for several decades. Dr. Dragnich is the author of ten books
on Balkan history and politics and was a member of the diplomatic corp
in Belgrade after the Holocaust. At the height of the Bosnian Civil
War Dr. Dragnich submitted 42 OpEd articles to the New York Times...
not one was reproduced yet lie after lie was published by the Times
from instant Balkan "experts." Few of whom had credentials on the
Balkan region.

David Binder who graces our book with a profound foreword was a member
of the Washington bureau of The New York Times from June 1973 to his
retirement in 1996. He continued reporting until 2004, producing
numerous articles on Central and Eastern European affairs with
outstanding reports that afforded unique insights into foreign policy
and the Yugoslav breakup. His assignments for The Times, included
posts in Germany, Belgrade (as East European correspondent) and in
Washington as diplomatic Page 2

correspondent. He reported on the building and fall of the Berlin wall
and the collapse of Communist systems in East Germany, Romania,
Albania and Yugoslavia.

The admiration and respect for Mr. Binder's reporting and reputation
as a journalist of our times – almost five decades – is without equal
during what is fast becoming an era in which most journalist seem to
strive to be mediocre at their craft, too many are simply recklessly
irresponsible.

Who can forget Binder's opening line to the essay he wrote for The
South Slav Journal in late 1995.

Quote: "A widely noted oxymoron for the last four years has been the
phrase `United States Policy Towards Yugoslavia.'" End quote.

Mr. Binder graduated from Harvard University and was a Fulbright
scholar at the University of Cologne. He has lectured and published
articles mainly in Germany, Austria, Switzerland, the former
Yugoslavia, Albania, Macedonia, Romania, Hungary, Finland, Japan,
Canada and throughout the United States.

He is the author of Berlin East and West (1962) and The Other German –
The Life and Times of Willy Brandt (1976); and co-author of New York
Times books on Project Apollo, the Fall of Communism and Scientists at
Work.

He lives in suburban Maryland and he speaks fluent Serbo-Croatian.
Can you imagine that when the war broke out in former Yugoslavia his
editors sent John Burns to cover the story, a journalist who relied on
Muslim translators?

Burns won half a Pulitzer for writing about the confession of an
alleged Serbian rapist and killer. This Serb was found guilty by his
own confession without a single victim of rape or a body of an alleged
murder victim presented as evidence at his trial. It was later proven
his confession was tortured out of him. John Burns claimed there was
not a mark on his body.

However, John Burns and the NYT never published an article about Dr.
Ljubica Toholj, gynecology professor at Belgrade University who did
the physical exams of thousands of Serbian prisoners of war in which
sexual
Page 3

torture techniques did irreparable damage to internal organs or
electrical shock used on the male genitals of these prisoners which
also leave no marks on the body.

Was the American public duped about Bosnia? We should be asking what
kind of justice is this at The Hague that cases against Serbs are not
over tuned when Muslim witnesses have admitted that they were coached
by Bosnian authorities to lie on the witness stand? What kind of
justice is Carla dela Ponte promoting by keeping Serbs imprisoned for
killing numerous Bosnian Muslims who turned up alive and well in
Sarajevo?

The U.S. blackout of court coverage of the Hague Tribunal conveniently
hides what has turned out to be lynch mob style tactics of judicial
abuse yet we are told that this tribunal is the lunch pin of future
international court cases involving war and genocide.

Ambassador Bissett of Canada said it best in his attack of the media
and I quote: "It is not the media responsibility to influence
governments to make unwise policy decisions affecting the very course
of history." end quote. But that is exactly what the media did in
Yugoslavia.

If Osama bin Laden and Muslim terrorism is this nation's number one
enemy, then the invasion of Bosnia by thousands of bin Laden trained
terrorists was surely Serbia's enemies and they had every right to
defend themselves. Hundreds of those Muslim terrorists remain in
Bosnia and Kosovo today.

Since the end of the war in 1999 and the arrival of KFOR troops in
Kosovo over 150 ancient Serbian churches have been destroyed. For the
most part the press has remained silent. The same press that demanded
human rights and religious tolerance for Bosnian Muslims continue to
deny the Serbs equal justice as Serbs have been made nearly extinct in
Kosovo where they were a majority of the population in 1939 the year
in which I was born.

The media tells us that Albanians are a majority of Kosovo but never
publish the fact that 40% are illegal aliens who cross the border into
Serbia as easily as Mexicans cross our borders each night in San Diego.



Page 4

In the preface to his book "A Witness to Genocide" which is truly an
oxymoron. Roy Gutman wrote, and I quote: "Having set such lofty
standards, I immediately make an exception and wrote about the Omarska
camp which I had not visited, based on secondhand witness accounts."
end quote.

Gutman wrote to my author refusing permission for Peter to quote from
A Witness to Genocide, so we paraphrased his quotes. Meanwhile his
publisher, Simon and Schuster said we could quote from their book then
charged us $450.00 for the privilege.

Media Cleansing: Dirty Reporting documents how many journalists
covering the Balkan Civil Wars also made exceptions to their lofty
standards they, lied, fabricated, and distorted the truth. They
repeated the propaganda of other journalists ad nasuam. Like Gutman
they trampled on journalistic ethics, integrity and morality for their
bylines.

The recent SkyNews release of Bosnian Muslim video footage of Serbs
being rounded up, tortured and shot at point blank range has not
gotten the attention of the media nor Carla Dela Ponte who dismisses
all the crimes committed against Serbs guaranteeing that Muslim war
criminals will all go free. Just like the 20,000 Nazi Hanjar troops
did in Bosnia in WWII after they liquidated tens of thousands of Sebs,
Jews and Gypsies. Have we not learned any lessons?

On March 15th, 1993 French journalist Jerome Bony, reporting from the
Muslim stronghold of Tuzla said: and I quote: "When I was at 50
kilometers from Tuzla, I was told go to the Tuzla gymnasium, there you
will find 4,000 raped women." "At 20 kilometers, this figure dropped
to 400. At 10 kilometers, only 40 were left. Once at the sight, I
found only four women to testify." End Quote.

And this is the sort of evidence that gave us headlines screaming
60,000 rape victims in Bosnia, an absurd claim that to this day has
never been exposed as a fraud by the American media.

I attended a panel discussion at Long Beach State in California on
April 15th that year in which Jacques Merlino, Deputy Chief Editor on
Antenna 2 in Paris told his audience: And I quote:

Page 5

"All journalists in Bosnia are required to submit their articles to
Bosnian censors in Sarajevo." "Notice that any reference to conflicts
between Croatians and Muslim forces are heavily edited, visual images
of these conflicts are forbidden. Any journalist breaking these rules
is expelled from Bosnia." End Quote.

In other words John Burns accepted half a Pulitzer and never told his
readers that he abided by this kind of censorship. It also makes me
wonder what kind of Bosnian democracy did Madeleine Albright built on
such deceptions.

In his December 1993 editorial in Strategic Policy Gregory Copley
wrote: I quote: "The big lie technique is alive and well. Croatia
has used the media and skillful image manipulation to hide its renewed
genocide against the Serbs while at the same time ensuring that Serbs
are themselves wrongly accused of the same type of crime, and more.
Pictures of dead, wounded (or raped) Serbs often fill the screens of
the world's television and print media, only to be re-labelled as
dead, wounded or raped Croats or Muslims. Serbs—not only suffer the
indignity of defeat in death; they also are used in death as models in
the macabre image manipulation operations of the Croatians and Muslim
Bosnians." End quote.

Mr. Brock's career as a newspaper journalist for more than 30 years is
highlighted by 17 professional awards – including being named a
finalist for the 1989 Pulitzer Prize competition for Public Service.

Recognized as a political and environmental writer and investigative
reporter, Mr. Brock holds the Southern Journalism Award for
Investigative Reporting (Duke University), the Thomas L. Stokes Award
for Environmental Reporting of the Washington Journalism Center, and
15 other distinctions.

He has widely traveled the Balkans, Western Central Europe, the former
Soviet Union, the Middle East and other regions since 1976.
A specialist in the role of the Western media in the Balkan wars, Mr.
Brock's controversial articles and reports were reprinted in major
newspapers worldwide. He appeared on nationally-televised panel
discussions that focused on the Yugoslav wars, and he was interviewed
by numerous domestic and international newspapers, television and radio.


Page 6

During his career, he has covered organized crime, drug-trafficking,
and the unique politics along the U.S.-Mexican border as well as
critical water issues in that desert climate.

His "Dateline Yugoslavia: The Partisan Press", published 13 years ago
in the journal Foreign Policy set off shock waves in Washington and
the media that are still rippling. The publisher was regaled into
organizing a virtual accountability session at the Carnegie Endowment
for International Peace. Brock appeared with David Binder, facing a
roomful of media "pit bulls," and restated his findings about the
co-belligerent Western pack journalism maneuvering and manipulating
for NATO intervention, incouraging NATO to violate it own defensive
treaty.

But, that wasn't enough for his critics who harangued Brock as a
"holocaust denier" until they ran out of breath.

In preparation of Media Cleansing…, Peter confronted his colleagues
about their professional lapses and collusion with the secessionist
Yugoslav governments – and our own State Department.

He did what any good investigative reporter does. He searched for
information and waited patiently as the story developed, talking with
scores of professionals and eventually tracking down the offending
correspondents one-by-one, some of whom refused to answer questions.

They complained to his superiors at his newspaper, and even threatened
him with lawsuits. He caught up with one Pulitzer Prize winner at an
international Balkan conference in Sweden and unrelentingly questioned
him from the audience.

One of the best lines in his book is from the editor of a top
supermarket tabloid who, when asked about the shrill and surreal
war-coverage by the American media flagships, answered: and I quote:
"They're doing a better job of it than we could!" end quote.

Peter Brock began his newspaper career at The Philadelphia Inquirer,
served for 20 years with The El Paso (Texas) Herald-Post, and
wrote/reported/edited for newspapers in New Mexico, Colorado and
Washington, D.C. Ladies and gentlemen, I am proud to introduce a true
professional, an expert at his craft and my friend, Peter Brock.

Fonte: http://it.groups.yahoo.com/group/tera_de_confin/message/11674

www.unive.it/media/allegato/dep/Ricerche/
4-I_bambini_sloveni_nei_campi_di_concentramento_italiani.rtf -


I bambini sloveni nei campi di concentramento italiani (1942-1943)

di Metka Gombac

Il tema dei bambini vittime della guerra non è stato ancora esplorato
a fondo. Benché nella retorica quotidiana i giovani assumano il valore
di simbolo del futuro, ben poco in verità, si è indagato sulla loro
condizione e sulla loro sorte in una guerra senza quartiere, come la
seconda guerra mondiale. Il diario di Anna Frank ha forse consentito a
molti di intuire di che cosa nazismo e fascismo sono stati capaci
contro i bambini, ma, come si può evincere dalla storia qui
raccontata, quello di Anna fu soltanto un tassello di una tragedia
molto più vasta.

La seconda guerra mondiale portò violenze e traumi ai bambini nel
nordest d' Italia (dove furono eretti campi di concentramento) e
nelle regioni contigue della Slovenia e della Croazia (serbatoio di
rastrellati ed internati). Da quando la Jugoslavia entrò nell´orbita
dell'imperialismo italiano, tedesco ed ungherese, per i suoi abitanti
non ci fu più pace. Dopo l'aggressione alla Slovenia (avvenuta il 6
aprile 1941) le forze dell'Asse decisero di dividersi il territorio
conteso: il Reich tedesco optò per le regioni del nord (lo Stayer e la
Carniola superiore), l'Ungheria per le regioni a ridosso del fiume
Mura e l'Italia per le regioni che dalla Sava scendevano verso sud,
verso la provincia di Fiume e verso la Croazia. Le forze d'occupazione
italiane tentarono di assimilare su un territorio di 4.450 chilometri
quadrati ben 336.279 sloveni che, con il decreto reale 291 del 3
maggio 1941, istitutivo della Provincia di Lubiana (fuori da ogni
legge di guerra), divennero sudditi del Regno d'Italia. Mussolini
nominò a capo di questa Provincia due funzionari, Emilio Grazioli come
Alto Commissario per le questioni civili e il generale Mario Robotti,
comandante dell XI armata, per le questioni militari. Anche se i
rapporti ufficiali delle autorità che da Lubiana andavano a Roma
notificavano un' occupazione relativamente tranquilla, l'OF, il fronte
di liberazione sloveno (una coalizione formata da comunisti, da
cristiano sociali e da frange dissidenti liberali), che dal 27 aprile
1941 dirigeva da Lubiana tutto il movimento di liberazione, accertava
che già nei primi giorni d'occupazione ben 400 intellettuali sloveni e
fuoriusciti dalla Venezia Giulia erano stati rinchiusi senza alcun
fondato motivo. Era vero dunque, come riferivano i rapporti dell'OVRA,
che sotto una pace apparente covava il malcontento e che gli sloveni
mal sopportavano l'occupazione italiana. Anche a parere di Natlacen,
Pucelj e Gosar, i dirigenti politici dei partiti sloveni che avevano
scelto di collaborare, l'occupazione da parte delle forze tedesche
sarebbe riuscita più gradita dell'occupazione italiana. Stereotipi di
superiorità verso i latini, stereotipi diffusi in Austria già dal
tempo di Radetzky, suggerivano ai lubianesi una preferenza esplicita
per il Reich. Il malcontento cresceva anche a cusa dei frequenti posti
di blocco, dell'introduzione della lingua italiana
nell'amministrazione e nella scuola pubblica e dell'impatto negativo
dell'esercito con la realtà locale. Inoltre le manifestazioni di
esplicito razzismo non potevano non incrinare le relazioni tra le
forze d'occupazione e la realtà locale. Dichiarazioni come quella del
prefetto Temistocle Testa che gli sloveni erano «un popolo che ogni
giorno di più sta dimostrando di essere quello che sempre è stato,
cioè una razza inferiore che deve essere trattata come tale e non da
pari a pari», sono un significativo esempio[1].

Dopo l'attacco all'Unione sovietica, l'OF, il movimento di liberazione
sloveno, proclamò la guerra armata contro tutti gli invasori,
organizzando a Lubiana, ma anche in altri luoghi della Slovenia, una
rete di strutture illegali tra le quali la Difesa popolare, il
Servizio di informazioni, il Servizio per il finanziamento della
lotta, il Centro di raccolta viveri e armi e il Soccorso nazionale
sloveno (sulla falsariga del Soccorso rosso). Lo stesso schema venne
ripetuto nelle città di Vrhnika, Logatec, Novo Mesto, Kocevje,
Crnomelj e altre ancora, dove esistevano già alcuni gruppi di
partigiani armati pronti ad agire. Per mobilitare la popolazione si
istituirono sistemi di comunicazione illegali (radio e quotidiani) che
dovevano creare un' atmosfera utile al boicottaggio generale di tutte
le forze d'occupazione[2].

Uno dei primi ordini per colpire le comunicazioni ferroviarie e
stradali fu dato il 19 ottobre 1941. I gruppi armati partigiani
attaccarono con successo nelle zone boschive vicino a Vrhnika il ponte
di Verd e per qualche tempo tutti i collegamenti ferroviari e stradali
da Lubiana all'Italia furono interrotti. Questa azione soprese i
comandi dell'esercito d'occupazione che reagì con una controffensiva
organizzata dal generale Robotti il quale si avvalse della sua
competenza nella lotta antipartigiana. Ma questo continuo passare al
settaccio regioni intere creò tra la popolazione residente un grande
disagio e un grande malcontento, da cui trasse vantaggio la resistenza
slovena che andò ingrossando le file del proprio movimento.

Anche se i reparti armati partigiani dovettero temporaneamente
ritirarsi in zone più sicure (un triangolo tra Lubiana il confine con
la Croazia e la Provincia di Fiume), un mese più tardi il comando
italiano constatò che le azioni partigiane si stavano ripetendo e che
molte postazioni periferiche non potevano più essere mantenute. Gli
attacchi alla cittadina di Loz (19 ottobre 1941), al ponte di Preserje
(4 dicembre 1942) e nuovamente al viadotto di Verd (2 febbraio 1942),
sulla linea ferroviaria Lubiana - Trieste, crearono difficoltà
insormontabili ai vertici dell' esercito. Fu allora che il generale
Mario Robotti pensò dapprima di regolare i conti con il suo
concorrente per gli affari civili Grazioli e poi di mettere a ferro e
a fuoco tutta la regione a sud della capitale slovena. Nel gennaio del
1942 egli sottolineò che tutta la provincia di Lubiana, e in
particolare la sua capitale, andavano considerate zona di operazioni.
Consapevole del fatto che la direzione della resistenza slovena aveva
sede a Lubiana, Robotti decise di porre la citta' sotto controllo
cingendola con cerchi concentrici di filo spinato intervallati da
posti di blocco superabili soltanto con lasciapassare italiani. Sin
da 23 febbraio 1942 la divisione di fanteria «Granatieri di Sardegna»,
coadiuvata dai carabinieri, dalla polizia e dalla guardia alla
frontiera, dette il via alla cosidedtta azione di disarmo della
popolazione cittadina, ossia ad accurate perquisizioni delle persone e
delle loro abitazioni. Ogni giorno fu sottoposto a tale provvedimento
uno dei quattordici settori della città e tutti gli uomini tra i venti
e i trent' anni di età vennero trasferiti nella caserma Vittorio
Emanuele III di Tabor per essere identificati da delatori sloveni che
vestivano uniformi italiane. Questo grande rastrellamento si protrasse
a Lubiana per ben 19 giorni, fino al 14 marzo 1942, e i dati riportati
nei rapporti parlano della cattura o dell'arresto di ben 20.037
persone. Anche se questa imponente serie di rastrellamenti urbani non
riuscì a intaccare la struttura dirigente della resistenza slovena,
molti resistenti dovettero subire un destino segnato da baracche e da
filo spinato. Sui treni che partivano verso i campi di concentramento
di Gonars, Visco e Renicci presero posto moltissimi attivisti e
attiviste del fronte di liberazione, ma anche tanti e tante
intellettuali ed ex ufficiali dell' esercito jugoslavo. Più tardi
l'azione repressiva si intensificò con l'attività del Tribunale
militare di guerra (TMG) che iniziò la sua attività nella primavera
del 1942 con la condanna a morte di 28 partecipanti alla distruzione
del viadotto di Preserje. Il TMG continuò ad operare fino all'
armistizio dell' 8 settembre 1943[3].

Dopo l'ordine di Mussolini a Gorizia del 31 luglio 1942, secondo cui
bisognava «ammazzare tutti i maschi slavi», il II Corpo d' Armata
pubblicò, in forma riservata, un documento volto stroncare il
movimento di resistenza sloveno, e cioè la Circolare 3 C, contenente
le direttive per la repressione sia del movimento armato che dei
civili in Slovenia. La circolare fu firmata dal generale Mario Roatta,
militare di professione, nato a Modena nel 1887 e comandante dal
gennaio del 1942 della II armata, quella che controllava la Dalmazia,
la costa croata e le zone montane della Provincia di Lubiana. Nel 1944
Roatta fu condannato dagli alleati all' ergastolo in contumacia[4].

Fu in base ai suoi ordini che l'esercito italiano effettuò una serie
di massicci rastrellamenti contro la popolazione civile, che si
protrassero dall'estate 1942 fino all'autunno dello stesso anno. Ben
70.000 soldati italiani dislocati sul fronte balcanico passarono al
settaccio un terreno di 3.000 chilometri quadrati a sud di Lubiana,
dove vennero rasi al suolo centinaia di paesi, effettuati massacri
indiscriminati di ostaggi e da dove vennero mandati in internamento
nei cosiddetti «campi del Duce» circa 30.000 persone, in gran parte
donne, vecchi e bambini. Due di questi campi di concentramento per
civili furono istituiti a ridosso del fronte SLO-DA verso i
partigiani, uno sull´isola di Rab - Arbe e l´altro sull´isola di Olib,
altri ancora furono eretti a ridosso del vecchio confine
italo-austriaco in Friuli e nel Veneto nelle località tristemente note
di Gonars, di Visco, di Monigo presso Treviso e di Renicci presso
Padova[5].

A soffrire di più in questi campi furono senz´altro i bambini. Sembra
che fino ad ora, né la storiografia, né le testimonianze orali siano
riuscite a tracciare una quadro esauriente del vissuto dei bambini,
l´anello piu' debole nella catena di coloro che nel corso del
conflitto subirono violenza. Il bambino rimane ancora sempre
fatalmente legato al mondo degli adulti, soprattutto nelle condizioni
estreme portate dalla Guerra e dall´internamento. In riferimento ai
bambini che hanno subito la violenza di un campo di concentramento, si
parla generalmente di «infanzia violata», di una sindrome, dunque,
indelebilmente impressa nella loro memoria. Come ebbe a dire nel corso
di un´intervista Herman Janez, uno dei bambini sopravissuti sia al
campo di Rab che a quello di Gonars: «dal 1952 sono ritornato a Rab
per ben 52 volte per ricordare i miei parenti e tutti quelli che sono
morti lì, ma anche per ritrovare un pezzo di me stesso. La mia
infanzia è rimasta per sempre lì»[6].

Nell´aggressione italiana alla Slovenia, anche i bambini, al pari
delle generazioni adulte, pagarono il loro prezzo in termini di
violenza e terrore. Conobbero fatalmente anche i rastrellamenti, gli
incendi, la morte, lo stigma razziale e nazionale, la
snazionalizzazione forzata e la deportazione nei campi di
concentramento dove andarono incontro all´eliminazione fisica nella
forma più brutale. Quando la guerra nella provincia di Lubiana divenne
totale, gli adolescenti, assieme ai loro genitori, si ritrovarono in
una condizione di disorientamento e smarrirono la propria gioventù.
Qualcuno li aveva spinti in un mondo che non era il loro mondo e
questo qualcuno aveva progettato per loro la deportazione nei campi e
l´incontro quotidiano con la morte.

Indagando le motivazioni di questo terrore generalizzato, ho
incontrato presso l´Archivio di Stato sloveno una serie di scritti e
di disegni infantili, che parlano proprio delle condizioni di vita dei
bambini sopravissuti ai campi del Duce. L'impulso a redigere questi
scritti fu dato a questi giovani diseredati dalle autorità scolastiche
partigiane nei territori liberi già negli anni 1944-45, per
salvaguardare in questo modo la memoria e la personalità di queste
piccole vittime della guerra. In una dichiarazione scritta da Drago
Kalicic di dieci anni si può leggere:

Io sono senza padre. È stato fucilato dagli Italiani. Un giorno sono
entrati nel mio paese. Ci hanno fatto uscire dalla casa. Tutti
piangevamo disperati ma mia mamma era quella che forse piangeva di
più. Hanno preso e rinchiuso mio padre. Con lui hanno portato via
tanti altri uomini. Poi ci hanno fatti andare in fila verso il paese
di Zamost dove hanno fucilato dodici uomini. Tra questi c´era anche
mio padre. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto tanto. Poi hanno
bruciato la nostra casa e ci hanno portati verso l´internamento[7].

I deportati, e soprattutto i bambini, conobbero una nuova drammatica
realtà, quella di dover sopravvivere nei campi di concentramento,
praticamente senza cibo, con poca, pochissima acqua e in condizioni
igeniche e sanitarie inumane. A causa di queste condizioni morirono
nel breve, ma anche nel lungo periodo, numerosissimi adulti persero la
vita e anche tanti bambini. La prima vittima del campo di Rab - Arbe
fu proprio un bambino, Malnar Vilijem, nato a Zurge presso Cabar il 22
maggio 1942. Così scrisse nella cronica del monastero francescano di
Sant' Eufemia di Rab, il frate Odoriko Badurina: «Ieri, 5 agosto 1942,
abbiamo sepellito nel locale cimitero un piccolo angelo di due mesi,
Vilijem Malnar, la prima vittima tra questi internati»[8].

La condizione degli internati variava da campo a campo. Se per il
campo di concentramento per civili di Gonars in Friuli, gestito dal
Ministero degli Interni, si può affermare che rispondesse a requisiti
minimi di vivibilità (pacchi, posta, biancheria personale ecc.), la
situazione nei campi di internamento parallelo, come li definì Carlo
Spartaco Capogreco, era completamente diversa. Qui, gli internati,
donne, vecchi e bambini, erano costretti ad una disperata lotta per la
sopravvivenza, nascosti al mondo ed anche agli occhi indiscreti della
Croce Rossa internazionale. L'esercito italiano, che gestiva questi
campi (Rab, Olib), aveva già alle spalle una certa esperienza nella
realizzazione di campi di concentramento; basti pensare a quelli
eretti in Libia dal generale Graziani in cui trovarono la morte
migliaia di internati. Il campo di concentramento di Rab - Arbe
rispondeva proprio al modello dei campi creati da Graziani in Africa e
non fu per caso che a Rab - Arbe e negli altri campi gestiti
dall´esercito morirono di fame, di sete, di freddo e di stenti
migliaia di civili[9].

Il sistema concentrazionario realizzato dall´esercito italiano nei
territori occupati della Slovenia, per il numero dei deportati e delle
vittime e per i metodi di gestione realizzati a Rab - Arbe, ricordava
più i peggiori campi di concentramento africani, che non le forme di
internamento degli oppositori del regime. La stessa presenza di
vecchi, donne e bambini nei campi è illuminante a proposito. Tutti i
campi realizzati dall´esercito nel corso della seconda guerra mondiale
furono definiti ufficialmente «campi di concentramento». Carlo
Spartaco Capogreco ha definito giustamente illegale o meglio «fuori
legge» l´internamento dei civili sloveni praticato dal regime fascista
dopo l´invasione della Jugoslavia. Invasione, che peraltro avvenne al
di fuori di ogni legge di guerra con il bombardamento improvviso di
Belgrado e, in seguito, con l´annessione della Slovenia all´Italia già
nel corso della guerra. Occorre anche distinguere, e in questo ci
aiuta molto l'analisi di Tone Ferenc, tra la violenza espressa in
queste zone dall'esercito italiano nel 1941, violenza mirata ad
obiettivi politici e militari ben definiti, e quanto avvenne a partire
dal 1942, quando fu decisa e attuata una vera e propria strategia del
terrore verso la popolazione civile. Le nuove direttive proposte da
Roatta e dagli alti comandi, in un quadro ideologico marcatamente
razzista, prevedevano l´utilizzo contro i civili degli stessi metodi
applicati dai nazisti sul fronte orientale: dall´incendio dei
villaggi, alla fucilazione degli ostaggi, alla deportazione in massa
in campi di concentramento per creare il vuoto attorno alle forze
partigiane. In questo quadro non dovrebbe sorprendere che il tasso di
mortalità registrato nel campo di concentramento di Rab - Arbe, a
causa della fame, del freddo e delle spaventose condizioni igenico -
sanitarie, sia stato per lunghi periodi superiore a quello dei
peggiori campi di concentramneto nazisti, se si escludono quelli di
sterminio. La differenza consiste solo nell´assenza di camere a gas e
di crematori, sostituiti però da condizioni di vita insopportabili, di
cui, ovviamente, furono i bambini le vittime principali. Si tratta in
ogni caso di morti che non possono essere attribuite a fattori casuali
e non previsti, come potrebbero esserlo le espidemie in conseguenza
del sovraffollamento. L´alto numero dei decessi è il risultato di
decisioni prese a tavolino, nel momento in cui si programmava, ad
esempio, un vitto del tutto insufficiente. Ciò avveniva, sia per non
sottrarre risorse all´esercito, sia per rendere i prigionieri più
deboli e quindi più controllabili con il minor impiego di truppe. Non
si condanna a morte, quindi, ma si lascia morire, e questo non solo
nell´inferno di Rab - Arbe. A morire per primi furono i bambini, sia
quelli giunti con le tradotte, che quelli nati nei campi.
L´internamento e la morte dei neonati venivano considerati dai vertici
dell´esercito un collateral damage, da non prendersi seriamente. Le
rubriche ufficiali del campo di Rab - Arbe distinguono i decessi
unicamente secondo il genere. Se non fosse per i documenti d´archivio
e per le testimonianze dei soppravvissutti, non saremmo mai riusciti a
sapere che le vittime più numerose del campo di Rab - Arbe furono
proprio i bambini. Questi arrivavano al campo con i genitori o, se
orfani, con parenti o conoscenti. Così Herman Janez, che nel 1942
aveva 7 anni, ricorda l´arrivo a Rab - Arbe:

Dalle nostre montagne ci hanno trasportato fino a Bakar, un'
insenatura a sud di Fiume, dove abbiamo dormito all' addiaccio. Mio
nonno stette tutta la notte a ripetere che ci avrebbero buttati in
mare. Il giorno seguente partimmo senza sapere dove ci portassero.
Giungemmo a Rab, dove ci divisero per sesso e per età. Praticamente ci
avevano diviso definitivamente. Io che ero senza madre dovetti
lasciare mio padre e mio nonno per andare nella parte del campo
riservato alle donne e ai bambini. La paura di restare solo mi fece
urlare e piansi così fino al giorno successivo, quando mi trasferirono
in un campo intermedio. Mio padre non l´ ho più avuto vicino e
soltanto a Gonars mi riferirono, alcuni mesi più tardi, che era morto.
Dormivamo in tende vecchie e logore che facevano passare l´acqua e
dove si entrava a carponi. La latrina era molto lontana e di notte
facevamo fatica a raggiungerla. Nel caldo torrido dell´estate non si
poteva trovare alcuna ombra. Pativamo la sete, la fame e l´attacco di
una moltitudine indicibile di pidocchi. Il ruscello che scendeva dal
campo maschile e attraversava il nostro campo era pieno di pidocchi e
non ci si poteva lavare. Quando arrivava la cisterna dell´acqua le
guardie si scostavano e noi ci buttavamo come pazzi su quel fievole
rivolo d´ acqua. Quando pioveva il campo diventava una distesa di
fango impercorribile. La sporcizia ci faceva impazzire[10].

Quando nella notte dal 28 al 29 settembre 1942 un nubifragio travolse
il campo femminile e l'acqua di mare salì fino alle tende, molti
bambini morirono scomparendo nei flutti. Le autorità del campo non
fecero niente per salvare gli internati, ma dopo un po' incominciarono
i trasferimenti nel campo superiore chiamato Bonifica e le tende
vennero sostituite da baracche. Poiché la mortalità aumentava di
giorno in giorno, le autorità militari, verso la fine del 1942,
decisero di trasferire i bambini e le donne più provati in altri campi
di concentramento, come quelli di Gonars e di Visco[11].

Una sopravissuta, Marija Poje, che oggi ha 84 anni e vive a Podpreska
vicino a Draga, nelle vicinanze di Loski potok, e che trascorse 5 mesi
infernali al campo di Rab - Arbe con il suo bambino, ricorda così il
trasferimento a Gonars:

In una mattina fredda e piovosa di dicembre ci hanno fatti salire su
una nave stracolma che avrebbe dovuto trasportarci non si sapeva dove.
Quel giorno fuori dal porto si vedevano le onde alte e burrascose. La
stiva era stipata da tantissima gente, però qualcuno ebbe pena di me e
del mio bambino e ci fece sedere nella stiva riparati dalla pioggia e
dall'acqua di mare. Giungemmo a Fiume la mattina seguente,
infreddoliti e affamati. Ci diedero una tazza di caffè e un pezzo di
pane, prima di farci salire sul treno che ci trasportò fino a
Palmanova. Poi con dei camion venimmo trasportati al campo di
concentramento di Gonars dove ci misero nelle baracche. Per noi era
una meraviglia sentire la pioggia e rimanere asciutti, perché a
Rab, se pioveva, anche stando nelle tende eravamo tutti bagnati. Ci
portarono poi in infermeria per disinfestare i nostri vestiti dai
pidocchi e farci fare la doccia. Chiesi a qualcuno che stava lì dove
dovevo posare il mio bambino prima di entrare nel reparto docce e mi
dissero di posarlo su un mucchio di stracci per quel po' di tempo. Ma
appena entrata nello stanzone qualcosa mi fece uscire per vedere se il
mio bambino fosse sempre lì. Mi si strinse il cuore, quando vidi che
non c' era più. L'inserviente alla fornace a vapore dove passavano i
vestiti per disinfestarli dai pidocchi aveva preso il mucchio dove
avevo posato il bambino gettandolo nella stufa. Per fortuna non
l'aveva ancora attivata e un gemito si sentì proprio in quella
direzione. Corsi verso quella stufa a vapore come una matta
riprendendomi il mio bambino. Mia suocera mi aiutò molto, asciugando i
pannolini bagnati sulla schiena. Ma alla fine questo bambino non
sopravvisse e non sopravvisse neppure mia suocera e neanche il bambino
che dovevo ancora partorire[12].

Nel campo di Gonars, dove dal 1942 erano passati molti internati della
provincia di Lubiana, l´arrivo di centinaia di questi poveretti
provenienti dal campo di Rab - Arbe (i miserabili di Rab) provocò un
profondo sconvolgimento tra gli internati del campo. La vista di
quegli scheletri ambulanti provocò in molti un intenso sentimento di
compassione e diede impulso a gesti di solidarietà. Molti cercavano
di aiutare i superstiti di Rab dando loro il cibo che arrivava
dall´esterno con i pacchi, o capi di vestiario vecchi, oppure
semplicemente fornendo loro notizie fresche. I volti di quei bambini
ammutoliti, che restavano fermi negli angoli per giorni interi senza
muoversi, restarono impressi non solo nei disegni del pittore Stane
Kumar, ma anche nella memoria di tanti internati, bambini compresi.
Ricorda nel suo scritto Milan Cimpric di 9 anni:

A Gonars si pativa una tale fame che faccio meglio a non pensarci.
Mangiavamo anche le bucce che i cuochi buttavano nella fossa delle
immondizie. Una volta siamo caduti tutti quanti in questa fossa e io
ero sotto. Gli altri sono cascati sopra di me. Avevo male alle ossa.
Ho trovato poche bucce. E' stato così triste a Gonars[13].

Queste memorie infantili scritte in pieno tempo di guerra sono
toccanti anche per il loro linguaggio semplice, senza abbellimenti, ma
con l´aggiunta di disegni e schizzi che vorrebbero rappresentare quei
piccoli episodi di felicità o di paura che si erano fissati nella
memoria dei bambini durante la permanenza nel campo di Gonars.

La vita degli adulti nei campi era assorbita dai tentativi di
arrangiarsi e sopravvivere. Ma era difficile non vedere che la
sofferenza dei bambini aumentava di giorno in giorno. I bambini più
provati erano soprattutto quelli senza genitori, benché si trovasse
sempre qualcuno che prendeva il loro posto. Stane Kumar, noto pittore
sloveno anch´egli internato, aveva pensato di alleviare il proprio
dolore facendo degli schizzi ai bambini affamati sia nel campo di Rab
- Arbe che in quello di Gonars. Nelle sue memorie parla della
terribile fame che rendeva i bambini apatici e anemici:

Ho visto la fame della prima guerra mondiale, ma quella non era fame
vera. Quella veramente reale era la fame nei campi dove ad ogni passo
ritrovavi due paia di occhi che ti chiedevano di sfamarli, di dar loro
qualcosa da mangiare. I bambini diventavano ottusi e stavano seduti
negli angoli delle baracche senza parlare. Morivano in tanti di fame e
tu non potevi far niente[14].

Che i bambini fossero l´anello più debole della catena dei diseredati
finiti nei campi di concentramento italiani, lo conferma l´«amnesia»
della direzione dei campi stessi, che dimenticò di annotare, tra i
25.000 internati sloveni, il numero dei bambini che fecero il loro
ingresso nel campo, il numero di quelli che vi nacquero e che vi
persero la vita. Alcuni dati sporadici della fine di agosto del 1942
parlano, per il campo di Arbe, di 1000 bambini sotto i 16 anni, mentre
per il campo di Monigo presso Treviso i dati a nostra disposizione per
il 1943 parlano di 979 bambini su 3.188 internati. Anche se sulle
deportazioni e sull´occupazione italiana della provincia di Lubiana,
esiste oggi in Slovenia una vasta documentazione, molti dati sui campi
sono tuttora irreperibili, sia per la fretta con la quale le forze
d´occupazione lasciarono la Slovenia, sia perché le autorità, nella
loro ignominia, non badavano troppo alle cifre dei vivi o dei morti,
degli arrivi e delle partenze, delle nascite e dei decessi nei campi.
Per una riflessione su queste reclusioni forzate ci restano le
testimonianze dei sopravvissuti e i componimenti dei bambini ai corsi
scolastici organizzati nei territori liberi partigiani:

Erano corsi - ricorda Herman Janez - che venivano organizzati proprio
in questa stagione 60 anni fa. E' giugno. Le giornate sono lunghe e
calde. Siamo gli alunni delle scuole partigiane di Podpreska, di
Draga, di Trava, di Osilnica sul fiume Kolpa. Le lezioni vengono
tenute quando non ci sono rastrellamenti in corso. Soprattutto a
Podpreska e a Draga. Maestre pronte al sacrificio ma umili e gentili
vedono davanti a sè nelle classi improvvisate i volti di questi alunni
già provati seriamente dalla tragedia dei campi, segnati per tutta la
vita. Noi siamo i bambini della guerra. Le lezioni ormai si svolgono
tutto l'anno dal gennaio 1944 in poi. Si svolgono nelle case
risparmiate dalla guerra, nelle camere dei contadini locali dove
troneggiano stufe di terracotta enormi che mai si spengono. Qui siamo
a 1000 metri d'altezza e le patate appena crescono. Gli occhi dei
bambini sono grandi. Sono vestiti malamente e in generale sono tutti
scalzi. Qualcuno li accompgna a scuola e qualcuno viene a riprenderli.
Sono tanti, ma la maestra Nada Vrecek del paese di Trava, numero
civico 96, è la maestra con il maggior numero di alunni. Tra loro ben
74 sono senza padre. O è morto a Rab o è stato fucilato come ostaggio.
Soltanto uno è stato fucilato dai partigiani. La maestra Nada è in
continuo movimento, ora per ora, giorno per giorno, perchè le lezioni
si tengono in case diverse. Gli alunni sono stati assenti da scuola
per due anni e allora si capisce che c' è ancora tanto da fare. Una
volta forse scoppierà la pace e allora voglio, diceva Nada, che siate
alla pari con queli che non hanno perso 2 anni di scuola. Queste
scuole improvvisate non hanno né lavagne né banchi e i bambini sono
senza libri e senza quaderni. Rifanno la materia a memoria. Se qualche
gruppo partigiano attraversa il paese, si rimedia una o due matite,
che vengono attentamente tagliate in 3 pezzi, per essere poi divisi
tra gli alunni. Questi scolari, questi «miei poveri bambini», diceva
sempre Nada, un giorno diverranno adulti. Si dovrano promuovere in una
società che non ricorderà i patimenti patiti. Un giorno sarete tutti
uguali e Dio vi benedica per questo, ma attenzione, nessuno vi darà
dei privilegi per quello che avete patito. Quelli che sopravviveranno
dovranno lottare per il pane quotidiano. La maestra Nada Vrecek ha
insegnato per 54 anni. Oggi è nel suo novantaseiesimo anno di età.
Ancora oggi è solita ripetere che «gli anni passati tra questi bambini
sono gli anni piu' sentiti della mia vita e non vorrei mai dimenticare
nessuno tra loro». Ma noi eravamo pieni di paura. Eravamo ancora
abbastanza magri e non potevamo stare mai fermi. C'era ancora la
guerra, molte case erano ancora allo sfascio, gli ex internati erano
ancora privi di tutto. Si temevano soprattutto i collaborazionisti,
che si facevano vedere soltanto quando non c´erano partigiani in
circolazione. Si sapeva che la loro comparsa era accompagnata dalla
morte. Si facevano chiamare «quelli della mano nera» ed erano
veramente pericolosi. Per non mettere in difficoltà la nostra maestra,
alla loro comparsa cantavamo canzoni di chiesa e al saluto
provocatorio di «morte al fascismo» rispondevamo «buon giorno
signori». Parlavamo molto tra noi. Soprattutto alla sera si parlava
dei patimenti subiti, dei nostri genitori scomparsi, della fame e
della sete. Noi bambini internati avevamo sempre molto da raccontare.
A volte queste storie venivano soffocate da un pianto sfrenato al
quale seguiva il pianto di tutti noi. Rivivevamo così la nostra
tristezza, la nostra paura e il ricordo dei nostri cari. Vivevamo
assieme la nostra grande miseria umana, che qualcuno pensò sarebbe
bene esternare e farci passare così il trauma subito[15].

Negli scritti e nei disegni dei bambini internati conservati presso
l´Archivio di Stato di Lubiana si può intravvedere questo trauma della
fame e dell´inedia a cui si univa l´inclemenza della natura. I maestri
che proponevano i temi e che poi di volta in volta annotavano i voti
sui fogli, erano essi stessi dei sopravvissuti ai campi e qualcuno di
loro aveva perduto in quell´inferno il proprio bambino o uno dei suoi
cari. Erano dunque le persone più adatte per accogliere il dolore dei
bambini passati nei campi e comprendere i loro traumi[16].

Essi sapevano che quelle tende, di volta in volta fradice e
surriscaldate, non sarebbero mai scomparse dalla memoria dei bambini e
che le esperienze narrate nello scritto di Ivan Stimec di 10 anni non
si sarebbero mai cancellate:

Siamo stati deportati a Rab. Abbiamo vissuto in tende vicine al mare.
Dormivamo sulla terra nuda. Una notte mentre dormivamo, il vento
incominciò a soffiare ed incominciò a piovere. L'alta marea era
cresciuta e l'acqua ci arrivò fino alle ginocchia. Abbiamo pianto e
chiamato aiuto. Volevamo scappare, ma le guardie non ci lasciarono
uscire dal recinto. Il mare continuò a crescere e molti bambini
morirono annegati, mentre i nostri vestiti furono trascinati via dall´
acqua. La mattina dopo la burrasca si calmò e uscì il sole asciugando
e scaldando i nostri corpi, scossi dal freddo e dalla paura[17].

La serie dagli scritti infantili continua con i ricordi delle delle
cose belle e calde legati al tempo antecedente la distruzione dei
paesi. I bambini rivedono le mucche lasciate sole a casa, o il viaggio
verso l'isola di Rab - Arbe, o le cose di casa, il fuoco nel cammino o
la casa stessa. Come scrisse Vera Cimpric di 9 anni:

Sono stata internata per 9 mesi. Pensavo spesso alla mia casa perduta.
Ma quello che mi faceva piu' male era il pensiero del nostro bestiame.
Quelle che preferivo erano le mucche, perchè ci davano tanto latte. Si
chiamavano Ruska e Breza. Quando dovevo pascolarle, pensavo che era
difficile pascolare sempre le mucche. Ma durante l´internamento dove
non avevamo né da mangiare né da lavorare, pensavo a quanto fosse
bello essere sazi e pascolare. Dio, fa´ che possiamo avere ancora del
bestiame[18].

In tutti questi scritti la morte è onnipresente: si ricorda un coro
che canta sulla fossa di una sorella morta o una scatola di cartone
contenente il corpo di un amico ridotto ad uno scheletro. Come scrisse
Mrle Slavka di 9 anni:

Tutti ci chiamano internati perché siamo stati internati. Siamo stati
a Treviso. Avevamo tanta fame. A Treviso e' morto mio fratello. Avevo
ancora un fratello. Quando è ritornato dall´internamento è morto
all´ospedale di Susak. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto molto[19].

Accostando le storie dei bambini ai dati d'archivio si può intravedere
una realtà agghiacciante. Come riferiva il generale Giuseppe Gianni,
da luglio a novembre 1942, a Rab - Arbe morirono ben 104 bambini.
Davanti a questi fatti le autorità italiane d´occupazione presero due
decisioni: la prima ordinava l'evacuazione di donne e bambini da Rab -
Arbe verso il campo di Gonars, la seconda ordinava ad una squadra di
fotografi di documentare le condizioni di vita nel campo. Da Rab -
Arbe a Gonars furono trasferiti tra il 21 novembre e il 5 dicembre
1942 ben 1.163 donne, 1.367 bambini e 61 uomini adulti[20].

L' 8 settembre 1943 il regio esercito italiano si dissolse. Dalla
Slovenia e dalla Jugoslavia lunghe colonne di militari disarmati
presero la via dell'Italia e anche i campi di concentramento aprirono
le loro porte. Come ricorda Marica Malnar di 10 anni:

Siamo stati internati a Treviso, avevamo fame e in inverno pativamo il
freddo. Parlavamo sempre di come era bello a casa. Volevamo andare a
casa. Un giorno i soldati entrarono nella nostra camerata e ci dissero
che saremmo tornati a casa. Lo stesso giorno siamo partiti verso casa.
Questo è stato per noi un giorno felice[21].

Nelle colonne che partivano dai campi, i bambini orfani venivano
accompagnati da parenti o gente comune, che davano loro una mano, un
pezzo di pane o di rapa. Attraversando passo dopo passo il Friuli,
qualcuno rivolgeva loro la parola e offriva un piatto di polenta. Al
momento del ritorno a casa videro tanti edifici bruciati, le stalle
distrutte e i fienili sfondati. Gli ex internati, malridotti e
affamati, dovettero organizzarsi da soli. Un grande senso di
solidarietà permise a questa gente di sopravvivere, ma alla fine
dovettero rivolgersi ai comandi partigiani, che erano però impegnati a
fronteggiare una pesante offensiva tedesca. Soltanto più tardi i
reduci dei campi ebbero un aiuto concreto dalle organizzazioni civili
della resistenza che si erano organizzate nelle zone libere. Si
provvide prima di tutto ai bambini orfani e a quelli che erano rimasti
senza casa, senza parenti o senza altre possibilità. A molti di questi
bambini l'organizzazione delle donne antifasciste (AFZ) e
l'organizzazione della gioventù socialista permisero di raggiungere
regioni non devastate dalla guerra e in cui si era istituito un
servizio scolastico[22].

L'organizzazione del Fronte di Liberazione Sloveno aveva pensato di
organizzare il servizio scolastico già dal 17 maggio 1942 attraverso
l'emanazione di un decreto che prevedeva l'organizzazione della scuola
nei territori liberati. Accanto alla lotta armata il movimento di
liberazione cercava di organizzare anche la vita civile: scuole,
ospedali, un istituto di credito e uno giuridico. Nelle zone libere
della Kocevska, lontano dalle vie di comunicazione, si era pensato di
far funzionare uno Stato partigiano in alternativa a quello di
occupazione. La scuola partigiana si sviluppò in tre fasi. Nel 1942
l'organizzazione della vita scolastica fu un progetto limitato, nato
dall'iniziativa di alcuni maestri dei reparti partigiani che avevano
pensato di istituire dei corsi scolastici per bambini delle scuole
elementari locali. Più tardi, dopo la capitolazione dell'esercito
italiano e dopo la formazione di vasti territori liberi,
l'organizzazione scolastica partigiana divenne oggetto di una
normativa da parte del Fronte di Liberazione che a partire dall'
autunno del 1944 organizzò la scuola in settori distrettuali e
circoscrizionali. La popolazione locale collaborò al buon
funzionamento della scuola. Si pensò inoltre di istituire corsi
supplettivi per chi era privo di istruzione e di articolare meglio il
lavoro dei maestri che si svolgeva in condizioni tanto difficili. Per
dare un senso a tutti questi sforzi, si pensò anche di organizzare un
concorso in componimenti che avrebbero dovuto compattare il tessuto
sociale di quanti avevano provato tutte le paure e i traumi della
guerra. La sezione scolastiva dell' OF promulgò allora un bando nel
quale si invitavano gli alunni delle scuole partigiane a scrivere la
propria storia sui patimenti vissuti nei tre anni di guerra. I temi
del concorso dal titolo «I bambini ci parlano» e «I bambini nei campi
di concentramento» volevano far ripercorrere a questa generazione
perduta la via delle sofferenze patite per ricucire il trauma e
rielaborare l'esperienza[23].

È così che si sono conservati questi scritti e questi disegni. Sono
documenti che parlano delle violenze subite dal punto di vista dei
bambini coinvolti in questa tragedia. Anche se le disposizioni del
bando recitavano «che bisognava esimersi dal patetico», gli scritti e
i disegni conservano una non comune forza espressiva. La commissione
che valutò gli scritti premiò tutti gli autori in blocco senza
prendere in considerazione gli errori di ortografia o di sintassi.
Bogomir Gerlanc, che aveva raccolto gli scritti migliori, li definì
«dei piccoli monumenti dedicati ai patimenti e alle sofferenze
subiti»[24].

In questo senso vorrei riproporre alcune riflessioni del maestro
Bogomir Gerlanc, che tanto ha fatto per far uscire le piccole vittime
dal trauma dei campi e ad inserirle nella vita quotidiana:

- siano questi scritti un documento del loro passato e delle
sofferenze patite

- siano d'aiuto alla pedagogia ed alla sociologia nello scoprire
l'animo della gioventù in condizioni estreme di sopravvivenza

- siano un documento d'accusa della bestialità umana

- siano una pagina incancellabile della sofferenza nel tempo che corre
inesorabile[25].

Nel campo della salvaguardia degli adolescenti in tempo di guerra, la
resistenza slovena aveva dato prova di una grande capacità
organizzativa già dal 1941 in poi. Si era pensato già allora di
organizzare un sistema di copertura illegale per i membri più giovani
delle famiglie impegnate nella resistenza. I figli di coloro che si
erano dedicati completamente alla lotta di liberazione venivano
affidati a famiglie che si occuparono di loro per tutta la durata
della guerra. Chi finiva in carcere o in campo di concentramento, o
veniva incluso nelle formazioni armate partigiane poteva contare su un
vasto reticolo di famiglie che avevano il compito di badare ai loro
figli. Per questa generazione di 200 - 300 bambini si adoperò già
allora il nome di «ilegalcki», cioè di bambini nati e vissuti nell'
illegalità. Come supporto logistico venne affiancata a questa rete di
famiglie l'organizzazione del Soccorso nazionale sloveno, erede del
Soccorso rosso, organizzato dai comunisti tra le due guerre.
Soprattutto nelle grandi città il Soccorso nazionale sloveno formò nel
1942 delle sezioni che dovevano andare in aiuto a tutti i giovani in
pericolo, pensare a procurare loro documenti falsi, aiutarli in caso
di malattia, vestirli, sfamarli, nasconderli, ecc.. Dall'estate del
1942 fino alla fine della guerra, ad organizzare questa rete furono
Ana Ziherl e Ada Krivic. A guerra finita Ana Ziherl scrisse le memorie
dell'avventurosa vicenda della resistenza slovena e consegnò inoltre
all'Archivio di Stato tutta la documentazione del movimento. Per
organizzare questa attività la Ziherl si serviva di quattro aiutanti,
che coprivano uno dei quattro settori di questa organizzazione
illegale, il cosiddetto settore bambini. Il gruppo poteva usufrire di
una serie di magazzini illegali, dove venivano conservati i mezzi
necessari per far fronte a questo impegno. Il settore bambini
provvedeva anche ai bisogni quotidiani delle donne e dei loro figli
rinchiusi nelle carceri ed arrivò a dar vita a delle dimostrazioni per
proteggere le famiglie rinchiuse o destinate ai campi di
concentramento. La prima dimostrazione si svolse nella primavera del
1943 davanti alla sede dell'Alto Commissario Grazioli e la seconda
nell'estate dello stesso anno davanti alla sede arcivescovile. Dopo le
grandi retate del 1942, Lubiana restò praticamente senza uomini abili
per la lotta clandestina. Allora furono le donne a prendere il loro
posto ricoprendo tutti i ruoli di maggiore responsabilità nella
resistenza slovena[26].

Come si è detto, la recrudescenza della guerra fece sì che Lubiana
fosse circondata da un filo spinato lungo 34 chilometri con posti di
blocco, bunker e fortezze, con postazioni di mitragliatrici pesanti.
L'organizzazione del Soccorso nazionale, alla quale si rivolgeva un
numero sempre maggiore persone, decise che per superare questa crisi
si sarebbe dovuto aumentare il numero delle famiglie incaricate della
protezione e che alcuni dei bambini avrebbero dovuto prendere la via
dei territori liberati. Secondo le testimonianze e gli studi condotti
sulla base di documentazione archivistica si può dedurre che per
aiutare i bambini nell'illegalità fosse stata messa in piedi una rete
di 300 famiglie lubianesi che non fu mai scoperta né dalle forze
fasciste né dai nazisti né dai collaborazionisti. A formare questa
organizzazione erano persone di estrazione sociale diversa, persone
sole o famiglie intere, anziani, medici, contadini, artigiani nubili e
sposati. Dagli studi risulta che tra tutti questi bambini vissuti
nell' illegalità per più di quattro anni a morire sia stata soltanto
una bambina. Ma la morte di una persona non può rendere l'idea delle
conseguenze patite da tutti questi bambini sui quali hanno pesato le
assenze dei genitori, la paura delle retate diurne e notturne, il
vivere constantemente nell'illegalità per due, tre o quattro anni.
Questa generazione, provata dalla guerra forse in un modo diverso, ha
dovuto affrontare i propri traumi ripercorrendo nella memoria la
tragedia di una gioventù violata[27].

Una storia tipica di questo periodo è la storia di Tatjana Dovc. Sua
madre, che fu sindacalista e membro del partito comunista, partorì la
bambina nell'agosto del 1941 nel reparto di maternità dell'ospedale di
Lubiana. Con l'aiuto del Soccorso nazionale sloveno riuscì ad
eclissarsi, mentre la bambina fu «rubata» da una attivista e fatta
uscire dall'ospedale dentro una comune sporta per la spesa. La mamma,
Angela Ocepek Dovc, ricercata dalle forze dell'ordine, cambiò in
quattro mesi ben 15 nascondigli riuscendo a salvarsi e a salvare la
bambina. Più tardi si divisero e la bambina cambiò residenza ancora 20
volte[28].

Come appare chiaramente dal materiale consultato e presentato in
questo studio, sul tema dei bambini sloveni in tempo di guerra le
fonti d'archivio primarie e secondarie sono ricche e numerose. Questi
documenti si trovano soprattutto nella Sezione II dell'Archivio di
Stato della Republica di Slovenia. La Sezione II trae le sue origini
dall'archivio dell'Istituto per la storia del movimento operaio (oggi
Istituto di storia contemporanea) che venne fondato nel 1959 come
un'istituzione complessa, formata da un reparto di ricercatori e da un
reparto che copriva i fondi d'archivio riguardanti la resistenza
slovena. Questo archivio venne completato più tardi con fondi
originali provenienti del funzionamento in loco delle istituzioni
delle forze d'occupazione della Slovenia, sia di quelle italiane che
di quelle tedesche (440 m.c.) e dall'archivio delle forze
collaborazioniste. Esiste inoltre una sezione del primo dopoguerra
(1945-47), costituita soprattutto dalla documentazione inerente alle
questioni di definizione dei confini (la questione di Trieste) fino
alla conferenza della pace di Parigi e da una vasta documentazione
sull' Adriatisches Kuestenland. Ai fondi d´archivio si accompagna un
vasto repertorio di memorie e testimonianze, archivi personali di
politici in vista, una vasta collezione di carte geografiche e di
cartelli e bandi pubblici.

L'archivio legato alla resistenza slovena veniva a costituirsi man
mano che l'amministrazione partigiana cresceva e si sviluppava. Nelle
zone libere funzionò dall'inizio del 1944 in poi un Istituto di
ricerca, diretto da Fran Zwitter, che dispose che tutti gli organi di
ogni grado e di ogni livello conservassero e archiviassero la
documentazione pubblica, civile e militare, interna ed estera. Il
governo partigiano sloveno (SNOS) promulgò nel gennaio del 1945 una
legge di tutela per gli archivi, le biblioteche, i monumenti artistici
e naturali (Gazzetta ufficiale NOS). La Sezione II dell'Archivio di
Stato della Republica di Slovenia è il diretto continuatore di questo
lavoro e con i suoi 1.300 metri consecutivi di materiale archivistico
costituisce uno dei più importanti e ricchi archivi sulla resistenza
e sulle guerre di liberazione in Europa e nel mondo. Il materiale in
questione può essere molto interessante sia per i ricercatori di
lingua italiana che per quelli di lingua tedesca, perché conserva i
materiali originali di queste due amministrazioni sul territorio sloveno.


Note archivistiche utili ai ricercatori

La Sezione II dell'Archivio di Stato della Repubblica di Slovenia
propone agli interessati questo elenco di fondi e di collezioni (tutte
disponibili al sito <mailto:metka.gombac@g...> metka.gombac@g...) che
raccolgono documenti sulla condizione dei bambini sloveni durante la
guerra:

1. AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1 (Collezione
prigioni e campi di concentramneto delle forze d' occupazione,
scatola 1.)

2. AS 1872, Zbirka dopolnilnega gradiva o delavskem gibanju in NOB,
1918 - 1945. (Collezione del materiale integrativo sul movimento
operaio e la resistenza 1918 - 1945)

3. AS 1840, Zbirka gradiva o zrtvah italijanskih okpacijskih oblasti
(Collezione del materiale concernente le vittime dell' occupazione
italiana)

4. AS 1953 Zbirka Slovenke v narodnoosvobodilnem boju. (Collezione
donne slovene nella resistenza 1941 - 45)

5. AS 1775, Poveljstvo XI armadnega zbora. (Comando dell XI Corpo
d'Armata)

6. AS 1788, Visoki komisar za Ljubljansko pokrajino (Alto Commissario
per la Provincia di Lubiana)

7. AS 1796, Kraljeva kvestura Ljubljana 1941 - 43. (Regia Questura di
Lubiana).

8. AS 1781, Poveljstvo grupe kraljevih karabinjerjev Ljubljana.
(Comando del gruppo Carabinieri reali di Lubiana)

9. AS 1752, Slovenski rdeci kriz v Ljubljani. (Organizzazione della
croce rossa slovena di Lubiana)

10.AS 1822, Stab za repatrijacijo vojnih ujetnikov in intzernirancev
Ljubljana (Commando per il rimpatrio dei prigionieri e degli internati
Lubiana)

11. AS 1627, Pooblascenec drzavnega komisarja za utrjevanje nemstva
na spodnjem Stajerskem (Plenipotenziario del commissario statale per
il rafforzamento della lingua e cultura tedesca nello Stayer del sud)

12. AS 1800, Glavni odbor Antifasisticne fronte zena. (Comitato
direttivo dell' Associazione donne antifasciste slovene)

13. AS 1670, Izvrsni odbor OF. (Comitato direttivo del Fronte di
Liberazione)

14. AS1828, Komisija za ugotavljanje zlocinov okupatorjev in njihovih
pomagacev pri predsedstvu SNOS. (Commissione per l' accertamento e la
verifica dei delitti degli occupatori e dei collaborazionisti)

15. AS 1790, Okrajno glavarstvo Crnomelj. (Amministrazione
distrettuale di Crnomelj)

16. AS 1602, Dezelni svetnik okrozja Celje 1941-43. (Consigliere
delegato della circoscrizione di Celje 1941-43).

17. AS 1791, Vojasko vojno sodisce II armade, sekcija Ljubljana
1941-43. (Tribunale militare di guerra della II Armata, Sezione di
Lubiana)


_____

[1] Teodoro Sala, Fascisti e nazisti nell'Europa sudorientale. Il caso
croato (1941-43), in Enzo Collotti - Teodoro Sala, Le potenze
dell'asse e la Jugoslavia. Saggi e documenti 1941-1943, Milano,
Feltrinelli, 1974, p. 69.

[2] Tone Ferenc, "Gospod visoki komisar pravi...". Sosvet za
ljubljansko pokrajino. Ljubljana, 2001, p. 6 ss.

[3] Metod Mikuz, Pregled zgodovine NOB. 1. knjiga, pp. 215-230,
Ljubljana, 1960.

[4] Boris M. Gombac, Dario Mattiussi (a cura di), La deportazione dei
civili sloveni e croati nei campi di concentramneto italiani: 1942-43.
I campi del confine orientale, Gorizia, Centro Gasparini, 2004, pp.
115-123.

[5] Herman Janez, Koncentracijsko taborisce Kampor - Rab, Ljubljana,
1996, pp. 2-10.

[6] Boris M. Gombac, Intervista a Herman Janez, sopravissuto ai campi
di concentramento di Rab-Arbe e Gonars, in Boris M. Gombac - Dario
Mattiussi (a cura di), La deportazione dei civili sloveni e croati,
cit., pp. 41-48.

[7] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[8] Bozidar Jezernik, Italijanska koncentracijska taborisca za
Slovence med drugo svetovno vojno. Ljubljana, 1997, pp. 288 - 289.

[9] Dario Mattiussi, Una tragedia dietro al cortile di casa. La
deportazione nei campi di concentramneto italiani del confine
orientale (1942-43), in Metka e Boris M. Gombac - Dario Mattiussi,
Quando morì mio padre. Disegni e testimonianze di bambini dai campi di
concentramento del confine orientale, Gorizia, Centro Gasparini, 2004,
p. 47.

[10] Boris M. Gombac, Intervista a Herman Janez, cit. , pp. 43-45.

[11] Tone Ferenc, Rab - Arbe - Arbissima, Ljubljana, 2000, pp. 20-21.

[12] Intervista a Marija Poje di Podpreska, Slovenia.

[13] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[14] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1, Gerlanc
Bogomil, Nas otrok v internaciji.

[15] Herman Janez, Testimonianza pubblicata in «Delo», Sobotna
priloga, Ljubliana, 2.7.2005, p. 31.

[16] Kumar Stane, Risal sem otroke v koncentracijskem taboriscu,
Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 144-148.

[17] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[18] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[19] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[20] Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima, cit., p. 30.

[21] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[22] Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima, cit., pp. 33-34.

[23] Slavica Pavlic, Narodnoosvobodilna vojska in organizacija
solstva. Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 90-115;
Joze Princic, Odnos ljudske oblasti slovenskega naroda do otroka v
obdobju NOB (1944-1945), Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana,1980.

[24] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1, Bogomil
Gerlanc, Nas otrok v internaciji, Ljubljana ,1980.

[25] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[26] Ada Krivic, Skrb za ogrozene druzine otrok v Ljubljani, Otrostvo
v senci vojnih dni. Ljubljana, 1980, pp. 26-37.

[27] Ada Krivic, Skrb za ogrozene druzine otrok v Ljubljani. Otrostvo
v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 20-39; AS 1871, Zbirka
dopolnilnega gradiva o delavskem gibanju in o NOB, 1918-1945.

[28] AS 1871, Zbirka dopolnilnega gradiva delavskega gibanja in NOB
1918-1945, MO OF Ljubljana.