Informazione


Sullo stesso tema si veda anche: 
ANVGD chiede revoca dell’onorificenza a Tito (24 maggio 2013) / Lettera Aperta ad ANPI e ANVRG sulla onorificenza a Tito (Redazione Diecifebbraio.info, 25 luglio 2013)
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Nell'Italia disastrata a cosa deve pensare il Governo? Modificare legge per revocare onorificenza a Tito. Una mozione alla regione FVG

di Marco Barone, 21 agosto 2018

[FOTO: Tito a Ciampino

E' una loro ossessione. Sono anni che ci provano, ma non ci riescono.  Nel 1969  Josip Broz Tito, venne insignito della distinzione di Cavaliere di Gran Cordone quale Presidente della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia in occasione di una visita di Stato.  L'onorificenza in questione è quella di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana assegnata con decreto del 2 ottobre del 1969. 

Cosa dice la normativa 

Come si legge nella normativa di riferimento le onorificenze sono conferite con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentita la Giunta dell'Ordine. L'Ordine "Al Merito della Repubblica Italiana", secondo gli scopi indicati dalla legge 3 marzo 1951, n. 178, che lo istituisce, è destinato a ricompensare benemerenze acquistate verso la Nazione nel campo delle scienze, delle lettere, delle arti, dell'economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte ai fini sociali, filantropici ed umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari. Ma anche per benemerenze di segnalato rilievo nel campo delle attività indicate nell'articolo precedente e per ragioni di cortesia internazionale il Presidente della Repubblica può conferire onorificenze all'infuori della proposta e del parere richiesti dal primo comma dell'art. 4 della legge 3 marzo 1951, n. 178. Il decreto di concessione è controfirmato dal Presidente del Consiglio. 

Il problema per la revoca è data dall'articolo 10 del   D.P.R. 13 maggio 1952, n. 458 (Norme per l'attuazione della legge 3 marzo 1951, n. 178, concernente la istituzione dell'Ordine "Al Merito della Repubblica Italiana" e la disciplina del conferimento e dell'uso delle onorificenze).
Fuori dei casi previsti dagli articoli precedenti, le onorificenze possono essere revocate solo per indegnità. Il Cancelliere comunica all'interessato la proposta di revoca e gli contesta i fatti su cui essa si fonda, prefiggendogli un termine, non inferiore a giorni venti, per presentare per iscritto le sue difese, da sottoporre alla valutazione del Consiglio dell'Ordine. La comunicazione è fatta a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento nell'abituale residenza dell'interessato, o se questa non sia nota, nel luogo ove fu data partecipazione del decreto di concessione. Decorso il termine assegnato per la presentazione delle difese, il Cancelliere sottopone gli atti al Consiglio dell'Ordine, per il parere prescritto dall'art. 5 della legge.

In sostanza essendo Tito morto l'onorificenza riconosciuta dalla Repubblica italiana non può essere revocata. E contro ciò si sono scontrati già tutti coloro che hanno questa ossessione. Non è come revocare insomma una cittadinanza onoraria, il discorso è più complesso.

Ed allora ci penserà la regione del FVG, forse. Come?

Modificare la legge per revocare onorificenza riconosciuta a Tito  

Sul sito della regione FVG si legge:  "Far sì che la Giunta regionale si adoperi nei confronti del Governo per modificare la legge che disciplina la concessione delle onorificenze (legge 178/1951), al fine di revocare quelle "Al merito della Repubblica italiana" conferite a Josip Broz Tito, dal 1945 primo ministro e dal 1953 al 1980 presidente della Repubblica socialista federale di Jugoslavia. È questo il senso della mozione depositata in Consiglio regionale, che vede come primo firmatario l'assessore regionale a Politiche comunitarie e corregionali all'estero, Pierpaolo Roberti, e punta a far decadere qualsiasi riconoscimento assegnato dallo Stato italiano nei confronti del Maresciallo per i crimini perpetrati contro le popolazioni italiane in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia durante il suo periodo alla guida della Jugoslavia. Roberti ha evidenziato che "anche se è inusuale che un assessore proponga e sia primo firmatario di una mozione, ho scelto questa via per dare all'azione di pressing sul Governo una base condivisibile da tutte le forze politiche. La mozione, già depositata, è infatti aperta alla sottoscrizione di chiunque voglia contribuire a far in modo che quell'onorificenza ingiusta ed irrispettosa venga revocata". L'assessore ha quindi precisato che "quest'azione non può e non deve essere vista come un ritorno al passato ma, anzi, come la volontà di volgere lo sguardo al futuro. Revocare le onorificenze a Tito consentirà di relegare al passato una storia che ha lacerato le nostre terre, creando contrapposizioni che solo riconoscendo la verità potranno essere completamente e finalmente sanate".

Storia dell'onorificenza riconosciuta a Tito   

Il 2 ottobre del 1969 Saragat e Moro si recheranno a Belgrado, per una visita ufficiale che durerà cinque giorni. Sarà questa la prima visita compiuta da un Presidente della Repubblica italiana in Jugoslavia dalla fine della guerra. Moro ripartirà prima di Saragat, per impegni già concordati, poiché a New York, doveva partecipare all'assemblea delle Nazioni Unite. Si affrontarono varie questioni, dagli investimenti italiani nelle infrastrutture Jugoslave, alla possibilità di prevedere ulteriori contratti tra la Zastava e la FIAT per arrivare alla produzione da 50 mila auto a 180 mila annue. Il 4 ottobre durante una partecipata ed attesa conferenza stampa Tito accetterà l'invito rivolto pubblicamente da Saragat, ovvero venire in Italia e si parlerà pubblicamente del 1970 e la dimostrazione che i rapporti erano non buoni ma ottimi venne evidenziata da un colloquio non programmato tra i due Presidenti tanto che Tito per la prima volta aprì alla possibilità di ridiscutere la questione dei confini con l'Italia. 

La difficile visita di Tito tra attentati e colpi di stato 

Intanto, contestualmente a ciò, a Trieste ed al confine di Gorizia ci saranno attentati antisloveni, chiaramente collegati alla visita di Saragat in Jugoslavia, ed il 12 dicembre 1969 giorno in cui ci sarà l'espulsione della Grecia dal Consiglio d'Europa, giorno in cui, a Lubiana, si doveva svolgere il difficile incontro, per ovvi motivi, tra Tito e Bascev, ministro degli esteri della Bulgaria, uno dei Paesi che riconobbe la reggenza del regime greco, a Milano esploderà anche la nota bomba di Piazza Fontana.
E veniamo al 7/8 dicembre 1970 ed alla mancata visita di Tito, programmata e come comunicata pubblicamente già ne '69. In Italia si doveva realizzare il noto golpe. Non è un mistero che durante il dibattimento in ordine ai fatti del golpe Borghese emerse che a detta di alcuni il motivo della visita di Tito era lo scorporo della zona B di Trieste per cui il contro-ordine fu emanato nel momento in cui Borghese seppe che l'arrivo di Tito era stato rinviato. Ed emerse anche  che l'azione eversiva era stata suggerita dai servizi Segreti proprio per la visita di Tito.  
Sarà interessante quanto riporterà anche il The Guardian ovvero che solamente due giorni prima della visita di Tito si era svolto in Italia il tentato colpo di stato e che dovevano essere state coinvolte anche alcune centinaia di emigranti sloveni che avrebbero avuto il compito di dare una mano ai gruppi neofascisti e di rendere impossibile la visita dello statista jugoslavo.( George Armstrong: Italians ready for Tito’s postponed visit. The Guardian, 22. 3. 1971. Il ritaglio si trova per es. in TNA FCO 28/1640 ). Ma a quanto pare la "notte della Madonna" doveva non solo coinvolgere Roma ma contestualmente anche Zagabria e la commissione d'inchiesta come istituita da Tito, che nel marzo del '71 presentò le conclusioni, fece trapelare che il tutto, per quanto riguardava le vicende croate, sembrava essere ricondotto ad un mero intrigo dei servizi segreti locali. 

Il messaggio dell'ANPI per la visita del '71 di Tito

L'importante visita avverrà nel marzo del 1971. Il 24 marzo 1971, il giorno antecedente la vista di Tito in Italia, l'ANPI saluterà il tutto in modo positivo così scrivendo: “la visita affonda le sue radici ideali nella comune resistenza al nazismo, quando tutti e due i nostri popoli lottarono non solo per la cacciata dell'invasore straniero ma anche per il radicale rinnovamento delle vecchie strutture politico sociali ed economiche che avevano fino ad allora impedito lo sviluppo dei nuovi ordinamenti democratici e popolari (...) Nell'impegno che ci deriva dal comune passato di lotte nel nome di una amicizia che nell'odierna visita trova una ulteriore conferma ed alimento. salutiamo il maresciallo Tito, da partigiani a partigiano, col vecchio grido di guerra della resistenza: " Morte al fascismo. libertà ai popoli”. Nel primo comunicato congiunto emesso tra le autorità Jugoslave e quelle Italiane si evidenziava innanzitutto che “le due parti hanno concordato circa la necessita di continuare ad adoperarsi per un rafforzamento di un clima di fiducia e di distensione internazionale che consenta di individuare adeguate soluzioni alle crisi che tuttora turbano la pace nel mondo”. Tito visiterà anche la FIAT e sarà nota la foto sorridente tra Tito ed Agnelli con una delegazione dello stabilimento di Torino, visita che si ripeterà nel 1973. Probabilmente l'elemento più importante della visita di Tito in Italia sarà l'incontro, di oltre due ore, avuto con il Papa Paolo VI. La Jugoslavia veniva considerata come l'unico Paese socialista europeo che aveva completamente normalizzato le proprie relazioni diplomatiche con il Vaticano. 

Il messaggio del Papa  

A conclusione dell'incontro il Papa, rivolgendosi a Tito ed alla Jugoslavia, riconobbe che “non senza interesse abbiamo visti affermati nei fondamenti della vostra Carta principi come quelli della umanizzazione dell'ambiente sociale e del rafforzamento della solidarietà e della collaborazione fra gli uomini e del rispetto della dignità umana”.


Nell'Italia disastrata, dove succede di tutto e di più, a cosa deve pensare giustamente il Governo? Quale la sua priorità? Modificare legge per revocare la giusta onorificenza riconosciuta a Tito ai cui funerali parteciparono tutti i più importanti capi di Stato del mondo, a partire dal nostro.




Nell'anniversario della strage di Vergarolla, un nuovo approfondimento a cura di Claudia Cernigoi


https://www.facebook.com/notes/la-nuova-alabarda/la-strage-di-vergarolla/769410839896151/

La Nuova Alabarda, domenica 19 agosto 2018


VERGAROLLA, 18 AGOSTO 1946
Parliamo della strage di Vergarolla, che provocò un centinaio di morti ed un numero imprecisato di feriti tra i partecipanti ad una festa popolare[1], iniziando dai ricordi dell’ex agente della Decima Mas Maria Pasquinelli[2]. Scrive Turcinovich:
«Ricorda Vergarolla? Certo che ricorda, posa la fronte sul palmo della mano: ci dovevo essere anch’io, ci andavo spesso, ma scelsi una spiaggia diversa proprio in quel giorno, fu terribile»[3].
Quel giorno, il 18/8/46 a Vergarolla il circolo canottieri Pietas Julia di Pola aveva organizzato una festa sportiva popolare che prevedeva, oltre alle gare di canottaggio, chioschi gastronomici ed intrattenimenti. E proprio in quel giorno (leggiamo in un articolo di Lino Vivoda) il padre della futura esule Marina Rangan si impuntò per non andare a Vergarolla: «remava mio padre perché aveva deciso che si andava a fare il bagno proprio lì e non a Vergarolla con il barcone pieno di gente, come avrebbe voluto mia madre. Normalmente lui l’accontentava sempre, per il quieto vivere, invece quella volta si impuntò, forse per un provvidenziale sesto senso»[4].
Curiose queste forme di telepatia preammonitrice, considerando anche che «l’annuncio della riunione», come scrive Lino Vivoda, «venne pubblicato per parecchi giorni sul quotidiano locale italiano (…) come un implicito appello per la partecipazione in massa», perché «ormai qualsiasi occasione di pubblica riunione era diventata per la cittadinanza motivo di corale dimostrazione d’italianità». Ciononostante la patriota Pasquinelli proprio quel giorno disertò la spiaggia di Vergarolla, spiaggia sulla quale «giacevano accatastate ventotto mine marittime, residuato di guerra, prive di detonatori ma non vuotate dell’esplosivo in esse contenuto. Nottetempo quel deposito di morte fu riattivato da emissari criminali, giunti da fuori città, con l’inserimento di detonatori collegati ad un congegno per il comando a distanza dello scoppio»[5]. E le mine scoppiarono, poco dopo le 14, provocando una strage.
Nei fatti, nel corso della bonifica del porto, sulla spiaggia erano state ammassate le mine (di fabbricazione tedesca e francese, contenenti tritolo) che erano state raccolte e disinnescate da artificieri provenienti dal Comando Marina di Venezia comandati dal capitano Raiola che dichiarò successivamente che i lavori di disinnesco e controllo erano stati condotti da tre squadre, e che «era materialmente impossibile che avvenisse l’esplosione delle mine, perché il tritolo (…) sarebbe esploso solo con l’innesco di un detonatore»[6].
E questo detonatore sarebbe stato collegato ad un congegno per il comando a distanza, del quale avrebbe denunciato la presenza, in una cava vicino alla spiaggia, il poeta e futuro esule Giuseppe Bepi Nider, già ufficiale dell’esercito italiano ed all’epoca membro dell’API (Associazione Partigiani Italiani, cui era iscritto anche quel Mario Merni, che a proposito di Maria Pasquinelli dichiarò: «Veniva spesso a rincuorarci, garantiva il suo aiuto e ci parlava di un “colpo di stato caldo”»[7]), che si era recato in sopralluogo subito dopo l’esplosione assieme ad un maggiore inglese della FSS. Nider avrebbe anche fatto notare all’ufficiale «le tracce indicanti apparati per l’innesco di apparecchiature per il contatto che comandava a distanza lo scoppio di detonatori», aggiungendo che tali inneschi sarebbero stati «uguali a quelli che usavano nelle miniere dell’Arsa»[8].
Tali circostanze sarebbero state confermate anche da altre testimonianze, come quella di Claudio Bronzin, undicenne all’epoca, che così racconta «ho sentito nitidamente una detonazione (tipo colpo di fucile), secca ed unica (…) ho visto innalzarsi una immensa colonna di fuoco che è durata qualche secondo prima di diventare fumo. L’immane e terrificante boato dell’esplosione è arrivato dopo l’innalzarsi della colonna di fuoco»[9].
Secondo il testimone, quindi «è certo che le mine sono saltate in aria dopo una frazione di secondo dalla prima detonazione»: e Bronzin paragona i tempi di questa esplosione a quelli da lui sentiti quando era militare e gli artificieri, per far scoppiare gli ordigni inesplosi «mettevano una piccola carica (detonatore) addosso all’ordigno e nello scoppio i colpi, intervallati da una frazione di secondo, erano due».
Bronzin riporta inoltre la testimonianza della zia Rosmunda Bronzin Trani, che rimase ferita nell’esplosione: ella dichiarò di avere visto nella mattina del 18 agosto «un uomo vestito bene, di grigio» stendere un «filo» attraverso la pineta, filo che poi aveva tagliato con un coltello, e «lo ha aggiuntato in più punti», cioè avrebbe eseguito «la classica operazione degli elettricisti che spellano il terminale del filo elettrico per poi aggiuntarlo». Bronzin, che specifica che la zia rese più volte questa testimonianza agli inquirenti e continuò a parlarne in famiglia, conclude che l’uomo vestito di grigio avrebbe fatto il collegamento della linea per il comando a distanza, e lo scoppio si sarebbe verificato dopo che si era allontanato. E tale persona, aggiungeva la teste, «non le era una faccia nuova», quindi il nipote giunge alla conclusione che doveva essere di Pola.
Considerato lo stato di choc in cui versò la sopravvissuta alla strage, si può anche dubitare dell’attendibilità di tale testimonianza, perché è difficile pensare ad un dinamitardo che prepara l’attentato in pieno giorno ed in presenza di altre persone, che potrebbero anche conoscerlo (e se era conosciuto dalla zia Rosmunda, si può ipotizzare anche che avrebbe potuto essere un polesano della comunità italiana)..
Un altro uomo “sospetto” fu segnalato invece da Gino Salvador, che avrebbe visto «un tale a bordo d’una barchetta di idrovolante» approdare dopo le dieci del mattino del 18 agosto alla banchina del cantiere navale E. Lonzar, sulla via Fisella». Salvador gli disse che l’approdo era proibito, e questi «rispose che doveva recarsi nelle vicinanze e che non avrebbe tardato a prendere il largo»; il teste aggiunge di avergli chiesto da dove giungesse «con quel mezzo acquatico e mi rispose dall’isola di Brioni. Era di statura media, colorito bruno, capelli neri ricciuti, vestiva pantaloni di tela blu»[10].
Ricordiamo che nell’isola di Brioni, che si trova di fronte allo sbocco a mare di Pola, durante la guerra ebbe sede la Base Est dei mezzi d’assalto della Decima Mas, comandata dal sottotenente di vascello Sergio Nesi.
Infine citiamo da un articolo di stampa piuttosto recente: «Sono da poco passate le due. Un grido improvviso: Scampè, scampè che s’ciopa! D’istinto, molti scattarono in piedi. Nello stesso istante, fu l’inferno. Ore 14,10»[11].
Se il fatto fosse vero, vuol dire che l’attentatore avrebbe avvisato la gente del pericolo. Ma è veramente accaduto così, oppure la giornalista ha arricchito il suo articolo di particolari inventati per aumentare il pathos della narrazione?
Questi dunque i dati che abbiamo raccolto, peraltro contraddittori. La prima domanda che sorge spontanea è questa: perché gli organizzatori della festa popolare avevano scelto proprio la spiaggia accanto al cumulo di mine, sia pure disinnescate, per radunare tante persone? E perché le autorità alleate avevano permesso questa iniziativa, che, pur essendo recintato il cumulo di mine, poteva in ogni caso rivelarsi pericolosa per l’incolumità delle persone che si trovavano nei paraggi?
L’esplosione avvenne intorno alle 14, ma le persone “sospette” avvistate dai testi Rosmunda Bronzin Trani e Gino Salvador si sarebbero trovate sul posto “al mattino” (e la prima specifica che l’esplosione sarebbe avvenuta dopo che l’uomo vestito di grigio si era allontanato). Invece Vivoda (senza notare la contraddizione con le deposizioni da lui stesso trascritte) scrive che il congegno a distanza sarebbe stato attivato “nottetempo”, cosa che ci pare più plausibile, rispetto a quanto descritto da Rosmunda Bronzin.
Aggiungiamo le dichiarazioni dello studioso Fabio Fontanot, cioè che del problema dell’innesco avrebbe parlato anche il generale Antonio Usmiani, evidenziando che le modalità di innesco di questo tipo di mine erano conosciute solo da coloro che le avevano in uso: militari francesi ed inglesi e della Decima Mas[12]. Eliminando i francesi (che non erano presenti), sospendendo il giudizio sugli inglesi (che amministrando la zona potevano e non potevano avere interesse a creare una tensione di questo tipo), va ricordato che un anno prima, il 26/9/45, il Comando Marina Alleato di Venezia aveva assunto per il proprio Centro esperienze 18 ex membri della Decima Mas del gruppo Gamma (gli uomini rana specializzati nel piazzare mine marittime sotto le navi nemiche), tra i quali lo stesso comandante Eugenio Wolk, per affidare loro il compito di bonificare il porto di Venezia[13]. Non abbiamo dati per ritenere che gli stessi bonificatori di Venezia siano poi stati inviati a bonificare anche Pola, ma sembra che Usmiani abbia anche fatto cenno ad un «ufficiale della Decima passato ai partigiani» nella zona di Pola[14].
Ci furono naturalmente varie inchieste, che però non approdarono a nulla di definitivo. Negli anni, pur in assenza di prove od indizi, la responsabilità dell’eccidio fu attribuita dalla propaganda nazionalista italiana (poi assimilata non solo dal comune sentire ma anche da alcuni storici) alla Jugoslavia per mano dell’OZNA: ad esempio lo storico Raoul Pupo scrive che tale strage avrebbe scatenato l’Esodo dall’Istria e che «le responsabilità» della strage non furono mai chiarite, ma «l’effetto è assolutamente chiaro», cioè avrebbe terrorizzato la popolazione italiana e sarebbe stata una delle cause scatenanti dell’esodo degli italiani[15].
Ma se, come si legge in varie pubblicazioni, il 26/7/46 (tre settimane prima della strage di Vergarolla) il CLN di Pola «aveva raccolto 9.496 dichiarazioni familiari scritte, per conto di 28.058 abitanti su un totale di 31.000, di voler abbandonare la città se questa dovesse venir assegnata alla Jugoslavia»[16], quale motivo avrebbero avuto gli Jugoslavi di “terrorizzare” la popolazione italiana per farla andare via, considerando che la maggioranza aveva comunque già deciso di andarsene[17]? Aggiungiamo inoltre che il lavoro di Maria Pasquinelli a Pola sarebbe stato proprio finalizzato a far andar via gli italiani, già da prima della strage di Vergarolla, lavoro a causa del quale la donna temeva per la propria vita, volendo prestare fede alle affermazioni dell’ex deputata di Forza Italia ed esule istriana Antonietta Marucci Vascon che ha riferito quanto le avrebbe detto l’ex marito, il cineoperatore Gianni Alberto Vitrotti[18]. Se l’interesse della Jugoslavia fosse stato far andare via gli italiani, perché avrebbero dovuto boicottare il lavoro di Pasquinelli? O forse il lavoro dell’ex agente della Decima consisteva in altro?
Torniamo al secondo articolo di Vivoda nel quale leggiamo che nel 53° anniversario della strage (quindi nel 1999), il giornalista croato David Fištrović aveva pubblicato sul quotidiano Glas Istre di Pola, tre articoli sull’argomento, basati in parte sul libro dello stesso Vivoda, ed aveva anche parlato di una «ritrovata lettera d’addio scritta da un polese che si è suicidato e con la quale si scusa? si giustifica? per l’esplosione, ma sottolinea che tutto quello che ha fatto lo ha fatto su ordine di Albona». Ed è qui che si inserisce il particolare prima citato dei detonatori «uguali a quelli dell’Arsa»: perché «ad Albona dove c’erano le miniere si trovava la sede principale dell’organizzazione polese titina».
Vivoda pertanto prese contatto con il giornalista croato, che «sapeva il nome di uno degli attentatori di Vergarolla! E mi disse il nome: Ivan (Nini) Brljafa». Più avanti Vivoda scrive che «altre dicerie di rimasti a Pola, sebbene reticenti» lo avrebbero convinto della partecipazione di Brljafa all’attentato, e gli avrebbero anche detto «i nomi di altri presunti componenti», ma, dato che Vivoda non cita né le fonti di quelle che egli stesso definisce “dicerie”, né i nomi degli altri “presunti componenti”, il tutto può essere considerato nulla più che chiacchiere e pettegolezzi.
Tornando al biglietto del suicida, Fištrović confermò a Vivoda «di aver visto personalmente il biglietto nel quale il personaggio in argomento, prima di suicidarsi, aveva lasciato scritta la confessione. La lettera era in possesso di una parente del suicida». A questo punto Vivoda, consultatosi con alcuni amici, decise di comperare quel biglietto, cosa possibile secondo Fištrović, al quale «avevano detto che sarei dovuto recarmi da solo in un luogo che mi sarebbe stato indicato successivamente». Pertanto Vivoda medita «se valeva la pena rischiare. Il suicida in questione era uno dell’OZNA, per la quale aveva collaborato all’attentato. Mi ricordavo che l’ing. Onorato Mazzaroli, con un tranello chiamato dall’OZNA a Peroi per presentare un suo progetto di autonomia dell’Istria, era sparito senza lasciare più traccia, nonostante Rodolfo Manzin, col quale s’era confidato, l’avesse messo in guardia sconsigliandolo dal recarsi all’appuntamento. Non fidandomi dunque della gente con cui avrei dovuto trattare, rinunciai all’appuntamento per l’acquisto del biglietto»[19].
Abbiamo cercato di ricostruire la “scomparsa” di Onorato Mazzaroli (zio del futuro generale e sindaco del “libero comune in esilio di Pola” Silvio Mazzaroli), e trovato quanto segue: Mazzaroli, «invitato ad un incontro con esponenti slavo-comunisti per discutere della collaborazione italo-jugoslava il 10/8/44 fu catturato e fatto scomparire»[20]. Le motivazioni addotte da Vivoda per non acquistare il biglietto ci sembrano pertanto del tutto inconsistenti, se consideriamo innanzitutto che la scomparsa di Mazzaroli avvenne durante la guerra; e che nel 1999, quando ormai la Croazia indipendente era governata dalla destra di Tudjman, l’OZNA era sciolta da decenni, l’UDBA (che l’aveva sostituita) era crollata con il crollo della Jugoslavia ed a 36 anni dalla morte del presunto colpevole, quale pericolo poteva ancora rappresentare “l’OZNA” per un giornalista che voleva fare chiarezza su fatti di mezzo secolo prima?
Oltre alla questione del biglietto, che fa molto spy-story ma non sembra avere alcun riscontro concreto, è strana anche la questione degli inneschi delle mine navali, che non dovrebbero essere compatibili con quelli che si usano nelle miniere (e qui ricordiamo le parole di Usmiani a proposito di chi poteva essere in grado, tecnicamente, di lavorare con quelle mine specifiche). Però, pur non essendo noi artificieri specializzati in materia, da quanto siamo riusciti a capire, stante che le mine navali esplodono a contatto, e possono esplodere anche “per simpatia” nel caso in cui vicino ad esse esploda un altro ordigno, forse non ha tanto senso andare a cercare chi poteva essere in grado di re-innescare le mine, dato che la cosa più semplice da fare sarebbe stato posizionare un altro ordigno, di qualunque tipo, da far esplodere con il comando a distanza di cui si è tanto parlato: per simpatia sarebbero esplose poi tutte le mine, con il risultato che si è visto (ma allora si sarebbero sentito solo le due esplosioni descritte dall’allora undicenne Bronzin, o dovrebbero essere state di più?)
Parliamo infine di quel documento dei servizi britannici che viene citato dai divulgatori a prova della “responsabilità dell’OZNA” in questo attentato e che è stato rintracciato dal ricercatore Mario Josè Cereghino negli archivi londinesi di Kew Gardens. Si tratta di una informativa che riferisce che a Trieste si dice che «uno dei sabotatori» di Vergarolla sarebbe stato «Kovacich Giuseppe, uno specialista in azioni terroristiche nonché responsabile di numerosi delitti», che «in passato era solito recarsi in macchina da Fiume a Trieste tre volte alla settimana», che «lavorava per l’OZNA» e che «dopo l’attentato di Vergarolla non si è più fatto vedere in città». Tali informazioni sarebbero state fornite «da una fonte attendibile del controspionaggio»[21]. Consideriamo però innanzitutto che un’informativa di per se stessa non costituisce una prova certa, ma solo il rapporto di quanto riferito da qualcuno; che non sono stati resi noti altri documenti a conferma, che questo Kovacich non è neppure stato chiaramente identificato (precisiamo che il nome di Giuseppe Kovacich è comune quasi quanto quello di Mario Rossi); e la fonte che ha riferito le voci che corrono a Trieste è l’italiano 808° Battaglione del Controspionaggio[22], una struttura creata dal SIM badogliano durante il conflitto e poi rimasta in funzione anche negli anni seguenti, posta però sotto il diretto controllo dell’allora OSS[23]. Dal ricercatore Gaetano Dato apprendiamo un particolare importante: dal febbraio del 1946 quella parte del personale ex SID, cioè gli agenti segreti della Repubblica di Salò che durante la guerra avevano collaborato con gli Alleati «nei gruppi come il Nemo» poterono prendere servizio nei Carabinieri, nello specifico nell’808° battaglione e nell’Ufficio I[24].
In sintesi, le informazioni sulle “voci” (e ribadiamo che solo di “voci” si tratta) circolanti a Trieste in merito al presunto responsabile di Vergarolla sarebbero state fornite ai servizi britannici da servizi italiani controllati dai servizi statunitensi.
Concludiamo questo capitolo considerando, oltre ai dubbi sollevati da Usmiani su chi avesse la possibilità reale di innescare nuovamente le mine ammassate in spiaggia, che gli Jugoslavi, impegnati all’epoca a Parigi a far valere le proprie ragioni in merito ai crimini commessi durante l’occupazione nazifascista delle loro terre, non avrebbero tratto politicamente profitto per avere messo in atto un’azione abietta come una strage di civili. Mentre ricordiamo che chi affermò che non era il caso di temere di dovere “spargere del sangue” era stato l’esponente del CLN istriano Rusich, in una riunione del maggio 1946[25].
[1] Il numero esatto delle vittime non fu mai definito.
[2] Maria Pasquinelli è passata alla storia in quanto il 10/2/47, giorno della firma del trattato di pace, assassinò il generale Robin De Winton come “protesta” per il fatto che l’Istria veniva assegnata alla Jugoslavia. Condannata a morte, la pena fu commutata in ergastolo; mandata in Italia per espiare la pena, la donna fu graziata da Cesare Merzagora nel semestre in cui questi ricoprì la carica di Presidente della Repubblica supplente per il malore che aveva colto il presidente Antonio Segni nell’ambito delle discussioni dei giorni in cui l’Italia rischiava un colpo di stato (il “piano Solo”). Si veda C. Cernigoi, “Dossier Maria Pasquinelli”, in http://www.diecifebbraio.info/tag/maria-pasquinelli/ .
[3] Rosanna Turcinovich, “La giustizia secondo Maria”, Del Bianco 2008, p. 40.
[4] Lino Vivoda (esponente dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) su L’Arena di Pola, 19/8/12. Vivoda ha pubblicato nel 1989 un libro (“L’esodo da Pola. Agonia e morte di una città italiana”, Castelvetro) ed ha scritto due articoli sull’argomento, da cui abbiamo tratto i dati che riportiamo.
[5] Ogni volta che ci troviamo davanti ad una descrizione così circostanziata di come sarebbero avvenuti i fatti, ci domandiamo se chi scrive sia più informato di quanto voglia far credere: nella fattispecie, come fa Vivoda ad essere così sicuro che gli autori dell’attentato erano «giunti nottetempo da fuori città» ed avevano ricollocato i detonatori originali?
[6] Vivoda non specifica il nome del capitano Raiola, ma in altro articolo scrive che era il padre «del giornalista Giulio»: Giulio Raiola, scrittore di fantascienza, e autore di articoli sulla Decima Mas, fece parte della “corrente evoliana dei Figli del Sole” del MSI.
[7] Carla Mocavero, “La donna che uccise il generale”, Ibiskos 2012, p. 194.
[8] Tale particolare è riportato solo nel secondo articolo di Vivoda, “Vergarolla strage titoista” (http://www.arenadipola.it/index.php?option=com_content&task=view&id=753&Itemid=2). Dal racconto sembra che Nider sia andato a colpo sicuro alla cava per mostrare gli inneschi agli ufficiali britannici.
[9] Claudio Bronzin, “Bieco telo di ipotesi false per cercare di coprire le precise responsabilità della strage. Prove e testimonianze sull’eccidio di Vergarolla”, L’Arena di Pola, 18/11/96, citato da Lino Vivoda in
[10] Gino Salvador, L’Arena di Pola, 19/10/96.
[11] Scappate, scappate che scoppia!, Carla Rotta, La Voce del popolo, 5/4/08.
[12] Intervista rilasciata all’autrice, 16 agosto 2012. Ricordiamo che Usmiani era un agente dell’OSS molto stimato dal capo, James Jesus Angleton.
[13] Documento firmato dal colonnello del SIM Pompeo Agrifoglio, in qualità di dirigente dello Stato Maggiore dell’Esercito, che conclude asserendo che i 18 Gamma erano da considerarsi da quel momento «immuni da qualsiasi responsabilità per l’attività da essi finora svolta» (https://casarrubea.wordpress.com/2009/12/13/discriminati-e-immuni/).
[14] Ricordiamo che nel CLN triestino si erano inseriti diversi membri della Decima, tra i quali il futuro campione di vela Agostino Straulino, che aveva fatto parte dei Gamma.
[15] Sul Piccolo del 17/8/06.
[16] Carla Rotta, La Voce del Popolo, 5/4/08.
[17] Accenniamo brevemente al fatto che in quel periodo era in atto una campagna stampa rivolta ai cittadini istriani di etnia italiana per farli venire in Italia, basata sia sul terrorismo psicologico (la paura delle “foibe” e degli espropri che sarebbero stati operati dai “comunisti”), sia sul miraggio di una vita più agiata e di privilegi di cui avrebbero goduto una volta lasciata la Jugoslavia.
[18] Intervento di A. Vascon nel corso di un dibattito su Maria Pasquinelli svoltosi nella sede della Lega Nazionale di Trieste, 8/2/13. Vitrotti si trovava a Pola nell’estate del ‘46 per conto del MAE a monitorare l’inizio dell’esodo in previsione della firma del Trattato di pace che avrebbe assegnato la città alla Jugoslavia, ma nello stesso periodo (13/8/46) aveva operato le riprese dei recuperi di salme dalla “foiba” di Gropada-Orlek nel Carso triestino. Aggiungiamo che Vitrotti, «come titolare dell’agenzia Trieste Pictorial News era accreditato presso il GMA e in qualità di operatore ufficiale era incaricato dal Public Information Office di eseguire servizi fotografici e cinematografici»; nonostante questi accrediti fu arrestato nel 1947 ed in seguito espulso dal TLT «per avere ripreso avvenimenti a dispetto dei divieti alleati» e poté rientrare solo «grazie al diretto interessamento dell’ambasciatore americano» (P. Spirito, “Trieste a stelle e strisce”, MSG Press Trieste 1995, p. 155). Nel dopoguerra lavorò alla RAI di Trieste; è deceduto nel 2009.
[19] L. Vivoda, “Vergarolla strage titoista”, art. cit.
[20] L. Papo, “Albo d’Oro”, Lega Nazionale 1995.
[21] “Sabotage in Pola”, informativa d.d 19/12/46 n. 204/12765, pubblicata in F.. Amodeo e M. J. Cereghino “Trieste e il confine orientale tra guerra e dopoguerra” vol. 3, Trieste 2008, p. 64.
[22] Così scrive Pietro Spirito ne “Gli archivi inglesi rivelano: la strage di Vergarolla voluta dagli agenti di Tito”, Il Piccolo, 9/3/08.
[23] Ricordando che il SIM badogliano fu organizzato da quel Pompeo Agrifoglio che firmò il citato documento di “immunità” per i Gamma della Decima Mas, riprendiamo da un articolo di Casarrubea un elenco di «uomini che dipendevano direttamente» da James Jesus Angleton (il dirigente dell’OSS che aveva operato il salvataggio di Junio Valerio Borghese ed organizzato il riciclaggio di fascisti nelle istituzioni post-belliche, sia italiane che tedesche): «Reali Carabinieri, 808° battaglione dell’Esercito addetto al controspionaggio, Marina Italiana, agenti speciali spediti in Sicilia dall’OSS…» (cfr http://www.cittanuove-corleone.it/Casarrubea,%20perch%E9%20ricordare%20Portella.htm). L’elenco dei componenti l’808° Battaglione si trova in http://casarrubea.wordpress.com/2008/07/09/rapporto-del-controspionaggio-italiano-1946/.
[24] G. Dato, Vergarolla, LEG 2014, p. 143, che cita una lettera del Capitano Morris, ufficiale di collegamento angloamericano presso l’Ufficio I UK NA WO 204-12380 inviata al comando di Caserta, 25/1/46.
[25] R. Turcinovich, op. cit., p. 120.

Claudia Cernigoi, agosto 2018


[trascrizione del colloquio tra Tito e "Che" Guevara, svoltosi in occasione della prima visita del "Che" in Jugoslavia, solo pochi mesi dopo la vittoria della Rivoluzione cubana]


PRVI SUSRET DRUGA TITA I ČE GEVARE

Na današnji dan 18.avgusta 1959.godine Drug Tito je primio Kubansku delegaciju na čijem čelu je bio drug Ernesto Če Gevara.

TITO je primio Če Gevaru samo pola godine nakon svrgavanja Batistine diktature. Bilješkom (od 4. avgusta 1959) Tito je upoznat da sredinom toga mjeseca u Jugoslaviju stiže kubanska Misija dobre volje, sastavljena uglavnom od predstavnika armije i privrede, sa majorom i izvanrednim ambasadorom Če Gevarom na čelu. Podsjeća se da je u posjeti nizu zemalja Afrike i Azije sa ciljem uspostavljanja bližih veza sa njima. Dok se Misija nalazila u Tokiju, Če Gevara je po instrukciji Fidela Kastra zatražio prijem kod jugoslovenskog ambasadora i zamolio posjetu Jugoslaviji. Naglasio je da “želi prenijeti Titu pozdrave Kastra, jer ga na Kubi smatraju herojem i uzorom u borbi za nezavisnost i ravnopravnost”. Na pomenutoj bilješci u kojoj Državni sekretarijat za inostrane poslove predlaže da predsjednik primi kubansku misiju, Tito je u gornjem lijevom uglu napisao: “Ako ću moći, primiću je.” Vrijeme se našlo iako je u toku bila posjeta etiopskog cara Haila Selasija i do susreta je došlo na Brionima 18. avgusta 1959. godine.

RAZGOVORU su prisustvovali državni sekretari za inostrane poslove i narodnu odbranu, Koča Popović i Ivan Gošnjak, kao i generalni sekretar predsjednika Republike Leo Mates. Bila je to interna prijateljska razmjena mišljenja. Za neke i danas može biti interesantna kao primjer korisnih sugestija starijeg revolucionara mlađem. Na samom početku Kastrove Kube.

Citati su samo dijelovi razgovora.

Tito: – Pozdravljam drugove sa Kube i izražavam radost što su danas naši gosti predstavnici jene nedavno izvršene revolucije, u zemlji koja se bori za svoju nezavisnost… Ako drugovi žele nešto da čuju od mene, rado ću im odgovoriti.

Če Gevara: – Doputovali smo u Jugoslaviju da se upoznamo sa vašim iskustvom i da ga naučimo na najbolji mogući način.

Tito: – Nas mnogo interesuje vaša borba, a naročito vaše sadašnje iskustvo.

Če Gevara: – Mi smo mislili da smo svojom revolucijom ponovo otkrili Ameriku. Međutim, da smo ranije upoznali zemlju kao što je Jugoslavija, možda bismo još prije počeli našu revoluciju…

Tito: – Sudbina je svih revolucija u malim zemljama da imaju teškoće. Prema njima mnogi su oprezni, neki su protiv njih, a vrlo je malo onih koji im daju podršku. U svojoj borbi imaćete još dosta muka. Ali kad ste već zbacili stari režim, teškoće ne treba da vas dekuražiraju. Teže je, doduše, sačuvati vlast, ali vi ćete u tome uspjeti ako budete uporni. Važno je da sada ne napravite neku veću grešku, i da dalje idete postepeno, korak po korak, vodeći računa o međunarodnnoj situaciji, unutrašnjim mogućnostima i odnosu snaga. Neke stvari moraćete odložiti za bolja vremena. Sada je potrebno da se stabilizirate. Po mome mišljenju, opasno bi bilo da se zaletite u potpunu agrarnu reformu. Oružani dio revolucije kod vas je izvršen, narod očekuje nešto i jedan dio agrarne reforme morate sprovesti. Ali ne dozvolite takođe da vas izoliraju u inostranstvu…

Če Gevara: – Na Kubi je agrarna reforma vrlo blaga jer se dozvoljava posjed od 1.300 hektara obradive površine. Ipak, agrarna reforma pogađa 99 odsto latifundista, i to, uglavnom, pet američkih kompanija, koje imaju preko pola miliona hektara obradivih površina.

Tito: – Trebalo bi objasniti, u formi vladine deklaracije, da se stranim kompanijama neće oduzeti zemlja bez naknade, već da će one biti obeštećene. Tako biste u svijetu mnogo dobili u moralnom pogleđu.

Če Gevara: – Mi smo promijenili Ustav i na osnovu te promjene, možemo se obavezati da ćemo naknadu isplatiti u roku od 20 gođina…

Kuba nije malo izolirana. Za vrijeme revolucije u Gvatemali, velike zemlje Latinske Amerike – Argentina, Meksiko i Brazil – bile su na strani progresivnog pokreta u toj zemlji. Sada baš te zemlje ne pomažu revoluciju na Kubi, jer i same imaju tešku situaciju…

Tito: – Utoliko više je potrebna opreznost… Dobro bi bilo da čujemo vaše mišljenje što bi se već sada moglo učiniti u Ujedinjenim nacijama. Trebalo bi već sada da se sondira teren za slučaj nekog jačeg pritiska.

Če Gevara: – Imamo, svakako, u vidu da osiguramo sebi bolju situaciju i pomoću Ujedinjenih nacija.

Tito: – Kako stojite s oružanim snagama? Vrlo je važno da imate čvrstu armiju, moralno–politički učvršćenu… Uslovi za agresiju na Kubi, ipak nisu tako laki, jer je to otok. Invazija nije za vas tako opasna, jer bi to već bila krupna agresija. Daleko je opasniji vazdušni desant koji se može izvršiti sa nekoliko aviona.

Če Gevara: – Desant može doći samo iz SAD. Ali, mi se ne bojimo ovakvih akcija, jer imamo jedinstvo u našoj zemlji, naročito među seljacima.

Tito: – To je vrlo važno.

Če Gevara: – Padobranci koji bi se iskrcali na Kubi ne bi poznavali teren. Oni ne bi mogli da idu dalje od mjesta desanta… Brzo bi bili onemogućeni.

Tito: – Zato je važno da sačuvate seljaštvo na svojoj strani. Ako budete sačuvali jedinstvo u zemlji, i ako budete imali čvrstu i dobro naoružanu armiju, makar ona ne bila velika, teško da će se moći nešto izvana učiniti.

Če Gevara: – Upoznali smo se sa raznim fazama vaše velike borbe. Bili smo u Muzeju u Beogradu, razgledali prostor gdje je vođena Četvrta neprijateljska ofanziva… Smatramo da vaša pobjeda u ratu predstavlja pravu epopeju… Trudićemo se da vaša iskustva na što adekvatniji način prenesemo svom narodu. U spoljnoj politici nastojaćemo da budemo na vanblokovskim pozicijama…

Tito: – Ako vam bude potrebna pomoć i podrška u UN, vi možete na nju računati. Mi ćemo vas svakako podržati kao što podržavamo sve narođe koji se bore za nezavisnost… Gdje, u našoj blizini, imate ambasadu?

Če Gevara: – Ambasade smo imali (misli se na vrijeme prethodnog režima) svuda gdje se dobro živjelo. Ja se izvinjavam za odnose bivše vlade prema Jugoslaviji. Malo je teško to objasniti, ali postojao je izvjestan strah od Jugoslavije kao socijalističke zemlje… Mogu vas uvjeriti da ću čim dođem na Kubu poraditi na tome da se otvori predstavništvo u Beogradu, bilo kao ambasada ili na nivou otpravnika poslova u prvo vrijeme…

 
PONUDA JE PALA – ŠEĆER ZA PIRINAČ

TOKOM prijema bilo je riječi i o nizu drugih pitanja, u prvom redu iz oblasti ekonomije. Kubanci su se interesovali za kupovinu brodova, nekih industrijskih proizvoda, posebno električnih aparata za domaćinstvo. Izrazili su želju da vide još neka industrijska postrojenja, među kojima i fabrike traktora i poljoprivrednih mašina. Iznijeli su utiske iz zemalja u kojima su bili i u kojima su prevashodno dogovarani mogući trgovinski aranžmani, uključujući, kako su konkretno naveli, i ponude “šećera za pirinač”. Sam razgovor – slika zemlje u zanosu pobjede, ali bez iskustva u rješavanju onoga što poslije dolazi.

Če Gevara, tada još bez oreola slave. Jednostavan i skroman, sa likom koji će docnije ovjekovječiti poznata fotografija. Prenio je na kraju želju predsjednika Vlade Republike Kube Fidela Kastra da od Tita dobije fotografiju sa posvetom, dodavši da bi to bila i njegova želja.





Abolire le armi nucleari! Mai più Hiroshima e Nagasaki!

In occasione dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki avvenuti il 6 e 9 agosto 1945 il Consiglio Mondiale della Pace rilancia l'appello per l'abolizione delle armi nucleari.

di Consiglio Mondiale della Pace della regione Europa
da cppc.pt

Traduzione di Mauro Gemma per Marx21.it

A seguito delle iniziative decise nel corso della riunione delle organizzazioni che fanno parte del Consiglio Mondiale della Pace della regione Europa, tenutasi a Londra il 26 maggio, e la successiva consultazione di queste organizzazioni divulghiamo il testo "Abolire le armi nucleari – Mai più Hiroshima e Nagasaki" per celebrare i 73 anni del combardamento statunitense d queste due città giapponesi.

Abolire le armi nucleari! Mai più Hiroshima e Nagasaki!

6 e il 9 agosto 1945, sono date che gli amanti della pace di tutto il mondo conservano nella memoria, per mantenere vivo il ricordo del terribile crimine rappresentato dal lancio, da parte degli Stati Uniti, delle bombe atomiche sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, e per ricavare da questa tragedia che ha causato migliaia di morti e sofferenze che continuano ancora oggi, la necessità di continuare e rafforzare la lotta contro il militarismo e la guerra, per la pace e il disarmo, in particolare il disarmo nucleare.

L'abolizione delle armi nucleari è oggi più urgente che mai, se vogliamo evitare una catastrofe umana, come quella subita dal popolo giapponese, 73 anni fa, o una di ancora maggiori proporzioni.

L'arsenale globale è superiore alle 13.000 testate nucleari - 1.800 delle quali sono in stato di allerta - e i nuovi sviluppi della tecnologia e dei vettori di trasporto delle testate stanno guidando la proliferazione nucleare.

Oggi, con le armi esistenti, una nuova guerra di grandi dimensioni significherebbe la distruzione dell'umanità come la conosciamo.

Ricordiamo l'Appello di Stoccolma, una storica iniziativa del Consiglio Mondiale della Pace, firmato da centinaia di milioni di persone preoccupate che manifestarono il loro rifiuto dell'uso e dell'esistenza di armi nucleari.

Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, adottato il 7 luglio 2017, rappresenta una pietra miliare sulla via verso la completa eliminazione delle armi nucleari, un obiettivo a lungo ricercato dagli Hibakusha (i sopravvissuti al bombardamento nucleare, NdT) e dai popoli del mondo.

Tutti gli Stati dovrebbero, senza indugio, firmare il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Gli Stati dotati di armi nucleari non hanno firmato questo trattato. In considerazione della gravità e della minaccia rappresentate dagli Stati Uniti nel voler mantenere nella propria dottrina militare il diritto di usare armi nucleari in un primo attacco, anche contro agenti "non nucleari", e in vista dei conflitti armati generati dagli Stati Uniti e da altre potenze imperialiste occidentali, dalla NATO e dall'Unione Europea, la sopravvivenza di tutta l'umanità è in gioco.

I popoli del mondo devono operare per approfondire la presa di coscienza dell'opinione pubblica allo scopo di premere per l'abbandono della politica di "deterrenza nucleare" e per la promozione del disarmo universale, simultaneo e controllato.

La sopravvivenza dell'umanità dipende da un mondo libero da tutte le armi nucleari. Ci appelliamo a:

- porre fine alle guerre imperialiste di aggressione contro i popoli e a rispettare la sovranità e l'integrità territoriale degli Stati;

- rispettare i principi della Carta delle Nazioni Unite e dell'atto finale della Conferenza di Helsinki da parte di tutti gli Stati, ponendo fine alla minaccia e all'uso della forza nelle relazioni internazionali e a impegnarsi per la risoluzione pacifica delle controversie internazionali;

- impegnare tutti gli Stati a vietare totalmente test nucleari e a sviluppare nuove armi nucleari, incluso il divieto di militarizzazione dello spazio;

- porre fine alla minaccia dell'uso di armi nucleari da parte di tutti gli Stati che le posseggono;

- impegnarsi globalmente per vietare tutte le armi nucleari e le altre armi di distruzione di massa;

- firmare e ratificare il trattato sulla proibizione delle armi nucleari da parte di tutti gli Stati;

- adottare le misure necessarie per garantire la pace nel mondo, la sicurezza, la smilitarizzazione delle relazioni internazionali e il disarmo generale e controllato.