Informazione
(Intervento al convegno TARGET, Vicenza 21/3/2009)
Una commissione sulle Fake News? Cominciamo da quelle che hanno provocato guerre
Sulla scia di quanto accade negli USA, impazza anche in Italia la paranoia su fake news, diffuse da orde di “trolls di Putin” per avvelenare la Democrazia e inquinare le campagne elettorali ed è di questi giorni la proposta di Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd, di istituire una Commissione parlamentare dedicata allo studio di questa presunta “minaccia”. Continua invece la negligenza nei confronti delle fake news che causano guerre:
Alla proposta di Fiano ha risposto Vito Petrocelli, (Movimento Cinque Stelle) presidente della Commissione Affari Esteri del Senato:
“Il Pd vuole una commissione d’inchiesta sulle fake news? Bene. Anzi benissimo, ma partiamo da tutte quelle informazioni false che hanno permesso, avallato e giustificato le tante guerre neo-coloniali degli ultimi anni. Mi viene da sorridere a pensare che a chiedere quest'inchiesta siano gli stessi partiti che hanno preso per vere le bufale storiche come le armi di distruzione di massa in Iraq o il viagra che Gheddafi avrebbe dato alle sue truppe per violentare le bambine. Queste fake news, tra le centinaia che si potrebbero citare e per decine di paesi, sono state usate per giustificare invasioni criminali e distruzione di interi popoli che hanno causato milioni tra morti e profughi. Ben venga l’introduzione della commissione d'inchiesta parlamentare se questa inizierà i suoi lavori indagando sul nefasto ruolo giocato dai media nelle ultime guerre. È un dovere storico, etico e politico nei confronti di popoli amici e fraterni con cui abbiamo un debito morale da ripagare.”
Sibialiria, nata proprio per contrastare la montagna di menzogne guerrafondaie cercando un po’ di verità si augura che alle parole seguano fatti. E poiché ha studiato approfonditamente molti casi, è a disposizione dei parlamentari della futura Commissione.
La Redazione di Sibialiria
Guerra e disinformazione, “così i governi hanno manipolato gli attentati”
Intervista a Michel Collon. “Una guerra di aggressione non può che fondarsi sulle menzogne (Iraq, Siria, ndr) di conseguenza il principale obiettivo dei governi è creare disinformazione per ottenere quel consenso che altrimenti non ci sarebbe tra l’opinione pubblica” così afferma a il manifesto Michel Collon, attivista, scrittore e giornalista belga, autore del libro Je suis ou je ne suis pas Charlie? tradotto in italiano con il titolo Effetto boomerang, Zambon editore. Fondatore del collettivo Investig Action, Collon è specializzato nell’analisi della “disinformazione mediatica” su argomenti quali il fenomeno jihadista in Francia e Belgio o sull’analisi dei conflitti di questi anni dal Medio Oriente all’Africa.
Cosa pensa della libertà di informazione in Europa o in Francia oggi, c’è stato un cambiamento dopo l’attacco a Charlie Hebdo nel 2015?
Per quello che conosco bene, la Francia ed il Belgio, penso che gli attentati di gennaio (Charlie) e novembre 2015 (Bataclan) siano stati manipolati dai governi. Avrebbero dovuto promuovere un dibattito per comprendere meglio le cause, analizzare le responsabilità degli USA, della Francia e dei loro alleati come ho fatto nel libro Je suis ou je ne suis pas Charlie?. Al contrario governo e stampa mainstream hanno preferito nascondere le loro responsabilità, terrorizzando la popolazione, disinformando sul loro sostegno per le guerre in Libia e Siria, vietando dibattiti in televisione, richiedendo ai musulmani di “rinnegare” gli attentati come se fossero stati loro i responsabili, e non Washington e Parigi.
Cosa intende nel suo libro per due pesi e due misure nella lotta contro lo jihadismo visto che da una parte lo si combatte e dall’altra l’Europa fa accordi con Arabia Saudita e Qatar, principali sponsor dei gruppi jihadisti?
Questo meriterebbe, in effetti, il premio Nobel dell’ipocrisia. Non solo perché Arabia Saudita e Qatar sono i finanziatori locali, ma perché tutta l’operazione sull’“eurojihadismo“ è stata voluta da Obama ed Hillary Clinton. Il governo americano aveva paura, dopo i disastri di Bush in Iraq e Afganistan, di impegnare altre truppe USA in Libia o in Siria con ulteriori perdite. Washington così ha siglato un’alleanza con un ramo di Al Qaida in Libia ed in Siria, affermazioni validate grazie alle fonti citate nel libro (Ammiraglio Stavridis comandante NATO in Libia e agenti dei servizi segreti francesi, ndr). La stessa CIA ha addestrato e fornito armi a questi “ribelli” nei campi di addestramento in Giordania. In Siria, come fece Zbigniew Brzezinski (CIA, ndr) in Afganistan nel 1979, Washington ha reclutato e addestrato una milizia con persone provenienti da 40 differenti paesi con l’obiettivo di rovesciare il governo di Assad. Una simile modalità è stata utilizzata in Bosnia, Kosovo ed altre aree per evitare un intervento diretto. Questo terrorismo non mi sembra “made in Islam”, ma soprattutto “made in USA”.
Qual è la sua idea riguardo agli attentati in Europa, perché un gran numero di attentati in Francia e Belgio?
La crisi economica europea ha provocato un “eccesso” di manodopera: i giovani dei quartieri popolari, a Parigi come Bruxelles, ricevono ormai da anni un’educazione di bassa qualità, sono discriminati sul lavoro, nella vita quotidiana e dalla polizia. Il messaggio dell’economia capitalista nei loro confronti è chiaro: non ci interessa la vostra opinione su Israele o sul conflitto in Iraq, non abbiamo bisogno di voi, non siete dei veri cittadini, ma solo manodopera precaria. Questo “no future” ha creato nelle giovani generazioni una disperazione che si esprime bruciando auto, raggiungendo organizzazioni fasciste o lo stesso Daesh.
Cosa si può fare per combattere il fenomeno del jihadismo in Europa, Francia e Belgio in particolare?
Fare esattamente l’inverso della politica governativa che ho descritto. Diminuire radicalmente il tempo di lavoro per creare maggiori opportunità occupazionali, eliminare le discriminazioni razziste ad ogni livello, mettere fine alla censura nei media e promuovere un reale dibattito su temi sensibili: Israele, petrolio, guerre in Medio Oriente ed in Africa. Combattere la militarizzazione e l’utilizzo di denaro per la produzione e l’acquisto di armi. Non si combatte la disperazione con i missili, ma con la giustizia sociale. È tempo di smettere di sostenere in Medio Oriente le monarchie retrograde e violente ed è ora di rispettare la sovranità dei diversi paesi per permettere loro di utilizzare le ricchezze nazionali per i loro popoli come hanno fatto Chavez, Morales e Correa in passato. È tempo di mettere fine al colonialismo d’Israele con la sua apartheid e la sua pulizia etnica, come è tempo di rispettare il diritto internazionale per scongiurare nuovi conflitti. Evidentemente le elites economiche non faranno niente di tutto ciò perché va contro i loro interessi economici e solo una mobilitazione popolare, partendo da una corretta informazione, potrebbe cambiare questo.
Dopo diversi mesi si parla poco di Daesh, le politiche di Macron sono efficaci per contrastare il fenomeno jihadista in Francia?
Daesh è stato sconfitto non da Washington e Parigi, ma dall’alleanza Siria – Hezbollah – Russia anche se la sua minaccia è diminuita, ma è tuttora presente soprattutto in Francia. È stato Putin che ha contrastato le ingerenze occidentali e cambiato radicalmente il rapporto di forze sul terreno. Questa inversione negli ultimi anni è stato un cambiamento di portata storica, l’ascesa dell’asse Pechino-Mosca ha fatto in modo che il periodo in cui un’unica superpotenza si poteva permettere di provocare tutte le guerre che voleva è, forse, finito. La crisi economica, politica e morale, la diminuzione del dominio militare, la perdita dell’egemonia sull’informazione e tutto il sistema capitalista e globale sono in difficoltà. Le stesse forze alternative sono in crisi visto che molte formazioni di sinistra mantengono una visione colonialista, arrogante nei confronti dei popoli del Sud e sostengono le campagne militari e l’informazione mediatica falsa.
Qual è il livello di censura nella stampa europea riguardo alla situazione attuale in Medio Oriente?
Viviamo in un periodo di «propaganda di guerra» dove l’informazione è monopolizzata dalle multinazionali e dai loro governi, qualsiasi forma di informazione differente passa sotto silenzio o viene ridicolizzata. I media indipendenti su Internet vengono spesso denigrati e censurati. Macron e l’UE preparano una legge contro le fake news, google e facebook collaborano con l’informazione mainstream e paradossalmente quelli che producono le fake news si mettono a combatterle. In Francia come in Belgio è inquietante il clima di terrore intellettuale dove si calunniano e ridicolizzano quelli che cercano la verità dei fatti e che ascoltano tutte le parti in conflitto.
Senza una mobilitazione popolare per esigere la libertà di dibattito, per proteggere e sostenere i giornalisti indipendenti andiamo verso un nuovo maccartismo: una massiccia azione di intimidazione e indottrinamento sociale e culturale. La guerra militare è sostenuta dalla guerra psicologica che le è fondamentale per supportarla e per creare consenso nell’opinione pubblica. Quando le persone conoscono le vere cause delle guerre ne chiedono anche la loro fine come è avvenuto in passato in Vietnam. Una guerra di aggressione non può che fondarsi sulle menzogne (Iraq, Siria, ndr) di conseguenza il principale obiettivo dei governi e delle multinazionali è creare disinformazione tra la popolazione, attraverso i media mainstream, per ottenere quel consenso che altrimenti non ci sarebbe, da qui l’esigenza di creare una controinformazione indipendente e internazionalmente coordinata in Francia come in Italia. (l’intervista è stata pubblicata anche su Il manifesto di mercoledi 30 maggio)
By RAPHAEL AHREN
5 August 2018
Israel’s military stirred up a storm by participating in a military parade Sunday to celebrate the Croatian victory in a battle against Serbia, The Times of Israel has learned.
The fact that Israeli fighter jets and their pilots actively took part in a parade to celebrate the 1995 “Operation Storm,” which killed hundreds and displaced hundreds of thousands, triggered harsh criticism from Belgrade.
“Serbia is deeply disappointed about the participation of Israeli pilots and fighter jets today, because for us Operation Storm in 1995 was a kind of pogrom,” the country’s ambassador to Israel, Milutin Stanojevic, told The Times of Israel on Sunday morning.
“It was the biggest exodus of a nation since the Second World War,” Stanojevic said, adding that Israel’s participation in Croatia’s victory celebration “is not a friendly gesture toward Serbia.”
On Sunday, Croatian media showed photos of at least two Israeli F-16s flying over the city of Knin, between Zagreb and Split, together with Croatian MiG-21s.
According to a Croatian website, Brigadier General (Ret.) Mishel Ben Baruch, who heads the defense ministry’s International Defense Cooperation Directorate, said it was “an honor to be able to participate” in the 23rd anniversary of Operation Storm.
Israel is the first foreign country to actively participate in Croatia’s annual parade to celebrate Operation Storm, the ambassador said.
However, Croatian media reported Sunday that US officials also attended this year’s celebration of Victory and Homeland Thanksgiving Day and Veterans Day at Knin.
“For the Croatian side, maybe these are days of triumph, but for the Serbian side these are days of mourning,” Stanojevic added. “We mourn the exodus. More than 2,500 people died. The resting place of many is not known. More than 250,000 people fled Croatia, mostly civilians. This is not the time or the place where another country should be involved.”
The exact number of the dead and displaced is a matter of dispute.
While Croatia hailed the offensive as a flawless military victory that reunited the country’s territory and ended the war, Serbia mourned the victims of the attack. Serbian President Aleksandar Vucic told a gathering late Saturday that “Hitler wanted a world without Jews; Croatia and its policy wanted a Croatia without Serbs.”
The participation of three Israeli F-16 Barak jets is taking place against a backdrop of Israeli-Croatian arms deals worth half a billion dollars. In January, Prime Minister Benjamin Netanyahu and Croatian Prime Minister Andrej Plenkovic announced their plans to move forward with the sale of about 30 Israeli F-16s to Croatia.
The deal is expected to be completed by 2020.
The Foreign Ministry in Jerusalem declined to comment.
The IDF defended its participation in the event, saying in a statement that the jets were deployed in Croatia as part of a military cooperation arrangement, and that participating in the event was part of that “strategic cooperation between both countries.” The statement also noted the impending Israeli-Croatian arms deal.
President Reuven Rivlin visited both Zagreb and Belgrade last week, stressing Israel’s good ties with both nations.
“Croatia and Israel are small countries but full of energy,” he said at a July 24 defense conference in Zagreb, according to the website of Croatia’s defense ministry.
“We wish to continue developing defense industry and this is the right opportunity to see the state-of-the-art technology offered by our country,” he added.
Croatian Defense Minister Damir Krstičević said at the conference that Croatia and Israel “share similar experiences of hard-won independence and are therefore aware of the importance of maintaining the readiness of the national states for new security threats.”
NEDELJA, 05. AVG 2018
"Srbija je duboko razočarana time zbog toga što je za nas operacija 'Oluja' iz 1995. bila vrsta pogroma. To je bio najveći egzodus jedne nacije od Drugog svetskog rata", rekao je Stanojević.
Dodao je da su ti dani možda za hrvatsku stranu dani trijumfa, ali da su za srpsku stranu to dani žalosti.
"Mi žalimo zbog egzodusa. Više od 2.500 ljudi je izgubilo život. Za mnoge od njih se ne zna gde počivaju. Više od 250.000 ljudi je pobeglo iz Hrvatske, mahom civila. Ovo nije vreme ni mesto gde bi neka druga zemlja trebalo da učestvuje", rekao je ambasador Stanojević.
Izraelsko ministarstvo spoljnih poslova u Jerusalimu odbilo je da komentariše učešće dva izraelska F-16 u preletu borbenih aviona u Kninu.
Kako navodi Tajms of Izrael, izraelske oružane snage su u saopštenju "branile" svoje učešće u događaju, navodeći da su borbeni avioni u Hrvatskoj raspoređeni u okviru sporazuma o vojnoj saradnji i da je njihovo učešće deo "strateške saradnje između dve zemlje".
List navodi i da su izraelska i hrvatska vojska sklopili ugovor o kupovini aviona vredan pola milijarde dolara.
"Avioni u Kninu zbog kupoprodajnog ugovora"
U međuvremenu, izraelska ambasada u Beogradu saopštila je da učešće izraelskih aviona u obeležavanju operacije "Oluja" u Kninu nema nikakve političke elemente i da je u isključivoj vezi sa ugovorom kojim je Hrvatska od Izraela kupila avione F-16.
"Hrvatska je kupila avione F-16 od Izraela, a njihovo učešće je u isključivoj vezi sa ovim kupoprodajnim ugovorom.. Ono nema nikakve političke elemente niti bilo kakve veze sa istorijskim odnosima između Srbije i Hrvatske", ističe se u saopštenju izdatom, kako se navodi, "povodom aktuelnih dešavanja tokom obeležavanja vojne operacije 'Oluja' u Kninu i učešća izraelske delegacije".
Kako se dodaje, Izrael izuzetno ceni prijateljstvo sa Srbijom i nije došlo do promene izraelske politike prema Srbiji, za šta je dokaz zvanična poseta predsednika Rivlina pre dve nedelje.
"Tokom posete, predsednik je bio duboko dirnut, ukazavši na snažne veze i prijateljstvo sa Srbijom. Predsednik je takođe izrazio jasan stav kada je reč o sećanju na prošlost", napominje se u saopštenju.
U tom smislu, čvrsto prijateljstvo koje postoji između Izraela i Srbije nikada i ni na koji način neće biti ugroženo, istakla je izraelska ambasada.
Zurof uznemiren zbog učešća izraelskih aviona
I direktor Centra kancelarije "Simon Vizental" u Jerusalimu i lovac na naciste Efraim Zurof kritikovao je učešće izraelskih borbenih aviona u obeležavanju operacije "Oluja" u Hrvatskoj.
"Vrlo sam uznemiren što će borbeni avioni izraelskih vazduhoplovnih snaga učestvovati u obeležavanju operacije 'Oluja' tokom koje je Hrvatska proterala 250.000 Srba iz njihovih domova u Hrvatskoj. Do danas nijedna strana zemlja nije nikada učestvovala", napisao je Zurof ranije na Tviteru.
Operazione Tempesta: dopo 23 anni ancora battaglia
di Nicole Corritore, 7 agosto 2018
Tra il 4 e il 5 agosto del 1995 iniziava l'azione militare “Oluja” (Tempesta) con cui l'esercito della Croazia riconquistava in due giorni le Krajine. Questo territorio era rimasto per quattro anni sotto controllo delle forze dei ribelli serbi. Un anniversario durante il quale prosegue una guerra con altri mezzi, a partire da celebrazioni e commemorazioni divise.
A distanza di 23 anni questa operazione militare rimane segnata da molte controversie. Da un lato la Croazia celebra l'anniversario come simbolo delle vittoria della "Guerra patriottica" e tace sul fatto che l'esercito croato ha messo in fuga decine di migliaia di serbi, commettendo uccisioni sommarie e crimini di guerra. Dall'altra la Serbia protesta per il mancato riconoscimento dei crimini perpetrati sui civili serbi e non riconosce responsabilità nel conflitto in Croazia.
Così il 4 agosto si sono tenute due commemorazioni delle vittime civili serbe di quell'operazione militare: a Mokro Polje, nella provincia di Knin, su organizzazione del Consiglio serbo di Croazia e a Bačka Palanka, in Vojvodina, in presenza di autorità della Repubblica di Serbia, tra i quali il presidente Aleksandar Vučić, oltre che della Republika Srpska di Bosnia Erzegovina.
"Non ci sarà mai più un'altra Oluja per il fatto di essere serbi. Hitler voleva un mondo senza ebrei, e la Croazia e la sua politica ha voluto una Croazia senza serbi perché, secondo il suo punto di vista, minacciava l’essenza della nazionalità croata" è stata la frase più dura del discorso pronunciato a Bačka Palanka dal presidente Vučić, il quale ha inoltre definito l'operazione Oluja "un crimine di guerra di pulizia etnica, che non può essere dimenticato, giustificato né tanto meno celebrato".
Il giorno successivo a Knin, durante la celebrazione del "Dan pobjede i domovinske zahvalnosti " (Giorno della vittoria e del ringraziamento patriottico) la presidente croata Kolinda Grabar Kitarović alla domanda del giornalista di Vijesti sulle dichiarazioni di Vučić, ha risposto secca: "Ciò che ha detto Vučić non cambierà la storia e il presente. Non vedo come potremo mai metterci d'accordo sul passato, ciò nonostante dobbiamo lavorare per raggiungere l'obiettivo comune di una vita migliore per tutti".
Stringate anche le dichiarazioni di tre ministri croati , Lovro Kuščević, Damir Krstičević e Tomo Medved – rispettivamente della Giustizia, della Difesa e dei Veterani. Secondo i tre, "l'operazione Tempesta è stata l'apice di una giusta guerra di difesa e che dovrà affrontare il fatto storico per cui la politica della Grande Serbia, con l'aiuto dell'esercito della JNA, ha commesso un'aggressione alla Croazia".
Intanto, il 5 agosto in altri luoghi delle Krajine si sono svolti vari eventi, tutti dedicati a celebrare la Guerra patriottica, come a Gline dove il cantante Marko Perković Thompson , noto per le canzoni nazionaliste e l'uso di simboli ustascia, ha aperto il concerto con la famosa canzone di guerra "Bojna Čavoglave" (Il battaglione di Čavoglave) che negli anni '90 era diventato l'inno della destra nazionalista croata. (...)
Il "presidente" della sedicente repubblica del Kosovo, Hashim Thaci, ha dichiarato che intende chiedere l'annessione di aree della Serbia centro-meridionale al territorio sotto controllo albanese, per cui è pronto a cambiare la "Costituzione" del Kosovo. Per la proposta in questione, si prepara a tenere colloqui regolari con la parte serba a Bruxelles, ha riferito RIA Novosti.
Sul territorio dell'estremo sud della Serbia centrale si trovano i comuni di Preševo, Bujanovac e Medvedja, in parte abitati da albanesi, i cui leader periodicamente richiedono l'integrazione della loro valle di Preševo con Pristina.
Si noti che nel 2001 si sono verificati scontri armati tra formazioni albanesi e autorità serbe. L'ex comandante sul campo dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), Thaci, ha detto in una conferenza stampa a Pristina che l'eventuale adesione della valle di Preševo alla repubblica autoproclamata "non implica la spartizione del Kosovo, lo scambio di territori o l'autonomia per i serbi del Kosovo, ma solo l'adeguamento dei confini".
"L'adeguamento del confine presuppone la piena adesione di Preševo, Medvedja e Bujanovac al Kosovo. Questo sarebbe un processo trasparente e responsabile di riconciliazione tra Kosovo e Serbia. Se entrambe le parti sono d'accordo, nessuno potrà opporvisi. Se necessario, il Kosovo cambierà la Costituzione in caso di adesione della Valle di Presevo", ha detto Tachi.
Il leader dello Stato non riconosciuto ha osservato che l'adeguamento delle frontiere dovrebbe essere effettuato con la demarcazione ufficiale (delineazione) tra Pristina e Belgrado.
Il 4 agosto è stato riferito che la NATO aveva trasferito truppe in Kosovo. Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha tenuto una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale della Serbia, che ha discusso la minaccia di aggravamento della situazione nei rapporti con le autorità albanesi della repubblica autoproclamata. Vučić ha sottolineato che Belgrado non permetterà operazioni militari contro i serbi del Kosovo "o nuovi pogrom".
Il 26 luglio, Gazeta Ekspres di Pristina ha riferito con riferimento a fonti diplomatiche che l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dato una "luce verde" all'opzione della divisione del Kosovo.
La pubblicazione afferma che c'è una possibilità che Trump l'abbia concordata con il presidente russo Vladimir Putin al vertice russo-americano di Helsinki.
Il 28 giugno, i serbi del Kosovo e Metochia hanno scritto una lettera aperta a Vladimir Putin . La lettera richiedeva l'uso di tutti i mezzi diplomatici per fermare la legalizzazione del separatismo albanese nella provincia meridionale della Serbia.
Др Дарио Видојковић, Немачка
Недавне изјаве Хашима Тачија, али и других албанских политичара ткз. Косова али и Албаније о укидању међусобне границе Албаније и КиМ-а као и о даљем прекрајању граница Републике Србије недвосмислено указују само на једно, а то је потпуни крах Бриселског дијалога! Додајмо уз то и чињеницу да од увелико најављиване фамозне ЗСО до сада нема ни милиметра помака, а није уочљиво да Запад уопште врши притисак на Приштинске власти да се оснивање Заједнице српских општина спроведе у праксу, што је уствари једна од главних тачака договора проистеклог из Бриселског дијалога. Како ствари стоје, Албаници могу све, односно, никакве уступке не морају да учине српској страни, од које се захтева – све! Безобразлук и ароганција власти у Приштини иде чак дотле да Тачи, осведочени ратни злочинац и као такав миљеник и штиченик Запада, може да захтева прекрајање границе Републике Србије како му се прохте, па чак да сада укључује и Прешевску долину у оквире натовске квази-државе Косова!
Истина, такве захтеве смо могли чути и раније, али најавом министра из Албаније Панделија Мајка па и Рамуша Харадинаја, другог ратног злочинца којег је Хаг пустио на слободу упркос доказима о почињеним злочинима, о укидању границе Албаније према територији Косова и Метохије (Србије) је нови и еклатантни корак ка формирању „Велике Албаније“, што може довести до опасних последица по читав регион и по мир и стабилност на Балкану али и шире! Тиме, албански лидери више и не скривају своје праве намере, које су износили и другим начинима у јавност, као што је била застава „Велике Албаније“ прикачена на дрон којег су 2014. пустили на стадион у Београду током утакмице Србија и Албанија.
Овакве албанске намере су крајње опасне по Србе јужно од Ибра, али и за све Србе на Косову и Метохији. Да би се избегло ново етничко чишчење Срба јужно од Ибра и са територије читавог Косова и Метохије, али уједно и да би се спречило најављено стварање „Велике Албаније“, Београду преостаје да одмах прекине Бриселски дијалог и да се питање Косова и Метохије поново врати у окриље УН, поштујући Резолуцију СБ УН 1244! Бриселски дијалог српској страни досада и није донео никакве конкретне користи, осим што је Србија извршавајући договоре, учинила нове једностране уступке Приштини, међу којима је највећи - укидање институција Републике Србије на целој територији Косова и Метохије. Заузврат, српска страна скоро ништа да није ни добила. Једини добитак је управо требало да буде ЗСО, од које, ето, по свој прилици, нема ништа.
Устав Републике Србије више је него јасан, и нормално би било да се сви у Београду, укључујући све институције и преговараче стриктно придржавају свог Устава. Томе у прилог иде и Резолуција СБ УН 1244, која мора поново да се стави на сто, јер је јалови Бриселски дијалог показао, да се албански челници не држе никаквог договора, да договор са фракцијом предвођеном ратним злочинцима уопште и није могућ, поготово када имају подршку одређених кругова на Западу. Стога Србија мора под хитно да се врати Резолуцији УН 1244, да би спречила „Велику Албанију“, како би се уједно сачувао мир у региону.. Јер, при садашњим токовима, односима и преговарачком формату, више је него извесно да би албански екстремисти и сепаратисти ишли даље у својим претензијама, и плановима за стварање „Велике Албаније“. Сада се мора схватити, да таква настојања и замисли, без обзира да ли њихови протагонисти имају у виду једнократну или етапну тактику, не угрожава само виталне интересе Србије, већ и Црне Горе, Македоније и Грчке. То директно угрожава мир и безбедност на Балкану.
Ситуација у Македонији, поготово након доласка на власт Зорана Заева, је озбиљно заоштрена и на ивици кључања, не само због све отворенијег испољавања албанског сепаратизма, него и због спора са Грчком око имена зарад њеног припајања НАТО пакту, што опет Русија не одобрава. Даљи развој би могао лако довести до нових конфликата, па и до преливања истог у суседне државе, као што је Дејтонска БиХ где је Република Српска на удару политичког Сарајева и неких центара моћи на Западу. Захтевом Србије да се решавање питања Косова и Метохије врати у Савет безбедности УН, уз поштовање Резолуције СБ УН 1244, Србија уједно тим потезом на озбиљан начин скренула пажњу на гомилање конфликтног потенцијала на Балкану и деловала превентивно. Она би тиме на потпуно јасан начин и Европској унији и светској заједници скренула пажњу да се ни по коју цену неће одрећи свог суверенитета и територијалног интегритета. То је начин како да се избориза опстанак Срба не само на северу Косова и Метохије, него и јужно од Ибра, где се и налазе највеће српске светиње, попут Пећке Патријаршије, Граћанице, или Дечана, тако и да озбиљно покрене питање повратка 250.000 протераних Срба и других неалбанаца којима је то право загарантовано управо резолуцијом 1244.
Србија треба да се угледа на упорност и истрајност Израела и свих других народа који у одбрани својих легитимних интереса не журе већ се оријентишу на дугрочнe прилазe. На такав прилаз Србију упућују нова ситуација у свету и трендови који су дубоко променили услове у односу на 1999. годину, и настављају да их мењају што нама може само да погодује! Суштина и циљ унутрашњег дијалога треба да буде општи конзенсус у погледу поштовања Устава и Резолуције СБ УН 1244, јасном и недвосмисленом опредељењу за очување суверенитета и територијалног интегритета Републике Србије!
Lo Stato africano della Liberia, seguendo l'esempio di Suriname, Sao Tome e Principe, Guinea Bissau e Burundi, ha ritirato il riconoscimento della "Repubblica del Kosovo". La Liberia aveva riconosciuto la "Repubblica del Kosovo" il 30 maggio del 2008, pochi mesi dopo l’auto-proclamazione d’indipendenza da parte di Pristina avvenuta il 17 febbraio dello stesso anno; a fine giugno 2018 il Ministro degli Esteri liberiano, nel corso di una visita a Belgrado, ha notificato il cambio di passo, ricordando la fruttuosa collaborazione instaurata con la Jugoslavia sin dagli anni Sessanta.
Il periodo attuale è particolarmente complesso per l’intera area balcanica, poiché la regione sembra risentire delle accresciute tensioni internazionali e gli attori chiave paiono interessati a modificare ulteriormente lo status quo.
La prima conferma di ciò, arriva da Tirana, che sta facendo pressioni sugli Stati Uniti per convincerli ad aumentare la propria presenza in loco e rendere l’Albania il paese cardine del sistema d’influenza americana. Come riporta Balkaninsight, infatti, a metà aprile, nel corso di un incontro bilaterale a Washington, il ministro della difesa Olta Khacka si è rivolta all’omologo James Mattis invitandolo a considerare l’ipotesi di stabilire una base, statunitense o della NATO, all’interno del suo paese al fine di rafforzare la presenza occidentale.
Secondo la Khacka, tale richiesta è giustificata dal fatto che “oltre all’intenzione russa di espandere la propria influenza con azioni di destabilizzazione attraverso i servizi segreti, gli investimenti, altri strumenti ibridi o la propaganda dei media e l’istruzione, abbiamo anche visto un incremento dell’azione e dell’interesse di altre nazioni, come Cina e Iran.”
Il segretario alla Difesa, comunque, non ha risposto all’invito, limitandosi a ringraziare Tirana per il proprio impegno all’interno dell’Alleanza Atlantica, e ha concluso dicendo che “pochi paesi della regione sono consci dell’influenza maligna della Russia come l’Albania”.
Alla luce di quanto evidenziato, è possibile fare alcune considerazioni immediate. La prima è che gli USA sono già largamente presenti nei Balcani grazie alla base di Camp Bondsteel, vicino Uroševac (Kosovo), nella quale attualmente vi sono circa 7.000 effettivi (militari e civili). L’attuale comandante è il colonnello Dick Ducich della Guardia Nazionale della California che, come si può intuire dal cognome, è di origine serba.
La sua nomina, infatti, potrebbe essere stata decisa proprio per giustificare la permanenza della KFOR nell’area nonostante questa venga spesso accusata di non fare abbastanza per proteggere i non-albanesi residenti nell’ex provincia serba. Una nuova installazione statunitense o dell’Alleanza Atlantica in Albania, quindi, rappresenterebbe una significativa escalation nella corsa al predominio sui Balcani e rischierebbe di provocare una reazione da parte di Mosca, che può però contare solamente su quella che ufficialmente è una struttura della Protezione civile russa nei pressi di Niš (Serbia meridionale).
Tale eventualità, comunque, dovrebbe quantomeno spingere anche la UE a riflettere circa gli obiettivi statunitensi nella regione, in quanto Bruxelles si troverebbe in forte inferiorità rispetto a Washington per quanto riguarda la presenza militare, nonostante l’ambito sicurezza e difesa costituisca uno degli elementi chiave dell’espansione dell’Unione verso sud-est.
Parafrasando quanto scritto da Slobodan Lekic su Stars and Stripes, comunque, l’elemento chiave su cui si gioca questa partita è quello della percezione esagerata delle reali capacità russe di influire sulla stabilità dell’area.
Per invitare Mattis a prendere in considerazione l’idea di investire su una nuova base, il ministro Khacka non ha fatto leva su minacce tradizionali (terrorismo, separatismo, corsa al riarmo, etc) o provate, ma sfruttato l’allarme generalizzato sull’hybrid warfare di Mosca, tirando a tal proposito in ballo anche paesi poco o non coinvolti, ma che sono rivali conclamati dell’Occidente, come la Cina (che al momento nei Balcani è concentrata prevalentemente sull’ambito investimenti) e l’Iran, che non ha più un ruolo attivo rilevante nell’area dalla guerra in Bosnia.
Questo atteggiamento, largamente condiviso dai membri NATO e supportato dalla stampa, sta contribuendo ad affermare un’idea distorta e “ideologica” della situazione reale. È difficile dire se il riarmo e l’ossessione per la Russia siano preoccupazioni “genuine” oppure sapientemente utilizzate per giustificare un’inversione di rotta, ma il risultato finale rischia di essere foriero di nuova instabilità.
L’individuazione dei competitors non in base al loro ruolo effettivo, ma secondo il loro schieramento in ambito internazionale, ad esempio, sta portando alcuni stati europei a condividere l’idea di un ruolo attivo dell’Iran nei Balcani, quando in realtà sono proprio Turchia, Arabia Saudita e Qatar a perseguire un’agenda ostile all’Occidente grazie ad un sapiente uso di investimenti ed influenza religiosa.
Nonostante ciò possa essere considerato ben più allarmante delle fake news di Sputnik, nulla viene fatto per mettere un freno a queste attività, forse perché si tratta di nazioni formalmente alleate che investono miliardi nelle nostre economie. Infine, non è chiaro perché, nonostante il costante allargamento della NATO e dell’Europa nei Balcani, la minaccia russa sia considerata sempre più grande, tanto da richiedere un ulteriore investimento. Facendo un breve riassunto, infatti, la situazione attuale è la seguente:
- Slovenia e Croazia: membri UE e Alleanza Atlantica
- Albania e Montenegro: candidati membri UE, membri Alleanza Atlantica
- Macedonia: candidata a UE e NATO, con politica filo-Occidentale
- Kosovo: protettorato internazionale, ospita la base americana di Camp Bondsteel (nella foto sotto). Candidato alla UE.
- Bosnia Erzegovina: protettorato internazionale, candidato UE, divisa sull’adesione alla NATO.
Il secondo elemento che pare confermare un mutato atteggiamento Occidentale verso i Balcani è rappresentato dalla notizia, confermata anche dal sito ufficiale del Consiglio di Sicurezza (CdS), secondo cui USA, Regno Unito e Francia sarebbero pronti a sostenere non solo la riduzione o l’eliminazione delle riunioni periodiche sul Kosovo, ma addirittura la revoca della missione delle Nazioni Unite UNMIK in quanto Prishtina è ritenuta in grado di cavarsela da sola.
Come è facile immaginare, tale eventualità ha trovato la forte ostilità della Serbia (che sarà probabilmente rappresentata da Russia e, forse, Cina in seno al Consiglio), in quanto Belgrado teme che una scelta di questo tipo la metterebbe nella condizione di non poter più barattare il riconoscimento del Kosovo con concessioni politiche o territoriali.
Coerentemente, va sottolineata anche l’importante notizia uscita nelle settimane scorse sui giornali kosovari (e poi scomparsa) secondo cui il paese sarebbe pronto ad iniziare l’iter per costituire “vere” proprie forze armate e permettere così il ritiro del contingente internazionale.
Sempre secondo queste fonti, sapendo che allo stato attuale delle cose i rappresentanti serbi non voterebbero un’eventuale legge in materia, l’Esecutivo avrebbe deciso di farsi dare un’apposita delega dal parlamento, in modo tale da non dover modificare la Costituzione, cosa per cui servirebbe appunto l’accordo delle minoranze.
L’iniziativa appena descritta potrebbe essere stata condivisa con Washington, visto che questa per bocca di Wess Mitchell, assistente del Segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, già a marzo aveva dichiarato che “nessuno può mettere un veto sul diritto del Kosovo a sviluppare le proprie Forze Armate”.
Secondo il quotidiano serbo Politika, inoltre, Prishtina sarebbe pronta a spendere circa 40milioni di dollari per acquistare materiale d’armamento da assegnare alle Forze di Sicurezza del Kosovo (nella foto sotto), tra cui artiglieria anti-aerea, lanciarazzi e armi leggere, oltre che elicotteri e carri armati direttamente dagli USA. Il finanziamento per queste operazioni avrebbe dovuto essere approvato dal parlamento lo scorso 30 aprile, ma non è stato erogato in quanto il provvedimento non è stato ancora presentato.
La questione appena evidenziata solleva quindi alcuni punti interrogativi. Il primo è certamente quale sia la posizione reale di Washington nella vicenda.
Non è da escludere infatti che i collaboratori di Trump vogliano giocare su due tavoli, da un lato spingendo il Kosovo a conquistare “sul campo” la propria sovranità, dall’altro continuando a rassicurare Belgrado, con cui vorrebbero mantenere buoni rapporti, che nulla sarà deciso senza il consenso della Serbia.
In questi ultimi mesi sembra esserci stato un effettivo corteggiamento del presidente Vučić, ma l’uccisione di Oliver Ivanović e l’arresto del ministro Djurić a Kosovska Mitrovica da parte della polizia kosovara hanno rallentato il riavvicinamento tra le parti.
Tuttavia, non è chiaro perché gli USA, pur dichiarandosi pronti a raggiungere una soluzione mediata, stiano sostenendo Londra nel tentativo di eliminare il tema “Kosovo” dall’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di mettere fine al protettorato delle Nazioni Unite che va ormai avanti dal 1999.
Oltre a questo, da oltreoceano non è arrivata alcuna smentita ufficiale dopo la comparsa della notizia del possibile acquisto di armi da parte di Prishtina, né le dichiarazioni del premier kosovaro, Ramush Haradinaj, secondo cui un semplice voto parlamentare permetterebbe di dare vita alle Forze Armate nonostante la risoluzione 1244 del CdS ONU sancisca il contrario.
Ecco perché non è da escludere che l’obiettivo di Washington sia proprio quello di mettere la Serbia davanti al fatto compiuto: accettare un Kosovo indipendente e con proprie forze armate (magari con posti riservati ai serbi) in cambio di qualche minima concessione oppure schierarsi apertamente contro questa soluzione e diventare uno stato paria d’Europa. Nel caso in cui ciò dovesse avvenire, non è da escludere che la risposta euroatlantica possa constare nel ricorso degli strumenti già utilizzati in passato e cioè supporto al dissenso interno, campagne mediatiche internazionali ostili o incoraggiamento dei separatismi interni già presenti nel Sangiaccato e Valle di Preševo a forte presenza musulmana, o nella Vojvodina dove è presente una forte componente ungherese.
Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha tenuto una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale della Serbia, in cui è stata discussa la minaccia di aggravamento della situazione nei rapporti con le autorità albanesi della repubblica autoproclamata del Kosovo. Questo sabato 4 agosto, scrive l'edizione serba di Novosti.rs.
Secondo l'agenzia di stampa RIA Novosti, dopo la riunione del consiglio di sicurezza nazionale, il presidente serbo ha tenuto un incontro con il patriarca Ireney a porte chiuse, quindi ha rilasciato una dichiarazione per i media all'ingresso del patriarcato.
"La Serbia adotterà alcune misure, o meglio, risponderà al fatto che Pristina non rispetta l'accordo di Bruxelles", ha detto Vučić.
Interrogato dai giornalisti sui passi che Belgrado intendeva intraprendere, ha risposto: "Vedrete quali".
Vučić ha sottolineato che Belgrado non permetterà operazioni militari contro i serbi del Kosovo "o nuovi pogrom".
Secondo le informazioni ricevute dai servizi speciali serbi di Mosca, le forze di sicurezza del Kosovo, con il sostegno degli Stati Uniti, pianificano un'invasione segreta del nord del Kosovo. Il nome dell'operazione è "The Golden Saber". Lo scopo dell'operazione è di affermare la "sovranità" del Kosovo in tutto il territorio della repubblica autoproclamata.
Alla vigilia, Vučić ha inviato una lettera aperta agli abitanti del Kosovo e Metohija. "Mentre sono al mio posto, la Serbia non permetterà la violenza contro i serbi e i loro santuari, così come la loro persecuzione. "Non ci sarà una nuova" tempesta "in Kosovo e Metohija", ha promesso.
Nel frattempo, un contingente di forze di pace della KFOR ha condotto "esercizi regolari" nel nord del Kosovo. Secondo il quotidiano, i membri della KFOR nella mattinata del 4 agosto sono stati dispiegati sulle strade di accesso al lago e alla centrale idroelettrica di Gazovod. La pubblicazione rileva che le manovre militari sono solo una copertura per il trasferimento di unità a nord della provincia.
La pubblicazione afferma che nelle prossime 48 ore nel nord del Kosovo la situazione potrebbe deteriorarsi bruscamente, quindi la missione della NATO ha trasferito parte dei suoi quattromila effettivi a nord, nel villaggio di Madjunsko, nel comune di Vucitrn (tra Pristina e Kosovska Mitrovica).
È stato anche riferito che numerose attrezzature militari hanno bloccato per qualche tempo l'autostrada Pristina - Kosovska Mitrovica, le attrezzature sono state trasferite anche da elicotteri.
Oggi è terminata la scadenza fissata per l'inizio della formazione delle cosiddette Associazioni dei comuni serbi in Kosovo. Tuttavia, tale processo non è ancora iniziato.
Il 26 luglio, Gazeta Ekspres di Pristina ha riferito con riferimento a fonti diplomatiche che l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dato una "luce verde" all'opzione della divisione del Kosovo.
La pubblicazione afferma che c'è una possibilità che Trump la abbia concordata con il presidente russo Vladimir Putin al vertice russo-americano di Helsinki.
Il 28 giugno, i serbi del Kosovo e Metohija hanno scritto una lettera aperta a Vladimir Putin . La lettera chiedeva l'uso di tutti i mezzi diplomatici per fermare la legalizzazione del separatismo albanese nella provincia meridionale della Serbia.
Ricordiamo che alla fine di maggio, tre serbi furono feriti dagli Albanesi mentre provavano a visitare le rovine della chiesa della Santa Trinità nel villaggio di Petric vicino alla città di Pec in Kosovo. Gli attacchi ai serbi continuarono nei giorni seguenti.
In precedenza, il ministro serbo per l'innovazione e la tecnologia, Nenad Popovic, a sua volta ha esortato la Russia a impegnarsi in un dialogo sul Kosovo.
A marzo, aerei militari serbi sono stati avvistati ai "confini" del Kosovo. Secondo il dottore in scienze politiche e ricercatore presso l'Institute for European Studies (Belgrado), l' aggravamento in Kosovo è la prossima fase della guerra dell'Occidente contro Serbia e Russia.
La dichiarazione è stata rilasciata a Srbica in occasione della Giornata della Diaspora. All'evento erano presenti i rappresentanti delle istituzioni provvisorie di Priština, tra cui Hasim Thaci e Ramuš Haradinaj.
Majko è stato Premier e ministro della Difesa albanese e membro della dirigenza del Partito socialista di Albania.
Тирана и Приштина праве „велику Албанију”
ПРИШТИНА – Министар дијаспоре Албаније, Пандели Мајко, најављује отварање „границе” између Албаније и Косова, преноси косовски портал Лајми.нет.
„Желимо да отворимо границу између Албаније и Косова. Премијер ми је рекао да је донета одлука. Од 1. јануара почиње слободно кретање између Албаније и Косова”, рекао је Мајко, преноси портал.
Он је то изјавио на догађају поводом Дана дијаспоре, одржаном у Србици.
Том догађају су присуствовали и челници привремених институција у Приштини, између осталих Хашим Тачи и Рамуш Харадинај.
Мајко је, иначе, бивши премијер и министар одбране Албаније и члан најужег руководства владајуће Социјалистичке партије Албаније. (Танјуг)
BERLIN/SOFIA(Eigener Bericht) - Streit um die Teilnahme des kosovarischen Präsidenten Hashim Thaçi geht dem heutigen "Westbalkan"-Gipfel der EU in der bulgarischen Hauptstadt Sofia voraus. Der Gipfel ist anberaumt worden, um den Ausbau der Verkehrsinfrastruktur in der Region voranzubringen und die Vorbereitungen der "Westbalkan"-Länder auf den EU-Beitritt zu fördern. Berlin und Brüssel hatten sich nach einer ersten Welle wirtschaftlicher Expansion nach dem Zerfall Jugoslawiens nicht mehr für die Region interessiert, sehen sich nun jedoch zum Handeln veranlasst - denn Russland und vor allem China weiten ihren Einfluss in Südosteuropa aus. Der kosovarische Präsident Thaçi hat in der vergangenen Woche in Berlin vor einem "anti-westlichen schwarzen Loch" in der Region gewarnt. Thaçi selbst ist von einem Sonderermittler des Europarats schwerster Kriegsverbrechen und des Organhandels beschuldigt worden. Wegen seiner Anwesenheit nimmt Spaniens Ministerpräsident Mariano Rajoy nicht am "Westbalkan"-Gipfel teil: Madrid erkennt die völkerrechtswidrige Abspaltung des Kosovo nicht an.
Berlin bekommt Konkurrenz
Hintergrund der aktuellen "Westbalkan"-Aktivitäten der EU ist die Tatsache, dass in der jüngeren Vergangenheit andere Mächte in der Region an Einfluss gewonnen haben. Nach einer ersten Welle von Firmenübernahmen und steigenden Exporten in die Region, die der territorialen Zerschlagung Jugoslawiens folgten, hatten Berlin und die deutsche Wirtschaft ihr vormaliges Interesse an den "Westbalkan"-Staaten [1] verloren; deren einst in Aussicht gestellter Beitritt zur EU schien auf unbestimmte Zeit verschoben. Während Deutschland und die Europäische Union die verarmte Region weitgehend ignorierten, begannen allerdings zunächst Russland und dann China, ihrerseits Aktivitäten in Südosteuropa zu entfalten. Moskau hat zum Beispiel die Beziehungen zu Serbien intensiviert und im Jahr 2013 zuerst eine "Strategische Partnerschaft", dann ein zunächst auf 15 Jahre angelegtes Militärabkommen mit Belgrad geschlossen.[2] China hat seinerseits im Rahmen seiner Kooperation mit insgesamt 16 Staaten Ost- und Südosteuropas ("16+1", german-foreign-policy.com berichtete [3]) seine Zusammenarbeit auch mit den "Westbalkan"-Staaten ausgeweitet; es ist insbesondere beim Ausbau der Infrastruktur in der Region aktiv.
Gegen Russland und China
Weil der russische und vor allem der chinesische Einfluss über die Jahre immer weiter gewachsen ist, hat Berlin Schritte unternommen, seine eigene Vorherrschaft über Südosteuropa abzusichern. Erste Ergebnisse dieser Bemühungen sind die Teilnahme von Bundeskanzlerin Angela Merkel am "Westbalkan"-Gipfel am 15. Juli 2014 im kroatischen Dubrovnik und sodann die Durchführung einer "Westbalkan"-Konferenz am 28. August 2014 in Berlin gewesen. Ziel war es dabei, mit den üblichen Kooperationsmaßnahmen - Wirtschaftsförderung, politisch einbindende Verhandlungen - den Einfluss Deutschlands und der EU zu sichern und Russland sowie vor allem China wieder zurückzudrängen. Dies ist insbesondere im chinesischen Fall nicht gelungen; Beijing bemüht sich weiterhin unter anderem um den Ausbau der Infrastruktur und konsolidiert seinen ökonomischen und inzwischen auch seinen politischen Einfluss weiter. Um dem entgegenzuwirken, haben Berlin und Brüssel ihre Absicht, die EU vorläufig nicht zu erweitern, aufgegeben und den "Westbalkan"-Ländern einen baldigen Beitritt in Aussicht gestellt.
"Neuer Schwung"
Auch das Programm des heutigen "Westbalkan"-Gipfels in Sofia zielt klar darauf ab, Chinas Einfluss zurückzudrängen. Letzterer beruht nicht zuletzt darauf, dass Beijing den systematischen Ausbau der Infrastruktur in Südosteuropa fördert, den die EU ihrerseits lange vernachlässigt hat (german-foreign-policy.com berichtete [4]). Auf dem heutigen Gipfel soll nun, wie es offiziell bei der EU-Kommission heißt, "Schwung in die Beziehungen zwischen der EU und dem Westbalkan" gebracht werden.[5] Dazu werde die "Konnektivität" auf dem Treffen im Mittelpunkt stehen. Bereits im Februar hat EU-Kommissionspräsident Donald Tusk angekündigt: "Wir wollen die Verbindungen zu und innerhalb dieser Region verstärken." Das reiche "von mehr Investitionen in die Verkehrsinfrastruktur über einen vermehrten Bildungs- und Kulturaustausch bis hin zu einer einfacheren und schnelleren Kommunikation zwischen unseren Bürgerinnen und Bürgern." Allerdings haben sich die EU-Versprechungen bislang noch nicht konkretisiert.
Nicht anerkannt
Heftige Konflikte hat bereits vorab die Teilnahme des kosovarischen Präsidenten Hashim Thaçi hervorgerufen. Nach wie vor wird das Kosovo, das nach dem NATO-Überfall von 1999 und der darauf folgenden NATO-Besatzung schließlich im Jahr 2008 völkerrechtswidrig von Serbien abgespalten wurde, trotz massivsten westlichen Drucks von weniger als zwei Dritteln aller UN-Mitglieder anerkannt. Nicht einmal die EU tritt in dieser Frage geschlossen auf: Griechenland, Rumänien, die Slowakei, Spanien und Zypern stufen den Anspruch des Kosovo auf Eigenstaatlichkeit bis heute als unrechtmäßig ein. Bereits vor dem heutigen Gipfeltreffen ist es deshalb zu einem Eklat gekommen: Der spanische Ministerpräsident Mariano Rajoy bleibt der Zusammenkunft, auf der das Kosovo von seinem Präsidenten Thaçi vertreten wird, demonstrativ fern. Spanien ist selbst von starkem Separatismus betroffen und nicht bereit, separatistischen Strömungen durch die Anerkennung kosovarischer Repräsentanten auch nur den Anschein von Legitimität zu verleihen.
Organisierte Kriminalität an der Macht
Thaçis Teilnahme an dem von der EU anberaumten Treffen wird darüber hinaus wegen seiner mutmaßlich kriminellen Vergangenheit kritisiert. Thaçi, einstmals Anführer der Untergrundmiliz UÇK, die der NATO bei ihrem Überfall auf Jugoslawien im Frühjahr 1999 als Bodentruppe diente, ist seitdem - mit Ausnahme der Jahre von 2004 bis 2007 - im Kosovo faktisch an der Macht, die er in unterschiedlichen Funktionen ausübt: zunächst als Außen- und Premierminister, inzwischen als Präsident. Thaçi ist bereits im Jahr 2005 vom BND als "eine der drei Schlüsselfiguren" eingestuft worden, die im Kosovo die Verbindungen der Organisierten Kriminalität in die Politik herstellten; demnach habe er "direkte Kontakte zur organisierten Kriminalität in Tschechien und Albanien" gehalten und sei persönlich "in umfangreiche Drogen- und Waffengeschäfte" verwickelt gewesen.[6] Im Jahr 2010 ist ein Sonderermittler des Europarats, der Schweizer Liberale Dick Marty, nach zweijährigen aufwendigen Ermittlungen zu dem Ergebnis gekommen, Thaçi und weitere einstige UÇK-Anführer seien in Organhandel und diverse Kriegsverbrechen verwickelt gewesen (german-foreign-policy.com berichtete [7]). Obwohl ein Sondergericht in Den Haag Martys Erkenntnisse untersuchen soll, ist bis heute keine Anklage erhoben worden. Thaçi sitzt fest im Sattel.
Die Folgen der Abspaltung
Und er erfüllt weiterhin seine politische Funktion für Berlin. Am Mittwoch vergangener Woche hat er nach Gesprächen mit Kanzlerin Merkel in der deutschen Hauptstadt für eine baldige Aufnahme des Kosovo in die EU plädiert. "Bei der EU-Erweiterung auf dem Westbalkan geht es darum, den Einfluss gefährlicher Ideologien und den Einfluss anderer anti-europäischer und anti-westlicher Mächte zu verhindern", erklärte der ehemalige UÇK-Anführer: "Die EU kann sich kein schwarzes Loch auf dem Balkan leisten."[8] Mit dem "schwarzen Loch" war nicht das Kosovo gemeint, dessen angebliche "Fortschritte" Kanzlerin Merkel nach ihrem Gespräch mit dem kosovarischen Präsidenten ausdrücklich würdigte. Den Begriff "Fortschritt" machen sich Korrespondenten aus der Region bei der Beschreibung der Verhältnisse im Kosovo im allgemeinen nicht zu eigen. Zusätzlich zu einem Hinweis, die Aufklärung der Vorwürfe gegen Thaçi sei doch wirklich wünschenswert, hieß es vergangene Woche in der regierungsfinanzierten Deutschen Welle, in der kosovarischen Bevölkerung wachse mittlerweile die Unzufriedenheit: Unter Thaçis Führung sei "das Kosovo zum ärmsten Land Europas geworden, mit einer Arbeitslosenquote von über 30 Prozent". "In der aktuellen Regierung stehen mindestens fünf Minister unter Korruptionsverdacht", hieß es weiter, "gleichzeitig plagt die organisierte Kriminalität das kleine Balkan-Land." Thaçis Kritiker gingen davon aus, für die Mafia im Kosovo sei der Präsident persönlich der "Pate".[9]
[1] Als "Westbalkan"-Länder werden im gegebenen Zusammenhang diejenigen Staaten Südosteuropas bezeichnet, die - noch - nicht zur EU gehören: Albanien, Bosnien-Herzegowina, Mazedonien, Montenegro und Serbien. Hinzu kommt das Kosovo.
[2] S. dazu Die Hegemonie über Südosteuropa.
[3] S. dazu Berlin fordert "Ein-Europa-Politik".
[4] S. dazu Die Neue Seidenstraße (II).
[5] Treffen EU-Westbalkan in Sofia, 17.05.2018. consilium.europa.eu.
[6] Thaçi in Berlin: Ein umstrittener Gast. dw.com 08.05.2018.
[7] S. dazu Teil des Westens geworden und Ein privilegierter Partner.
[8] Hans-Peter Siebenhaar: "Die EU kann sich kein schwarzes Loch auf dem Balkan leisten". handelsblatt.com 08.05.2018.
[9] Thaçi in Berlin: Ein umstrittener Gast. dw.com 08.05.2018.