Informazione
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E’ un brutto segnale, prevedibile ma brutto, per qualsiasi paese. Se poi quel paese è lo Stato di Israele con la sua narrazione alla spalle, il fatto assume la valenza di un “segno dei tempi” in cui ci è toccato di vivere.
Il parlamento israeliano, la Knesset ha approvato il progetto di legge sullo “Stato-nazione” – la famosa Clausola 7 b – secondo cui Israele è ebraico in modo “esclusivo” . Il progetto legislativo è diventato legge dello Stato dopo un acceso dibattito parlamentare di otto ore, ottenendo 62 voti a favore e ben 55 contrari. Segno che, fortunatamente, la società politica israeliana non è unanime su questo gravissimo passaggio.
La norma è la quatordicesima “legge base” dello Stato (come noto Israele non ha una Costituzione). In base ad essa, solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione in Israele. Il testo legislativo tocca anche la questione delle colonie, legittimandole: “Lo Stato vede lo sviluppo di insediamenti ebraici come un interesse nazionale e prenderà misure per incoraggiare, avanzare e mettere in atto questo interesse”. Viene inoltre “degradata” la lingua araba, da status di lingua nazionale a “speciale”.
Dal testo definitivo sono state tolte alcune clausole contestate, come la creazione di comunità per soli ebrei, che avrebbe concesso ai residenti di cacciare o respingere gli arabi.
Subito dopo la votazione, il premier Benjamin Netanyahu ha affermato: “Questo è un momento cruciale – lunga vita allo Stato d’Israele”. Durante la riunione parlamentare, Avi Dichter, promotore della legge e capo del comitato per gli Affari esteri e la Difesa, si è rivolto ai legislatori arabi: “Eravamo qui prima di voi, e ci saremo dopo di voi”. Da parte loro, i rappresentanti della minoranza rabo/palestinese hanno strappato il testo della legge come segno di protesta.
Gli arabi israeliani – i palestinesi – rappresentano ben il 20% di una popolazione di nove milioni di abitanti, e sono per la maggioranza di fede musulmana con piccole minoranze druse e cristiane. Nonostante essi godano per legge di pari diritti, i cittadini palestinesi in Israele hanno sempre lamentato di essere sottoposti a discriminazioni ed essere trattati come “cittadini di serie B”.
I palestinesi possono esercitare il diritto di voto, eleggere i loro parlamentari alla Knesset – nelle elezioni del 2015, la Union List, la coalizione arabo-israeliana guidata dal quarantunenne Ayman Odeh, ha conquistato quattordici seggi, diventando per la prima volta nella storia la terza forza politica di Israele – ma sa già in partenza che, comunque vada, non sarà mai rappresentato in un governo, sia esso di destra, di centro o di sinistra, perché prima di ogni altra cosa viene l’identità ebraica dell’esecutivo..
La popolazione palestinese in Israele subisce discriminazioni nella ripartizione dei finanziamenti per i servizi pubblici; ciò significa che la maggior parte delle città a popolazione prevalentemente palestinese ubicate all’interno di Israele ricevono stanziamenti di bilancio decisamente inferiori per la sanità, l’istruzione e altri servizi sociali rispetto alle città a maggioranza ebrea.
Secondo una relazione del 1998 dell’Adva Centre di Tel Aviv, le disparità sociali ed economiche in Israele sono particolarmente evidenti nei confronti degli arabi israeliani. La relazione fornisce alcune cifre illuminanti, ad esempio emerge che il reddito medio dei palestinesi che hanno cittadinanza israeliana è il più basso tra tutti i gruppi etnici del paese; che il 42 % dei palestinesi cittadini israeliani all’età di 17 anni ha già abbandonato gli studi; che il tasso di mortalità infantile tra i palestinesi cittadini israeliani è quasi il doppio rispetto a quello degli ebrei: 9,6 per 1000 nascite contro 5,3.
Selim Joubran, giudice arabo della Corte Costituzionale, ha denunciato quattro anni fa come tra ebrei e palestinesi in Israele “ci sono divari nell’educazione, nell’impiego, nell’assegnazione di terreni per le costruzioni e l’espansione della comunità, scarsezza di zone industriali e infrastrutture, molti errori nei segnali stradali in arabo”.
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Sulla legge approvata in Israele, riproduciamo l’articolo di Gideon Levy comparso sul settimanale “Internazionale” del 19/7/2018.
La legge che dice la verità su Israele
Di Gideon Levy
Il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno.
Se lo stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo stato nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.
Le proteste contro la proposta di legge erano nate soprattutto come un tentativo di conservare la politica di ambiguità nazionale.
Il presidente della repubblica, Reuven Rivlin, e il procuratore generale di stato, i difensori pubblici della moralità, avevano protestato, ottenendo le lodi del campo progressista. Il presidente aveva gridato che la legge sarebbe stata “un’arma nelle mani dei nemici di Israele”, mentre il procuratore generale aveva messo in guardia contro le sue “conseguenze internazionali”. La prospettiva che la verità su Israele si riveli agli occhi del mondo li ha spinti ad agire. Rivlin, va detto, si è scagliato con grande vigore e coraggio contro la clausola che permette ai comitati di comunità di escludere alcuni residenti e contro le sue implicazioni per il governo, ma la verità è che a scioccare la maggior parte dei progressisti non è stato altro che vedere la realtà codificata in legge.
Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica
Anche il giurista Mordechai Kremnitzer ha denunciato invano il fatto che la proposta di legge avrebbe “scatenato una rivoluzione, né più né meno. Sancirà la fine di Israele come stato ebraico e democratico”. Ha poi aggiunto che la legge avrebbe reso Israele un paese guida “per stati nazionalisti come Polonia e Ungheria”, come se non fosse già così da molto tempo. In Polonia e Ungheria non esiste un popolo che esercita la tirannia su un altro popolo privo di diritti, un fatto che è diventato una realtà permanente e un elemento inscindibile del modo in cui agiscono Israele e il suo governo, senza che se ne intraveda la fine.
Tutti questi anni d’ipocrisia sono stati piacevoli. Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica, perché lì tutto il sistema si basava su leggi razziali, mentre noi non avevamo alcuna legge simile. Dire che quello che succede a Hebron non è apartheid, che quello che succede in Cisgiordania non è apartheid e che l’occupazione in realtà non faceva parte del regime. Dire che eravamo l’unica democrazia della regione, nonostante i territori occupati. Era piacevole sostenere che, poiché gli arabi israeliani possono votare, la nostra è una democrazia egualitaria. O fare notare che esiste un partito arabo, anche se non ha alcuna influenza. O dire che gli arabi possono essere ammessi negli ospedali ebraici, che possono studiare nelle università ebraiche e vivere dove meglio credono (sì, come no).
19 luglio 2018
Signora Sindaca Appendino,
in quanto organizzazioni della società civile torinese, e consapevoli delle pressioni che si sono verificate negli ultimi giorni, vogliamo dichiarare la nostra adesione alla mozione approvata a larghissima maggioranza dal Consiglio Comunale di Torino. In questo documento, si esprime profonda preoccupazione per la repressione e l'uso smisurato della forza da parte dell'esercito israeliano contro la popolazione civile palestinese e si chiede “la sospensione delle forniture di armi e attrezzature militari nei confronti di Israele”. In tal senso è necessario ricordare l’ultimo rapporto di Amnesty International che hanno accertato come nel corso delle proteste della “Grande marcia del ritorno” a Gaza l’esercito israeliano abbia “ucciso e ferito manifestanti palestinesi che non costituivano alcuna minaccia imminente”. Nella maggior parte dei casi analizzati da Amnesty, i manifestanti uccisi sono stati colpiti sulla parte superiore del corpo, come la testa e il petto, in diversi casi mentre davano le spalle ai soldati. I cecchini israeliani hanno ucciso o ferito in modo intenzionale manifestanti disarmati, disabili, giornalisti e personale medico che erano distanti dalla barriera da 150 a 400 metri. I palestinesi uccisi sono stati più di 100 e il numero di feriti si aggira attorno alle 10.000 persone, mentre nessun soldato o civile israeliano è rimasto ferito. Secondo Medici Senza Frontiere, la metà degli oltre 500 pazienti trattati nei suoi centri “presentano ferite da armi da fuoco davvero devastanti” molti dei quali subiranno dei deficit funzionali per tutta la vita. A questo bisogna aggiungere che la maggioranza dei feriti “è a rischio amputazione per la mancanza di cure sufficienti a Gaza” a causa del blocco israeliano che provoca una situazione di profonda crisi umanitaria. Pertanto risultano più che condivisibili le parole della vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente, Magdalena Mughrabi secondo cui “la comunità internazionale deve agire concretamente e fermare l’afflusso di armi e di equipaggiamento militare a Israele poiché non farlo significherà continuare ad alimentare gravi violazioni dei diritti umani contro uomini, donne e bambini”. Ci pare che Amnesty International (come anche Human Right Watch, Medici Senza Frontiere e Commissione Speciale per i diritti umani dell'ONU) sia una fonte universalmente riconosciuta come affidabile e non sospetta né di essere pregiudizialmente antiisraeliana né tanto meno antisemita. Per tutte queste ragioni, ribadiamo il nostro sostegno alla decisione del Consiglio Comunale di Torino che può costituire un esempio per le altre amministrazioni locali nella difesa dei diritti umani ed il rispetto della giustizia internazionale.
- Progetto Palestina
- BDS Torino
- FIOM CGIL TORINO
- Arci Torino
- USB Piemonte
- Rete ECO - Ebrei Contro l'Occupazione
- ACMOS
- Terra del Fuoco
- Associazione Frantz Fanon
- ANPI sezione V Torino
- ANPI sezione Nizza-Lingotto
- Arte Migrante Mondo
- Operazione Colomba
- Pax Christi Italia - Pagina Ufficiale
- Centro Studi Sereno Regis
- Giosef Unito
- Centro Documentazione Pace
- Comitato di Solidarietà con il Popolo Palestinese
- Unione Democratica Arabo Palestinese - UDAP
- Officine Corsare
- Studenti Indipendenti - SI
- Laboratorio Studentesco - LaSt
- Alter.POLIS
- Noi Restiamo
- Donne in Nero - Torino
- Un Ponte Per - Torino
- Palestina raccontata
- Un Ponte Per Gaza
- Assopace Palestina - Torino
- Invicta Palestina
- Cooperativa Babel
3) L’essenza di classe dell’ «antimaidan» in Donbass (18.04.2018)
– collegamenti e video
– testo di Stanislav Retinskiy "Il Donbass tra l'Ucraina e la Russia"
3) Intervista a Stanislav Retenskij di Maurizio Vezzosi
Partito e classe. Introduzione (il rapporto delle forze di classe in Donbass)
Parte 1
Nella valutazione degli eventi in Donbass, le forze di sinistra, spesso e volentieri, giungono a conclusioni estreme: alcuni credono che qui, presumibilmente, si sia verificata una rivoluzione socialista, soppressa poi da oligarchi russi e da una reazione interna, altri, invece, che i lavoratori non abbiano nemmeno avanzato rivendicazioni di classe, di conseguenza, per il momento, ritengono sufficiente limitarsi al ruolo di semplici osservatori e continuare ad aspettare un’autentica rivoluzione. Gli estremi, come è noto, convergono, perchè entrambi questi punti di vista portano al fatto che la sinistra sia completamente staccata dalle masse e abbia una visuale distante dagli eventi. «Non piangere, non ridere, non odiare, ma comprendere», diceva il filosofo olandese Spinosa. Di conseguenza, anche noi dobbiamo all’inizio tentare di capire ciò che accade, e poi determinare il ruolo del partito nel movimento dei lavoratori.
La posizione del proletariato industriale alla vigilia della guerra
Iniziamo dal fatto che le proteste in Donbass possono essere considerate una risposta all «Euro Maidan». Proprio gli eventi di Kiev hanno risvegliato il Donbass, che negli ultimi 25 anni non si era quasi manifestato politicamente. Nelle altre parti dell’Ucraina si era soliti ritenere che qui vivesse la parte più sottomessa della popolazione del paese, sprezzantemente definita «bestiame». I nazionalisti ucraini non erano riusciti ad attirare dalla propria parte il Donbass ne nel 2004, ai tempi del «Maidan», ne nel 2013, durante l’Euromaidan. Peraltro, nemmeno Viktor Yanukovic non ha goduto di grande autorità presso la popolazione del luogo. Certamente, allora l’amministrazione della regione di Donetsk, utilizzando risorse pubbliche, induceva grandi masse di persone a partecipare alle manifestazioni in appoggio del presidente, ma questo in generale non significava necessariamente che essi lo appoggiassero realmente. Al contrario, in Donbass, lo odiavano per il fatto che non avesse rispettato le promesse elettorali: stabilire normali relazioni con la Russia, il conferimento al russo dello status di lingua di Stato, eccetera… In Donbass, anche se lo hanno votato, in generale non erano per Yanukovic, ma semplicemente contro Viktor Yushcenko e Yulia Timoshenko. Nel 2014, dopo il colpo di Stato, quando il presidente scappò all’estero, all’odio si è aggiunto il disprezzo..
Per quanto riguarda il proletariato, esso per lungo tempo non ha separato i propri interessi da quelli dell’oligarchia locale. Nel Donbass pre-rivoluzionario i lavoratori salariati erano affamati, sopravvivevano in baracche e lavoravano 12 ore al giorno, quindi non avevano nulla da perdere, se non le proprie catene. Poi, prima dell’inizio della guerra del Donbass, nelle fabbriche e nelle miniere venivano pagati stipendi abbastanza alti, per questo la crescita del benessere del proletariato industriale era legata alla crescita del benessere dei proprietari delle imprese. Così, nel 2013, lo stipendio medio nella regione di Donetsk era di 3 800 grivne, mentre per l’Ucraina 3 300. Mentre la media del salario nella regione del carbone era all’incirca di 5700 grivne, la media del settore industriale era all’incirca di 4600 grivne.
Le statistiche ufficiali, naturalmente, forniscono solo dati approssimativi, quindi spesso i redditi dei lavoratori sono stati leggermente superiori.
Questo può essere spiegato con il ricevimento di una parte di stipendio «in busta» (contanti, erogati al di là dello stipendio base per evadere le tasse), e la ricerca di entrate extra. Giornata lavorativa di otto ore, giorni festivi veri e propri, ferie pagate ogni anno — tutto ciò ha contribuito al fatto che il proletariato vendeva la sua manodopera non solo alla fabbrica, ma anche fuori. Per questo, invece della lotta per rivendicazioni economiche in fabbrica o in miniera, i lavoratori spesso cercavano guadagni aggiuntivi fuori . In questo non vi è nulla di sorprendente, dato che lo sciopero è solo una delle forme di lotta del lavoratore per più favorevoli condizioni di vendita della propria forza lavoro. Ma la lotta può cambiare le sue forme di attuazione, partendo dai «lavoretti extra» fino ad arrivare alla ricerca di lavoro anche al di fuori dei luoghi di residenza (lavoratori migranti). In questo caso la vendita di forza lavoro non solo in azienda, ma anche al di fuori di essa, aumenta la giornata di lavoro e intensifica il livello di sfruttamento dello stesso.
Karl Marx e Friedrich Engels, nel Manifesto del partito comunista, hanno evidenziato come, insieme al proletariato socialista, ci sono anche insegnamenti reazionari. Durante la Perestroika, in Unione Sovietica, grande popolarità conquistò il cosiddetto «socialismo di mercato». Con l’aiuto delle riforme di mercato si voleva «correggere» il socialismo. Si sa benissimo a cosa ha portato questo approccio, alla restaurazione del capitalismo. Tuttavia, residui delle conquiste socialiste resistevano ancora, consentendo ai lavoratori di condurre uno stile di vita non solo accettabile ma, se così si può dire, piccolo borghese. Vivono in appartamenti, ricevuti gratuitamente in epoca sovietica, spesso possiedono un appezzamento di terreno, che permette loro di fare una buona scorta di cibo, e ricevono contemporaneamente lo stipendio e la pensione statale per il raggiungimento di una certa età.
Soffermiamoci dettagliatamente su questo fenomeno: il possesso di appezzamenti di terreno da parte dei lavoratori. I famosi 6 ettari cominciarono ad essere assegnati gratis all’incirca nel 1960. Questa decisione della dirigenza sovietica, a prima vista innocua, ha avuto conseguenze molto tristi per il primo paese socialista nel mondo. Al posto di un’ulteriore socializzazione della produzione con l’uso delle macchine, che consentono di migliorare notevolmente la produttività del lavoro, è sorto il processo inverso, ovvero: insignificanti pezzi di terra sono stati lavorati con strumenti di lavoro arcaici. Ma sono proprio le alte produzioni il segno distintivo della società comunista. Con la restaurazione del capitalismo, la «Giornata internazionale della solidarietà dei lavoratori», grazie all’intervento dei capitalisti, si è trasformata nella «Giornata della primavera», e al posto della battaglia delle masse contro l’oppressore sociale, è stato possibile osservare solo una massa di lavoratori su piccoli appezzamenti di terreno. Prima ancora della guerra, un lavoratore mi disse che non avrebbe partecipato a nessuna rivolta, fino a quando a casa sua ci fosse stato un sacco di patate. Allora gli risposi, che la riforma agraria, prima o poi, lo avrebbe spazzato via.
Tutti questi benefici sociali sarebbero da considerare un lusso non solo per gli altri Paesi del «terzo mondo», dove non c’era il socialismo, ma anche per i Paesi capitalistici altamente sviluppati. Non è una forzatura affermare che il proletariato industriale in Donbass ha ricoperto una posizione di «aristocrazia operaia». Ma se nei paesi Occidentali, l’aristocrazia dei lavoratori, era il risultato della corruzione dei vertici del proletariato, come parte dei profitti monopolistici, qui — era legata alle vestigia del socialismo. In condizioni di universale impoverimento provocato dalla controrivoluzione e in conseguenza di un calo della produzione (nel 1990 il PIL dell’Ucraina è diminuito di quasi il 60 %, più del doppio rispetto al declino dell’economia degli USA nel periodo della Grande depressione), i minatori e i lavoratori delle acciaierie occupavano una posizione privilegiata. Ognuno, ovviamente, ha cercato di mantenere questa posizione. Questo atteggiamento si è manifestato in maniera lampante durante la successiva riduzione del personale, quando, invece di unirsi contro i nemici di classe, i lavoratori hanno condotto una lotta all’interno della propria classe. Per rimanere in azienda o conquistare un posto migliore nella gerarchia di produzione, i lavoratori cercarono di ingraziarsi i superiori e di sostituirsi a vicenda.
Questa situazione è dovuta al fatto che, nell’era del capitalismo, la competizione non è solo tra capitalisti, ma anche tra proletari. E con ogni licenziamento o chiusura di azienda, la concorrenza all’interno del proletariato è cresciuta. Nella fase di formazione del capitalismo il lavoro manuale è soppiantato dalle macchine, che creano un esercito di riserva del lavoro. La riduzione della richiesta di lavoro ha portato ad una riduzione del suo prezzo. Ma nell’ex Unione Sovietica è accaduto esattamente il contrario. Quando il Donbass chiuse le miniere e i minatori finirono per strada, questo non significò che stava cadendo la richiesta di lavoro. Al contrario, la richiesta di lavoro è rimasta invariata, ha solo assunto un’altra forma. Al posto delle imprese minerarie, spesso comparivano i cosiddetti «kopanka», piccole miniere illegali, in cui il carbone viene estratto con metodi artigianali. Spesso in quelle miniere la paga era anche più alta rispetto alle miniere legali, ma le condizioni di lavoro erano terribili, come nel periodo pre-rivoluzionario, nella totale assenza di garanzie sociali. Nel 2011, nella regione di Donetsk, sono state liquidate 420 miniere illegali, ma 314 ancora continuarono a lavorare. Ad esempio, a Snizhne più della metà dei«kopanok» liquidati hanno condotto estrazioni in zone chiuse e solo un quarto di loro — su zone libere. In altri casi, i «kopanka» si trovavano su territori dove ancora vi erano miniere attive L’estrazione Illegale di carbone è stata condotta su quasi tutto il territorio della regione di Donetsk, ma più spesso — nella parte orientale della regione, perché lì giacimenti di carbone si trovano vicino alla superficie.
Nella regione di Donetsk l’estrazione illegale di carbone era controllata dalla famiglia e dall’entourage di Viktor Yanukovich. Questa situazione generò un conflitto con gli interessi di Rinat Akhmetov — proprietario delle miniere legali. La famiglia Yanukovich smerciò carbone illegale all’estero, ciò risultò molto più conveniente. Le materie prime, in un primo momento, sono state consegnate alle miniere governative, e poi, attraverso la mediazione delle imprese, esportate all’estero. In questo caso, a carico del bilancio nazionale, sono state destinate ingenti somme di denaro per lo sviluppo dell’industria del carbone in Ucraina. Il volume annuale della sovvenzione era pari a oltre 12,5 miliardi di dollari. Naturalmente, il denaro non ha raggiunto la destinazione, ma «è caduto» nelle tasche dell’entourage di Yanukovich. E’ nato così il mito della sovvenzione alla regione di Donetsk. In breve tempo, il presidente ucraino è stato in grado di mettere insieme una fortuna così enorme fino al punto che non riuscì più a contenere gli oligarchi ucraini, che fino a poco prima lo consideravano un loro pupillo. Sono stati loro ad organizzare contro di lui un complotto, ovvero l’euromaidan».
Ma, a differenza dell’attuale governo ucraino, Viktor Yanukovich, ha almeno cercato di comportarsi come il presidente di un paese indipendente, destreggiandosi tra i due centri di accumulazione del capitale — la UE e la Russia. Egli sapeva bene che, tramite l’ Accordo di associazione (con la UE) Bruxelles avrebbe cercato, a spese dell’Ucraina, di mitigare la crisi economica nell’Unione europea. A tal proposito, il presidente ha ragionevolmente richiesto dalla UE una compensazione monetaria, ma anche di garanzia, che consentisse di vendere in EU la principale merce ucraina: la forza lavoro.. Per tale garanzia sarebbe servita l’ abolizione del regime dei visti. Chi è venuto al posto di Yanukovich, ha acconsentito ad un’associazione senza alcuna compensazione e garanzia. Naturalmente, il deposto presidente, non aveva nulla contro l’unione Europea, ma se l’accordo con la Russia avesse previsto eventuali benefici economici, Yanukovich certamente lo avrebbe concluso. Oggi la politica ucraina si basa completamente sulla retorica anti-russa.
Il colpo di stato a Kiev nel 2014 ha mostrato che l’Ucraina potrebbe mantenere la sua integrità territoriale, solo mediante una politica «multidirezionale». Una volta presa la decisione di unirsi a uno dei centri di accumulazione del capitale, è iniziata la sua disfatta. L’ucraina è un campo di battaglia per i monopoli internazionali. La sua economia è completamente controllata attraverso il dollaro e l’euro, quindi, la politica ucraina, si riduce esclusivamente a compiere ciò che è necessario per creare nel paese un migliore clima per gli investimenti. Tuttavia, questa circostanza non impedisce, ma addirittura aiuta, gli oligarchi ucraini ad acquisire un ruolo di rilievo, così come non impedisce ai partiti ucraini di fare la propria politica personalistica. Tutti i partiti borghesi inquadrano il loro compito nella svendita dell’Ucraina alle multinazionali, in cambio di un permesso di rimanere qui come impiegati. Questo stato di cose, in primo luogo, colpisce i lavoratori ucraini, perché essi sperimentano su di sé un doppio sfruttamento, ovvero, nazionale e transnazionale da parte del capitale.
Contemporaneamente con questi eventi verificatesi in Ucraina, risulta chiaro il naufragio del cosiddetto mondo unipolare. Il capitale russo continua ad espandere la sua sfera di influenza, e l’imperialismo americano non è in grado di assimilare nella sua sfera di influenza tutto il territorio dell’Ucraina, da cui si è distaccata la Crimea e mezzo Donbass. Ma di questo parleremo nel prossimo articolo.
Continua
Stanislav Retinskiy, segretario del comitato centrale del KPDNR
Partito e classe. Introduzione (il rapporto delle forze di classe in Donbass)
Parte 2
Confronto tra imperialismi
Quando diciamo che l’Ucraina si trova tra due centri di accumulazione del capitale, ci riferiamo all’appartenenza territoriale. Geograficamente si trova tra l’Unione Europea e l’Unione Economica Euroasiatica. Entrambe questi organismi hanno influenza su di essa. Prima di tutto, ci riferiamo a Germania e Russia. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti, più distanti, hanno un impatto molto maggiore. Per essere precisi, l’Ucraina è nella sfera di influenza di tre centri di accumulazione del capitale. A rigor di termini non c’è e non c’è mai stato un mondo unipolare, ma esiste un mercato mondiale in cui gli Stati Uniti occupano una posizione dominante. Allo stesso tempo Germania, Cina, Russia, Giappone e altri paesi sono pronti a competere con gli Stati Uniti per il dominio del mondo.
La politica mondiale è determinata dall’ equilibrio di potere tra i centri imperialisti. Ma questo rapporto è in costante cambiamento, come evidenziato dalla situazione attuale in Ucraina. Il conflitto nel Donbass illustra perfettamente il ruolo della Germania nel sistema della divisione internazionale del lavoro. Da un lato è partner minore degli Stati Uniti, d’altra parte sta già cercando di diventare partner di maggiore livello. Nel primo caso, la Germania, è costretta ad introdurre sanzioni contro la Russia, ma nel secondo caso cerca di influenzare il conflitto in Donbass seguendo il “formato normandia”, ovvero senza gli Stati Uniti. La Germania vuole condurre la propria politica in Europa, ma ancora è costretta a prendere in considerazione gli interessi degli Stati Uniti, a cui è vincolata in relazione alla nascita del proprio imperialismo.
Gli Stati Uniti sono interessati principalmente a distruggere il potenziale industriale del Donbass, la sua industria carbonifera, e alla fine assorbire il mercato energetico ucraino. A conferma di quanto è stato detto, nel settembre 2017 ci sono state prime consegne di carbone americano ad Odessa. Lo stesso destino spetterà a tutta l’Europa. Non è esagerato affermare che la guerra nel Donbass è una manifestazione della lotta degli Stati Uniti per il mercato dell’ energia dell’ Europa, dove le posizioni della Russia sono ancora forti. La Germania in questo confronto si sta orientando verso la parte russa, nella quale vede un rivale più debole. L’assorbimento del mercato europeo dell’energia da parte del capitale americano indebolirà considerevolmente le posizioni dell’ imperialismo tedesco.
Attualmente, gli Stati Uniti sono il secondo produttore mondiale di carbone, secondo solo alla la Cina. Circa 900 milioni tonnellate di materie prime vengono prodotte ogni anno, ovvero oltre 11% del volume mondiale. Nel 2016 la produzione di carbone nel mondo è diminuita, ma l’ anno successivo è nuovamente aumentata. L’ aumento più significativo (del 19%) è stato osservato negli Stati Uniti . Uno dei motivi è un forte aumento delle esportazioni di carbone. Nel 2017 le esportazioni degli Stati Uniti sono aumentate di oltre il 60% rispetto all’ anno precedente. L’esportazione nel Regno Unito è aumentata del 175%, in Francia è raddoppiata. In 10 anni, dal 2003 al 2013, le forniture di carbone americano al Regno Unito sono aumentate di oltre 10 volte, in Germania di 15 volte.
Gli Stati Uniti sono il secondo esportatore di » oro nero» in Europa, dopo la Russia. Ma con l’aiuto delle sanzioni anti-russe e l’aumento delle esportazioni, gli americani mirano a diventare leader nel mercato energetico europeo. Allo stesso tempo , la produzione di carbone in Europa continua a diminuire. Così in Gran Bretagna l’ultima miniera di carbone è stata dismessa nel dicembre 2015, anche se più di 3000 imprese operavano lì un centinaio di anni fa. In Germania c’erano solo due miniere di carbone operative, che saranno chiuse nel 2018. Negli Stati Uniti al contrario, Donald Trump ha revocato le restrizioni sull’estrazione del carbone introdotte da Barack Obama. Negli Stati Uniti ci sono le più grandi riserve di carbone del mondo, ma i monopoli del gas americano temono di perdere la loro quota nel mercato interno dell’ energia, quindi si oppongono all’aumento della produzione.. Di conseguenza, Washington deve solo aumentare le esportazioni di carbone per mantenere a galla l’industria.
Tra Washington e Kiev ci sono accordi sulla fornitura di milioni tonnellate di carbone. A gennaio-novembre 2017 l’Ucraina ha importato oltre 17 milioni tonnellate di carburante, 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2016. La quota della Russia nelle importazioni è del 56,36%, quella degli Stati Uniti, che sono il secondo fornitore di carbone in Ucraina, del 24,84%. Allo stesso tempo, l’Ucraina paga il 40% in più per il carbone americano rispetto al russo. A loro volta, le imprese minerarie ucraine del carbone, in questo periodo hanno ridotto la produzione di carbone di oltre 5 milioni tonnellate (13,6%).
Nel breve periodo, l’elevata domanda di carbone in Ucraina continuerà. Il fatto è che fin dai tempi delle «guerre del gas» russo-ucraine, iniziate molto prima del «euromaidadan», le imprese iniziarono a convertirsi in massa dal gas al carbone. Questa tendenza viene ancora mantenuta oggi, quando Kiev tende in maniera molto più agguerrita al raggiungimento dell’ «indipendenza energetica» da Mosca. Ma abbandonando il gas russo, l’Ucraina cade sotto la dipendenza dal carbone americano, mantenendo allo stesso tempo un forte bisogno di antracite, la quale ancora non può essere fornita dagli Stati Uniti in quantità sufficiente. Di conseguenza, l’Ucraina fu costretta a cancellare le sanzioni contro un grosso fornitore di carbone russo «Yuzhtrans». Contemporaneamente riduce la propria produzione dichiarando il blocco della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk, distruggendo il potenziale industriale del Donbass con l’aiuto dell’ artiglieria.
Il conflitto nel Donbass è l’ennesima conferma del fatto che l’imperialismo si trova in una crisi sistemica. I capitalisti stanno cercando di risolvere il problema della sovrapproduzione di beni con mezzi militari. Nel contesto imperialista questo si realizza con la distruzione di una parte dei mezzi di produzione.. Così il collasso dell’Unione Sovietica e la sconfitta del socialismo nell’Europa orientale hanno permesso per qualche tempo di assicurare la crescita della produzione nei paesi capitalisti avanzati. Per questo le repubbliche dell’ex campo socialista hanno pagato un calo significativo della loro produzione. Negli anni novanta la perdita media del prodotto interno lordo pro capite è stata del 30%.
Per più di vent’anni lo spazio post-sovietico è stato oggetto di una politica imperialista. Ma la congiuntura favorevole dei prezzi delle risorse energetiche ha permesso di creare in Russia un prezzo sufficientemente efficiente per l’accumulazione di capitale. Con l’aiuto dell’Unione Economica Euroasiatica, che è un’alleanza dei paesi borghesi, e non è la URSS-2, Mosca cerca di conquistare una posizione più o meno dignitosa nel sistema mondiale della divisione del lavoro. Tali alleanze, come l’Unione Economica Euroasiatica, sono pensate con un unico obiettivo: organizzare efficacemente il processo di estrazione del profitto, che può essere ottenuto solo dallo sfruttamento delle forze di lavoro. Come dovrebbero sentirsi i comunisti riguardo a tale alleanza? La risposta potrebbe sembrare paradossale, abbiamo il dovere di sostenerla!
Innanzitutto, l’Unione Economica Euroasiatica, è un’unione volontaria. Ed è ricercata non solo dalla borghesia, ma anche dalla maggioranza della popolazione. Da parte dei comunisti sarebbe un’insensatezza da un punto di vista dottrinario andare contro questo processo solo perchè perché questa Unione non porta alcun beneficio ai lavoratori. Ma questo non significa che non dovremmo criticarla. L’Unione Economica Euroasiatica consente alla borghesia di trarre benefici economici, ma lascia i lavoratori politicamente divisi. I comunisti devono criticare l’ incoerenza della borghesia e chiedere una piena fusione politica dei paesi. Il capitale è più facile da nazionalizzare quando è più concentrato. Se ci sono meno divisioni politiche è più facile per il proletariato far fronte al potere del capitale.
Nei suoi scritti, V. Lenin parla della necessità di unire le nazioni e deduce la seguente formula: i comunisti dei paesi oppressori devono difendere la libertà dei paesi oppressi e difendere la loro secessione. I comunisti dei paesi oppressi possono appoggiare sia l’indipendenza politica della loro nazione, sia la sua inclusione nello stato vicino. Nella «libertà» di secessione e «libertà» di unione c’è un genuino internazionalismo. E non può esservi altro modo per unire le nazioni. Secondo V. Lenin, i comunisti dei paesi oppressi hanno un leggero vantaggio. Possono sostenere sia la secessione che l’adesione, rimanendo internazionalisti. Ma in tutti i casi i comunisti devono porre la libertà e l’uguaglianza universali al di sopra degli interessi della loro nazione.
Durante gli anni dell’indipendenza, la maggioranza della popolazione ucraina ha sostenuto l’adesione del paese all’unione guidata dalla Russia. Tutti i presidenti ucraini, nonostante la loro politica incoerente, sono stati costretti a tenerne conto. Quando il nuovo governo raggiunse il potere a seguito del colpo di stato nel febbraio 2014, cominciò a seguire un corso strettamente pro-occidentale, ignorando apertamente gli interessi della maggioranza. Allora nel sud-est del paese sono iniziate le proteste di massa, che hanno portato alla «sfilata della sovranità».. E questo non è merito di V. Putin. Dopotutto, la sua politica nei confronti dell’Ucraina rimaneva la stessa, sia prima che dopo l’ «euromaidan». E’ La politica di Kiev ad aver subito un radicale cambiamento.
Gli eventi del 2014 ci dicono che la Federazione RUSSA, da oggetto si è trasformata in un soggetto della politica imperialista. Con l’annessione della Crimea e il sostegno della regione del Donbass, Mosca sta cercando di rispondere adeguatamente alla politica dell’UE e degli Stati Uniti, che hanno deciso di dominare in maniera incontrastata l’Ucraina. Kiev, con la sua tirannia nei confronti del sud-est, ha creato tutte le condizioni necessarie per la realizzazione di una politica di successo da parte di Putin. Se, dopo il referendum in Crimea, qualcuno ancora aveva dei dubbi sullo spontaneo desiderio della popolazione locale di unirsi alla Russia, spiegando tale esito con la presenza degli “uomini in verde”, dopo gli eventi in Donbass tali dubbi dovrebbero essere del tutto fugati. Qui non c’era nessun esercito russo ma, al contrario, vi erano militari ucraini che sparavano ai partecipanti al volto e radevano al suolo edifici civili.
In questo caso i comunisti devono denunciare l’incoerenza dei capitalisti russi, che impediscono non solo l’integrazione economica della penisola (molte aziende che operano in Russia, si rifiutano di lavorare in Crimea), ma anche il riconoscimento politico delle repubbliche popolari DNR e LNR (su cui insiste il partito COMUNISTA), temendo immediate sanzioni da parte dell’UE e degli Stati Uniti. Il Donbass si è separato dall’Ucraina per unirsi alla Russia o, almeno, all’Unione Euroasiatica. Invece, sul territorio del Donbass, sono apparse due Repubblica non riconosciute, isolate dall’estero. Così, al posto della dissoluzione delle vecchie frontiere, ne sono nate di nuove. Ma la situazione in Donbass sarà una buona lezione per i lavoratori, i quali avranno modo di capire che la causa della loro sofferenza non può essere inquadrata semplicemente nell’oligarchia, nell’imperialismo della UE e degli Usa, ma nel capitalismo in sé.
Il secondo motivo per cui è necessario appoggiare l’Unione Economica Euroasiatica, consiste nel fatto che si oppone all’imperialismo USA, nostro principale nemico. Inoltre, in una prospettiva di lotta contro gli USA, a volte vale la pena anche di sostenere la UE, soprattutto rispetto alle relazioni con Cuba. Quando Trump annunciò di inasprire il blocco contro Cuba, il capo della diplomazia UE, Federica Mogherini, ritenne tale proposta inaccettabile.
In terzo luogo, l’Unione Economia Euroasiatica, crea molti meno ostacoli rispetto allo spostamento di forza lavoro dall’Ucraina al Donbass, rispetto alla UE. Inoltre, alcuni deputati, hanno manifestato la presunta intenzione di presentare alla duma di Stato della Federazione Russa disegni di legge sull’abolizione dei brevetti di lavoro per i cittadini di DONETSK, che operano in Russia, oltre ai limiti di tempo del loro soggiorno. Se si tratta solo di una mossa pre-elettorale, per i comunisti diventerà occasione per individuare l’incoerenza dei politici borghesi.
In quarto luogo, l’unione con la Russia consentirebbe, almeno in parte, di mantenere l’industria del Donbass — oggettiva condizione di esistenza del proletariato. Il crollo dell’Unione Sovietica ha dimostrato che l’ industria sovietica aveva un’impostazione adatta non solo per la costruzione del socialismo, ma anche per la produzione capitalistica. Per il capitale russo la conservazione del potenziale industriale è una questione di sopravvivenza. L’imperialismo UE e USA, al contrario, cerca di distruggerlo. Se non ci saranno mezzi di produzione, allora non vi saranno nemmeno lavoratori dell’industria. Ma del loro ruolo negli eventi in Donbass parleremo nella prossima parte.
Continua
Stanislav Retinskiy, segretario del comitato centrale del KPDNR
Partito e classe. Introduzione (il rapporto delle forze di classe in Donbass)
Parte 3
L’essenza di classe dell’ «antimaidan» in Donbass
Fino al 2014 in Donbass la questione della separazione o, almeno, dell’acquisizione di uno status autonomo nell’ambito dello stato ucraino, è cresciuta a più riprese. Questo tema è stato oggetto di contrattazione tra il grande capitale locale e Kiev. Inoltre, nel 1994, nelle regioni di Donetsk e Lugansk, si tenne un referendum in cui la maggioranza dei votanti votò per un sistema federativo. Successivamente, la questione del federalismo, è stata avanzata nel 2004, durante il congresso a Severodonetsk. All’epoca, i rappresentanti delle regioni sud-orientali dell’Ucraina, presero la decisione di tenere un referendum e di dichiarare l’autonomia del Donbass se Viktor Yanukovich non fosse stato riconosciuto presidente dell’Ucraina. Dopo il «terzo turno» di voto alla presidenza fu confermato Viktor Yushchenko, come conseguenza, si è iniziato a parlare con molta più insistenza della federalizzazione del Paese.
In primo luogo, il Partito delle regioni, che a suo tempo difese gli interessi del grande capitale in Ucraina, con più insistenza degli altri ha parlato di federalismo. Questo capitale, dopo il potere economico, aspirava al potere politico. Per questo era pronto a dividere il Paese. Nel 2005, accuse di separatismo, sono state avanzate contro un certo numero di deputati ucraini e contro gli ex governatori di Kharkiv e Lugansk. Ma l’evento che ha fatto più scalpore è stato l’arresto del presidente del Consiglio Regionale di Donetsk Boris Kolesnikov da parte del procuratore generale. A dire il vero, lo convocarono prima per la questione del separatismo, dopo di che fu arrestato con l’accusa di estorsione. Sembra strano, ma l’arresto di Boris Kolesnikov andava bene ad entrambe le parti. Viktor Yushchenko fece proprio lo slogan «banditi in carcere», e il Partito delle regioni con aria di sfida denunciò sui media la repressione del «Potere arancione» contro i «combattenti per l’idea».
Mentre l’attenzione dell’elettorato si focalizzava sull’arresto del rappresentante al Consiglio regionale di Donetsk , tra il presidente e «i regionalisti» furono portati avanti dei negoziati, tra l’altro, in maniera relativamente positiva. Un mese dopo la liberazione di Boris Kolesnikov, Viktor Yushchenko mandò“in pensione” il primo ministro Yulia Tymoshenko, e nel mese di settembre 2005, con il sostegno attivo dei deputati del Partito delle regioni, il nuovo primo ministro è diventato Yuri Yekhanurov. Tanto più gli elettori erano convinti della mancanza di principi nel Partito delle regioni, tanto minore è diventata la sua popolarità. Come la lotta per il russo come seconda lingua di Stato si fermò in concomitanza con la campagna elettorale, allo stesso modo, i «regionalisti»misero in secondo piano la convocazione di un referendum federalista subito dopo la conclusione degli accordi con Viktor Yushchenko. Con la vittoria di Viktor Yanukovich alle elezioni presidenziali nel 2010 e fino alla sua caduta nel 2014, la questione del federalismo non ha avuto risalto presso il Partito delle regioni.
Il 22 febbraio 2014, a Kharkov, si svolse una riunione dei deputati del Sud-Est dell’Ucraina, in cui si annunciò la volontà di assumere su di sé tutto il potere in relazione al colpo di stato a Kiev. Tuttavia, la fase successiva delle trattative non durò a lungo. Ad esempio, a Donetsk, già il 1 ° marzo, le autorità locali, che una settimana prima speculavano sul tema della disobbedienza al potere di Kiev, cercarono di organizzare una manifestazione a sostegno del governo centrale. Decine di migliaia di manifestanti non sostennero tali azioni, e chiesero le dimissioni dei funzionari che riconoscevano l’autorità centrale, e anche un referendum sullo status della regione. Dopo che il rappresentante dell’amministrazione regionale di Donetsk, Andrey Shyshatskiy, protetto dell’oligarca di Donetsk Rinat Akhmetov, ignorò le richieste dei manifestanti, è stato effettuato un tentativo di assalto ad un edificio amministrativo.
La differenza principale tra gli eventi del 2004, verificatesi nel sud-est, egli eventi del 2014, sta nel fatto che nel primo caso si sono svolti completamente sotto il controllo degli oligarchi locali e sono stati utilizzati nella lotta contro le altre fazioni oligarchiche, mentre nel secondo — si sono svolti contro la loro volontà. Il fatto è che in dieci anni è cambiato l’equilibrio di potere all’interno del Paese e fuori. Gli oligarchi, chiarendo i rapporti al loro interno, si basano sulla piccola borghesia e sul proletariato, ma nel 2014, nel sud-est , le forze piccolo borghesi sono andate fuori controllo ed hanno iniziato a rivendicare un ruolo indipendente. I capi dell’”anti-Maidan” e della «primavera russa» nel Donbass, a partire dall’ ex “governatore del popolo Pavel Guberev, fino all’attuale presidente del Consiglio Popolare della DNR (Repubblica Popolare di Donetsk) Denis Puscillin, provengono dalla piccola borghesia. In questo consiste la differenza principale tra il l’”anti-maidan” e l’”euromaidan” (protesta fin dall’inizio manovra dagli oligarchi).
Anche nel 2004 gli oligarchi di Donetsk controllavano il «separatismo» locale. Sulla scia degli eventi nacquero una serie di organizzazioni, tra cui la «Repubblica di Donetsk». Così, Alexandr Tsurkan, in quel momento presidente e tra i fondatori di questa organizzazione, durante le elezioni presidenziali del 2004 ha lavorato con lo staff di Viktor Yanukovich, che indicava la presenza di una sorta di connessione tra le attività del Partito delle regioni e l’avvento della «Repubblica di Donetsk» (tra virgolette, intesa come organizzazione popolare, da non confondersi con la Repubblica vera e propria NdT). Il grande capitale ha cercato di far passare i propri interessi come l’ interesse di tutto il Donbass e del Sud-Est dell’Ucraina. Pertanto, per i «regionalisti» era importante mostrare che, l’appello per la creazione di una federazione di partiti, non proveniva tanto da loro, quanto dal «popolo». Anche se organizzazioni come «Repubblica di Donetsk » fossero sorte esclusivamente su iniziativa dei loro fondatori, l’ attività sociale tuttavia non uscirebbe mai dai confini determinati da un importante capitale.
Nel 2014 la situazione in Donbass è cambiata. Attualmente «Repubblica di Donetsk» è la forza trainante della DNR, ma tra gli esponenti dello stato non riconosciuto, non ci sono gli oligarchi. L'»Antimaydan» nel Donbass fin dall’inizio è stato un movimento democratico, cioè un movimento indipendente della piccola borghesia. Gli oligarchi al contrario, si opponevano uniti all’ » Antimaydan», dimenticando per un po’ di combattersi tra di loro. Alla DNR è stata dichiarata guerra, sia dal «padrone del Donbass» ,Rinat Akhmetov, sia dal suo rivale Sergey Taruta. Ma le azioni, anche le più radicali, della piccola borghesia, rimangono incongruenti. Fino all’ultimo hanno cercato di raggiungere un accordo con gli oligarchi locali, assicurandoli che non ci sarebbe stata alcuna nazionalizzazione. Anche l’introduzione nel marzo 2017 della gestione esterna di tipo statale nelle imprese, prima di proprietà della grande borghesia, non deve trarre in inganno. Ciò non avvicina affatto il Donbass al socialismo.. Anche Friedrich Engels scrisse nell’ «Anti-Duhring» che nella società capitalista ci sono casi in qui lo Stato è costretto a prendere il controllo di alcuni rami dell’economia.
L’attuale situazione nel Donbass incarna l’idea piccolo-borghese di mantenere le relazioni di mercato, ma senza l’oligarchia. Il problema è che una tale società non può sopravvivere per molto tempo. La logica delle relazioni merci- denaro è tale che, o vengono superate, cioè al capitalismo si sostituisce il socialismo, o tali relazioni ritornano alla posizione iniziale.. Non appena la DNR ha cercato di liberarsi da un gruppo di oligarchi, subito è sorta la minaccia da parte di un altro gruppo. Secondo alcune fonti, un oligarca, Sergey Kurcenko, vicino alla famiglia di Viktor Yanukovich, cerca di influenzare l’economia della Repubblica. Dopo il colpo di stato a Kiev, anche lui, come il presidente, è fuggito dal paese e attualmente vive in Russia.
È qual è il ruolo del proletariato negli eventi del Donbass? Certamente ha partecipato agli eventi, ma non come una forza indipendente, bensì come parte del movimento democratico. Salvo rare eccezioni i lavoratori hanno agito in modo organizzato e sono intervenuti con le proprie esigenze. In alcune città, nelle fabbriche e nelle piazze centrali, hanno organizzato diversi raduni a sostegno della DNR. La più grande manifestazione è avvenuta il 28 maggio 2014 a Donetsk. Contro l’operazione » Antiterrorista» in Donbass, circa un migliaio di minatori hanno partecipato alla marcia di protesta, avvenuta due giorni dopo il bombardamento di Donetsk da parte dell’aviazione di Kiev. I combattimenti aumentarono significativamente il pericolo di una situazione d’emergenza nelle imprese. L’impatto di un proiettile in una sottostazione della miniera, equivale a morte sicura per i minatori. Ecco perchè i minatori si sono uniti alle proteste. È interessante notare che i tentativi di Rinat Akhmetov di organizzare una protesta dei lavoratori a Mariupol contro la DNR pochi giorni prima, non ebbero molto successo.
Nel Donbass la maggior parte dei lavoratori si oppose al colpo dello stato di Kiev, simpatizzando con la DNR. E’ importante poi evidenziare come i partecipanti all'»Euromaydan» trattarono con disprezzo il proletariato del Donbass, chiamandolo «bestiame», cercando, poco prima del colpo di stato di esportare la loro » rivoluzione», tramite periodiche incursioni nel sud-est del paese. Proprio per il fatto che l'»Euromaydan» è stato appoggiato dagli oligarchi, inclusi quelli di Donetsk, il proletariato si è opposto ad esso. Nel Donbass risuonarono gli slogan contro gli oligarchi, non causati tuttavia da una protesta contro lo sfruttamento in quanto tale, ma contro i capitalisti intesi come sostenitori e partecipanti al colpo dello stato. Qui non abbiamo a che fare con una posizione di classe, ma con patriottismo locale. Niente di sorprendente, perché l’introduzione della coscienza di classe è compito dei comunisti. Altrimenti il proletariato continuerà a svolgere il ruolo di «sinistra della borghesia».
Dagli eventi in Donbass è possibile fare la seguente conclusione: in determinate circostanze le masse lasciano uno stato di indifferenza e sono pronte non solo ad una partecipazione passiva agli eventi, prendendo cioè parte a raduni e votando in un referendum, ma anche ad azioni attive. Sono pronti non solo a simpatizzare per un’ idea, ma anche a lottare per essa. Questo vale anche per i lavoratori. Con l’inizio della ostilità è stata creata la «Divisione dei Minatori», in cui entrarono a far parte in particolare i minatori della miniera Scochinskiy. Uno dei comandanti della divisione, che attualmente dirige un’organizzazione sindacale, è un minatore. La sua divisione ha preso parte a molte battaglie, tra cui la battaglia di Shakhtersk. L’esperienza militare dei lavoratori del Donbass ovviamente non passerà senza lasciare traccia. Infatti, la condizione necessaria per una rivoluzione socialista è il proletariato indurito nelle battaglie, guidato dal partito comunista rivoluzionario. Ma a proposito del ruolo del partito nel movimento operaio parleremo nelle parti seguenti dell’articolo, basate sulle opere di Lenin, Lukacs e Gramsci.
Stanislav Retinskiy, segretario del comitato centrale del KPDNR
El Mundial de fútbol es por excelencia un gran certamen deportivo repleto de líneas políticas subyacentes. La victoria de este miércoles de Croacia frente a Inglaterra, 2 goles por 1, vale decirlo, coloca al país balcánico por vez primera en la disputa por la codiciada copa...
http://misionverdad.com/trama-global/croacia-desde-y-mas-alla-del-campo-de-futbol
Quand les tabloïds serbes ont découvert que Danijel Subašić était le fils de Jovo, Serbe de Croatie, tous les éditorialistes et commentateurs croates se sont piqués de tolérance, et ont entrepris de donner à leurs voisins des leçons d’ouverture : aujourd’hui, le sang ne compte plus, bien entendu ! C’est bien beau, mais ces louables valeurs s’appliqueraient-elles à un fils d’orthodoxe qui ne jouerait pas au football, ne serait pas prix Nobel ou n’aurait pas inventé l’électricité ? Le texte au vitriol de Jutarnji List....
Kad su 90-ih na prostoru Jugoslavije počeli bratoubilački ratovi, u javnoj se komunikaciji isprva stidljivo, a potom sve češće pojavljivala jedna općekorištena fraza. “Prije se”, kazivala je ta fraza, “nije znalo tko je tko.”
Sve te Gorane, Nenade, Zorane, Vesne i Branke dodatno su “kamuflirala” prezimena, prezimena koja su se u štokavskom arealu često svodila na jednostavne patronime ili zavičajna klanovska prezimena koja su jednako bila pravoslavna i katolička. Nitko nije mogao “znati” jesi li katolički ili pravoslavni Vranković i Beader, nitko nije mogao znati jesi li katolički Milošević iz Sinja, katolički Lukić iz Bosne ili katolički Jovanović iz Podstrane. Nitko to nije mogao znati, a službena je ideologija - na tome joj hvala - podučavala da to nije ni važno. Ako je nešto u titoističkoj ideologiji bilo dobro, onda to jest.
A onda su - kad je rat počeo - ta arkanska, okultna “znanja” najednom postala stvar zbog koje se gubi imovina i život. Najednom smo se probudili u svijetu u kojem se moj gimnazijski profesor Ognjen Ignjatović, za kojeg blagog pojma nisam imao da je Srbin, odselio iz stana u uglovnici na Rivi, pa u Kninu postao krajinski ministar. Probudili smo se u svijetu u kojem su te višegradski srpski militanti zbog “znanja” o tvom podrijetlu mogli u Štrpcima izvesti iz crnogorskog vlaka i likvidirati. Probudili smo se u svijetu u kojem su te zbog tog “znanja” merčepovci mogli odvesti u zagrebački Paviljon 21 ili te muž književnice Bjelobrajdić mogao iz tvog splitskog stana odvesti u Loru, a da ti se potom zagubi trag. Glava se u to doba gubila zbog tih pučkih “znanja”, a glava se gubila čak i onda kad bi ta “znanja” bila pogrešna. Mirnom žrnovničkom građaninu Đorđu Gašpareviću nije pomoglo to što je doista bio arijevski Hrvat, kad je netko bolje “znao” da on - pošto je Đorđe - jamačno mora biti Srbin. Zbog tog pogrešnog “znanja” građanin je Gašparević završio mrtav na deponiju.
Takav je bio svijet u kojem se “znalo tko je tko” te u kojem je to bilo važno. A taj je svijet uspostavio pravila koja i danas vrijede. I danas mi živimo u tom i takvom svijetu. Ako ne vjerujete, pitajte Zdravka Mamića, pitajte Marka Juriča i pitate Stevu Culeja.
Ovotjedni hrvatski nacionalni junak - Danijel Subašić - rastao je u vremenima kad se taj i takav svijet stvarao. Vratar hrvatske nogometne reprezentacije imao je šest godina kad je taj svijet prevladao. Imao je sedam godina kad su oni koji su “točno znali” tko je tko u njegovu gradu Zadru u jednoj noći porazbijali desetke srpskih lokala i dućana, dakako - zato što su “točno znali” da su srpski. U tom vremenu, u toj zemlji i u tom gradu hrvatski je nacionalni junak odrastao kao jedan od onih za koje se, eto, “nije moglo znati”, ali se ipak “znalo” “tko je tko”. Odrastao je kao dijete pravoslavca iz Zagrada kod Benkovca, koji se, da stvari budu čišće, zvao Jovo. Ali, odrastao je i od majke katolkinje koja, da stvari budu zamršenije, nosi ime koje može i ne mora biti “naše” - Boja..
Odrastavši u tom i takvom svijetu, ovotjedni hrvatski nacionalni junak prošao je sav jad i krimen razizemlja hrvatskog nogometa. U vlastitom je zavičajnom klubu bio na ledu. U menadžersko ga je ropstvo pokušao uvesti Mamićev zadarski klon, član HDZ-a, klupski šef i mafijaš Reno Sinovčić. Zbog sukoba menadžera, mladi je vratar prije dvadesete godine života morao bježati u Zagreb i prijavljivati prijetnju. Priča Danijela Subašića, ukratko, tek je nešto dramatičnija od priča desetaka djece robova koje financijski cuclaju i kao roblje preprodaju hrvatski mamićoidi. No, priča zadarskog vratara imala je, uz “opće” i “tipske” nedaće hrvatskog nogometnog blata, još jednu specifičnu, manjinsku. Mladi zadarski vratar, naime, “nije baš” bio Hrvat. Odnosno, on jest bio poluhrvat, za sebe je tvrdio da jest Hrvat i da jest katolik po odgoju, ali u svijetu u kojem “se znalo” tko je tko, također se jako dobro “znalo” da se vratarov otac zove Jovo. Toliko se to “znalo” da je i budući vratarov punac prijetio kćeri da će je ubiti zato što hoda s momkom heretičke, trofazne krvi.
To je, ponavljam, svijet u kojem je odrastao Danijel Subašić. To je svijet u kojem bi se on stoput mogao okrenuti na glavu, stoput bi mogao primiti katoličke sakramente i vaditi se na DNK majke Boje, no u tom svijetu bi se “znalo” da je on sin Jove, a ta bi činjenica bitno obilježila njegov daljnji život. U tom svijetu Danijel Subašić teško da bi mogao raditi u javnom sektoru, ne bi mogao postati ravnatelj, profesor povijesti, ne bi od HDZ-a dobio ugovor za ordinaciju ili posao u elektroprivredi, a ako bi nešto od toga i dobio ili mogao, mogao bi tek uz ustrajnu mimikriju i mnogostruko dokazivanje lojalnosti. To je svijet koji je čekao zadarskog Danijela. To je svijet u kojem bi živio da nije jedne potankosti koja je promijenila sve. A ta je “potankost” da je - znao braniti.
Zbog te “potankosti” za Srbinova su se sina otimali hadezeovski, kriminalni menadžeri. Zbog te je “potankosti” dospio prvo na Poljud pa u Monaco. Zbog te je “potankosti” dospio u reprezentaciju, gdje je niz godina dijelio svlačionicu s ustašoidnim zemljakom iz Pridrage, Joeom Šimunićem. Zbog te je “potankosti” dospio na gol nacionalne vrste. Zbog te je “potankosti” u nedjelju u Nižnjem Novgorodu obranio Dancima tri penala. Zbog te je “potankosti” ovog tjedna postao nacionalni heroj.
A onda se dogodio perverzni medijski obrat. Onog časa kad je momčina iz Benkovca obranio Dancima tri penala, srpski su tabloidi slavodobitno “otkrili” da je Subašić sin Jove te da Hrvatska svoje četvrtfinale duguje jednom dalmatinskom Srbinu. A kad su Srbi u Subašiću “otkrili” Srbina i pravoslavca, s Hrvatske je strane krenula medijska mobilizacija. Svi hrvatski kolumnisti, blogeri i anonimni komentatori jednoglasno su prionuli tome da srpske kolege nauče kako njihov aršin roda i krvi ne pripada suvremenom svijetu. Svi su se silno trudili podsjetiti “one preko” kako nema veze što je komu otac, nego kako se osjeća i kojoj kulturi pripada. Kako nije važno što je tko po rodu i krvi, nego po ustavnoj, građanskoj pripadnosti. Svi su se najednom potrudili prisjetiti kolege s onu stranu Drine da se “ne može znati tko je tko” i da to u Hrvatskoj nije važno.
I sve je to lijepo. Osim što tu postoji jedan problem. Problem je što te iste vrednote hrvatska javnost, politika i građani ne primjenjuju na sve sinove Jove. Te im vrednote najednom postanu mile tek onda kad Srbin zna braniti, kad dobije Nobela ili izmisli izmjeničnu struju.
U nekom usporednom svijetu, stasiti Zadranin Danijel Subašić mogao je ne igrati nogomet. Mogao je završiti nekakvu školu, naučiti nekakav zanat i biti tek običan anonimni Zadranin u ranim tridesetim godinama. Nisam siguran da bi i tada anonimna hrvatska gomila na njega primjenjivala iste kriterije koje primjenjuje sada. Nisam siguran bi li i tada bilo nevažno tko je komu otac, nego kako se osjeća i kojoj kulturi pripada. Nisam siguran da bi im i tada bilo nevažno što je tko po rodu i krvi, nego samo po ustavnoj, građanskoj pripadnosti. Nisam siguran da bi i za tog Subašića vrijedilo da se “ne može znati tko je tko” i da to u Hrvatskoj nije važno. Nisam siguran da bi taj drugi Subašić izbjegao da mu u “staklenoj noći” ‘91. ne smrskaju dućan.
Stoga svatko tko kani klicati “ovom” Jovinu sinu, prvo treba promisliti: što bih mislio o njemu da nije veliki vratar, nego cjevar ili službenik? I bi li se i tada držao toga da “nije važno tko je tko”? Ili bi, da se na glavu okrene, Danijel za nas bio “tek”- Srbin?
Die Bundesrepublik Deutschland hat über Jahrzehnte den kroatischen Nationalismus gestärkt, der aktuell für Debatten bei der Fußball-WM sorgt...
ZAGREB/BERLIN(Own report) - The Croatian nationalism, currently causing an uproar at the FIFA World Cup has been supported by the German government for decades. During the World Cup, members of the Croatian national team also sang a song with well-known fascist lyrics - originally a song from a singer glorifying Ustaša fascism and praising the mass murder of Serbs in World War II. Virulent nationalism has been prevailing for years throughout the Croatian society. The European Commission against Racism and Intolerance (ECRI) recently confirmed that fascist tendencies are gaining strength in that country. Following World War II, old Ustaša structures had been able to hibernate in the Federal Republic of Germany. Bonn also had supported the growing Croatian separatism in the 1970s and established links to the exile Croatian nationalist groups. In the early 1990s, Germany promoted Croatia's secession - and thus its nationalism - for geostrategic reasons.
"Drive the Serbs into the Blue Adriatic Sea"
Even before the Croatian player Domagoj Vida's remarks became known, one of his teammates staged a provocation, by referring positively to his country's fascist past during the World Cup in Russia. Following the Croatian team's victory over the Argentine team, Dejan Lovren enthusiastically chimed in a song of the Croatian singer "Thompson" that starts with the words "Za dom - spremni!" ("For the Homeland - Ready!").[1] This had been the slogan of Nazi Germany's collaborator Ustaša fascist movement, which had ruled the Croatian state between 1941 and 1945 and participated in the Holocaust. The exact number of its victims is unknown, however, estimates run from 330,000 to over 700,000 murdered Serbs and up to 40,000 murdered Jews and Romani, respectively. "Thompson" is known for his glorification of the Ustaša-regime. In his songs, he has verses such as "Oh, Neretva, flow down, drive the Serbs into the blue Adriatic Sea," or "Shining star above Metković, send our greetings to Ante Pavelić." Pavelić had been the Ustaša's historic Fuehrer.
"Belgrade is burning!"
Following Croatia's victory over the Russian team, a video clip emerged showing the Croatian player dedicating his team's victory to the Ukraine, while chanting "Glory to the Ukraine!"[2] This is a slogan of another of the Nazi collaborators - the Organization of Ukrainian Nationalist (OUN). Unlike the Croatian case, the Nazis, however, prevented the Ukrainian nationalists from forming their state in 1941. Nevertheless, the OUN participated in the Holocaust and murdered over 90,000 Poles, and thousands of Jews. "Glory to Ukraine! Glory to the Heroes" ("Slawa Ukraini! Herojam slawa!") was their popular greeting. On the same video clip, the Croatian assistant coach Ognjen Vukojević added: "This victory is for Dynamo [Kiev] and Ukraine." Under public pressure, the Croatian Soccer Association relieved Vukojević of his duties at the FIFA World Cup, whereas Vida, whom the Croatian team wants to keep for the two upcoming matches, was only given a warning. Yesterday another video clip emerged with Vido not only shouting "Glory to Ukraine!" but adding into the camera: "Belgrade is burning!"[3]
At the Fuehrer's Graveside
Positive reference to Ustaša fascism has a long tradition in Croatian soccer. There was the incident on November 19, 2013, for example, when, following the victory over Iceland's national team, the member of the Croatian national team Josip Šimunić yelled "Za dom - spremni!" five times into the stadium's microphone.[4] Fifa banned Šimunić from the 2014 World Cup in Brazil. Croatia's Football Association then hired him as a training assistant in 2015, as a rehabilitation measure. The fans of Croatia's soccer team are also notorious for their fascist and racist slogans and have already been banned several times from attending their national team's games. On the other hand, the President of the Croatian Football Association, Davor Šuker, is not only a "Thompson" fan, he had even been photographed in 1996 at the grave site of Ustaša Fuehrer Ante Pavelić.[5]
Fascist Tendencies
The positive references to fascism in Croatian soccer correspond to the general political orientation of a majority in Croatia's population. Last May, the Anti-Racism Commission of the European Council published a report on the Croatian situation, which noted a marked increase in racist tendencies in that country. This is not least of all expressed in "praising" the fascist Ustaša regime, writes the Anti-Racism Commission.[6] It was also noted that politicians of various persuasions are increasingly resorting to baiting during their speeches. Their chauvinist agitation often targets refugees - particularly, Muslims - but also Romani. The Croatian Serb minority is not least among the victims of these attacks. Ustaša symbols are repeatedly painted on Serb buildings or those belonging to Serb organizations.
Hibernation in the Federal Republic of Germany
The steadily increasing new Croatian nationalism dates back to the old Ustaša era nationalism, which Belgrade had sought to suppress as much as possible in socialist Yugoslavia. It survived, however, also due to the practical support of the Federal Republic of Germany. Functionaries and supporters of Croatia's Ustaša, who fled to West Germany, were able to regroup and reorganize, helping Branimir Jelić, an early Ustaša member, to organize a Croatian National Committee (Hrvatski Narodni Odbor, HNO) already back in the 1950s. Its headquarters in Munich attracted numerous former Croatian Nazi collaborators. Former Ustaša Minister of the Interior, Mate Frković and others were published in their magazine Hrvatska Država (The Croatian State), printed in Munich.[7] It was the fact that the Croatian exiles' orientation was clearly set on destroying Yugoslavia - alongside their anti-communism - that furnished the political reason for West Germany to remain benevolent toward them. After all, in the aftermath of World War I, Yugoslavia was founded, with a relatively strong nation-state, to block Germany's route in its drive to the southeast. On the other hand, this was also Germany's impetus, in the 1970s, for supporting the strengthened Croatian separatism and, for this purpose - also with intelligence service collaboration - to bridge the gap between the nationalist Croats in exile with the right-wing secessionist circles in Zagreb. (german-foreign-policy.com reported.[8])
Front-Line Soldiers and Combat Volunteers
Croatian nationalism achieved a breakthrough in the early 1990s, when the Croatian nationalists - again with decisive German support - were able to secede from the Yugoslav Federation. Franjo Tudjman was the politician at the helm of the new nation, who, in 1989, had euphemized the Jasenovac death camp as an "assembly and labor camp." In Jasenovac Serbs, Jews and Romani had been murdered. At the same time Tudjman extolled the Ustaša state as having been "the expression' of the Croatian people's aspiration for self-determination and sovereignty."[9] In Croatia's secessionist war - which Germany supported politically, practically and militarily - the nationalist, ultra-rightwing positions prevailed on a broad front. "Front-line soldiers and combat volunteers" greeted each other with the Ustaša salute 'Za dom Spremni" and sang Ustaša songs, wrote the journalist Gregor Mayer. The Catholic church - very influential in Croatia - also glorified the Ustaša. Under Tudjman's leadership, "streets and squares were renamed at a frenetic pace," often named after Ustaša personalities, such as "Nazi ideologue, Mile Budak," "Ustaša functionaries seeped back from exile into the state apparatus and the educational system." Mayer considers that Tudjman has rendered "a historical and social conception 'palatable'," wherein "radical right-wingers and neo-Nazis can still refer to."[10]
[1] Tobias Finger: Kroatien und der Umgang mit der faschistischen Vergangenheit. tagesspiegel.de 26.06.2018.
[2] "Ruhm der Ukraine": Fifa verwarnt Kroatiens Vida. derstandard.at 08.07.2018.
[3] Erneut Untersuchung gegen Kroaten Vida. derstandard.at 10.07.2018.
[4] Berthold Seewald: Wieviel Ustascha treibt Kroatiens Fußballspieler? welt.de 17.12.2013.
[5] Dario Brentin: Sie wollen ihrem Team weh tun. zeit.de 19.06.2016.
[6] Europarat ist alarmiert über das Erstarken von Neofaschisten in Kroatien. nzz.ch 15.05.2018.
[7] See also Rezension: Ulrich Schiller: Deutschland und "seine" Kroaten.
[8] See also Nützliche Faschisten.
[9], [10] Gregor Mayer: Kroatien. In: Gregor Mayer, Bernhard Odehnal: Aufmarsch. Die rechte Gefahr aus Osteuropa.
su Il Manifesto del 12.07.2018
Lui, Mamic, è ricercato in Croazia, dove il 6 giugno scorso è stato condannato in contumacia a sei anni di reclusione per frode fiscale e appropriazione indebita, reati maturati in qualità di presidente della Dinamo Zagabria. Mamic, dal canto suo, è in Bosnia, dispone di un regolare passaporto e il paese continua a non concedere l’estradizione richiesta dalla Croazia. Così, mentre la nazionale guidata da Zlatko Dalic si prepara per la semifinale mondiale stasera contro l’inghilterra, in patria il mondo del calcio si trova nel bel mezzo di un caos in qualche modo simile alla calciopoli italiana del 2006.
Mamic, infatti, è il principale dirigente calcistico croato: tredici anni da presidente della Dinamo Zagabria e, ancora oggi, uomo di potere in Federcalcio, tanto forte da riuscire a imporre il proprio presidente anche dall’esilio: quel Davor Suker che portò la Croazia fino al terzo posto ai mondiali francesi del 1998, vincendo anche la classifica dei marcatori. I guai, per Mamic, sono pane quotidiano da anni: gli ultras della Dinamo lo odiano sin dal suo insediamento, nel 2002, accusandolo di usare la squadra per il proprio personale arricchimento. I giornali croati, dal canto loro, hanno più volte fatto notare i legami ambigui tra Mamic e alcuni potentati economici e politici non esattamente limpidi. S’è parlato a più riprese di gestione «losca e familiare» degli affari della Dinamo, ma anche di conflitto d’interessi a causa della sua influenza sulla federazione.
Per dare un’idea ulteriore del personaggio basti dire che fu in grado di nominare il proprio fratello Zoran alla guida della Dinamo tra il 2013 e il 2016, mentre suo figlio, Mario, imperversava come procuratore e aveva anche il potere di decidere chi far giocare in nazionale in base alle esigenze del mercato. Nel 2010 anche la Uefa si interessò al caso, ma dopo un giro di udienze tutto finì nel nulla. Dal canto suo, Mamic, si è reso protagonista anche di uscite pubbliche violentissime contro la minoranza serba, gli omosessuali e i giornalisti.. I tifosi hanno fatto di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote: nel novembre del 2014, in occasione di un match con l’Italia, a Milano i croati si resero protagonisti di una notte di follia e scontri (16 arresti); l’anno dopo, per la partita di ritorno, sul prato dello stadio di Spalato fu incisa un’enorme svastica. Provocazioni, proteste, disordini: il nemico era sempre lo stesso, Zdravko Mamic.
Nel 2015, la svolta: Mamic e due dei suoi collaboratori vengono arrestati con l’accusa di aver evaso 12.2 milioni di euro e di essersi appropriati indebitamente di altri 15 milioni, tutti proventi della vendita dei giocatori della Dinamo. Lo schema ricalca il più classico dei ricatti: ai giovani calciatori più promettenti venivano fatti firmare contratti privati che prevedevano il 50 percento di proventi per Mamic in caso di vendita. Il caso più famoso è quello di Luka Modric, finito nell’indagine per il suo passaggio dalla Dinamo al Tottenham. Colui che oggi viene definito come «il centrocampista più forte del mondo» in un primo momento dichiarò che la clausola che imponeva il versamento a Mamic fosse stata aggiunta soltanto dopo la sottoscrizione del contratto, ma poi questa versione è stata ritirata e adesso Modric è sotto accusa per falsa testimonianza.
A un giornalista che qualche giorno fa, in pieno mondiale, gli chiedeva un commento su questa vicenda, Modric ha dato una risposta piuttosto scocciata: «Non ha nulla di più interessante da chiedermi?». A mondiale concluso, forse, la risposta.
TRIBINA: ANTIFAŠIZAM I POVIJESNI REVIZIONIZAM
U Grohotama na otoku Šolti, u subotu, 30. 06. 2018., u organizaciji Zajednice udruga antifašističkih boraca i antifašista Splitsko-dalmatinske županije, u suradnji s Antifašističkom inicijativom Šolte, održana je, u prostoru općinske vijećnice, tribina pod nazivom „Antifašizam i povijesni revizionizam“.
Prije tribine položen je vijenac na spomenik palim borcima NOB-a i žrtvama fašističkog terora u Grohotama.
Tribinu su pred sedamdeset posjetilaca u ime organizatora pozdravili Krešimir Sršen, predsjednik ZUABA- SDŽ, zatim Nikola Cecić Karuzić, načelnik Općine Šolta, i Juraj Krstulović, potpredsjednik SABA Hrvatske.
Moderator tribine bio je dr. sc. Zoran Radman, inače Šoltanin, koji je uvodnom temom „Šolta u NOR-u“ otvorio tribinu, a govorili su doc. dr. sc. Dragan Markovina, „Antifašizam i antifašizam danas“, zatim doc. dr. sc. Pavle Vukčević, „Moralne pretpostavke antifašizma“, dok je prof. Mate Nikolić predstavio izlaganje povjesničara Gorana Korova o antifašizmu u ostalim zemljama ex-Jugoslavije, te na kraju bivši predsjednik RH, Stjepan Mesić, sa završnim izlaganjem „Antifašizam i povijesni revizionizam“.
Na skupu su bili prisutni i članovi SRP-a. Ispred splitskog SRP-a učesnik tribine bio je Pavle Vukčević te članovi GO SRP Kaštela: predsjednica Vesna Ugrina i Marko Veselinović.
Nakon tribine uslijedilo je zajedničko druženje učesnika.
Dr. sc. Zoran Radman:
UVODNO IZLAGANJE
Kada sam razgovarao o ideji da organiziramo tribinu „Antifašizam i povijesni revizionizam“, kao i u toku same pripreme tribine, susreo sam se s komentarima: „Do kada ćemo više o povijesti, o ustašama i partizanima… Imamo ozbiljnih životnih problema koje treba rješavati ….itd.“
Nažalost, priča o Drugom svjetskom ratu, odnosno o „ustašama i partizanima“ kako se to danas uvriježilo kazati, nije samo priča o onom što se događalo prije 70 i više godina na ovim prostorima. To je priča i o današnjoj Hrvatskoj. Ta priča, odnosno problem povijesnog revizionizma, sadržan u samoj sintagmi „ustaše i partizani“, nametnut je hrvatskom društvu i ide prema marginalizaciji i difamaciji partizanskog pokreta s jedne i revitalizaciji NDH s druge strane. On se povezuje i s nastojanjem da se izbriše iz sjećanja sve što je povezano s društvenim sustavom socijalizma i delegitimira simbolično nasljeđe bivše države, što je bilo vidljivo u oštećivanju, u uništavanju oko polovice antifašističkih memorijala u Hrvatskoj. Kroz tu priču i u vezi te priče proteže se besmislena krilatica o „dva totalitarizma“ čime se želi izjednačiti nacifašistički zločinački režim NDH sa socijalističkim društveno-političkim sustavom u Jugoslaviji, koji se prema recentnim politološkim kriterijima ni ne može smatrati totalitarnim, premda je imao obilježja autoritarnog sustava, u ranoj fazi više, a kasnijoj sve manje. Iza ovoga se krije jedna nazadna, zatvorena, konzervativna ideologija, koju nažalost podupire dio crkvenih krugova, gdje revizija povijesti Drugog svjetskog rata služi za povijesnu kontekstualizacju, iz čega je vidljiva duboka podijeljenost hrvatskog društva.
Stoga se mora pokazati što je povijesna istina, jer je javnost bombardirana golemom količinom laži. To je naročito došlo do izražaja nakon ulaza Hrvatske u Europsku uniju. Danas smo zemlja u koju se upire prstom od strane Njemačke, Vijeća Europe, američkog State Departmenta, čak i od austrijskih biskupa, kao u zemlju u kojoj se revitalizira fašizam. Iz dana u dan, suočeni sa sve agresivnijom propagandom povijesnih revizionista koji uvjeravaju kako su pravi zločinci bili Titovi partizani.
Potrebno je i dalje naglašavati da bi se bez antifašističke borbe Hrvatska našla na strani poraženih te da bi se, sukladno odlukama Velike trojice na Jalti, našla u sastavu obnovljene Kraljevine Jugoslavije, bez Istre, Zadra i većeg dijela otoka. Neshvatljivo je i gotovo apsurdno falsificiranje povijesti kojim se nastoji svrstavati Hrvatsku na stranu onih koji su izgubili rat. Ekstremni desni nacionalisti, koji Hrvatsku guraju u tabor pobijeđenih, štete Hrvatskoj i guraju je u već viđenu izolaciju. To nisu nikakvi domoljubi kakvima se predstavljaju jer istinski domoljubi vide Hrvatsku u pobjedničkom, antifašističkom bloku i ističu značaj ratnog antifašizma, promičući vrijednosti antifašizma danas, budući da se za antifašističke vrijednosti i danas potrebno boriti. Jer od nekih 14 karakteristika fašizma koji ističe dr. Lawrence Brit, mnoge se može prepoznati oko nas, u našem društvu i šire.
Obzirom da se ova tribina održava na Šolti, koristim priliku da iznesem nekoliko činjenica o Šolti u NOR-u. Više o tome je napisano u našoj šoltanskoj Monografiji.
Za kratkotrajnog „aprilskog rata“ 1941. godine i nakon proglašenja NDH, narodni zastupnik HSS-a, dr. Josip Berković, iz Splita je telefonski nazvao sve predsjednike općina i naredio im da se stave u službu NDH, a već 11. travnja talijanska torpiljarka uplovila je u Stomorsku na Šolti gdje je iskrcala vojsku i materijal.
Za Šoltu, kao i za ostatak Dalmacije, važno je bilo potpisivanje Rimskih ugovora 18. svibnja 1941. o određivanju granica između NDH i Italije, kojima se poglavnik NDH Ante Pavelić odrekao većeg dijela Dalmacije i gotovo svih otoka. Veleizdajnički akt nove „hrvatske države“ bolno je primljen u srcima ljudi kao izdaja Dalmacije. Izdajničkim aktom NDH i Šolta je anektirana od fašističke Italije, što je bitno ojačalo antifašističku motiviranost otočana.
Kapitulacija Jugoslavije i okolnosti koje su uslijedile nisu zatekle nespremne šoltanske komuniste. Formiran je na Šolti prvi Općinski komitet Komunističke partije od šest članova na čelu s Antonom Vidanom.
Početkom kolovoza 1942., u partizanske jedinice na kopnu odlazi prva grupa od oko deset šoltanskih boraca, a prvih dana studenoga 1942. oko 100 boraca.
Odlasci Šoltana u oružanu borbu izazvali su masovne represalije i odmazdu okupatora. Tako su fašisti u studenome 1942.. godine pojačali teror nad stanovništvom dovodeći na otok kaznenu ekspediciju od oko 400 crnokošuljaša. Uhapsili su više od stotine talaca i sproveli ih u splitski zatvor gdje su bili podvrgnuti mučenjima. Dana 25. studenoga, Talijani su uhapsili sekretara Komiteta Antu Vidana koji je nakon višednevnog zvjerskog mučenja strijeljan na splitskom groblju.
U proljeće 1943., Talijani su ponovno otjerali u koncentracijske logore velik broj stanovnika, pripadnika NOP-a i članova partizanskih obitelji.
U kolovozu 1943. godine odlazi sa Šolte i peta grupa od 36 Šoltana u partizane. U međuvremenu je bilo i pojedinačnih odlazaka u borbu. Do kapitulacije Italije, u partizane je otišlo oko 140 Šoltana i Šoltanki.
Nakon kapitulacije Italije, u rujnu 1943., formirana je partizanska četa „Ante Vidan“ koja je ušla u sastav 1. otočne, potom 12. dalmatinske brigade. Krajem listopada, formira se Bračko-šoltanski narodnooslobodilački partizanski odred u čiji sastav sa Šolte ulaze dvije čete, koje su od konca studenoga u sastavu 12. dalmatinske brigade. Formirana je također i Šoltanska flotila od četiri patrolna čamca.
Kad su potkraj 1943., zauzimanjem poluotoka Pelješca i Korčule, Nijemci ugrozili srednjodalmatinske otoke, jedinice koje su branile Šoltu povukle su se na Vis.
Evakuacija stanovništva Šolte započela je 31. prosinca 1943. preko otoka Visa, a odatle savezničkim vojnim transportnim brodovima do prihvatilišta Bari u Italiji. Iz Barija, zbjeg je odveden u mjesto Santa Maria di Leuca, odakle je nakon 20 dana zadržavanja savezničkim brodovima prebačen u Egipat u logor El Shatt na Sinaju.
Prema raspoloživim podacima, među prognanima sa svog ognjišta bilo je ukupno 1.825 Šoltana, od toga u El Shattu 939 Šoltana.
Šoltu je, 13. siječnja 1944., zauzela četa Nijemaca iz sastava 264. divizije. Nedugo zatim, 19. ožujka, snage NOV-a s Visa, uz pomoć jednog bataljuna i avijacije Saveznika, likvidirale su njemački garnizon u Grohotama koji je brojio oko 140 vojnika i oficira, zarobivši 100 vojnika i dva oficira.
Ovdje je potrebno naglasiti da je savezničko bombardiranje, koje je u sklopu nove akcije izvedeno na dan sv. Josipa 19. ožujka 1944., Grohotama nanijelo znatne gubitke.
Nakon prepada, Nijemci su prebacili na otok dvije ojačane čete 892. puka 264. divizije i organizirali protudesantnu obranu uz osiguranje artiljerijske podrške s Čiova.
Vidjevši da je i preostali dio stanovništva na otoku odan NOP-u, okupator se odlučio na krajnje represivne mjere. Cjelokupno stanovništvo s otoka deportirano je u Split. Tako je Šolta, možda prvi put u svojoj povijesti, nasilno iseljena.
Dana 9./10. svibnja 1944. godine, I. dalmatinska udarna brigada i III. bataljon XII.. Brigade, u kombinaciji s pomorskim i zračnim snagama, izvršili su ponovni napad na utvrđenja na otoku nanijevši neprijatelju velike gubitke u ljudstvu i materijalu. Neprijatelj je imao 107 mrtvih, a 52 su zarobljena. Gubici snaga NOV-a su bili dosta veliki – 40 mrtvih i 129 ranjenih boraca.
U sklopu operacija za oslobođenje Dalmacije, neposredno nakon oslobođenja Supetra 20. rujna, štab 12. dalmatinske brigade organizirao je napad koji je krenuo tijekom noći 22./23. rujna prema njemačkim jako utvrđenim položajima. Međutim, njemačka vojska napustila je Grohote i u luci Rogač ukrcala se na brodove za Split. Na izlazu iz luke, napali su ih i potopili britanski brodovi. Mali dio Nijemaca uspio je doplivati na obalu i predati se jedinicama 12. dalmatinske brigade.
Šolta je vojnički oslobođena, ali na otoku nije bilo niti jednog stanovnika. Sve Šoltane Nijemci su u svibnju 1944. protjerali u logore i izgnali u Bosnu i Slavoniju, jer je postojao dogovor između vlade NDH i zapovjednika 2. oklopne armije, generala Rendulića, da se nasilno rasele svi Hrvati sa Šolte, Brača, Hvara, Korčule, Pelješca, Mljeta i Dubrovačkog primorja i to područje nasele Paveliću vjerni podanici.
Znači, izdajnička NDH imala je namjeru raseliti nas zauvijek. Na sreću, nacisti i njihovi sateliti ustaše, koji su bili nešto najgore i najužasnije što se dogodilo čovječanstvu, poraženi od strane antifašističke koalicije u kojoj su veliki obol dali hrvatski partizani u okviru NOP-a Jugoslavije.
U četverogodišnjoj borbi, Šolta je dala i davala sve što je mogla. Sa Šolte je u partizane otišlo 850 boraca ili 26% od ukupnog stanovništva. U toj teškoj, krvavoj epopeji, na raznim bojištima ostavio je svoj mladi život 141 borac sa Šolte. Njihovi znani i neznani grobovi rasuti su po bespućima planina bivše Jugoslavije, mnogi su nestali u vodama Neretve, Sutjeske, Tare, u dubinama Jadrana, na prilazima Mostaru, Kninu, Splitu, Rijeci, Trstu i ostalim ratnim poprištima. Još 47 Šoltana pali su kao žrtve terora okupatora u logorima i internaciji, poginuli od nagaznih mina ili umrli u zbjegu.
Na kraju, radi povijesne istine, treba iznijeti i događaje na Šolti koji se mogu povezati s Narodnooslobodilačkim pokretom, a koji se nisu smjeli dogoditi, jer predstavljaju zločin u ratu koji baca sjenu na NOP. U razdoblju od 18. kolovoza do 21. rujna 1943. godine, ubijeno je na Šolti šest osoba i bačeno u jamu na Rudinama, između Grohota i Gornjeg Sela.
U Šolti su, u spomen na poginule u Narodnooslobodilačkom ratu, u svim naseljima, u različitim vremenskim odmacima, postavljani spomenici. Nakon višestranačkih izbora 1990., promjenom vlasti, u eri ničim opravdanog vandalskog odnosa prema spomenicima NOB-a diljem Hrvatske, šoltanski spomenici ostali su na svojim mjestima. Izuzetak je spomenik u Srednjem Selu (koji je oskrnavljen skidanjem zvijezde petokrake), međutim, pouzdano se zna da to nije djelo Šoltana.
Danas se na brojne načine i u brojnim prilikama nasrće na antifašistički pokret, na njegova obilježja i sudionike, a s druge strane pokušava se rehabilitirati NDH. Aktualni radikalni desni povijesni revizionizam kroz reviziju povijesti želi prikazati ustaše kao borce za naciju i državu do 1991., negirajući pozitivnu jezgru iz tradicije hrvatske ljevice, što je proklamirala pravo hrvatskog naroda na samoodređenje. To je danas vidljivo iz zahtjeva da se iz Ustava izbaci ZAVNOH, odnosno antifašizam, kao jedno od ustavnih utemeljenja.
Dovođenjem u pitanje antifašističkog pokreta i njegovih simbola, vođa i pripadnika, dovodi se u pitanje antifašistička borba i državnost Republike Hrvatske koja je postupno oblikovana Ustavima iz socijalističkog razdoblja od 1947.g. do, konačno, Ustava iz 1974.g. kojim je Republika Hrvatska utemeljena kao država, što devedesetih postaje osnova priznanja neovisnosti Hrvatske.
Ovim nastojanjima se, a što je krucijalno, dovodi u pitanje Ustav (22. prosinca 1990.) kojim je utemeljena Republika Hrvatska, odnosno dovodi se u pitanje samo ustavno i političko utemeljenje Republike Hrvatske za koju se narod na referendumu o hrvatskoj samostalnosti izjasnio ZA, za koju se narod borio u Domovinskom ratu i koja je međunarodno priznata.
Derogiranjem antifašističkog temelja u izvorišnim osnovama Ustava, to više u konstitutivnom smislu ne bi bila ova Republika Hrvatska, jer se time njen unutrašnji i međunarodni legitimitet dovodi u pitanje.
Na kraju, želim spomenuti da ova tribina ima za cilj pridonijeti promicanju javne diskusije koje treba s razine prijepora o činjenicama ići prema dijalogu o interpretacijama, i to radi sadašnjosti i budućnosti, kako bi se snažnije i kvalitetnije nastavio proces suočavanja s prošlošću, a što obuhvaća široki spektar koji se odnosi na rekonstrukciju uzroka ratova i konflikta.
U svakom slučaju, revizija je proces i prihvatljiva je, ali bez revokacije istine, odnosno revizionizma neospornih povijesnih činjenica, jer se onda dolazi do rehabilitacije zla.
Na kraju, želim naglasiti da je antifašizam aktualan i danas, jer se danas mora suprotstavljati suvremenom fašizmu, mržnji prema migrantima, dizanju žica na granicama, odvajanju djece od roditelja i trpanju djece u kaveze, fašistoidnim pojavama u nizu zemalja Europske unije, posebno onim istočnima… Zašto policija puca na migrante, baca dijete pod kotače teretnog vlaka, zašto se traži uskraćivanje prava manjinama, otkud suprotstavljanje zaštiti žena od nasilja, otkud nasilje nad umjetničkim slobodama i sl.? Antifašizam je aktualan i stoga što, na primjer, na HTV-u nacisti nisu nacisti i tamo se ne ističu heroji i mladost čitavog svijeta koja je te monstrume zaustavila, kao što je slučaj kod civiliziranih naroda. Antifašizam je potreban jer se na javnoj televiziji daje prilika kojekakvim budalama da javno govore kako je Jasenovac bio radni logor, a ne stratište desetaka tisuća nevinih ljudi, žena i djece. Antifašizam je potreban jer se kod nas ne obilježava Dan pobjede nad fašizmom kao u čitavom civiliziranom svijetu.
Antifašizam je potreban, jer je u proteklih pola godine oskrnavljeno još osam partizanskih spomenika i nadgrobnih obilježja žrtava ustaškog ili nacifašističkog terora u Zavojanima, Makarskoj, Rijeci, Zagrebu, Dugom Ratu, Šibeniku, Kastavu i Dubravi.
Antifašizam treba promicati i danas, jer se radi o idejama dobra naspram najvećeg zla, koje se opet nazire, a za koje su izgubili živote i bili spremni umrijeti hrvatski partizani i drugi rodoljubi dijelom svijeta. Antifašizam treba nastaviti širiti u društvu bez obzira koliko su jake snage ekstremne radikalne desnice.
Antifašizam nije političko pitanje – ono je prvenstveno etičko i civilizacijsko pitanje, pitanje borbe za slobodu.
Goran Korov:
ANTIFAŠIZAM U OSTALIM ZEMLJAMA BIVŠE JUGOSLAVIJE
Što se tiče antifašizma u ostalim republikama bivše Jugoslavije, svugdje su, pod utjecajem novog nacionalistički inspiriranog narativa, tekovine Narodnooslobodilačke borbe i socijalističke revolucije bile podvrgnute reviziji u većoj ili manjoj mjeri. U Srbiji je tijekom 1990-ih partizanski pokret bio toleriran, ali je rehabilitacija Ravnogorskog pokreta uzimala sve više maha. Pozivajući se na savezničko priznavanje (do Teheranske konferencije 1943., na kojoj je partizanski pokret priznat kao jedini legitimni oslobodilački pokret u okupiranoj Jugoslaviji), zagovaratelji pokreta pod vodstvom Draže Mihailovića prešućivali su ili umanjivali otvorenu suradnju četnika sa snagama Wehrmachta ili s talijanskom vojskom, ovisno o okupacijskoj zoni. U kontekstu isticanja žrtava po nacionalnosti, stavljajući naglasak na žrtve srpske nacionalnosti, bio je primjetan i val podizanja kapelica u krugu memorijalnih područja građenih za vrijeme socijalizma. Na taj su način sagrađene kapelice u krugu spomen-obilježja Sremski front kraj Adaševaca, spomen-park Bubanj kraj Niša, spomen-park Ostra kraj Čačka i ostali. Proteklih godina, najviše su maha uzeli pokušaji sudskih rehabilitacija pojedinih kolaboratora, poput Milana Nedića, predsjednika tzv. Vlade narodnog spasa, i već spomenutog Draže Mihailovića. Iako partizanski pokret u Srbiji nije demoniziran do te mjere da njegova obilježja nisu komemorirana i da se ne obnavljaju, ipak je u najvećoj mjeri samo „prigodničarskog karaktera“.
Iako se u Bosni i Hercegovini antifašizam u javnom prostoru često ističe kao dio politike BiH, situacija je isto uglavnom „prigodničarska“. Antifašistički spomenici su uglavnom zapušteni (spomern-park Vraca u Sarajevu), a oni obnovljeni financirani su uglavnom iz inozemnih sredstava raznih nevladnih udruga – posljednji primjer je obnova Partizanskog spomen-groblja u Mostaru, dok su ranijih godina obnovljeni spomen-muzeji bitke na Neretvi kraj Jablanice, Drugog zasjedanja AVNOJ-a u Jajcu i ostali, ali problem koji su za sobom ostavila ratna opustošenja jesu manjak originalnih eksponata koji su tijekom rata uglavnom bili uništeni ili ukradeni.. I dok su antifašistički spomenici u krajevima s hrvatskom većinom uglavnom uništeni, u Republici Srpskoj su uklopljeni u novi narativ. Spomen-kompleks bici na Kozari ili spomen-park Šušnjar ističu se isključivo kao mjesta stradanja Srba, mada su među stradalnicima bili i pripadnici ostalih nacionalnosti.. U Republici Srpskoj je afirmacija Ravnogorskog pokreta također uzela maha, što se vidi u nekoliko spomenika podignutih Draži Mihailoviću ili spomenika posvećenog ravnogorskim četnicima u Trebinju. U bošnjačkom se narativu antifašizam ističe iako ima pokušaja da se pojedini bošnjački kolaboracionisti rehabilitiraju. Od prošle je godine poznat slučaj imenovanja jedne osnovne škole u Sarajevu po Mustafi Busuladžiću, istaknutom intelektualcu antisemitskih stavova i kolaboracionistu s nacistima tijekom Drugog svjetskog rata.
U Crnoj Gori antifašizam je relativno dobro ukalupljen u državne strukture iako je u valu nacionalizma i tamo bilo pokušaja da se rehabilitira četnički pokret. Dan državnosti Crne Gore jest 13. srpnja, datum kada je Crna Gora na Berlinskom kongresu priznata kao suverena država i datum kada je izbio antifašistički ustanak u Crnoj Gori 1941., tzv. Trinaestojulski ustanak. Iako su 1990-ih pojedine ulice, imenovane po partizanima i revolucionarima, bile preimenovane, spomenici i spomen-obilježja posvećeni NOB-u uglavnom se održavaju. Pokušaj izgradnje spomenika četničkom vojvodi i ratnom zločincu Pavlu Đurišiću 2015. godine nije uspio. Vlada Crne Gore je zabranila projekt, a pripremljeno postolje srušeno. Međutim, Srpska pravoslavna crkva u Crnoj Gori značajno doprinosi anti-antifašizmu radeći na rehabilitaciji Ravnogorskog pokreta i kanonizirajući pojedine svećenike koji su djelovali tijekom Drugog svjetskog rata, a poznato je da su propagirali otvorenu suradnju s talijanskim i njemačkim fašistima.
Situacija na Kosovu je takva da javnost i vladajuća garnitura zagovaranje antifašizma poistovjećuju s jugoslavenskim partizanima i Narodnooslobodilačkom borbom, odnosno zagovaranje antifašizma poistovjećuje se s tobožnjim dozivanjem neke nove jugoslavenske zajednice. Spomenici NOB-a na Kosovu su zapušteni, a neki su i uništeni, posebno ako su bili posvećeni revolucionarima ili žrtvama srpske ili crnogorske nacionalnosti. Tako je npr. postojalo zajedničko spomen-obilježje Bori Vukmiroviću i Ramizu Sadiku, dvojici revolucionara s Kosova i Metohije, koje su fašisti strijeljali.. Boro i Ramiz su tijekom socijalizma bili simbol srpsko-crnogorsko-albanskog bratstva i jedinstva. Međutim, vandali su na njihovom zajedničkom spomeniku uklonili bistu Bore Vukmirovića dok je preostala samo bista Ramiza Sadika.
U Makedoniji su antifašizam i Narodnoosloboidlčka borba uglavnom ostali općeprihvaćeni u javnom i političkom narativu kao temelji suvemene makeodnske države i ostali istaknuti kao važan period u emancipaciji makedonskog naroda. Najvažniji datum koji se proslavlja u Makedoniji je 2. kolovoza, dan kada je započeo Ilindenski ustanak protiv osmanske vlasti 1903. godine i dan kada je 1944. godine u manastiru sv. Prohor Pčinjski održano Prvo zasjedanje Antifašističkog sobranja narodnog oslobođenja Makedonije, na kome su udareni temelji suvremene Makedonije. Dan ustanka naroda Makedonije, 11. listopada, i danas je nacionalni praznik; spomen-obilježja se održavaju i u većini ih slučajeva redovno posjećuju predstavnici lokalne vlasti, a imena ulica nakon 1990. nisu previše mijenjana. Unatoč tome, narativ o NOB-u ipak je bio prilagođen novoj klimi nakon 1990. godine pa se makedonski antifašiostički pokret često nastoji prikazati kao pokret samostalan od vodstva Komunističke partije Jugoslavije, stavljajući naglasak na izoliranost Makedonije od centralnih zbivanja NOB-a u Jugoslaviji koncentriranih uglavnom u središnjim i sjevernim dijelovima bivše države. Također se, nakon 1990-ih, počelo više govoriti o pojedinim revolucionarima za koje se sumnja da su poginuli pod sumnjivim okolnostima, opisujući ih u novim okolnostima kao žrtve „beogradskog režima“. Unatoč svemu, antifašizam i NOB su u Makedoniji poprilično nesporna tema, ali se u novije vrijeme naglasak ipak više stavlja na istraživanju makedonske povijesti iz doba antike i osmanske vladavine.
U Sloveniji se također posebno drži do antifašizma i čuvanja uspomene na Narodnooslobodilačku borbu, što se očituje u brizi za spomenike NOB i stalnom oprezu vlasti da ne ogrezne u duboki revizionizam i da ne pokrene val rehabilitacija. Prošle je godine bila značajna presuda Ustavnog suda Slovenije kako je Kočevski proces iz 1943., u kome su partizani sudili pripadnicima Bijele i Plave garde, bio legitiman i zakonit.. Kočevski proces ostao je poznat u historiografiji kao prvi sudski proces protiv ratnih zločinaca u Europi. Slovenija je tijekom Drugog svjetskog rata bila podijeljena između okupatorskih snaga, a s 1945. godinom, odnosno priključenjem velikog zapadnog područja Sloveniji, veći dio slovenskog naroda našao se u jednoj državi. Određeni krugovi u Sloveniji zagovaraju uklanjanje pojedinih obilježja starog sustava otjelovljeno u uklanjanju svih ulica koje u Sloveniji nose ime Josipa Broza Tita. Međutim, povremeni marševi talijanskih neofašista u talijanskim mjestima na granici sa Slovenijom upozoravaju slovensku javnost da fašizam nije do kraja poražen.
doc. dr.Pavle Vukčević:
O MORALNIM PRETPOSTAVKAMA ANTIFAŠIZMA
“Nema uzaludne smrti
Svaka smrt po jedna poruka,
Mnogo smrti mnogo poruka,
Strašne smrti,strašne poruke ”
Dušan Radović
(stihovi sa spomenika Građanima)
Antifašizam ima prevashodni zadatak da spasi od zaborava činjenice koje su same za sebe i za buduća vremena (buduće generacije) potvrda tragičnih zbivanja; da doprinese rasvjetljavanju i tačnijem sagledavanju počinjenih zločina fašista, nacista, ustaša, četnika i drugih.
Ta se misao (obaveza) nikada ne smije napustiti i ona nadograđuje moralni lik i obavezu prošlih, sadašnjih i budućih generacija.
Historijska znanost utvrđuje činjenice; događaje vezane za zbivanja u drugom svjetskom ratu, ali se historija ne bavi pojedincima i njihovim ličnim doživljajima. Historijska istina o tragičnim vremenima naroda Evrope, Jugoslavije, Hrvatske, jedino može da se utvrdi ako njeni živi učesnici mogu slobodno da opišu kako su se događaji odvijali kako bi ostavili budućim pokoljenjima svoje viđenje historijskih zbivanja, jer će neumitna vaga historije sve odnijeti (na žalost, mnogo toga je i odnijela).
Sve one žrtve drugog svjetskog rata (i ranije) zahtijevaju svoje mjesto na stranicama suvremene historije, ne samo zbog utvrđivanja istine, nego i zbog toga da bi se na vrijeme onemogućile izmišljene istrage protiv nedužnog stanovništva, druge nacije, vjere, rase ili ideološkog opredjeljenja.
Smrt čovjekova, njegova nasilna smrt, smrt bilo kojeg pojedinca jeste, dakle, u krajnjoj liniji i smrt kolektiva, naroda, nacije, čovječanstva. Jer je svaka i „najmanja smrt“ tek karika u beskonačnom lancu naše ukupne smrti.
Uspomene na one kojih više nema, koji dadoše svoje živote, postaju jedina stvarnost i jedina realnost. Uspomene su strašne, onih ubojica i zločinaca, nestali, uhvaćeni ili pobjegli preobučeni u mirne građane u nekom Paragvaju, Boliviji ili Argentini.
Svaka priča je posebna i različita i onda kada potiče s istog mjesta, iz istog logora, ali su slične u dubokoj ljudskoj težnji da se istraje i u uslovima koji su bili stvoreni upravo da ih nitko ne preživi.
A različna je u sjećanju samo bol, lični neprenosivi gubitak, strah, žalost i užas koji se sruči nad ljudskom vrstom – i zato su sva sjećanja neobično slična i neobično različita jer govore o sreći, nadi, ponosu, hrabrosti, dostojanstvu – a kada se dublje pogleda suvremenu stvarnost, kao da je ostala laž, hipokrizija, licemjerje.
Hoćemo li i do kada živjeti u strahu da će se naći neko koji će nas organizirano uništavati i da će isti i pronaći i valjana opravdanja i legitimne razloge kako bi dokazao da je čovjek smrtan i nemoćan.
To zlo i danas drsko pomalja svoje zlokobno lice, kao da civilizacija na početku trećeg milenijuma nije izvukla nikakve pouke iz paklenih i dijelom ostvarenih namjera iz ne tako davne prošlosti.
To zlo se ponovno javlja u sve prisutnijoj mržnji, a to navodi na zaključak da zlo nije poraženo, da se protiv njega treba stalno boriti i da ga ne treba podcjenjivati.
Kao da smo još plemenski određena bića; tako se živi, tako se osjećamo i javno deklariramo (tako se od nas traži), takvi želimo biti i tražimo od drugih da nas takvima vide i određuju – nacionalno i vjerski.
Ne pita se kod nas, ko je moralan ili nemoralan, dobar ili zao, pošten ili nepošten, pravedan ili nepravedan, itd. – ČOVJEK – nego da li je neko dobar u nacionalnom ili vjerskom određenju, a zaboravlja se pri tome namjerno (ili ne) da u takvom poimanju to ne znači ništa .
Moralno se odnositi znači prije svega poštivati samoga sebe, kao dostojno ljudsko biće, pa onda i čovječnost u svakom drugom biću.
Nacionalistička homogenizacija – negacija morala
Nacionalizam je kao „svjetonazor“ u svojoj biti zasnovan na iracionalnoj ideologiji „krvi i tla“. On se ne poziva na razum, već na skupove podsvjesnih poriva i instikata, kolektivnih i individualnih, u kojima je sadržan najagresivniji dio ljudske prirode. To je onaj najdublji sloj individualnog i socijalnog psihološkog sustava koji još nije posredovan racionalnim odnosom prema životu nego sav vanjski svijet posmatra kao prostor agresivne ekspanzije, širenja svoga „JA“.
Nacionalizam nastoji da u ekspanzivnoj regiji grupnih i pojedinačnih emocija (interesa) probudi „sjećanje“ na zajedničko porijeklo, za koje se tvrdi da je otuđeno u zaborav pa ga treba vratiti u svijet aktuelnog istorijskog trenutka. Ideologija nacionalizma u svojoj biti potencira nacionalne razlike i barijere razvijajući osjećaj ugroženosti.
Nacionalistička se država opija vjerom u kulturnu hegemoniju, u potrebi ograničenih, čuvanih teritorija, a s druge pak strane opravdava nejednakost, siromaštvo, obespravljenost, nezaposlenost, mržnju, nasilje.
Nacionalistička država negira svoju moralnu odgovornost za oduzimanje prava nacionalnim manjinama; prijetnja je unutarnje raznolikosti i simbol je nasilja i nesloboda; ne priznaje nikakav viši zakon iznad svoje barbarske volje; nesposobna je voljeti i nedostaje joj savjesti.
Smjernice za djelovanje Antifašista Hrvatske
a) razvijanje svijesti o ulozi i rezultatima antifašističke borbe i prepoznavanje biti fašizma/nacizma;
b) održavanje spomeničke i druge baštine antifašista i to ne samo kao znak sjećanja i zahvalnosti generaciji koja je izvojevala pobjedu te pijeteta prema onima koji su u toj borbi dali svoje živote, već i kao oblik odgoja mlade generacije u antifašističkom duhu;
c) suprotstavljanje svakom iskrivljivanju hrvatske povijesti, posebice one 20 stoljeća, uključujući i povijest NOB-e i njenih ciljeva i ostvarenja, otklanjanje uvjeta i uzroka rađanja i razvijanja fašističkih pojava;
d) neprestano pomlađivanje;
e) čuvati čast i dostojanstvo i druge vrijednosti antifašističkog pokreta radi stvaranja sve veće demokratizacije, pluralizacije, socijalne pravde, pravne zaštite, ravnopravnosti naroda i narodnosti, itd.
Split, 06. 07. 2018.
Gradska organizacija SRP-a Split