Informazione



25 luglio ’43: i 45 giorni di Badoglio

di Luciano Casali, da “Patria indipendente” del 24 luglio 1983

Un governo per assicurare la continuità della monarchia. La “circolare Roatta”: «si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche». Le stragi.. I primi comitati unitari antifascisti. Come si giunse all’armistizio


II 5 luglio 1943 il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, registrava nel suo Diario: «Sua Maestà è del parere che, anche arrivando alla sostituzione di Mussolini, il fascismo non si possa abbattere di un colpo. Bisognerebbe in vece modificarlo gradatamente fino a cambiargli fisionomia in quegli aspetti che si sono dimostrati dannosi per il Paese».
Fino all’ultimo casa Savoia, preparando il colpo di Stato del 25 luglio, aveva esitato sulla opportunità di disfarsi dell’opera del «cavalier Benito Mussolini» e gli stessi congiurati che parteciparono alla seduta del Gran consiglio del 24 luglio, completamente inconsapevoli della realtà del Paese (pur se confusamente consci dalla primavera 1943 che la situazione politica e militare stava precipitando), si illudevano di poter scampare al disastro con pochi mutamenti di superficie. Dunque: la volontà di «nulla» cambiare e un’incredibile e paralizzante paura dei tedeschi rappresentarono i caratteri con cui il governo di tecnici e militari guidato da Pietro Badoglio affronta i quarantacinque giorni dell’estate 1943, dall’arresto di Mussolini alla dichiarazione dell’armistizio e al rovesciamento delle alleanze.
Troppo spesso si è giudicata «casuale» e «sconclusionata» la linea politica gestita da Badoglio in quel mese e mezzo, non rivelando coerenza e chiare finalità nelle linee di comportamento e di governo. Certo, in riferimento ai reali interessi nazionali e alle esigenze popolari, palesemente espresse nelle manifestazioni, ciò che appare dei provvedimenti badogliani può sembrare senz’altro estremamente «confuso» e contraddittorio. E si potrebbero avanzare giudizi anche peggiori, in quanto appare ben evidente la mancanza di una precisa volontà nell’affrontare i due nodi centrali del momento (guerra e alleanza con la Germania nazionalsocialista) facendo ricorso all’unico strumento possibile per una soluzione radicale: chiedere e costruire un rapporto di fiducia con le masse popolari. Ma, come ha scritto Ruggero Zangrandi, proprio in ciò, «nella sua essenza negativa, risiede la mostruosa coerenza della politica badogliana», nel temporeggiare, barcamenandosi tra fascisti e antifascisti, nel tenere a bada i tedeschi con la menzogna e le masse popolari con la violenza, nel cercare di imbrogliare gli anglo-americani puntando sull’astuzia (o meglio su un’elementare «furberia») e sull’intrigo. Una linea estremamente coerente nella speranza di riuscire a imbrogliare un po’ tutti e così di salvare il più possibile di quanto il fascismo aveva lasciato «di buono». 

Un governo fantasma

La compagine governativa, designata dal re il 27 luglio, doveva rappresentare per Badoglio un docile strumento per perseguire tale disegno, una semplice facciata che si prestasse a coprire, senza eccessive pretese, le scelte di fondo continuiste del Maresciallo d’Italia e della monarchia.
Nessun «uomo nuovo». Su sedici ministri, oltre un terzo era costituito da rappresentanti delle forze armate (cinque generali e un contrammiraglio, e fra di essi il generale Favagrossa che rimaneva alla direzione del ministero per la produzione bellica da lui gestito, prima come sottosegretario poi come ministro, fin dall’inizio del conflitto mondiale); i direttori generali dei ministeri di Grazia e giustizia, delle Finanze e dei Lavori pubblici venivano «promossi» al rango superiore, mentre il responsabile della Banca d’Italia assumeva la direzione del ministero per gli Scambi e le valute. Senatori e ambasciatori, che avevano raggiunto tali posizioni durante il ventennale regime, completavano il quadro governativo. Un passaggio dei poteri indolore e asettico, una linea evidente di continuità degli apparati dello Stato, una scarsa autonomia politica del Governo, resa evidente non solo dai nomi, scelti per indicare il proseguimento di linee precedenti, ma anche confermata dalla stessa attività del Consiglio dei ministri nel suo complesso. Le scelte di fondo, il dibattito politico, le proposte per la soluzione dei problemi principali non varcarono mai la soglia del Consiglio; nemmeno della questione più grave e più delicata (se e come uscire dalla guerra) si fece mai parola in quella sede. La diarchia dittatoriale Mussolini-Vittorio Emanuele fu sostituita da una nuova «accoppiata» autoritaria, Badoglio-Vittorio Emanuele, che continuò l’accentramento del potere e proseguì, come prima, a voler decidere i destini del Paese.
L’Archivio centrale dello Stato non ha conservato alcuna traccia dei verbali delle riunioni del Consiglio dei ministri del Governo Badoglio. Si potrebbe (malignamente?) supporre una non casuale scomparsa di quei documenti, anche se la situazione caotica determinatasi nella capitale dopo l’8 settembre non esclude la possibilità dell’assenza di qualsiasi volontà nella distruzione. La documentazione comunque sopravvissuta e certamente incompleta lascia tuttavia presumere che le riunioni del Consiglio furono soltanto due: la prima, il 27 luglio e una successiva il 5 agosto. Una terza, prevista per il 9 settembre, non si tenne a causa delle vicende seguite all’armistizio.
A prescindere dal numero delle riunioni collegiali del Consiglio, resta comunque la qualità delle decisioni prese per rendersi conto del reale peso politico lasciato a esso e, d’altra parte, una serie di provvedimenti erano già stati varati prima della costituzione formale del Governo, come la liberazione di una parte dei detenuti politici (esclusi i comunisti e gli anarchici), l’assorbimento della Milizia fascista nell’esercito, la cosiddetta «circolare Roatta», sulla quale torneremo.
Le delibere prese dal Consiglio dei ministri a partire dal 27 luglio disposero lo scioglimento del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo, della Camera dei fasci e delle corporazioni (non si toccò il Senato e si garanti l’elezione di una nuova Assemblea quattro mesi dopo il termine del conflitto); furono sciolti anche l’Istituto di cultura fascista e l’Associazione fascista delle famiglie caduti in guerra. Inoltre fu dichiarato decaduto il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (ma le sue prerogative passarono quasi integralmente ai Tribunali militari…), fu cambiata la denominazione ai ministeri delle Corporazioni e della Cultura popolare, si abolì il saluto romano, si modificarono i biglietti di banca facendovi eliminare i fasci, si abrogarono le leggi contro il celibato (ma non la legislazione razziale introdotta nel 1938: non bisognava «insospettire» i tedeschi). Furono, infine, dichiarate decadute la Carta del Lavoro e la Carta della scuola e il 31 luglio fu annunciato il richiamo alle armi dei quadri fascisti che, per motivi politici, ne erano stati esentati (segretari e vice segretari federali, fiduciari di fabbrica, squadristi funzionari del PNF).
Molte di tali disposizioni restarono sulla carta (non si trova alcuna traccia dei decreti esecutivi per i richiamati alle armi), ma, in complesso, la serie delle delibere, amplificate e propagandate dalla stampa, avevano chiaramente l’unico scopo di dare l’impressione di un rapido e deciso smantellamento di tutto l’edificio costruito in vent’anni di fascismo e dovevano convincere l’opinione pubblica di essere finalmente tutelata, di riacquistare diritti e libertà in un quadro politico che doveva apparire in rapida evoluzione. E, per questa funzione, lo strumento e i mezzi utilizzati furono gli stessi che avevano caratterizzato l’azione del regime per la «conquista del consenso»: propaganda e repressione. II Minculpop mantenne un attento e oculato controllo sulla stampa.
A mezzanotte del 25 luglio i prefetti sono invitati a impedire che i quotidiani escano con notizie «non confacenti alle direttive politiche del governo». Il 27 il ministro Fornaciari ordina il sequestro di quei giornali che «eccitino comunque spirito pubblico». Il 28 il ministro Rocco istituisce un servizio di censura preventiva sulle notizie da pubblicarsi. Carlo Ludovico Ragghianti ricorda le precise «direttive di ordine generale» inviate ai direttori dei quotidiani: bisognava «evitare critiche ad uomini e fatti del passato regime» e non sollecitare la soppressione di quelle istituzioni fasciste che, «secondo le decisioni del Consiglio dei ministri, possono continuate a funzionare»; era proibito «insistere sul tema della liberazione dei detenuti politici», mentre occorreva «usare il massimo riguardo verso gli alleati tedeschi». Ma, soprattutto, si ordinava di … «suscitare un senso di fiducia nell’avvenire», e cioè nell’opera e nelle decisioni della nuova amministrazione dello Stato.
Stampa sera del 26-27 luglio fu così sequestrata perché pubblicava un appello unitario dei partiti antifascisti che chiedevano una «pace immediata». II prefetto di Venezia bloccava la nomina di Armando Gavagnin alla direzione del Gazzettino, trattandosi di un «antifascista irriducibile».
D’altra parte il processo di defascistizzazione restava un fenomeno più legato alle apparenze e alla propaganda degli organi di stampa che una realtà tenacemente perseguita e non solo in relazione ai gangli vitali degli apparati dello Stato. Solo le più macroscopiche incrostazioni del fascismo venivano rimosse e venivano cancellate le più appariscenti (ma certo meno importanti) creazioni del regime, vantando e sbandierando ogni intervento come un fondamentale passo avanti nella via della democratizzazione. In realtà neppure lo scioglimento della Milizia fascista fu attuato. Solo il 26 agosto Badoglio convocò una riunione (di cui non si conoscono comunque i risultati) con la quale si proponeva di affrontare «il problema della riorganizzazione finale» della MVSN. Quanto a fascisti e squadristi che avrebbero dovuto essere richiamati immediatamente alle armi, sappiamo che, al 18 agosto, nessun provvedimento esecutivo era stato emanato. In entrambi i casi va osservato che solo in parte le misure annunciate vennero eseguite, quando si trattò di sottrarre militi e fascisti alle reazioni popolari e di garantirne l’incolumità personale, specialmente nelle zone di Milano, Torino, Bologna e Firenze.

La repressione

La decisione del re di garantire il colpo di Stato attribuendo i pieni poteri alle forze armate (conservate con la struttura e i comandi costituitisi durante il regime) consentì un rafforzamento del potere d’intervento dei militari nella direzione dello Stato, anche indipendentemente dalla presenza di Badoglio alla presidenza del Consiglio dei ministri. Pochi personaggi (Ambrosio, Sorice e Senise) mantennero in pratica le redini del potere dopo l’arresto di Mussolini.
Particolarmente importante (ma raramente messa in evidenza dagli studiosi) fu l’attività, in gran parte non del tutto controllata dal ministero, del capo della polizia Carmine Senise, pronto ad intervenire tempestivamente sulle varie realtà locali e a provvedere con tutti i mezzi al mantenimento dell’ordine pubblico, in ogni caso mostrandosi un attento e preciso «esecutore» delle reali intenzioni (espresse o sottintese) di casa Savoia, ma spesso portatore di iniziative largamente autonome, forse dettate dalla lunga esperienza maturata, sempre come capo della polizia, negli anni precedenti.
Alle 20,30 del 25 luglio Senise telegrafava ai prefetti la «applicazione piani OP» (ordine pubblico: militarizzazione del territorio nazionale) e il 27 precisava: «occorre far rispettare tutti costi ordinanze autorità militari … anche se si debba ricorrere uso armi». E ancora, il 3 agosto: «Si fa presente particolare pericolosità della propaganda comunista che est stata iniziata verso militari perché facciano causa comune con masse popolari et non sparino su folle dimostranti».
D’accordo con il ministero dell’Interno (egemonizzato da Senise), agì quello della Guerra con disposizioni analoghe che trovarono chiara espressione nella cosiddetta «circolare Roatta» del 26 luglio. Roatta, partendo dal presupposto che «poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito», osservava come «qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe delitto». Di fronte alle manifestazioni popolari «i reparti devono assumere et mantenere grinta dura». Basta con «i sistemi antidiluviani, quali i cordoni, gli squilli, le intimazioni et la persuasione», ma «si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche».
Contemporaneamente il Capo di Stato Maggiore, Ambrosio, provvedeva a rafforzare la presenza delle forze dell’ordine nelle zone dove immediatamente apparve più difficile contenere l’entusiasmo popolare e la politicizzazione delle manifestazioni di massa; divisioni di rinforzo furono avviate a Torino, Milano, Genova e Bologna, mentre la repressione armata toccava livelli notevoli sin dal pomeriggio del 26 luglio, raggiungendo l’apice il giorno 28 con le stragi di Bari e di Reggio Emilia (dove si ebbero rispettivamente 17 morti e 36 feriti e 9 morti e 30 feriti). Complessivamente nei primi tre giorni successivi al 25 luglio l’ordine pubblico fu garantito con 65 morti e 269 feriti, mentre oltre 1.200 furono gli arresti. Dal 28, inoltre, i Tribunali militari entrarono in funzione con severe ed «esemplari» condanne. Solo a Torino i processati furono 437; 398 furono condannati a oltre 429 anni di carcere. La centralità del ruolo dell’esercito durante i 45 giorni badogliani appare evidente dall’importanza attribuita alla sua funzione repressiva nei confronti delle manifestazioni popolari e dell’antifascismo (in particolare della classe operaia), assieme ad un progressivo tentativo di controllare ed esautorare il governo, cui si sarebbe voluto riservare solo l’ordinaria amministrazione. Contemporaneamente si avvertiva il tentativo di «recuperare» i fascisti onesti, sollecitato in maniera esplicita dallo stesso re che, ancora il 16 agosto, accusava Badoglio di «eccessi antifascisti».
In realtà, gli «eccessi antifascisti» di Badoglio si limitavano a una serie di espedienti puramente demagogici attraverso i quali tentava di neutralizzare le spinte del comitato romano delle opposizioni guidato da Bonomi (più vicino, e quindi più «pericoloso», anche se più «moderato» di quello milanese) e dei singoli partiti antifascisti, in modo da meglio condurre le proprie scelte generali. D’altra parte la debole influenza che potevano avere i partiti antifascisti in quel regime di semiclandestinità che ne sottoponeva i leaders al continuo pericolo di arresti, aiutava Badoglio a poco concedere, e quel poco con estrema lentezza.
Questo appare in particolare evidenza a proposito della lenta, contrastata ed incompleta liberazione dei detenuti politici, già annunciata il 27 e il 29 luglio (con l’eccezione di anarchici e comunisti e di quanti avessero commesso delitti contro lo Stato, cioè la maggioranza assoluta). La stessa liberazione degli ebrei veniva limitata a coloro che non avessero commesso azioni di «particolare gravità». Nel corso del mese di agosto la minaccia di uno sciopero generale avanzata da Roveda, Buozzi e Grandi sembrò sbloccare la situazione. Badoglio non promise comunque un’amnistia, ma «garantì» la liberazione dietro domanda. A partire dalla seconda meta del mese cominciarono così ad uscire dal carcere i politici «più pericolosi», anche se parecchie migliaia di detenuti (soprattutto quelli delle province orientali, ma non solo) restarono, grazie a tale procedura, incarcerati e non pochi furono catturati e in qualche caso deportati dai nazisti dopo l’8 settembre.

L’antifascismo

Lo stesso ministro dell’Interno nell’aprile 1943 aveva affermato che i partiti antifascisti avevano ripreso «una certa influenza sulla massa della popolazione». D’altra parte proprio gli scioperi del marzo avevano dimostrato una notevole possibilità di mobilitazione popolare su obiettivi economici e anche politici. Nonostante ciò è difficile definire quale effettiva capacità di intervento e di direzione nelle manifestazioni successive al 25 luglio ebbero i partiti antifascisti, la cui struttura organizzativa andò rinsaldandosi ed espandendosi territorialmente dal nord al centro soltanto nel corso della semiclandestinità permessa da Badoglio.
Durante l’agosto 1943 i comunisti (e, in parte, anche i socialisti e gli azionisti) raggiunsero una discreta efficienza organizzativa in gran parte delle province centro-settentrionali del paese, anche se la presenza di gruppi attivi influì direttamente nelle manifestazioni delle principali città della Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia e Toscana fin dallo stesso 26 luglio.
Un aspetto particolare va comunque ricordato: la nascita quasi immediata, sin dall’ultima settimana di luglio di comitati unitari (composti dai cinque principali partiti, oltre che da formazioni politiche senza alcun seguito successivo). Si trattava certamente di una quasi naturale continuazione di quei contatti e di quegli incontri fra antifascisti che si erano moltiplicati negli ultimi mesi del 1942 e soprattutto agli inizi del 1943 e chiaramente tali Comitati, dai nomi più diversi e dalla composizione più varia, tendevano più a riprodurre l’adesione delle individualità antifasciste presenti nelle singole località, che non quella di reali gruppi organizzati con chiare e consapevoli linee politiche. Spesso i Comitati si trovarono, proprio a causa della composizione e della non rappresentatività di gran parte dei loro membri, su posizioni moderate di fronte alle manifestazioni di piazza (fecero eccezione Milano e Bologna) e in numerose occasioni si posero come elemento di mediazione invitando gli scioperanti alla calma per non «provocare» le reazioni dell’esercito e delle forze dell’ordine, a volte, anzi (come nel caso del Comitato modenese) giustificandone l’operato. Ma già all’interno di tali Comitati (soprattutto in quello romano) cominciavano ad apparire quelle diversità di posizioni – diversificando in genere i tre partiti della sinistra dagli altri – che in parte ne avrebbero limitato le possibilità di intervento anche nei mesi successivi. Da un lato le posizioni divergenti impedivano o diminuivano le capacità di intervenire su Badoglio per condizionarlo, dall’altro lato la sopravvivenza dei comitati unitari era necessaria per poter, sia pure minimamente, avere qualche voce che sarebbe stata negata ai singoli partiti.
I veri protagonisti dei 45 giorni furono così le masse che diedero luogo a manifestazioni, in gran parte «spontanee» (ma nate in quelle zone in cui la presenza organizzata della sinistra era sufficientemente avanzata), mentre alcuni partiti politici, specialmente quello comunista, riuscirono a costruire o allargare rapporti positivi con i movimenti popolari e a «politicizzarne» le rivendicazioni, rafforzando un dialogo che mai era venuto meno negli anni più duri del regime e ponendo le basi per quel rapporto di fiducia che avrebbe dato esiti largamente positivi dopo l’8 settembre, quando si trattò di costruire la lotta di liberazione nazionale.
Le prime manifestazioni, avvenute già nel corso della notte del 25 luglio, sono spontanee e di massa, esprimono la gioia popolare per l’arresto di Mussolini e si esprimono con sistematiche invasioni delle sedi fasciste e distruzione dei simboli del regime. Ma già dal 26 le manifestazioni assumono un aspetto diverso per la presenza organizzativa di comunisti, socialisti e azionisti che, con la stampa o con comizi improvvisati, riescono a suggerire parole d’ordine o ad affiancare scioperi operai alle manifestazioni di «generico» entusiasmo. La fine della guerra, l’aumento delle razioni alimentari e la liberazione dei detenuti politici rappresentano le parole d’ordine (politiche ed economiche) più diffuse. La stessa presenza degli antifascisti più noti alla testa dei cortei fa scattare la reazione governativa: le manifestazioni non vengono più giudicate come un appoggio ed un consenso dal basso al colpo di Stato del re e di Badoglio, ma cominciano a rappresentare un chiaro momento di «sovversivismo». Soprattutto la presenza della classe operaia sembra essere giudicata estremamente pericolosa, come elemento più politicizzato e di più difficile controllo.
Non è facile misurare il rapporto effettivo fra le parole d’ordine lanciate dai partiti e il «tono» più politico delle manifestazioni nate a partire dal pomeriggio del 26 luglio, anche se una profonda influenza e innegabile.
Le reazioni del governo, l’intervento della polizia e dell’esercito, lo stato d’assedio, le fucilazioni e gli arresti non fecero che scavare un solco fra manifestanti e autorità dello Stato e, nonostante una prima fase di incertezza dei partiti che ritenevano di poter strappare concessioni a Badoglio senza ulteriori spargimenti di sangue, dal 16 agosto riprendevano gli scioperi e le fabbriche del nord diventavano protagoniste dirette delle pressioni per obiettivi questa volta direttamente ed esplicitamente politici: contro la «guerra fascista». 

II fallimento di Badoglio

Ottenere un’uscita dal conflitto indolore per il potere politico ed economico che aveva sostenuto il fascismo e che ora tentava di perpetuarne i metodi di governo: era questo l’obiettivo di fondo del re e di Badoglio, sia pure perseguito dai due con tattiche diverse: rigidamente conservatore quello, più duttile e disposto a qualche minore compromesso con l’antifascismo, questo. II re (e i militari) intendevano reprimere alla radice ogni sia pur minimo «pericolo comunista». Badoglio era più disposto ad affiancare ai tradizionali interventi repressivi alcune «aperture» mediatrici (tipica a tale proposito la nomina di Commissari alle confederazioni sindacali scelti fra gli esponenti dell’antifascismo, al fine di usare, nei confronti degli scioperanti, la tattica del convincimento e non solo quella dello stato d’assedio). E, sempre per strumentalizzare il «fronte interno», proseguiva l’attività demagogica dei provvedimenti governativi, regolarmente gonfiatidalla stampa quotidiana. Si provvede a cambiare i prefetti (che sostanzialmente restano però gli stessi, mutando solo la sede), a nominare una commissione d’inchiesta contro gli illeciti arricchimenti (che verrà confermata in toto dalla Repubblica sociale italiana), si nominano commissari all’Enpas e alla Siae, si preannunciano (2 settembre) mutamenti all’Eiar.
Fino alla metà di agosto non abbiamo nessuna prova concreta che fosse in animo al re, a Badoglio e all’esercito di rompere l’alleanza con i tedeschi. Le numerose missioni che presero contatto can gli anglo-americani (ma già dal 1942 non erano mancati coloro che «esploravano» le condizioni per un’uscita dell’Italia dal conflitto!) affrontarono l’argomento «resa» solo con cauti sondaggi, senza mai dimostrare un vero impegno né una concreta volontà di trattare le condizioni per una resa o un armistizio. La stessa missione del generale Castellano, che poi giunse effettivamente a firmare la cessazione delle ostilità, partì senza alcuna credenziale, senza documenti ufficiali che autorizzassero alla trattativa o che dimostrassero che si trattava di una iniziativa non personale.
Indubbiamente i grandi scioperi politici di metà agosto valsero a costringere ad affrettare i tempi, a scegliere senza ulteriori indugi e le richieste di pace avanzate da quelle manifestazioni resero palese agli stessi tedeschi che, in ogni caso, l’atmosfera pubblica in Italia non avrebbe comunque permesso un prolungamento all’infinito del conflitto. Dopo il 25 luglio alla proposta di Hitler di procedere manu militari al ristabilimento del fascismo, fu preferita la tattica suggerita dai generali di rafforzare progressivamente la presenza della Wehrmacht in Italia fino a giungere, quasi insensibilmente, all’occupazione del Paese. D’altra parte il progetto di colpo di Stato di Vittorio Emanuele non prevedeva alcuna utilizzazione dell’esercito in funzione difensiva, ma predisponeva per una sua larga utilizzazione esclusivamente per mantenere l’ordine pubblico: il «nemico» era più individuato negli italiani che non nei tedeschi o negli anglo-americani.
Così il 15 agosto la Wehrmacht aveva ormai sotto controllo tutti i settori chiave dell’Italia settentrionale, dopo aver fatto affluire in due settimane sei divisioni e mezzo (all’8 settembre il totale era di otto divisioni, oltre a 120 mila uomini non indivisionati). Secondo Ruggero Zangrandi, solo il 17 agosto il re, Badoglio e Ambrosio decisero di cominciare a trattare veramente con gli anglo-americani. La speranza era che gli Alleati raggiungessero rapidamente Roma, salvando monarchia e governo da qualsiasi rendiconto con i vecchi alleati. Non a caso, neppure a trattative avviate, addirittura neppure dopo la firma dell’armistizio (una settimana prima del suo annuncio ufficiale) ci si preoccupò di elaborare piani militari a sostegno delle operazioni «politiche» in corso..
La dichiarazione dell’armistizio colse alla sprovvista, del tutto impreparati, i comandi periferici. II disastro dell’8 settembre e lo squagliamento dell’esercito non destano quindi alcuna meraviglia, soprattutto dopo tre anni di guerra non sentita e non voluta a livello popolare: le alte gerarchie dell’esercito e l’intera classe dirigente ne furono responsabili fino in fondo.
L’opposizione a Badoglio, largamente diffusa nel Paese dalla metà di agosto, trova anche un primo punto di coagulo nell’accordo fra PCI, PSIUP e PdA del 30 agosto, accordo che aveva come obiettivo una aperta «lotta contro il governo» che non aveva voluto la «radicale eliminazione del fascismo e l’allontanamento delle forze germaniche dall’Italia», ma soprattutto non aveva perseguito «una politica energica e conseguente di pace e libertà». Da parte sua, il partito comunista presentava al governo e al comitato romano delle opposizioni un promemoria che invitava alla lotta armata contro l’occupazione tedesca. Dagli ultimi giorni di agosto i comitati unitari locali avanzavano alle autorità militari formali richieste di armare il popolo, di formare reparti di «guardie nazionali», di apprestare gruppi di civili per la difesa del territorio nazionale.
Le masse popolari stavano ritornando protagoniste delle vicende del Paese. II compito di Badoglio, di garantire una successione tranquilla e indolore al fascismo, era fallito.
II vuoto di potere apertosi con l’8 settembre determinava un confronto dialettico fra le forze più avanzate che sarebbero state protagoniste della lotta di liberazione nazionale e il vecchio potere politico ed economico che tentava di salvare il più possibile della continuità dello Stato e dei tradizionali rapporti di potere.
Luciano Casali, storico


(english / italiano)

Segnalazioni su "spomenici" e architettura jugoslava

0) Links
1) Viaggio dal 16 al 23 agosto 2018 attraverso gli "Spomenici" jugoslavi
2) MOMA (NY), fino a gennaio 2019: mostra sull'architettura jugoslava / Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980 (through January 13, 2019)


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Da alcuni anni gli "Spomenici" – monumenti-sacrari della Lotta Popolare di Liberazione jugoslava – sono al centro dell'interesse degli storici dell'architettura per la qualità artistica e la potenza valoriale che continua a colpire i visitatori nonostante un quarto di secolo di incuria, distruzioni, diffamazioni.

Su questi capolavori dell'architettura contemporanea segnaliamo il bellissimo sito con mappa interattiva e fotografie


ed i libri:

Jan Kempenaers: Spomenik (2010)
https://www.cnj.it/documentazione/biblioletteratura.htm#spomenik2010
https://twistedsifter.com/2011/05/23-fascinating-and-forgotten-monuments-from-yugoslavia/
http://bloggokin.blogspot.com/2011/04/monumenti-abbandonati-in-jugoslavia.html

Revolucionarno Kiparstvo (1977)

Jugoslavia Monumenti alla Rivoluzione (1969)


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Viaggio dal 16 al 23 agosto 2018 attraverso gli "Spomenici" jugoslavi

<< Spomenik è una proposta di viaggio per l’estate 2018. Un tour che parte da Trieste e ritorna a Trieste, dal 16 al 23 agosto. Un anello, il cui filo conduttore sono gli Spomenik. (...) Cinque paesi, dieci Spomenik, ottanta anni di storia: quella che proponiamo è un'avventura nella storia e nella memoria, attraverso alcune delle più importanti località di interesse storico e paesaggistico della ex Jugoslavia. Un tuffo nei Balcani più autentici, nelle contraddizioni sociali e nelle contaminazioni culturali che da sempre caratterizzano questo mondo unico e affascinante. >>

Per altre informazioni/prenotazioni scrivere a: spomenik2018@...


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See also:

New MOMA Exhibition Celebrates The Concrete World Of The Former Yugoslavia (Megan Townsend, 28 January 2018)

Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980 | MoMA LIVE (The Museum of Modern Art, 10 lug 2018)
VIDEO of the presentation event: https://www.youtube.com/watch?v=M2S0bBTHu-8

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Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980

Through January 13, 2019
The Museum of Modern Art

Situated between the capitalist West and the socialist East, Yugoslavia’s architects responded to contradictory demands and influences, developing a postwar architecture both in line with and distinct from the design approaches seen elsewhere in Europe and beyond. The architecture that emerged—from International Style skyscrapers to Brutalist “social condensers”—is a manifestation of the radical diversity, hybridity, and idealism that characterized the Yugoslav state itself. Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia, 1948–1980 introduces the exceptional work of socialist Yugoslavia’s leading architects to an international audience for the first time, highlighting a significant yet thus-far understudied body of modernist architecture, whose forward-thinking contributions still resonate today.

Toward a Concrete Utopia explores themes of large-scale urbanization, technology in everyday life, consumerism, monuments and memorialization, and the global reach of Yugoslav architecture. The exhibition includes more than 400 drawings, models, photographs, and film reels from an array of municipal archives, family-held collections, and museums across the region, and features work by important architects including Bogdan Bogdanović, Juraj Neidhardt, Svetlana Kana Radević, Edvard Ravnikar, Vjenceslav Richter, and Milica Šterić. From the sculptural interior of the White Mosque in rural Bosnia, to the post-earthquake reconstruction of the city of Skopje based on Kenzo Tange’s Metabolist design, to the new town of New Belgrade, with its expressive large-scale housing blocks and civic buildings, the exhibition examines the unique range of forms and modes of production in Yugoslav architecture and its distinct yet multifaceted character.

Organized by Martino Stierli, The Philip Johnson Chief Curator of Architecture and Design, The Museum of Modern Art, and Vladimir Kulić, guest curator, with Anna Kats, Curatorial Assistant, Department of Architecture and Design, The Museum of Modern Art.




(english / italiano)

Quarto anniversario della "Ustica" ucraina

in ordine cronologico inverso:

1) Team “investigativo” internazionale accusa la Russia; la Malaysia ne mette subito in discussione le “conclusioni” (maggio 2018)
2) Morto suicida (?) il pilota ucraino accusato dell'abbattimento del volo MH17 (marzo 2018)
3
) Ancora sul Boeing malese abbattuto in Ucraina (F. Poggi, 11 ottobre 2017)
4) Anniversario dell’abbattimento del volo MH-17 (S. Orsi, luglio 2017)
5) Kiev Regime Conducted Special Operation to Destroy Malaysian Airlines Flight MH17 / Kiev ha abbattuto il volo MH17 delle Malaysian Airlines (PravdaReport / Global Research, 29 June 2017)
6) Facts withheld of Malaysian airlines crash (Sara Flounders, August 28, 2014)


Si vedano anche:

17 LUGLIO 2014: DUE CACCIA UCRAINI ABBATTONO AEREO DI LINEA AMSTERDAM - KUALA LUMPUR [DOSSIER 2014]

LA USTICA UCRAINA – UN ANNO DOPO [JUGOINFO 2015]

NOME E COGNOME DELL'AVIERE UCRAINO CHE HA ABBATTUTO IL VOLO MH17 / Malaysian Boeing hit by an Ukrainian pilot [JUGOINFO 2015 / Non-notizie n.9]

VOLO MH17: IL REGIME EUROPEISTA UCRAINO LO HA FATTO ABBATTERE ED HA CERCATO DI ADDOSSARE LA COLPA ALLA RUSSIA PER AGGRAVARE LA CRISI [JUGOINFO 2017]


Il volo MH17, l'Ucraina e la nuova guerra fredda (PTV News 05.09.17)
VIDEO: https://youtu.be/ulwVERDW-Tk?t=4m40s


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Ucraina: russi abbatterono volo Malaysia (ANSA 24 maggio 2018)
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2018/05/24/ucraina-russi-abbatterono-volo-malaysia_2dd2374c-ccd7-4622-b7c7-fb4a7f7a6a13.html
BUNNIK (OLANDA), 24 MAG - Fu lanciato da forze russe il missile antiaereo Buk che nel 2014 nei cieli dell'Ucraina orientale abbattè il volo di linea MH17 della Malaysia Airlines diretto dall'Olanda a Kuala Lumpur con 298 persone a bordo: a questa conclusione è giunto il team di investigatori internazionali che da quasi quattro anni indaga su quel disastro sulla base di un dettagliato esame di immagini video. La Russia ha sempre negato un suo coinvolgimento.

Il Punto di Giulietto Chiesa: "Un'inchiesta invalida" (PandoraTV, 26 mag 2018)

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Boeing MH17: la Malaysia mette in discussione le “conclusioni” del Team “investigativo” internazionale

di Fabrizio Poggi, 01/06/2018
 
Sembra riaprirsi la questione del Boeing 777 della Malaysia Airlines, abbattuto sul Donbass nel luglio 2014 mentre era in volo da Amsterdam a Kuala Lumpur sulla rotta MH17. E, forse non a caso, ciò avviene sullo sfondo di rapporti internazionali, alcuni in continua evoluzione e altri nemmeno tanto “tranquilli”. Solo per citare le ultime mosse: l'incontro a sorpresa tra il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e Kim Jong Un a Pyongyang, in vista del prossimo vertice USA-RPDC del 12 giugno a Singapore, per un verso; la disputa commerciale USA-UE per i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, forse non ancora una guerra, ma con buone probabilità di causare scossoni nel panorama mondiale, dall'altro. E si riapre, la questione del Boeing, guarda caso, immediatamente dopo la messinscena “evangelico-mediatica”di Kiev, che ha obbligato anche i più imperterriti ammiratori degli euronazisti ad ammettere che, forse, come minimo, l'etica giornalistica stia da un'altra parte e tutto quello che dicono a Kiev vada forse letto alla luce delle mosse e della nazipolitica ucraine.
 
Dunque, appena la scorsa settimana aveva campeggiato sui media la sparata australiano-olandese che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto costituire “l'ultima parola” a conclusione delle – ci si passi il termine - “indagini internazionali” sull'abbattimento del Boeing civile e sancire l'ennesimo “ha stato Putin”; ma ecco che ieri la maggior parte delle agenzie riportavano la notizia secondo cui, il 30 maggio, il Ministro dei trasporti malese Anthony Loke aveva dichiarato a Channelnewsasia che “non ci sono prove conclusive per confermare che la Russia sia responsabile per l'abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines”, costato la vita a 298 persone, di dieci diverse nazionalità.
 
Ecco che, nemmeno una settimana dopo l'annuncio delle “conclusioni” della JIT (Joint Investigative Team: Australia, Olanda, Belgio, Malaysia, Ucraina) secondo cui il razzo “Buk” che aveva abbattuto l'aereo malese non sarebbe stato sparato dalle truppe ucraine, bensì da un reparto della 53° brigata missilistica russa che scorrazzava su e giù tra Kursk e la frontiera ucraina. Uno dei se sistemi-razzo “Buk” in dotazione alla brigata, il numero 332, sarebbe stato spostato verso il Donbass e, da lì, avrebbe sparato. Per quanto riguarda le colpe, ha detto Loke, e "chi sia responsabile - non si può semplicemente puntare il dito sulla Russia"; e ha aggiunto che “ogni ulteriore azione sarà basata su prove conclusive”, tenendo conto “delle relazioni diplomatiche". Dopo le “conclusioni” esternate il 24 maggio congiuntamente da Amsterdam e Canberra, Vladimir Putin aveva detto che la Russia non le riconoscerà, finché non saranno ammessi alle indagini anche esperti russi e aveva ribadito che Mosca ha sempre, “sin dall'inizio, proposto un lavoro congiunto per investigare sulla tragedia”. Proposta, peraltro, sempre respinta, non solo da Kiev, ma anche dai suoi tutori d'oltreoceano.
 
Un discorso, quello di Putin, appena appena (si far dire!) un più serio delle accuse (e cosa altro ci sarebbe stato da aspettarsi?) lanciate contro Mosca dal SBU golpista e “appena appena” un po' più logico del cervellotico percorso ipotizzato congiuntamente da Bellingcat, The Insider e McClatchy per addossare la colpa alla Russia, secondo cui il “Buk” responsabile dell'abbattimento sarebbe rientrato in territorio russo passando per Debaltsevo e Lugansk, dovendo quindi percorrere almeno 250 km, per la maggior parte controllati all'epoca dalle forze ucraine, quando invece, dal luogo del presunto lancio (il Boeing era precipitato nell'area del villaggio di Grabovo, poco sopra Torez, una settantina di km a est di Donetsk) fino alla frontiera russa ci sarebbero stati appena un paio di decine di km, per di più da percorrere in territorio controllato dalle milizie.
 

Tra l'altro, oltre a non prendere mai in considerazione le varie ipotesi avanzate da esperti stranieri, dai tecnici russi della società produttrice del sistema missilistico presunto responsabile della tragedia, le testimonianze di aviatori e piloti ucraini, insomma, niente che potesse adombrare il minimo dubbio sulle responsabilità ucraine, Kiev non ha nemmeno mai risposto alla semplice domanda sul perché non avesse provveduto a chiudere ai voli civili il corridoio aereo sopra una zona di guerra.
 
L'impressione insomma è che, dopo la figura meschina consumatasi mercoledì pomeriggio a Kiev, al briefing congiunto SBU-Procura-ATR tataro, la credibilità ucraina faccia fatica a esser sostenuta anche dai più incalliti filogolpisti di mezzo mondo, ai quali ora, nota Vsepodrobnosti.ru, non resta altro che mettersi a insinuare dubbi su “corruzione, finanziamento del terrorismo e amicizia con Putin” del povero Ministro malese, che ha osato avanzare un legittimo e timido dubbio su “conclusioni” così affrettate e di parte.
 
Un dubbio che appare quantomeno problematico accantonare, specialmente ora, dopo il discredito sul SBU di Vasilij Gritsak e la Procura dell'elettrotecnico Jurij Lutsenko, che loro stessi si sono auto-assicurati; senza parlare della credibilità mediatica del “resuscitato” Arkadij Babcenko, su cui è il caso di stendere l'evangelico sudario del novello Lazzaro.
 
Un dubbio così forte che già anche il Ministro degli esteri olandese Stef Blok, fino a due giorni fa convintissimo delle responsabilità russe, ha detto ieri di non escludere la possibilità che Kiev, nonostante al momento non esistano “seri fondamenti giuridici”, venga chiamata a rispondere della tragedia.

Oltre alle reazioni di OSCE, politologi britannici e francesi, Ministro degli esteri belga Didier Reynders, si sprecano i commenti di giornalisti occidentali – The Washington Post, Financial Times, Channel 4, Deutsche Welle– che esprimono “sdegno” per il discredito gettato in tal modo su giornalisti, agenzie di stampa, redattori, commentatori e, in generale, sull'intera categoria giornalistica dalla “manipolazione operata dai Servizi ucraini, con cui”, come ha detto il Segretario generale di Reporters Sans Frontières, Kristof Deluar, “essi hanno dato inizio a una nuova guerra informativa”. 
 
Ma, forse, come si dice, “non tutto il male vien per nuocere”.


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VOLO MH17: MORTO SUICIDA IL PILOTA ACCUSATO DELL'ABBATTIMENTO (19.03.2018)
... Il capitano Vladislav Voloshin, 29 anni - che all'epoca del conflitto in Ucraina colpiva le posizioni dei ribelli filorussi nel Dombass ed è considerato un eroe nazionale - ha sempre negato l'accusa russa... L'uomo di recente era passato dai voli operativi alla direzione dell'aeroporto Mikolaiv, vicino al Mar Nero, da dove, secondo la polizia ucraina, si è sparato un colpo. La polizia di Mikolaiv descrive la sua morte come «suicidio», ma l'indagine, secondo la stessa polizia, viene condotta sotto la fattispecie di «omicidio premeditato».

Chi ha abbattuto il boeing malaysiano MH17 nei cieli di Ucraina? (PTV News 05.04.18)
Suicida il pilota ucraino Voloshin


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Ancora sul Boeing malese abbattuto in Ucraina

di Fabrizio Poggi11 ottobre 2017


Da mesi, molti mesi, è calato un ben comprensibile – da parte di chi ha interesse a tacere – silenzio occidentale sulla tragedia del Boeing malese MH17, abbattuto il 17 luglio 2014 nei cieli del Donbas sopra l’area di Torez e costato la vita a 298 persone. “Inchieste” internazionali; commissioni “indipendenti” (con la partecipazione di funzionari ucraini); ricostruzioni sperimentali dell’accaduto che, escludendo la responsabilità delle milizie, non sono mai state prese in considerazione; testimonianze di avieri ucraini semplicemente ignorate e ignorate pure le circostanze secondo cui ogni satellite statunitense sarebbe stato in grado, in maniera elementare, di verificare le reali circostanze dell’accaduto…

Quante volte si è detto che, se i golpisti e i loro compari avessero avuto la benché minima idea di una responsabilità delle milizie delle Repubbliche popolari, i corifei liberal-occidentali della comunicazione di regime avrebbero battuto la grancassa a ripetizione. Invece nulla. Oblio. Omertà.

Il silenzio è stato rotto, ancora una volta, da un ex-militare ucraino, Roman Labusov, tenente-colonnello transfuga da pochi giorni verso le milizie della DNR. Nel corso di una conferenza stampa, Labusov ha detto di essere in possesso di materiali segreti del Servizio di sicurezza ucraino (SBU), relativi principalmente all’abbattimento del Boeing malese e alle ripetute visite di funzionari e alti esponenti politici USA in Ucraina. Nel corso della conferenza stampa, di cui Russkaja Vesna mostra alcuni momenti, Labusov, che era a capo del settore cifra del SBU, alla precisa domanda di un giornalista sulle responsabilità per la tragedia del volo MH17, non indica soggetti concreti, ma in modo eloquente afferma che le indicazioni dei vertici politici golpisti e dei Servizi segreti erano quelle di “non indagare sul crimine, ma mettere insieme dettagli secondo cui l’aereo fosse stato abbattuto dalle milizie della DNR. Perciò, tutti i fatti erano semplicemente messi da parte”. Labusov ha affermato non esserci dubbi sul fatto che l’attacco all’aereo civile fosse un’operazione accuratamente pianificata e ben indirizzata.

Da parte sua, Rossijskaja Gazeta scrive di un altro ex-ufficiale ucraino, il maggiore Jurij Baturin, il quale avrebbe dichiarato in tv che il Boeing fu abbattuto da un razzo contraereo “Buk” lanciato dalle forze ucraine e, precisamente, da una batteria in servizio al 156° battaglione “Città di Zolotonoša”, proprio in quei giorni dislocato nell’area da cui, secondo ogni ipotesi, sarebbe stato lanciato il missile. Sul fatto che quel settore, nelle vicinanze del villaggio di Zaroščinskoe, al momento dell’abbattimento fosse controllato dalle truppe di Kiev, secondo il Procuratore generale della DNR, Roman Belous, è ora dimostrato da nuove prove. 

Accanto alle stragi di civili nel Donbass, accanto agli assassinii di militanti comunisti e di sinistra, accanto alle sfilate SS e alla “desovietizzazione”, sono queste le “gesta” dei golpisti ucraini, ai cui vertici anche l’italica “sinistra” di governo non disdegna di stringere la mano.


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Anniversario dell’abbattimento del volo MH-17

di Stefano Orsi, luglio 2017

Noto che nessuno ha ricordato l’abbattimento del volo MH17 avvenuto ormai tre anni fa.
Ancora si dibatte sulle responsabilità, cercando di addossarle di volta in volta alla Russia o agli indipendentisti novorussi del Donbass. Restano a nostra disposizione pochi dati certi.

Il primo di questi è che fino ad allora, nessuna batteria antiaerea complessa e sofisticata come il BUK era mai stata utilizzata e neppure data per catturata dai combattenti del Donbass, anzi pochissimi giorni prima, il ministro ucraino aveva confermato che nessuna batteria Ucraina fosse stata catturata dai “ribelli”.

Secondo fatto: fino a quel momento nessun aereo ed elicottero ucraino era mai stato abbattuto se non con mezzi spalleggiabili, di portata limitata, o armi convenzionali come le mitragliatrici antiaeree.

Terzo fatto: per utilizzare una simile batteria antimissile, occorre personale altamente specializzato, in genere vi sono alcuni ingegneri elettronici, che utilizzano la batteria radar di puntamento e trasmettono le informazioni al sistema di lancio che poi provvede all’abbattimento, non è certo cosa che possa fare un minatore incazzato.

Quarto fatto:data la penuria di mezzi a disposizione, l’esercito ucraino, non poteva più schierare sul fronte caccia bombardieri, per cui una batteria antiaerea di quella portata sarebbe stata assolutamente inutile alle forze ribelli.

Quinto fatto: gli unici ad aver schierato in zona batterie antiaeree, erano le forze ucraine, le avevano dislocate nelle retrovie del fronte per difendere le truppe in avanzata verso le principali città ribelli, temendo un attacco aereo da parte russa, non smisero mai di giustificare i loro insuccessi mentendo sulla presenza al fronte di truppe russe regolari, notizia smentita più e più volte dagli stessi ispettori OSCE che controllavano i varchi di frontiera.

Sesto fatto: tutte le “prove” mostrate dagli ucraini a sostegno delle loro accuse contro i russi, registrazioni telefoniche, fotografie ed altre, si rivelarono dei clamorosi falsi.

Settimo fatto: le autorità russe misero immediatamente a disposizioni delle autorità inquirenti, tutte le registrazioni ed i tracciati radar in loro possesso.

Ottavo fatto: Le autorità ucraine si rifiutarono da subito di fornire i tracciati radar ed ogni registrazione di dialoghi con l’aereo abbattuto.

Nono fatto: i patrioti del Donbass, sospesero ogni attività bellica nella zona dove precipitarono i resti dell’aereo, zona molto vicina al fronte dei combattimenti, per permettere agli inquirenti ed investigatori internazionali di presenziare subito all’esame dei resti dell’aereo, e li scortarono per difenderli da eventuali agguati delle forze ucraine.

Decimo fatto: Le forze di invasione ucraine, non sospesero gli attacchi anche e soprattutto nelle zone dove caddero i resti dell’aereo, e come testimoniato dalle autorità internazionali inviate sul posto, dovettero sospendere i lavori a causa dei vicinissimi colpi di artiglieria sparati dagli ucraini.

Undicesimo fatto: volendo riassumere la vicenda, la sola presenza provata e certa di batterie di BUK era degli ucraini nelle retrovie del fronte, presenza certificata da loro stessi in funzione antirussa. Nessun missile BUK era mai stato lanciato dai patrioti del Donbass in precedenza, ne mai ne venne lanciato alcuno successivamente. Nessuna batteria di missili è mai stata data per catturata dai ribelli in precedenza, solo successivamente ai fatti le autorità ucraine dissero che ne avevano persa una catturata dai ribelli e lo fecero tardivamente. Nessuna infiltrazione di batteria AA russa è stata osservata o provata nel settore del Donbass e ogni traiettoria era incompatibile con un missile lanciato dal suolo russo o dal territorio ancora libero del Donbass. Le autorità russe o del Donbass, collaborarono immediatamente con gli inquirenti internazionali, mentre le autorità ucraine ostacolarono platealmente ogni indagine. Ogni movente per il lancio di un missile contro un aereo civile, si risolve in un tentativo da parte ucraina di far ricadere la colpa sui “ribelli” del Donbass o direttamente sui russi, tentativo fallito in quanto i resti dell’aereo caddero in un settore vicinissimo al fronte ma ancora libero e presidiato da truppe novorusse, che permisero agli inquirenti di recarsi immediatamente sul posto, aggiungo che le scatole nere, trovate, vennero immediatamente consegnate ed integre, è da notare come mai ci vennero fatte ascoltare le registrazioni dei dialoghi dei piloti, ne tanto meno alcuna trascrizione dei medesimi, mentre in ogni altra occasione queste vennero rese subito disponibili.

Pertanto , in conclusione, direi che se gli unici missili nel settore erano ucraini, e gli unici ad avere un movente chiaro per causare questo tipo di incidente fossero gli ucraini, direi che vi siano pochi dubbi su chi sia stato a commettere il fatto, il resto è tutta fuffa politica per giustificare le concessioni e l’integrazione di un paese criminale nell’Unione Europea.

Resta certo che i morti, 295, attendono che si dia loro almeno la giustizia della verità sulla loro fine, invece di specularci sopra per i soliti giochi di guerra fredda che vediamo troppo spesso.


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ORIG.: Kiev Regime Conducted Special Operation to Destroy Malaysian Airlines Flight MH17 (PravdaReport 29 June 2017 / Global Research, June 30, 2017)



Kiev ha abbattuto il volo MH17 delle Malaysian Airlines

4 luglio 2017

Pravda, 29 giugno 2017 – Global Research

Il quotidiano Sovershenno Sekretno prosegue l’indagine sull’abbattimento del Boeingmalese sul Donbas, pubblicando un’altra serie di documenti che attribuisce a Kiev la colpa della tragedia. I giornalisti hanno ottenuto una mappa, un piano di volo segreto, steso e firmato personalmente, il giorno prima del volo, 16 luglio 2014, dal pilota della 299.ma Brigata aerea tattica capitano Vladislav Voloshin. Il piano fu approvato dal comandante dell’unità militare A4104, colonnello Gennadij Dubovik. L’Ucraina ancora afferma che alcun aereo militare volò nella zona il giorno in cui si verificò la tragedia. Tuttavia, i documenti appena pubblicati dimostrano che gli ufficiali ucraini mentono. Pravda ha avuto una breve intervista con Sergej Sokolov, caporedattore di Sovershenno Sekretno.

“Questa volta il materiale è ampio, ci sono copie scansionate di documenti e trascrizioni delle conversazioni coi piloti dell’aviazione ucraina. È noto che l’Ucraina usò i suoi aerei da guerra quel tragico giorno. Cosa dicono le informazioni appena scoperte?”
“Questi documenti dimostrano che ci furono ordini per l’impiego degli aerei da combattimento. Le conversazioni coi militari della divisione aerea di Chuguev testimoniano che ci furono delle sortite. Cerchiamo di essere oggettivi, ma sappiamo che la versione promossa dalla commissione internazionale nei Paesi Bassi prevale, secondo cui fu un sistema missilistico russo Buk che abbatté l’aereo. Crediamo che tale versione sia faziosa e non credibile perché i documenti che pubblichiamo testimoniano che ci furono altri fatti da considerare e analizzare attentamente da parte della commissione internazionale nei Paesi Bassi”.

“Come avete avuto queste informazioni?”
“In modo rigoroso, quando abbiamo ricevuto registrazioni audio delle conversazioni coi militari dell’unità aerea di Chuguev, fu chiaro che una persona sconosciuta gli parlò e fece queste registrazioni. In generale, fu un’operazione speciale per documentare i reati commessi dalle forze armate ucraine”.

“Pensi che la distruzione del Boeing della Malaysia Airlines fu un’operazione ben pianificata?”
“Secondo i documenti che abbiamo pubblicato, l’SBU ucraino parla della distruzione come dovuta a un’operazione speciale. Tale conclusione è possibile”.

“Cosa puoi dirci di chi ordinò la distruzione dell’aereo di linea?”
“Se fu un’operazione speciale statale, è chiaro che riguarda l’amministrazione ucraina. Nel nostro articolo notiamo una strana coincidenza. Alla vigilia della tragedia, due alti funzionari dell’amministrazione ucraina visitarono l’unità aerea di Chuguev: Jatsenjuk, poi primo ministro dell’Ucraina, e Parubij. Visitarono anche la brigata aerea tattica di Nikolaev. Parlando in senso stretto, fu una coincidenza, ma abbiamo pubblicato una foto in cui Jatsenjuk appare accanto al velivolo SU-25 08, l’aviogetto che il capitano Voloshin avrebbe pilotato, secondo il piano di volo”.

“C’è qualche speranza che il tuo materiale influenzi l’inchiesta nei Paesi Bassi?”
“Mi piacerebbe molto crederlo, perché mi fa davvero male vedere persone plaudire il dilettantismo di Bellingcat con articoli dalle foto manipolate”.



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Facts withheld of Malaysian airlines crash

[Excerpt from: Russian trucks deliver food and aid — and leave

By Sara Flounders on August 28, 2014

http://www.workers.org/articles/2014/08/28/russian-trucks-deliver-food-aid-leave/ ]


(...) Notable for its absence in the corporate media is any mention of the July 17 downing of Malaysian Airlines Flight MH17 over Ukrainian territory, killing all 298 people on board.

At that time, and without any evidence, all U.S. and NATO officials immediately blamed Russia and the Ukrainian rebels in eastern Ukraine for shooting down the Boeing 777. They used this charge to whip the European Union into imposing sanctions on the Russian economy.

On Aug. 11, the Dutch Safety Board announced that a preliminary report would be published in a week with the first factual finding of the ongoing investigation into the flight that departed from Amsterdam and crashed in Ukraine. The Netherlands was given custody of the flight data recorder, or black box recordings, from the crash.

As of Aug. 25, the Dutch government has refused to release the recordings. (RIA Novosti, Aug. 25) This, of course, immediately raises suspicions that the Kiev junta forces were responsible for the crash.

Questions had already been raised of why the Kiev forces would have placed numerous BUK anti-aircraft batteries in the area when the rebels have no planes, why the Malaysian flight was diverted hundreds of miles by Kiev ground control over the battle zone, and why Kiev air traffic control data and radar data of the flight have still not been made ­public.

Did the Ukrainian military shoot down the passenger plane simply to create a provocation that could be turned against the rebels in east Ukraine and Russia?

Demands for an independent inquiry into the crash are growing. One petition raises the danger of the U.S. expansion of NATO and military encirclement of Russia and posed the possibility that Flight MH17’s crash resulted from an attempt to assassinate Russian President Vladimir Putin, whose aircraft was returning from South America the same day.

The media’s silence now and the absence of U.S. officials providing any concrete evidence in over a month from their own spy satellites or radar add fuel to the growing questions and deep suspicions of the Kiev coup regime’s role in the crash and the growing danger of U.S./NATO military expansion.




(english / italiano)

Crisi mediterranee /2: CIPRO

* In migliaia marciano per la pace a Cipro (da Avante.pt)
* RESOLUTIONS of the Pancyprian Peace March 
 – on the Situation in the Area
– on the Cyprus Problem
* Salute Message from The Belgrade Forum for a World of Equals to the Organizers and Participants of Pancyprian Peace March 2018
* Cipro: unità o partizione? I conservatori vincono le elezioni, ma i comunisti tornano a rafforzarsi (P. Rizzi  10/02/2018)


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In migliaia marciano per la pace a Cipro

21 Giugno 2018

da avante.pt

Traduzione di Mauro Gemma

Migliaia di ciprioti greci e ciprioti turchi hanno preso parte alla marcia della pace pan-cipriota organizzata dal Consiglio di pace di Cipro, che ha espresso la richiesta di pace a Cipro e nel mondo.

Un sole splendente e il rumore dei caccia britannici che sorvolavano la manifestazione non hanno infranto la volontà dei manifestanti di percorrere i quasi cinque chilometri della marcia verso la base militare britannica ad Akrotiri vicino a Limassol - base da cui i caccia britannici sono decollati per bombardare la Siria e il suo popolo.

La marcia ha rappresentato un'importante condanna degli interventi e delle guerre imperialiste della NATO, attraverso la denuncia e il rifiuto dell'uso di Cipro, vale a dire delle basi militari britanniche installate in questo paese, come piattaforma per il lancio di operazioni di aggressione contro i popoli del Medio Oriente.

I manifestanti hanno chiesto il ritiro di tutte le forze militari straniere da Cipro, comprese le forze di occupazione turche - che continuano ad occupare illegalmente quasi il 40 per cento del territorio di Cipro -, lo smantellamento delle basi militari britanniche in quel paese, nonché lo scioglimento della NATO.

Davanti ai cancelli della base britannica sono stati distribuiti simbolicamente giubbotti di salvataggio e una barca gonfiabile, come denuncia delle morti di migliaia di persone nel Mar Mediterraneo, mentre fuggono dagli orrori delle guerre provocate dalle aggressioni degli Stati Uniti, della NATO e dei suoi alleati.

Prima dell'inizio della marcia si è svolta una manifestazione politico-culturale alla quale hanno partecipato rappresentanti di Spagna, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Palestina, Serbia, Siria, nonché il Consiglio mondiale per la pace e il Consiglio portoghese per la pace e cooperazione.

Contro le guerre dell'imperialismo

Anche Andros Kyprianou, segretario generale del Comitato centrale di AKEL (Partito del Popolo Lavoratore di Cipro), ha preso parte all'iniziativa, sottolineando l'importanza della lotta per la pace e contro le guerre dell'imperialismo, "che sta dividendo e ridisegnando il mondo, ridefinendo ripetutamente confini e spargendo il sangue dei popoli”.

Ricordando che l'orrore della guerra si trova letteralmente dalle parti di Cipro, Andros Kyprianou ha denunciato la grave situazione nella Striscia di Gaza - dove oltre un milione di persone non gode dei diritti fondamentali a seguito dell'assedio e della repressione di Israele.

Il segretario di AKEL ha anche denunciato l'aggressione contro la Siria, dove oltre mezzo milione di persone sono state uccise negli ultimi otto anni, la guerra di aggressione contro lo Yemen, dove l'orrore della guerra e della distruzione affligge milioni di persone e ha ricordato i milioni di sfollati e rifugiati, compresi i bambini.

Kyprianou ha denunciato e criticato l'atteggiamento connivente del governo cipriota per l'aggressione contro la Siria e il suo silenzio in merito all'uso delle basi militari britanniche installate nel paese per attaccare la Siria e il suo popolo.

Il segretario generale di AKEL ha anche ribadito che la via verso la fine dell'occupazione e la riunificazione di Cipro è la soluzione federale bizonale e bicomunitaria.


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RESOLUTION OF THE PANCYPRIAN PEACE MARCH 
ON THE SITUATION IN THE AREA


Sunday 10 June 2018

• The peoples of the wider region are witnesses to the tensions imperialist aggression is provoking daily, which is expressed in the waging of new wars and interventions. The continuous violation of International Law and of the UN Charter can be added to the existing unresolved international problems, as well as the catastrophic consequences which the wars in Iraq, Afghanistan and Libya have provoked. We demand an immediate end to the hostilities in the area. The drastic and dangerous militarization has made our region a theatre of geopolitical and energy confrontations of our times. The peoples are paying the price of the competition for the control of the energy reserves, pipelines and commercial routes with their blood and uprooting as refugees.

• We denounce the bloodshed and all the foreign interventions in Syria and demand the respect of the territorial integrity, unity and sovereignty of the country.. We express our solidarity with the suffering people of Syria who is has been subjected for several years to the military intervention of the US-NATO-Turkey and the Gulf Monarchies, aiming at the overthrow of the country's government and the promotion of the geopolitical and energy plans of the West.

• We condemn the new wave of murderous aggression conducted by the State of Israel against the people of Palestine, which is being cultivated by the inflammatory US policy. We demand the termination of the Israeli occupation and colonization in Palestine, the end to the inhuman and illegal blockade of Gaza, the release of the political prisoners and demolition of the Wall of Shame. We stand in solidarity with the struggle of the Palestinian people for the establishment of an independent and sovereign Palestinian state on the 1967 borders and with East Jerusalem as the capital that will coexist peacefully next to the State of Israel. We call on the EU to freeze the Association Agreement and cancel any kind of inter-state military co-operation with Israel.

• We condemn the ongoing 4 year military raid of Saudi Arabia against Yemen, which has caused one of the greatest humanitarian crises in the world and brought enormous destruction in the country’s already rudimentary infrastructures. We condemn the silence shown by international organizations and the global mass media surrounding the developments in this dirty war and we vehemently denounce the sale of arms to Saudi Arabia by a number of Western countries.

• We denounce the aggression waged by the Turkish state both internally, as well as against neighboring states. We are struggling for a solution of the Cyprus problem that will lead to the termination of the Turkish occupation and division of Cyprus; to the liberation and reunification of the island and people of Cyprus; to the peaceful coexistence of Greek Cypriots and Turkish Cypriots in their common homeland on the basis of the agreed framework of bicommunal, bizonal federation.

• We are fighting for the dissolution of all the foreign military bases in the countries of our region, which operate as launching pads for conducting raids and interventions against our peoples. We denounce the use and involvement of the British bases in Cyprus in imperialist raids and the existence of the spying facilities on the island. We are struggling for the abolition of the British bases in Cyprus and the full demilitarization of the island.

• We demand that our region free itself from nuclear weapons and call for the convening of a UN Conference that will proclaim the Middle East a region free of weapons of mass destruction, including Turkey which has nuclear weapons on its territory. We denounce the US decision to unilaterally withdraw from the Iran nuclear program agreement and condemn the cover-up provided to the State of Israel, which has a nuclear arsenal and refuses to sign the Nuclear Non-Proliferation Treaty.

• We call for solidarity and the humane treatment for refugees coming from the countries of the region. We demand the replacement of the military operations to suppress the refugee flows with search and rescue operations in order so that the ongoing tragedies in the Mediterranean be reduced. We call demand from the EU the establishment of legal and safe routes for asylum seekers and a permanent mechanism for accommodating refugees in all the EU Member States, depending on their possibilities. We denounce the "externalization of the control of EU borders" by means of agreements with neighboring states so that the refugees are kept outside Europe by any means.

• We denounce the extensive arms trade conducted by EU Member States to countries at war and authoritarian regimes of the Middle East, an element which fuels or/and provokes the tensions, conflicts and bloodshed.

• We affirm that the peoples of our region have nothing to divide between them. Our common enemy is imperialism which generates wars, chauvinism and militarism. The struggle for the respect of International Law, for peace, for the recognition of the right of every people to determine the future of its country is the path of struggle which unites the peace-loving movements and peoples of our neighborhood.


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RESOLUTION OF THE PANCYPRIAN PEACE MARCH 
ON THE CYPRUS PROBLEM 

10 June 2018

"The liberation and reunification of Cyprus as a stage of struggle against imperialist aggression and for world peace"

The Cyprus Peace Council, political parties, movements and people participating in the Peace March which is taking place today 10 June 2018, considering that the current partitionist status quo continues to crush any prospect for real peace, prosperity and progress for the Cypriot people as a whole, Greek Cypriots and Turkish Cypriots, and that the effort to reach a solution of the Cyprus problem is a stage of struggle against the generalized imperialist aggression which humanity and our entire region is facing very violently, concludes the following:

1. Points out that the creation and perpetuation of the Cyprus problem is the result of illegal foreign interventions and plans seeking the control of the Eastern Mediterranean region and the wider region of the Middle East. Denounces that 44 years after the twin crime committed in July 1974 - namely the treacherous coup d’état and the illegal Turkish invasion engineered by the NATO powers in full co-operation with undemocratic forces in Cyprus - the Cyprus problem remains unresolved. At the same time, it also denounces the support towards the consolidation of the status quo by anyone from whatever quarter, since this is how the final partition of Cyprus is promoted that serves first and foremost Turkey, which continues to occupy 37% of the territory of the Republic of Cyprus.

2. Stresses that the unwavering goal remains the liberation and reunification of Cyprus and its people.

3. Demands the immediate withdrawal of the occupying Turkish troops from Cyprus, the termination of the anachronistic and imposed Treaty of Guarantee and any intervention rights, as well as the demilitarization of the Republic of Cyprus on the basis of the unanimous decisions of the National Council of 1989 and 2009, and numerous resolutions adopted by the UN Security Council.

4. Considers that the dismantling of the British bases is an integral part of the struggle our people is waging to regain their territorial integrity and the unimpeded exercise of its state sovereignty. At the same time, it underlines that the characterization of the bases as "sovereign" reflects unacceptable remnants of a colonial regime, illegal according to international law. Considers that the two communities, with the Cyprus problem solved, can together more effectively continue the struggle for the withdrawal of the Bases.

5. Stresses its support for a bicommunal, bizonal federal solution based on International Law, the UN Security Council resolutions on Cyprus, the High-Level Agreements and EU principles; Reaffirms that the solution of the Cyprus problem, as provided by the joint communiqués of the leaders of the two communities and the agreed convergences, will safeguard that there is a one state in Cyprus with a single sovereignty, a single international personality and a single citizenship, an independent and territorially integral state, consisting of two politically equal communities as provided for in the relevant UN Security Council resolutions. The solution must exclude the union of all or part of the island with any other state, as well as any form of partition, secession or annexation by another state.

6. Underlines that the solution of the Cyprus problem must safeguard the human rights and fundamental freedoms of all Cypriots, while expressing concern about the existing treatment of the enclaved persons. At the same time, denounces the Turkish side's long-standing reluctance to cooperate to the greatest possible degree for the completion of the effort to verify the fate of the missing persons, and calls on all to contribute to this procedure.

7. Supports that the appropriate way of achieving a peaceful, just, mutually acceptable and viable solution to the Cyprus problem continues to be through substantive intercommunal talks under the auspices of the UN. It points out that the unsuccessful ending of the talks in Crans Montana last July has led the Cyprus problem to a dangerous stalemate, while at the same time underlining that the way to avoid the final deadlock and for the negotiations to resume is the one proposed by the UN Secretary-General in the Report he submitted last September.

8. Warns that the continuation of the deadlock in the talks consolidates dangerously the fait accompli of the occupation and leads us step by step towards the final partition. It therefore calls for the immediate resumption of the negotiations as a necessity and calls on the leaders of the two communities to work together and substantially in this direction.

9. Demands from Turkey that it ceases to engage in divisive policies against the Republic of Cyprus and the Cypriot people, as well as to put an end to any action that inflames the climate and limits the chances of resuming the dialogue.

10. Calls on the international community to show solidarity with the struggles of the Cypriot people, support the effort for the resumption of the dialogue and finding a solution on the agreed basis and to exert all possible influence within this framework on Ankara.

11. In conclusion, it once more reiterates that the solution of the Cyprus problem is the only real guarantee for the consolidation of peace in Cyprus and creation of prospects for sustainable prosperity and progress to the benefit of the Cypriot people as a whole, Greek Cypriots and Turkish Cypriots. At the same time, peace in Cyprus can become a beacon of hope for curbing the imperialist aggression in our region.


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Belgrade, June 3rd, 2018.
Nicosia, Cyprus

Dear Friends of Peace,
The Belgrade Forum for a World of Equals, as well as all friends of brotherly people of Cypruce, from Serbia, expresses their utmost solidarity with organizers and participants of Pancyprian Peace March 2018.
In this turbulent era of growing tensions, global mistrust and daily violations of international law we demand to end all ongoing wars, to stop bloodshed being committed against peoples of the region such as the peoples of Syria, Palestine, Yemen and others. We demand that all disputes be resolved by peaceful means only, through negotiations under the auspices of United Nations. Use of force or threat of use of force is contrary to UN Charter and never leads to just and sustainable solutions and therefore are absolutely unacceptable..
We join you in marching on the path of Peace in order to express our opposition to Cyprus being used through the British Bases as an aggressive launching pad. Foreign military bases are relics of the Cold War era and in the interest of peace and freedom should be dismantled.
We fully support just demands for the resumption of talks on the Cyprus problem and peaceful reunification of Cyprus, so that Cyprus becomes a bridge of peace, development and cooperation for the peoples of the region. 
We are eternally grateful for solidarity and great humanitarian assistance of the brotherly people of Cyprus to Serbian people in the years of Yugoslav Crises and 1999. NATO aggression.

Long live peace.
Long live eternal friendship and solidarity between Serbia and Cyprus.  

Zivadin Jovanovic
President of the Belgrade Forum for a World of Equals
B e l g r a d e
Serbia


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Cipro: unità o partizione? 
I conservatori vincono le elezioni, ma i comunisti tornano a rafforzarsi.

di Paolo Rizzi  10/02/2018

Il ballottaggio presidenziale a Cipro del 4 febbraio ha confermato Nicos Anastasiades col 55,99% dei voti. I democristiano dell’Alleanza Democratica (DISY) vincono così il secondo mandato consecutivo.

Lo sfidante era Stavros Malas, del Partito Progressista dei Lavoratori di Cipro (AKEL), la storica formazione comunista dell’isola. Malas è arrivato al secondo turno contro tutte le indicazioni dei sondaggi. Tra il primo e il secondo turno Malas è passato dal 30,24 al 44,01%. Questo recupero non è bastato a colmare lo svantaggio, anche per il sostegno dato dal terzo candidato, il liberaldemocratico Papadopoulos, al presidente uscente.

AKEL ha governato Cipro dal 2006 al 2013, evitando che durante la fase più pesante della crisi il paese finisse sotto il commissariamento della Troika, senza riuscire però a imporre una “uscita a sinistra dalla crisi”

Il presidente Anastasiades ha ottenuto dai creditori internazionali dei notevoli aiuti e l’economia cipriota è tornata a crescere a ritmi sostenuti, oltre il 4%. Una crescita che però corrisponde a un calo solo parziale della disoccupazione. Dai massimi del 16%, la disoccupazione è scesa tra il 10 e l’11%, con molte variazioni stagionali dovute al turismo. La disoccupazione giovanile resta oltre il 20%.

Il processo di pace

L’altro grande tema è ovviamente il processo di pace con la parte Nord dell’isola, tutt’ora occupata dalla Turchia. Nello stato fantoccio del Nord si sono svolte elezioni parlamentari a Gennaio, vinte dai partiti nazionalisti turchi, che hanno ora una maggioranza di 26 seggi su 50. I partiti socialdemocratici e della sinistra radicale favorevoli al processo di pace sono invece arretrati. La sinistra radicale non ha ottenuto nessun seggio.

Per il presidente Anastasiades è quindi ora più difficile resuscitare i colloqui di pace, di fatto bloccati negli ultimi anni dall’intransigenza di Ankara. D’altra parte, AKEL accusa il presidente di lasciare gioco facile ad Erdogan. I comunisti ciprioti hanno recentemente attuato una svolta, sostenendo la soluzione federale a due zone proposta dalle Nazioni Unite, che include il ritiro delle truppe turche e la gestione totalmente cipriota dell’ordine, senza presenze straniere. L’AKEL considera questa l’unica soluzione praticabile per arrivare all’unificazione del paese e accusa i democristiani di DISY e i liberali di Papadopoulos di immobilismo, di far scivolare il paese verso una divisione definitiva tra Nord e Sud. Secondo i comunisti ciprioti, i partiti di governo parlano di una soluzione con uno stato unico non federale solo per non dover affrontare negoziati reali. Nel frattempo, Erdogan ha completato il suo tour diplomatico in Europa e porta avanti il suo intervento nel conflitto siriano invadendo il cantone curdo di Afrin e bombardando le posizioni del governo di Damasco.