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su Il Manifesto del 26.06.2018
Dagli Stati uniti all’Europa, la «crisi dei migranti» suscita accese polemiche interne e internazionali sulle politiche da adottare riguardo ai flussi migratori. Ovunque però essi vengono rappresentati secondo un cliché che capovolge la realtà: quello dei «paesi ricchi» che sarebbero costretti a subire la crescente pressione migratoria dai «paesi poveri».
Si nasconde la causa di fondo: il sistema economico che nel mondo permette a una ristretta minoranza di accumulare ricchezza a spese della crescente maggioranza, impoverendola e provocando così l’emigrazione forzata. Riguardo ai flussi migratori verso gli Stati uniti, è attualissimo ed emblematico il caso del Messico.
La sua produzione agricola è crollata quando, con il Nafta (l’accordo nordamericano di «libero» commercio), Usa e Canada hanno inondato il mercato messicano con prodotti agricoli a basso prezzo grazie alle proprie sovvenzioni statali.
Milioni di contadini sono rimasti senza lavoro, ingrossando il bacino di manodopera reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi, nei quali i salari sono molto bassi e i diritti sindacali inesistenti.
In un paese in cui circa la metà della popolazione vive in povertà, è aumentata la massa di coloro che cercano di entrare negli Stati uniti. Da qui il Muro lungo il confine col Messico, iniziato dal presidente democratico Bill Clinton quando nel 1994 è entrato in vigore il Nafta, proseguito dal repubblicano George W. Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vorrebbe ora completare su tutti i 3000 km di confine.
Riguardo ai flussi migratori verso l’Europa, è emblematico il caso dell’Africa. Essa è ricchissima di materie prime: oro, platino, diamanti, uranio, coltan, rame, petrolio, gas naturale, legname pregiato, cacao, caffè e molte altre. Queste risorse, sfruttate dal vecchio colonialismo europeo con metodi di tipo schiavistico, vengono oggi sfruttate dal neocolonialismo europeo facendo leva su élite africane al potere, manodopera locale a basso costo e controllo dei mercati interni e internazionali. Oltre cento compagnie quotate alla Borsa di Londra, britanniche e altre, sfruttano in 37 paesi dell’Africa subsahariana risorse minerarie del valore di oltre 1000 miliardi di dollari.
La Francia controlla il sistema monetario di 14 ex colonie africane attraverso il Franco CFA (in origine acronimo di «Colonie Francesi d’Africa», riciclato in «Comunità Finanziaria Africana»): per mantenere la parità con l’euro, i 14 paesi africani devono versare al Tesoro francese metà delle loro riserve valutarie.
Lo Stato libico, che voleva creare una moneta africana autonoma, è stato demolito con la guerra nel 2011. In Costa d’Avorio (area CFA), società francesi controllano il grosso della commercializzazione del cacao, di cui il paese è primo produttore mondiale: ai piccoli coltivatori resta appena il 5% del valore del prodotto finale, tanto che la maggior parte vive in povertà. Questi sono solo alcuni esempi dello sfruttamento neocoloniale del continente. L’Africa, presentata come dipendente dall’aiuto estero, fornisce all’estero un pagamento netto annuo di circa 58 miliardi di dollari. Le conseguenze sociali sono devastanti.
Nell’Africa subsahariana, la cui popolazione supera il miliardo ed è composta per il 60% da bambini e giovani di età compresa tra 0 e 24 anni, circa i due terzi degli abitanti vivono in povertà e, tra questi, circa il 40% – cioè 400 milioni – in condizioni di povertà estrema. La «crisi dei migranti» è in realtà la crisi di un sistema economico e sociale insostenibile.
L'arte della guerra. È stata fondamentalmente la strategia Usa/Nato a provocare «l’arco di instabilità» con le due guerre contro l’Iraq, le altre due guerre che hanno demolito gli Stati jugoslavo e libico, e quella per demolire lo Stato siriano
su Il Manifesto del 19.06.2018
I riflettori politico-mediatici, focalizzati sui flussi migratori Sud-Nord attraverso il Mediterraneo, lasciano in ombra altri flussi: quelli Nord-Sud di forze militari e armi attraverso il Mediterraneo. Anzi attraverso il «Mediterraneo allargato», area che, nel quadro della strategia Usa/Nato, si estende dall’Atlantico al Mar Nero e, a sud, fino al Golfo Persico e all’Oceano Indiano. Nell’incontro col segretario della Nato Stoltenberg a Roma, il premier Conte ha sottolineato la «centralità del Mediterraneo allargato per la sicurezza europea», minacciata dall’«arco di instabilità dal Mediterraneo al Medio Oriente». Da qui l’importanza della Nato, alleanza sotto comando Usa che Conte definisce «pilastro della sicurezza interna e internazionale». Completo stravolgimento della realtà.
È stata fondamentalmente la strategia Usa/Nato a provocare «l’arco di instabilità» con le due guerre contro l’Iraq, le altre due guerre che hanno demolito gli Stati jugoslavo e libico, e quella per demolire lo Stato siriano. L’Italia, che ha partecipato a tutte queste guerre, secondo Conte svolge «un ruolo chiave per la sicurezza e stabilità del fianco sud della Alleanza».
In che modo, lo si capisce da ciò che i media nascondono. La nave Trenton della U.S. Navy, che ha raccolto 42 profughi (autorizzati a sbarcare in Italia a differenza di quelli dell’Aquarius), non è di stanza in Sicilia per svolgere azioni umanitarie nel Mediterraneo: è una unità veloce (fino a 80 km/h), capace di sbarcare in poche ore sulle coste nord-africane un corpo di spedizione di 400 uomini e relativi mezzi. Forze speciali Usa operano in Libia per addestrare e guidare formazioni armate alleate, mentre droni armati Usa, decollando da Sigonella, colpiscono obiettivi in Libia. Tra poco, ha annunciato Stoltenberg, opereranno da Sigonella anche droni Nato. Essi integreranno l’«Hub di direzione strategica Nato per il Sud», centro di intelligence per operazioni militari in Medioriente, Nordafrica, Sahel e Africa subsahariana.
L’Hub, che diverrà operativo in luglio, ha sede a Lago Patria, presso il Comando della forza congiunta Nato (Jfc Naples), agli ordini di un ammiraglio statunitense – attualmente James Foggo – che comanda anche le Forze navali degli Stati uniti in Europa (con quartier generale a Napoli-Capodichino e la Sesta Flotta di stanza a Gaeta) e le Forze navali Usa per l’Africa. Tali forze sono state integrate dalla portaerei Harry S. Truman, entrata due mesi fa nel Mediterraneo con il suo gruppo d’attacco.
Il 10 giugno, mentre l’attenzione mediatica si concentrava sulla Aquarius, la flotta Usa con a bordo oltre 8000 uomini, armata di 90 caccia e oltre 1000 missili, veniva schierata nel Mediterraneo orientale, pronta a colpire in Siria e Iraq. Negli stessi giorni, il 12-13 giugno, faceva scalo a Livorno la Liberty Pride, una delle navi militarizzate Usa, imbarcando sui suoi 12 ponti un altro carico di armi che, dalla base Usa di Camp Darby, vengono inviate mensilmente in Giordania e Arabia Saudita per le guerre in Siria e nello Yemen. Si alimentano così le guerre che, unite ai meccanismi neocoloniali di sfruttamento, provocano impoverimento e sradicamento di popolazioni. Aumentano di conseguenza i flussi migratori in condizioni drammatiche, che provocano vittime e nuove forme di schiavitù. «Sembra che essere duri sull’immigrazione ora paghi», commenta il presidente Trump riferendosi alle misure decise non solo da Salvini ma dall’intero governo italiano, il cui premier viene definito «fantastico».
Giusto riconoscimento da parte degli Stati uniti, che nel programma di governo sono definiti «alleato privilegiato» dell’Italia.
“Questi non toccheranno mai più terra in Italia. La pacchia è stra-finita”. Nel vocabolario di Salvini le Ong (organizzazioni non governative) sono delle “navi da crociera”, “taxi” e persino “vice-scafisti”. Da togliere ovviamente di mezzo.
Inutile prendersela solo col leader della Lega e a tempo perso ministro dell’interno, nonché vice-premier. Lui è solo il megafono più sguaiato di una trasformazione oramai avvenuta nel fragile imperialismo continentale guida tedesca. Complice la crisi economica mai finita – dopo quasi 11 anni – aggravata dalle politiche di austerità e ora dall’esplosione di quella che era la camera di compensazione dell’Occidente (il G7, ora affossato da Trump), la direzione di marcia dell’Unione Europea sta velocemente delineandosi.
Il caso delle Ong è quasi rivelatore. Queste organizzazioni “umanitarie”, ufficialmente “non governative”, finanziate quasi sempre da potenti strutture finanziarie multinazionali (basta guardare il consiglio di amministrazione di Save the children Italia per farsi un’idea) e solo in minima parte dall’opinione pubblica di buoni sentimenti, sono state spesso, per un quarto di secolo, la “colonna civile” degli eserciti occidentali.
Intervenivano dopo una guerra o poco prima dell’attacco occidentale, inevitabilmente giustificato con “ragioni umanitarie” e la “difesa dei diritti umani”. Non tutte le Ong appartengono alla piccola galassia delle “milizie civili” occidentali; alcune sono effettivamente dei piccoli miracoli della solidarietà organizzata (Emergency è probabilmente la migliore espressione di questo sentimento).
Ma l’epoca in cui le Ong in generale erano benedette anche dai governi occidentali sembra decisamente finita. Il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, parla da tempo in modo pesantissimo di quelle impegnate nei salvataggi in mare nel Canale di Sicilia. “Fanno parte di un sistema profondamente sbagliato, che affida la porta d’accesso all’Europa a trafficanti che sono criminali senza scrupolo“.
Lo affianca una voce giudiziariamente autorevole come il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho: “quello che rende difficile il contrasto alle organizzazioni che gestiscono il traffico di migranti è il ‘disordine’ negli interventi. Questo determina l’impossibilità di avere appartenenti alla polizia giudiziaria sulle navi che vanno a recuperare i migranti“.
Il discorso di questi due alti magistrati è la versione “beneducata” del ciarpame salviniano, ma non se ne discosta di un millimetro per quanto riguarda l’obiettivo: in mare, d’ora in poi, ci devono essere soltanto i militari. Meglio ancora se “europei” e non solo italiani.
Se alziamo gli occhi dal nostro miserabile teatrino politico e guardiamo a quel che avviene a livello della Ue – fin qui considerata, erroneamente, in parte anche nella cosiddetta “sinistra radicale”, una sorta di bastiona della civiltà contro i rischi di riprecipitare nel fascismo (prima con Berlusconi, ora con Salvini) – la situazione appare assai chiara. Lungi dal considerare un barbaro senza scrupoli il mattatore leghista, i suoi metodi e i suoi obiettivi appaiono integralmente condivisi ai piani alti di Bruxelles.
Intervistato sull’argomento, il capogruppo del Partito Popolare Europeo (quello di Merkel, Rajoy e Berlusconi), Manfred Weber, non fa neppure finta di essere meno drastico: “Mi piace il fatto che con la sua dura decisione sull’Aquarius Salvini abbia fatto chiaramente capire che l’Italia non ne può più, che ha raggiunto il colmo. Un dato positivo. Sono pienamente d’accordo con lui. E lo ero anche con i muri eretti in Bulgaria e in Spagna. Finché ci saranno confini aperti per i migranti illegali questi continueranno ad arrivare”.
Non dice questo perché abbia qualche lontana nostalgia paranazista, ma per un motivo squisitamente economico: “i migranti africani non hanno le competenze lavorative che servono a paesi come Germania e Olanda. E la loro formazione sarebbe troppo costosa per l’Europa”. Quei paesi non hanno neanche pomodori da raccogliere, dunque vanno respinti e riportati nei paesi di provenienza, aumentando il numero dei militari europei impiegati in Frontex.
Di fronte a questa linea europea – Salvini la spiega a suo modo, per specularci meglio sopra, ma non è affatto una sua esclusiva “conflittuale” con la Ue – a nulla vale l’obiezione sollevata ad esempio dalla presidente di Msf Italia, Claudia Lodesani: “le navi delle Ong effettuano i soccorsi sempre in coordinamento con la Guardia Costiera. Ed infatti a bordo dell’Aquarius c’erano 400 persone precedentemente soccorse dalla Guardia Costiera italiana“.
E’ ovviamente verissimo. Ma non conta più nulla. Prima le Ong servivano, ora si devono togliere dai piedi, la parola passa ai militari.
Perché? E’ meglio non avere civili tra i piedi, quando si devono fare certe operazioni. Ne potrebbe risentire tutta la narrazione che descrive l’Unione Europea come un paradiso “umanitario”, dove si fanno rispettare i “diritti civili” anche a costo di bombardare qualcun altro.
Vladimir Petkovic è croato-bosniaco, ma è da tempo un consapevole cittadino svizzero, sa, certo meglio di molti altri, che occorre non alimentare i sentimenti ostili verso gli avversari, più che mai prima di giocare con la Serbia, forse per questo ha scelto come sede del ritiro insieme al suo vice Antonio Manicone, non una città scintillante della Russia di oggi, ma Togliatti, detta spesso in italiano Togliattigrad, la città dove una grande fabbrica della Lada-Vaz, Volžskij Avtomobilnyj Zavod, la Fabbrica Automobilistica della Volga, domina orizzonti di case popolari dalla profonda sobrietà socialista.
Per Petkovic sono certo il ricordo della sua gioventù jugoslava e probabilmente un luogo capace di permettergli di trasmettere ai giocatori qualche parola sull’importanza del lavoro operaio e della lotta dei sovietici contro il nazifascismo nella seconda guerra mondiale.
Tuttavia nella Svizzera ci son molti kossovari e quando Xherdan Shaqiri posta su Instagram le sue scarpe da gioco, una con bandiera svizzera e l’altra con quella kossovara, la provocazione diventa pericolosa. La partita inizia con gli elvetici confusi e spauriti e il serbo Mitrovic che al quinto minuto salta surclassando Schar e Akanji, incornando in rete e illudendo i suoi compagni che la Serbia possa avere gioco facile. Nel secondo tempo i rossocrociati, mettendo a frutto gli insegnamenti di Gianni Brera, ovvero difendendo la sconfitta e attendendo il momento opportuno per il contropiede, infilano così due volte i balcanici, raccogliendo una meritata vittoria.
Qui dovrebbe finire la cronaca della partita, ma purtroppo non è così, le reti sono dei kosovari Xhaka e Shakiri, che aveva anche colpito con un gran tiro l’incrocio dei pali e che nella rete al ’90 è stato lanciato da Mario Gavranović, ticinese di origini croato-bosniache e attaccante della Dinamo Zagabria, di più, Xhaka e Shakiri hanno esultato facendo a doppie mani il simbolo dell’aquila albanese, irridendo i serbi e inneggiando al separatismo etnico, Petkovic ha deplorato il fatto, la stampa europea titola in molti casi di “vendetta kossovara”, il capitano Stefan Lichsteiner ha giustificato i compagni a suo dire vittime di una guerra durissima, come se l’UCK non fosse stato uno strumento militare sostenuto dall’Occidente e dall’islamismo salafita internazionale.
La Serbia ha avanzato proteste ufficiali sia a livello diplomatico, sia contro la FIFA, ritenendo che alle provocazioni si sia aggiunta una certa indulgenza arbitrale nei confronti del gioco duro dei rossocrociati, anche se in effetti l’andamento della partita è stato aspro e rude da entrambe le parti.
Da almeno un paio di mondiali si parla di albano-svizzera, molte volte sorridendo e scherzando, tuttavia i fatti incresciosi della notte di Kaliningrad inducono a riflettere con una certa gravità sui temi della coesione e della condivisione di un’identità nazionale, quella svizzera, certo antica e complessa, ma forse necessariamente imprescindibile quando si tratta di vestirne i colori.
NĐ ČETVRTAK, 21.06.2018.
"Pošto su fotoreporteri zamoljeni da napuste dvoranu, ispred sale sam ugledao natpis i šokirao se. Odmah sam fotografisao i to podelio na društvenim mrežama. Kako bi se Rusi osećali da im kao jezik piše ukrajinsko-ruski. A Ukrajincima tek to ne bi bilo drago. Kolega je pitao gospođu iz organizacionog odbora bi li im smetalo da piše na latinici ukrajinsko-ruski kad igra ruska reprezentacija. Ona mu je rekla da bi smetalo i tek onda je shvatila. Pravdala se da im je to neko doneo, da nisu znali, i da je FIFA odobrila. Posle toga natpis je uklonjen", rekao je hrvatski kolega za tamošnje medije.
Ostaje da sačekamo i vidimo kakav će biti odgovor FIFA, ali će se verovatno sve završiti na izvinjenju.
Хорватская футбольная ассоциация выразила «острые возражения» Международной федерации футбола (ФИФА) из-за размещения в конференц-залах Чемпионата мира в России щитов, надписи на которых обещают журналистам синхронный перевод на сербохорватский язык, сообщает портал В92.
«После того, как фоторепортеров попросили покинуть зал, перед ним я увидел надпись, и был потрясен. Как бы россияне отнеслись к тому, что их язык назвали украинско-российским? Украинцам это тоже бы не понравилось», — рассказал хорватский журналист.
По его словам, после жалоб организаторы турнира признали ошибку и удалили надпись.
Отметим, что со времен распада Югославии сербохорватский язык официально не используется. У Сербии есть сербский язык, а у Хорватии — хорватский. При этом сербохорватский (югославский) язык пытаются развивать сторонники восстановления единого государства.
Напомним, в марте 2017 года украинские и хорватские ультрас договорились о ненападении друг на друга во время матчей сборных Украины и Хорватии в рамках отборочного турнира к ЧМ-2018.
«Война на Балканах в 90-х годах и события последних лет в Украине – очень похожи. Именно поэтому количество добровольцев из Хорватии, которые сейчас борются на Востоке Украины, одно из крупнейших из числа европейских стран. Для нас, украинских фанатов, есть вещи намного важнее субкультурных конфронтаций. Нам нечего «делить» с хорватами», — говорилось в обращении украинских фанатов.
По мнению доктора политических наук, научный сотрудник Института европейских исследований (г. Белград) Стевана Гайича, объединительный мотив данного союза экстремистов – это ненависть к русским и сербам.
Nelle scuole è proibita la parlata in ecavo, Zmaj (Jovan Jovanović), Dučić e Ršumović vengono tradotti in "serbo" (iecavo) perché l'ecavo sarebbe una lingua straniera - "serbiana" (sic!). Sul pacchetto di sigarette comperato in qualunque negozio, la scritta avverte "Il fumo uccide": perché la comprendano tutte e tre le comunità etniche, l'avvertimento è scritto in tre "lingue", malgrado tutte e tre abbiano la stessa pronuncia. Soltanto che i serbi lo leggono in cirillico, mentre per i croati e bosgnazzi viene scritto in due versi uguali "Il fumo uccide" ...
www.politika.rs
У Брчком пушење убија на три језика
Ђацима забрањена екавица, па Змаја, Дучића и Ршумовића преводе на „српски” (ијекавски), јер је екавски страни језик – србијански
Аутор: Бошко Ломовићуторак, 19.06.2018.
Од нашег специјалног извештача, Брчко – На паклу цигарета, купљеном у било којој продавници, одштампано је упозорење: „Пушење убија”. Да би то схватили припадници све три етничке заједнице, упозорење је исписано на три језика, без обзира на то што се на сва три исто изговара. Али, Срби ће опомену читати на ћирилици, а за Хрвате и Бошњаке је два пута написано латиницом: „Пушење убија”.
Чињеница да ником у Дистрикту Брчко није потребан преводилац да би разговарао са комшијом друге вере и нације, те да сви добро знају оба писма, не може да поколеба творце троетничности у дејтонском експерименту „дистрикт”.
Све је, дакле, подређено равноправности припадника трију нација у некадашњој посавској општини, а сада државици у држави БиХ.
* Roma 22/6: inaugurazione della mostra «Partigiani sovietici in Italia»
presentazione del nuovo libro di Slobodanka Ćirić
Napoli senza riSerbo
• Editore: La Città del Sole
• A cura di: L. Calabrese
• ISBN: 8882925005
• Pagine: 208, euro 15
saluti:
Avv. Marcello Lala – console onorario di Serbia
Giordano Manes – direttore ed. La Città del Sole
Mario Punzo – direttore Scuola Italiana Comix
interventi:
Esther Basile
Rosanna Morabito
Lucia Stefanelli Cervi
modera: Carmela Maietta
Disegni di Mila Maraniello
Videoriprese Rosy Rubulotta
I soldati dell'Armata Rossa, fuggiti dalla prigionia, hanno combattuto spalla a spalla con i partigiani italiani per liberare l’Italia dal regime nazista di Hitler e dal fascismo di Mussolini. Tra i partigiani sovietici che si batterono contro i nazifascisti vi erano soldati di diverse nazionalità, come risulta dai nomi indicati sulle loro tombe sparse in tutta Italia. Più di 5000 cittadini sovietici hanno partecipato attivamente alla Resistenza, di cui più di 700 in Piemonte.
Il 22 giugno 2018 alle ore 18:30 presso il Centro Russo di Scienza e Cultura si apre una mostra fotografica dedicata al contributo che durante la seconda guerra mondiale dettero i tantissimi volontari provenienti dalle Repubbliche socialiste sovietiche al movimento antifascista in Italia. Curata dallo scrittore Massimo Eccli, l’esposizione raccoglie fotografie provenienti da collezioni private e archivi militari, nonché immagini gentilmente concesse dalle famiglie dei soldati – russe ed italiane.
Indirizzo: Piazza Benedetto Cairoli 6, Roma
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