Informazione


Commemorata la ribellione dei Rom rinchiusi ad Auschwitz

1) Una pagina di rivolta contro lo sterminio. La ribellione dei Rom nel lager di Auschwitz-Birkenau (F. Rucco)
2) Auschwitz, la rivolta degli ultimi (A. De Biasi)
3) Rom e sinti: lo sterminio nazista (Patria Indipendente)


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Una pagina di rivolta contro lo sterminio. La ribellione dei Rom nel lager di Auschwitz-Birkenau

di Federico Rucco, 15 maggio 2018

Il 16 Maggio 1944, nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, le SS in armi si presentarono agli ingressi dello Zigeunerlager (il campo di stermimio degli “zingari”) per liquidare gli ultimi 5000 Rom e Sinti, donne, uomini e bambini che vi erano rinchiusi..
Normale amministrazione, tutti in fila per entrare nelle camere a gas e poi nei forni crematori, ma questa volta succede qualcosa di anormale: gli “zingari, questi vagabondi, queste persone indegne di vivere”, invece di subire si ribellano. Donne e uomini con ogni mezzo oppongono resistenza e, fatto inaudito, le SS si ritirano, il massacro è sospeso. La rivolta degli “zingari” nel 1944 ad Auschwitz, insieme a quella degli ebrei del 1943 nel lager di Sobibor,  furono gli unici episodi di Resistenza attiva, mai verificatisi nei lager nazisti.
Settantaquattro anni dopo, in un convegno a Roma, per la prima volta in Italia, istituzioni e comunità Rom e Sinta ricordano insieme e commemorano quella giornata, fanno memoria  di  un atto di orgoglio e di dignità per: ricordare e onorare  lo sterminio dimenticato di oltre mezzo milione di Rom e Sinti,    quegli ultimi 5000 “zingari” dello Zigeunerlager, i circa 2000 più forti  che vennero trasferiti in altri Lager e poi i 2.897 rimasti, bambini, donne e vecchi, che  vennero sterminati tutti insieme nella notte del 2 Agosto di quello stesso anno.
L’iniziativa servirà a riflettere insieme sugli effetti che quel pregiudizio che portò allo sterminio ancora oggi produce, radicato nella coscienza collettiva che emargina Rom e Rinti considerati estranei e ostili perché diversi. Un pregiudizio che condanna all’emarginazione sociale e civile un popolo che chiede solo riconoscimento e rispetto, condizioni fondamentali per una normale convivenza.
L’iniziativa di Roma si colloca nell’ambito dei due giorni organizzati dall’Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale (UNAR) in collaborazione con il Forum RSC per ricordare la rivolta dei Rom e dei Sinti dello Zigeunerlager di Auschwitz: con  un convegno il giorno 15 dalle 14.00 alle 17.00 presso la sede dell’UNAR   e il giorno 16 con  una visita all’ex campo di internamento di Agnone, in Molise.
Nel corso dell’incontro sarà consegnato un documento e presentata una testimonianza: due momenti per unire  un passato che non si vuole che si ripet  e un presente che ci riporta a quel passato.
All’incontro parteciperà anche  Tobbias, il giovane Rom suonatore di fisarmonica che il 10 Maggio  scorso,    sul tram numero 8, e  dopo aver intonato “o bella ciao”, è stato  aggredito da tre persone, spinto fuori dal tram e picchiato selvaggiamente davanti alla sua famiglia. “Zingaro di merda” gli dicevano distruggendogli la fisarmonica, mentre le persone intorno osservavano indifferenti. Nonostante la fisarmonica distrutta e due mesi di prognosi, Tobbias sarà con noi per intonare la sua canzone preferita, prima della partenza della delegazione del Forum RSC per Agnone, dove insieme al direttore dell’UNAR, Luigi Manconi, alcuni figli e parenti di internati incontreranno  le istituzioni locali e i ragazzi delle scuole per ricordare i tempi neri dei campi di internamento per soli “zingari” istituiti in Italia dal regime fascista a partire dall’11 Settembre del 1940.


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Auschwitz, la rivolta degli ultimi


Antonella De Biasi (18.5.2018)
Quando rom e sinti fecero resistenza alle SS. Mezzo milione i rom sterminati nei lager nazisti durante il “Samudaripen”. I mostruosi esperimenti del capitano delle SS Josef Mengele

Il 16 maggio del 1944 ad Auschwitz ci fu una rivolta. Nello Zigeunerlager, “il campo degli zingari”, avvenne l’unico episodio di resistenza in un lager. Le SS quel giorno avevano intenzione di sterminare circa 5mila uomini, donne e bambini, tra rom, sinti e manush, a cui era stato permesso di stare insieme, nelle stesse baracche, ultimi tra gli ultimi.
Le condizioni di vita nel settore occupato dai rom e sinti ad Auschwitz-Birkenau contribuirono al diffondersi delle epidemie di tifo, vaiolo e dissenteria che decimarono la popolazione del campo. Alla fine di marzo, le SS uccisero nelle camere a gas circa 1.700 rom, giunti pochi giorni prima dalla regione di Bialystock. Molti di loro erano già malati. Così quel giorno di primavera, il 16 maggio del 1944, gli amministratori del campo decisero di trucidare tutti gli abitanti dello Zigeunerlager.
Le guardie delle SS circondarono il settore nel quale vivevano i rom, per impedire a chiunque di fuggire. Quando fu loro ordinato di uscire, i rom e i sinti si rifiutarono perché erano stati avvertiti delle intenzioni dei tedeschi e si erano armati di tubi di ferro, vanghe e altri attrezzi usati normalmente per il lavoro.
I capi delle SS decisero così di evitare lo scontro diretto con quei rom caparbi e stremati e si ritirarono. Dopo aver trasferito 3mila tra rom e sinti ancora in grado di lavorare ad Auschwitz I e in altri campi di concentramento in Germania, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate 1944, il 2 agosto le SS deportarono i rimanenti 2.898, come si legge sul portale dell’Holocaust Memorial Museum degli Stati Uniti. La maggior parte di quei prigionieri era costituita da malati, anziani, donne e bambini. Furono uccisi quasi tutti nelle camere a gas di Birkenau. Un piccolo gruppo di ragazzini che erano riusciti a nascondersi durante le operazioni di trasferimento fu catturato e ucciso nei giorni successivi. Almeno 19mila dei 23mila rom che furono inviati ad Auschwitz morirono nel campo.
Eppure donne e uomini di un’etnia tanto denigrata ancora oggi – deperita per la fame e il freddo, maltrattata dagli aguzzini, sfiancata dai lavori forzati – riuscì a reagire, ad alzare la testa per non arrendersi alla brutalità e alla morte quel giorno di maggio nel lager. Erano uomini e donne che difendevano i loro bambini con le ultime forze rimaste: «non vi daremo i nostri piccoli perché li facciate uscire dai vostri camini. I vostri medici ne hanno già straziati tanti sperimentando la loro scienza mostruosa su di loro» gridavano, come si legge nella ricostruzione fatta da Davide Casadio, presidente della Federazione rom e sinti insieme in Italia sul suo blog.
Nel discorso pubblico il dolore e lo sterminio subìto dai rom e dai sinti durante il Terzo Reich non ha avuto – nel corso di più di settant’anni dagli eventi – pari dignità con le altre vittime dell’Olocausto. Furono mezzo milione i rom a perire vittime delle atrocità del nazifascismo durante il Porrajimos o Samudaripen, cioè i termini in lingua romaní usati per indicare lo sterminio del popolo rom durante la seconda guerra mondiale. Secondo Franciszek Piper, lo storico che dirige il Museo Statale Auschwitz-Birkenau, la maggior parte dei rom e sinti sono morti di fame e malattie. Dopo gli ebrei e i polacchi, i rom sono stati per numero il terzo gruppo nazionale sterminato dai nazisti ad Auschwitz-Birkenau.
Ad Auschwitz intere famiglie vivevano ammassate nel settore destinato ai rom e sinti.
I medici assegnati a quel complesso, come il capitano delle SS Josef Mengele, ricevettero l’autorizzazione a selezionare soggetti umani tra quei “particolari” prigionieri – considerati di “razza inferiore” – per i loro esperimenti pseudoscientifici. Mengele per i suoi test selezionò gemelli e nani, alcuni provenienti dalle famiglie rom e sinti del campo. Circa 35mila rom, adulti e adolescenti, erano rinchiusi in altri campi di concentramento tedeschi: i medici selezionarono i soggetti per le loro ricerche anche negli altri lager. Gli esperimenti avvenivano o nei campi stessi o in istituti situati poco lontano.
Nell’opera di narrativa Io non mi chiamo Miriam(edizioni Iperborea 2016), che abbiamo recensito su Patria Indipendente, la scrittrice e giornalista svedese Majgull Axelsson, raccontando la storia della protagonista, si è basata su eventi realmente accaduti: in particolare proprio sulla descrizione della resistenza opposta nel settore dei rom e sinti ad Auschwitz. Il documento da cui Axelsson ha attinto si chiama Voices of Memory 7: Roma in Auschwitz e riporta anche informazioni sulla cosiddetta “notte degli zingari” in cui appunto si consuma la vendetta nazista alla Resistenza dei rom nella quale, tra il 2 e 3 agosto 1944, circa in 3mila vennero uccisi con i gas e bruciati.
Dopo la guerra, la discriminazione contro i rom continuò in tutta l’Europa dell’est e in quella centrale. La Repubblica federale tedesca determinò che tutte le misure prese contro i rom prima del 1943 erano state misure ufficiali e legittime contro persone che avevano commesso atti criminali e non, invece, il risultato di politiche dettate dai pregiudizi razziali. Questa decisione impedì di fatto il riconoscimento di un risarcimento ai sopravvissuti per le migliaia di vittime rom, sinti, manush incarcerate, sterilizzate e deportate dalla Germania senza aver commesso alcun crimine. La polizia criminale della Baviera, dopo la guerra, prese possesso dei documenti frutto delle ricerche del regime nazista, incluso il registro dei rom residenti nella “grande Germania”. Nel 1979 infine il Parlamento della Germania occidentale riconobbe ufficialmente che la persecuzione dei rom e sinti ad opera dei nazisti era stata motivata dal pregiudizio razziale, consentendo così ai sopravvissuti di poter fare richiesta di risarcimento per le sofferenze e le perdite subite. A quel punto, però, molti tra coloro che avrebbero potuto presentare domanda erano già morti.
Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. È stata redattrice del settimanale La Rinascita. Ha scritto La Spa nell’orto (Ultra – Castelvecchi 2014) e curato il vademecum Il mio nome è ROM. Tutto ciò che devi sapere per non chiamarli “zingari”, con il contributo del programma “Fundamental Rights and Citizenship” dell’Unione Europea


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Rom e sinti: lo sterminio nazista


Redazione (18.5.2018)

Il messaggio della Presidente nazionale Anpi Carla Nespolo, per l’iniziativa del 16 maggio ad Agnone – promossa dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni razziali (Unar) della Presidenza del Consiglio – in ricordo della rivolta (e del successivo sterminio) dei rom e dei sinti nel lager di Auschwitz

Come si ricorda in un articolo su questo numero di Patria Indipendente(“Auschwitz, la rivolta degli ultimi”), il 16 maggio 1944, nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, le SS si presentano agli ingressi dello Zigeunerlager (il campo degli “zingari”) per eliminare gli ultimi 5000 “gitani”, donne, uomini e bambini che vi sono rinchiusi. Questi però si ribellano e il massacro è sospeso. Circa 2000 vengono trasferiti in altri Lager e i 2.897 rimasti, bambini, donne e vecchi, vengono sterminati tutti insieme nella notte del 2 agosto di quello stesso anno. In occasione di questa ricorrenza Carla Nespolo ha inviato il seguente messaggio all’iniziativa di Agnone in memoria della rivolta: “Le grandi tragedie contemporanee dei rom e dei sinti sono due: il primo è il tentativo di genocidio perpetrato dai nazisti, che ne sterminarono quasi mezzo milione; il secondo è la rimozione di questo sterminio nella coscienza civile.
Come può un’Europa, un’Italia moderna, dimenticare, cancellare, ignorare? In questo oblio cresce il veleno della discriminazione, quella breve traccia che porta al razzismo. Nella società dello spettacolo in cui siamo immersi infastidisce una presenza sociale e umana distinta, con un’altra cultura, altre abitudini, altri stili di vita. E cresce l’esclusione come soluzione del problema, la simbologia della ruspa come della grande macchina per cancellare una realtà che non ci piace.
No, noi non ci stiamo, l’Anpi non ci sta. E chiediamo relazioni e integrazione. Lo chiediamo in primo luogo alle istituzioni. E lo chiediamo, meglio, lo rivendichiamo, in particolare oggi, a pochi giorni da un anniversario. Il 16 maggio 1944, nel campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau, quattromila “zingari’, donne, bambini, uomini, si ribellano alle SS venute per condurli ai forni. Loro si ribellarono allo sterminio, si ribellarono a un potere che prima aveva loro negato i diritti e poi negò loro la vita. Si ribellarono, come in Italia – per conquistare libertà, eguaglianza e democrazia – si ribellarono i partigiani.
Da ciò il nostro primo compito: contrastare la rimozione, informare, ricordare ciò che è avvenuto.
Avvenne – conclude la Presidente nazionale dell’Anpi – per i rom e i sinti, avvenne per gli ebrei, avvenne per gli omosessuali, per gli oppositori politici, per tanti militari italiani. Abbiamo sempre detto, dal dopoguerra, mai più! Oggi, davanti a un mondo che sembra aver dimenticato ogni lezione del passato, lo diciamo con più forza. Continuiamo a fare memoria, a costruire civiltà”.





Graziani osannato? Sindaco condannato

Natalia Marino, 16.11.2017

Sentenza sul monumento di Affile dedicato al criminale di guerra: parla Emilio Ricci, avvocato dell’Anpi nazionale. Condannati in primo grado sindaco e due assessori in base alla legge Mancino

Monumento a Graziani, il cosiddetto “sacrario” di Affile, dedicato nel piccolo Comune del Lazio al gerarca fascista, criminale di guerra e ministro della Rsi, realizzato con fondi regionali e inaugurato nell’estate del 2012. Sulla vicenda di quello che era stato definito “mausoleo della crudeltà” erano sorte aspre polemiche e la questione era finita davanti alla magistratura a seguito di una denuncia dell’Anpi nazionale. Nei giorni scorsi il tribunale di Tivoli ha condannato per apologia di fascismo il sindaco di Affile, Ercole Viri, e gli assessori Giampiero Frosoni e Lorenzo Peperoni. L’avvocato Emilio Ricci è il legale che ha rappresentato l’Anpi nazionale, costituitasi parte civile nel processo.
Avvocato Ricci, il primo grado del processo ha condannato gli imputati per apologia di fascismo.
È stata applicata la legge Mancino, comminando al sindaco di Affile la pena di 8 mesi di reclusione e di 6 mesi per i due assessori. Ci sono inoltre sanzioni accessorie: l’interdizione dei condannati dai pubblici uffici per quel periodo e un risarcimento del danno all’Anpi nazionale, l’unica parte civile nel procedimento. Si tratta intanto di ottomila euro che i condannati in via provvisionale dovranno versare all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia mentre sarà un successivo giudizio civile a stabilire l’entità complessiva del risarcimento. Sono danni morali quelli subiti, dunque rilevanti seppur di complessa quantificazione, per questo è importante aver avuto nella sentenza penale l’indicazione di una cifra di riferimento.
Perché spesso nei processi l’apologia di fascismo non viene riconosciuta?
Il profilo dell’apologia di fascismo è delicato per l’individuazione del reato, che consiste nell’esaltazione del fascismo, ed è sanzionato sia dalla Costituzione sia dalle leggi Scelba e Mancino. Per esempio, sul saluto romano esibito nelle manifestazioni giudici diversi hanno dato valutazioni differenti. Lo comprendo, ma ovviamente non sono d’accordo. In questo caso però il giudice ha ritenuto che la condotta degli imputati nel realizzare un monumento intitolato a Graziani, uomo simbolo soprattutto del nazifascismo saloino, sia apologia.
Graziani è stato un criminale di guerra oltre che un gerarca.
Il generale Graziani venne inserito nell’elenco dei criminali di guerra dell’Onu per aver utilizzato l’iprite, un gas tossico, in Somalia, Etiopia, Libia e massacrato migliaia di civili oltre che militari e combattenti contro l’occupazione italiana negli anni 30 e 40. Rodolfo Graziani è stato un significativo esponente del fascismo, ministro e comandante delle forze armate della repubblica di Salò. Firmò lui il bando che nel ’43 prevedeva la fucilazione di ogni renitente alla leva, cioè di chi si rifiutava di entrare nell’esercito del governo fantoccio di Mussolini. Nel 1950 venne condannato a 19 anni di prigione dal Tribunale militare italiano per collaborazionismo col tedesco invasore. Scontò appena 4 mesi e in seguito si iscrisse al Msi, di cui fu presidente.
La sentenza prevede l’abbattimento della struttura?
No. La Procura della Repubblica, nella persona del Procuratore capo, che ha seguito personalmente il processo, nella requisitoria aveva chiesto il sequestro del monumento ai fini della confisca e della demolizione. Secondo il Pm, infatti, quell’edificio è una concreta e materiale forma di apologia di fascismo e dunque va abbattuto. Il giudice non ha accolto la richiesta.. Ne leggeremo le motivazioni quando saranno pubblicate, fra circa 90 giorni, ma su questo punto la Procura ha già annunciato di ricorrere in appello. Da parte nostra, come parte civile chiederemo alla Procura di impugnare la sentenza, lo prevede un articolo del codice di procedura penale.
Il processo è nato nel 2012 in seguito a una denuncia dell’Anpi nazionale.
È così. E l’Anpi ha anche deciso di costituirsi parte civile, come accade ormai in numerosi procedimenti. Nel processo di Tivoli, l’Associazione è stata riconosciuta depositaria della memoria della lotta di Liberazione. Né gli imputati né i loro avvocati si sono opposti.
La vicenda del mausoleo a Graziani ha avuto rilievo internazionale, ne parlò il New York Times.
Quando si è saputo della sentenza, mi hanno chiamato anche da New York e ho anche ricevuto le congratulazioni dalla Comunità etiope.
Quando andrà in giudicato, la sentenza di Tivoli potrà fare scuola?
Ritengo di sì, farà giurisprudenza. Purtroppo in Italia vengono avviati molti procedimenti per comportamenti apologetici del fascismo che si concludono con un nulla di fatto. Il giudice di Tivoli, una giovane donna, ha invece fatto un grande lavoro di indagine, ha reperito il pronunciamento del Tribunale militare, il suo lavoro potrà essere molto utile in altri processi per reato di apologia di fascismo.
Che succederà ora ai condannati?
Sia chiaro, nessuno di loro finirà in carcere perché è stata concessa la sospensione condizionale della pena. Il Comune sarà informato dal giudice sull’interdizione ma spetterà all’amministrazione decidere se applicarla o meno, non è un provvedimento automatico.
Alcuni Comuni e capoluoghi italiani hanno inserito nel regolamento di polizia urbana norme per non concedere spazi pubblici alle organizzazioni che si richiamano a ideologie fasciste, razziste o discriminatorie. Altre Amministrazioni hanno il timore dei ricorsi.
Quei regolamenti comunali vanno valutati caso per caso, nonostante ci siano criteri generali validi per tutti: sono delibere nate dalla necessità di contrastare una situazione in cui si moltiplicano le manifestazioni richiamanti al fascismo. Dunque da questo punto di vista, escludo corrano il rischio di essere cassate per incostituzionalità. Va detto tuttavia che ogni provvedimento amministrativo deve rispettare il diritto di opinione che, piaccia o meno, è tutelato dalla Costituzione ed è quindi inalienabile. Naturalmente nelle manifestazioni non ci deve essere apologia di fascismo, esaltazione del regime, comportamenti sanzionati appunto dalla legge Mancino.
Nei Consigli comunali il centro-destra ha votato contro, perché le delibere sarebbero inutili, un duplicato della Mancino
È un argomento pretestuoso. Si tratta di atti amministrativi locali, mentre la legge Mancino, norma nazionale, sanziona penalmente l’apologia di fascismo. La disposizione amministrativa ha obiettivi diversi e corretti, cioè mira a garantire la buona gestione del territorio. D’altronde, contravvenire a una delibera non comporta un procedimento di tipo penale, ma se si esalta il fascismo, e non c’entra nulla il diritto di opinione, se ne risponde penalmente.



"L'esaltazione di Graziani offende e mette in pericolo la Repubblica": depositata la sentenza di condanna del Sindaco di Affile

8 Febbraio 2018

Il testo della sentenza. La soddisfazione dell'ANPI, parte civile nel processo per l'erezione del monumento al criminale fascista

"La sentenza di condanna del Sindaco e degli Assessori del Comune di Affile, depositata il 30 gennaio u.s., è di enorme importanza per tutto il Paese. In un passaggio della motivazione si afferma che "l'esaltazione di un personaggio che incarna l'ideologia fascista è idonea ad offendere o almeno mettere in pericolo i valori democratici della Repubblica". L'antifascismo è il fondamento delle Istituzioni e della convivenza civile. Tutte le organizzazioni, i rappresentanti politici o amministratori pubblici che tentano di riportare in vita la dittatura fascista, minando lo Stato di diritto, si pongono fuori dalla Costituzione e vanno considerati dei criminali. Sia chiaro una volta per tutte"

PRESIDENZA E SEGRETERIA NAZIONALI ANPI
Roma, 8 febbraio 2018

•  Scarica il testo della sentenza [15.4 MB]: http://www.anpi.it/media/uploads/files/2018/02/Sentenza_07172816.pdf



Monumento a Graziani: un “oltraggio alla democrazia”

Redazione, 22.2.2018

Pubblicata la sentenza di condanna del sindaco di Affile per il sacrario eretto in memoria del criminale di guerra. Una vittoria della Repubblica nata dalla Resistenza. Grande soddisfazione dell’Anpi, parte civile nel processo

“L’esaltazione di un personaggio che incarna l’ideologia fascista è idonea ad offendere o almeno a mettere in pericolo i valori democratici della Repubblica”. È un passaggio contenuto nella motivazione della sentenza depositata dai giudici per il processo in cui, lo scorso novembre, furono condannati per il monumento a Rodolfo Graziani il sindaco e due assessori di Affile, comune in provincia di Roma (il primo cittadino a 8 mesi di reclusione, e i due componenti della giunta a 6).
Il giudice, Marianna Valvo, nella sentenza depositata il 30 gennaio al Tribunale di Tivoli ha messo nero su bianco che la pena è stata comminata perché si è rievocato un gerarca e criminale di guerra “in una ottica di celebrazione del personaggio e di quello che ha rappresentato, nel significato delineato dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione, in termini tali da poter condurre alla riorganizzazione del disciolto partito fascista”. Ancora. Che la decisione di intitolare un memoriale a un esponente del fascismo, considerato un criminale di guerra dall’Onu, sia arrivata dalla “Giunta di un comune, organo rappresentativo della collettività locale: questo conferisce maggiore valenza celebrativa all’azione, amplificando il rischio di un apprezzamento condiviso e, in quanto tale, emulativo”.
Per di più l’aver collocato il monumento in uno spazio pubblico molto frequentato ha contribuito a “rendere concreto e sempre attuale il pericolo che la rievocazione costante di Graziani, celebrato quale rappresentante della ideologia fascista, possa fare riemergere valori antidemocratici propri del regime”.
Per il giudice, inoltre, il sacrario rappresenta un concreto antecedente “causale idoneo a provocare adesioni e consensi e a concorrere alla diffusione di idee favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste”.
Grande la soddisfazione dell’Associazione Nazionale partigiani d’Italia che, con l’avvocato Emilio Ricci, si era costituta parte civile. “L’antifascismo è il fondamento delle Istituzioni e della convivenza civile – scrivono la Presidenza e la Segreteria nazionale del sodalizio partigiano – Tutte le organizzazioni, i rappresentanti politici o amministratori pubblici che tentano di riportare in vita la dittatura fascista, minando lo Stato di diritto, si pongono fuori dalla Costituzione e vanno considerati dei criminali. Sia chiaro una volta per tutte”.





Perché non mi piace il termine "Balcani occidentali"

Un'etichetta nata 15 anni fa ma che non ha certo aiutato - semmai ha rallentato - il percorso verso l'integrazione Ue del sud-est Europa. Un commento

22/05/2018 -  Kristijan Fidanovski

All'inizio di quest'anno, l'Unione europea ha pubblicato la sua Strategia per i Balcani occidentali, che ribadisce una "credibile prospettiva di allargamento" per i sei restanti paesi della regione. Alcuni hanno interpretato la strategia come un "passo avanti", altri come un "secchio di acqua fredda" per la regione, ma nessuno si è lasciato infastidire dal termine "Balcani occidentali". Oggi questo neologismo quindicenne, coniato nel vertice UE-Balcani occidentali del 2003 a Salonicco, è usato con tale disinvoltura da stranieri e locali che ha da tempo perso le sue virgolette.

Recentemente, ho avuto la seguente conversazione con un mio amico americano:

"Voglio visitare i Balcani occidentali quest'estate! Da dove pensi che dovrei cominciare?", mi ha chiesto.

"Bruxelles", non ho potuto fare a meno di rispondere.

Da antico difensore del compromesso sulla controversia sul nome con la Grecia nel mio paese natio, la Macedonia, non sarò certo io a fare storie sulla terminologia. Ma qui la questione va oltre le parole. L'eventuale adozione di un nuovo nome (per uso internazionale) da parte della Macedonia non avrebbe effetti reali nel peggiore dei casi, mentre nella migliore delle ipotesi avrebbe importanti implicazioni positive di accelerazione dell'integrazione europea del paese. La perpetuazione del costrutto "Balcani occidentali", invece, ha avuto l'esatto opposto (e immediato) effetto politico: ha trasformato una serie di paesi con le proprie sfide (a volte distinte) in una scatola mentale artificialmente omogenea e politicamente marcata.

Nell'ultimo decennio e mezzo, l'etichetta dei Balcani occidentali ha avuto quattro sfortunati effetti. Ha perpetuato l'onnipresente stereotipo dell'arretratezza balcanica, restaurato il vecchio stereotipo di "Balcani" come "occidentalità" in attesa, messo le nazioni dei Balcani (occidentali) una contro l'altra e, cosa più importante, ha ritardato l'integrazione europea della regione che era stata presumibilmente creata per accelerare.

I Balcani: il peggior incubo di tutti

Un saggista tedesco scrisse una volta che "se i Balcani non fossero esistiti, sarebbero stati inventati". Dal momento che praticamente nessuno dei presunti "popoli balcanici" si identifica come "balcanico", i Balcani sono davvero – e sono sempre stati – inventati.

Nel suo racconto, altrimenti illuminante, degli stereotipi occidentali sui Balcani come "cortile brutale e incivile dell'Europa", Maria Todorova articola la propria eterna lotta per imparare come "amare i Balcani senza esserne orgogliosa o vergognarmene". Todorova dimostra magistralmente che ciò che si immagina di solito come "balcanico" è più spesso radicato nelle fantasie esterne che nella realtà culturale. Eppure, riassumendo queste fantasie come "balcanismo" da contrapporre ai "veri" Balcani, Todorova sottintende che esiste una vera "balcanità", semplicemente distorta dallo stereotipo.

Questa implicazione però è in contrasto con un'altra astuta osservazione di Todorova, secondo cui tutte le popolazioni che abitano nella penisola balcanica hanno interiorizzato il "balcanismo", accettando – e persino sviluppando – alcuni degli stereotipi negativi esterni sulle loro culture. Milica Bakić-Hayden ha dimostrato che questa interiorizzazione, anziché aiutare le persone a riflettere in modo critico sul proprio stile di vita (per assicurarsi che non ci sia alcuna verità dietro gli stereotipi!), opera in realtà come un'ammissione della "arretratezza dei Balcani" e, successivamente, come una lotta senza fine per raffigurarsi come il meno balcanici possibile.

Quindi, se "balcanico" non è altro che un'etichetta tossica per le nazioni "balcaniche" da rinnegare con indignazione, allora non ci sono sicuramente "Balcani" di cui essere orgogliosi o vergognarsi in primo luogo: qualsiasi uso della parola "Balcani" è insignificante nel migliore dei casi e inestricabile dallo stereotipo negativo nel peggiore.

Il miglior esempio della connotazione inestricabilmente negativa della parola "Balcani" sta nel suo uso per quanto riguarda le guerre jugoslave degli anni '90. Mentre queste guerre hanno avuto luogo (in parte) sul territorio della penisola balcanica, c'è una chiara ragione pratica per non chiamarle "balcaniche" ed evitare confusione con le guerre balcaniche del primo Novecento. A differenza delle guerre precedenti la Prima guerra mondiale, che travolsero anche paesi "balcanici" non jugoslavi come Bulgaria, Romania e Albania, le guerre jugoslave negli anni '90 furono un prodotto diretto del collasso dello stato jugoslavo e possono quindi essere chiamate solo "jugoslave".

L'uso limitato del termine "Balcani" durante l'era jugoslava indica che l'Occidente ha impiegato solo un paio d'anni a spostare mentalmente – e relegare – le persone che vivono in questo spazio da "jugoslavi" a "balcanici". Per adattarsi al profilo barbarico dei fanatici della guerra, i discendenti del formidabile stato di Tito hanno dovuto essere ribattezzati "Balcani" da un giorno all'altro.

Ad oggi, i principali media occidentali come BBC e CNN fanno riferimento ai conflitti jugoslavi come "guerre balcaniche". L'etichetta "balcanico" è a disposizione ogni volta che si vuole denigrare qualcuno, anche collegandolo a contesti in cui non è mai stato usato prima. Il termine ha da tempo oltrepassato i confini della penisola balcanica e per vivere di vita propria: persino i tedeschi a volte liquidano i propri vicini austriaci come – ebbene sì – "balcanici".

E se questo non basta ancora a provare la connotazione intrinsecamente negativa dell'etichetta, basti ricordare che la parola "balcanizzazione" è una parola inglese di uso comune (sinonimo di "frammentazione") disponibile per l'uso in contesti non balcanici. Quando papa Francesco ha usato questo termine dopo il referendum sulla Brexit per mettere in guardia contro la "balcanizzazione" della stessa UE, l'ironia non sarebbe potuta essere più grande.

Balcani (occidentali) = "occidentali" in attesa

Chiaramente, nessuno vuole essere balcanico. Ma che dire di "Balcani occidentali"? L'UE ha ripulito la vecchia etichetta balcanica della sua connotazione intrinsecamente negativa? Ad esempio, "Balcani occidentali" propone sicuramente un diverso tipo di "balcanità" rispetto a quello ritratto nei primi anni '90, quando l'etichetta ha raggiunto il proprio minimo storico (nella sua storia sempre negativa) con le guerre nell'ex Jugoslavia. Se i Balcani venivano visti come "incapaci di cambiare", condannati a vivere in una "capsula temporale in cui la gente imperversava e versava sangue, sperimentando visioni ed estasi  ", i Balcani occidentali sono definiti oggi proprio dalla loro prospettiva di cambiamento (attraverso l'integrazione europea).

Si potrebbe persino essere tentati di vedere l'improvvisa fusione degli antipodi "occidentali" e "Balcani" come la ben intenzionata creazione di un seme per far crescere i paesi: una dimostrazione della fiducia dell'UE nei suoi aspiranti membri per riconciliare la loro balcanità con le loro aspirazioni di occidentalizzazione.

Eppure, con ogni probabilità Todorova non sarebbe solo cauta nell'accogliere i "Balcani occidentali" come un cambiamento positivo nella percezione, ma rifiuterebbe di vederlo come un cambiamento. In effetti, ciò che distingue l'opera fondamentale di Todorova dall'Orientalismo di Edward Said è esattamente la nozione che i Balcani (diversamente dall'Oriente, che è visto come "[un] mondo anti-occidentale, separato da esso da un abisso incolmabile") sono visti come "un ponte semi-sviluppato e semi-civilizzato tra fasi di crescita".

Ciò rende i Balcani meno un "Altro" e più un "Sé incompleto": una nozione perfettamente replicata nella categoria fluida dei "Balcani occidentali", la cui appartenenza è definita dal processo di adesione all'UE e termina il secondo dopo che l'adesione all'UE è stata completata. Pertanto, la variante "Balcani occidentali" è, in realtà, solo una moderna articolazione del vecchio stereotipo balcanico: un'entità senza volto il cui unico scopo è raggiungere l'Occidente come segno di civiltà.

La nozione di integrazione europea come marchio di civiltà è stata ripetuta quasi parola per parola in una recente dichiarazione dell'Alto Commissario dell'Unione europea Federica Mogherini.

"Il percorso di integrazione dell'Unione europea [è] un po' [come] un videogioco. Ogni volta che riesci ad ottenere punteggi su un livello, arrivi al livello successivo e hai nuovi compiti. L'importante è non arrivare al "game-over", ma ottenere punti extra e arrivare al livello più alto".

Pertanto, i Balcani sono un'entità virtuale che esiste solo nel "videogioco" dell'integrazione europea. Chiaramente, l'unico effetto dell'aggiunta "occidentale" – piuttosto che ripulire l'etichetta balcanica della sua connotazione tossica – è stata l'attualizzazione formale della vecchia immagine dei Balcani come limbo transitorio. Questa presunta transitorietà ha a sua volta scatenato una guerra fra poveri tra i paesi dei Balcani occidentali con un unico obiettivo: superare la propria balcanità più velocemente di tutti gli altri.

"No, sei più balcanico tu!"

"Nessuno vuole essere parte dei Balcani: per i croati i Balcani cominciano in Bosnia, per i bosniaci i Balcani cominciano in Serbia e in Serbia cominciano in Romania". Questa affermazione, dolorosamente accurata, sulla riproduzione dello stereotipo balcanico da parte delle nazioni "balcaniche" non è opera di uno studioso, ma di un quattordicenne di Zagabria. Le reali intenzioni dell'UE dietro la creazione dei "Balcani occidentali" sono irrilevanti. I concetti devono essere coniati con attenzione per la loro intertestualità, o l'insieme di significati esistenti che il nuovo concetto può ragionevolmente pretendere di evocare. Dal momento che l'etichetta dei Balcani è sempre stata rifiutata e rifilata con indignazione ai vicini, l'UE non può certo aspettarsi che questi paesi abbraccino i "Balcani occidentali" come un'opportunità collettiva di "occidentalizzazione" (progresso), piuttosto che per il progresso di alcuni a spese dell'ulteriore "balcanizzazione" (regressione) di altri.

Con la sua durata fissa, la categoria "Balcani occidentali" pone un evidente ostacolo alla cooperazione regionale. Nel 2013, dopo l'adesione all'UE (ed essersi lasciata alle spalle i "Balcani occidentali"), la Croazia è stata improvvisamente esclusa dalle critiche ufficiali per insufficiente riconciliazione postbellica, e persino i seminari regionali per la riconciliazione giovanile hanno deciso che gli studenti croati non avevano più bisogno di imparare a riconciliarsi. Con questo in mente, l'unica cosa sorprendente della liquidazione del recente verdetto contro i criminali di guerra croati-bosniaci come "ingiustizia morale" da parte del primo ministro croato (dichiaratamente moderato) Andrej Plenković è stata che abbia sorpreso qualcuno. L'appartenenza all'UE non è certo una bacchetta magica che può spazzare via il negazionismo nelle società del dopoguerra. La Croazia avrà ufficialmente "lasciato" i Balcani (occidentali), ma i "Balcani" hanno lasciato la Croazia? E che aspetto ha una laurea in Studi sui Balcani occidentali? Si abbassano i voti agli studenti che scrivono saggi sulla riconciliazione postbellica in Croazia dopo la sua presunta dipartita dai Balcani (occidentali) nel 2013?

Infine, sembra che il peggior incubo di Todorova sia diventato realtà: le nazioni dei "Balcani (occidentali)" non stanno solo riproducendo "il balcanismo" proiettandolo su altri, ma anche interiorizzandolo. "Stabilitocrazia" è un termine comunemente usato dagli studiosi per descrivere la proliferazione di regimi autoritari nei "Balcani occidentali" che sono stati tollerati dall'UE per il bene della stabilità. Ciò che non è stato preso in considerazione è che l'UE potrebbe con la terminologia aver facilitato la stabilitocrazia ancor più di quanto non l'abbia facilitata con le sue (in)azioni. L'aspettativa di costante, rapido e sempre insufficiente miglioramento di sé insita nell'etichetta dei Balcani (occidentali) ha creato un pubblico "dei Balcani occidentali" fortemente convinto di avere esattamente il tipo di governo che "merita".

Ad esempio, l'unica spiegazione della sempre crescente popolarità del presidente serbo Aleksandar Vučić nonostante – o grazie a – quelle che sarebbero altrimenti dichiarazioni di suicidio politico, come "la ragione per cui la Serbia rimane così indietro è che i serbi sono lamentosi", è che i serbi devono aver perso il loro ultimo brandello di autostima. È sicuramente il più grande sogno di tutti i dittatori: essere in una posizione di impunità così illimitata da poter tranquillamente attribuire i propri fallimenti alla presunta pigrizia delle stesse persone che votano per loro.

Dopotutto, anche l'UE ha riconosciuto implicitamente l'aspettativa di una mentalità subalterna da parte dei paesi dei Balcani occidentali. Il costante discorso sulla "resilienza" della regione è stato interpretato  dagli studiosi come una sorta di lapsus freudiano. L'apparente compiacimento per la resilienza di questi paesi è, in realtà, una minacciosa rivelazione che l'integrazione europea dei "Balcani occidentali" si riduce alla loro pazienza di fronte alla fatica da allargamento di Bruxelles, piuttosto che sui reali progressi dei loro processi di riforma.

Bloccati nella sala d'attesa

Se incolpare l'etichetta "Balcani occidentali" per il complesso di inferiorità osservato in Serbia potrebbe sembrare azzardato, la correlazione tra il perpetuarsi di questa etichetta e il ritmo atrocemente lento dell'integrazione europea della regione è ovvia. In realtà, molto prima del 2003, l'UE ha cercato di isolare (comprensibilmente) la regione devastata dalla guerra dal resto dell'ex blocco comunista: il Patto di stabilità per l'Europa sud-orientale del 1999 comprendeva  ognuna delle otto nazioni (tranne Montenegro e Kosovo, non ancora indipendenti) che sarebbero diventate i "Balcani occidentali" solo quattro anni dopo.

Pertanto, viene la tentazione di chiedersi perché il termine "Europa sud-orientale" sia stato ritenuto meno sostenibile di "Balcani occidentali". Gli otto paesi in questione sono tutti situati nell'Europa sud-orientale, e la precedente adesione di Bulgaria e Romania non avrebbe invalidato questa categoria più di quanto l'adesione della Croazia nel 2011 abbia invalidato quella di "Balcani occidentali". Semmai, "Europa sud-orientale" sarebbe stata una designazione geografica neutra e funzionale, libera dal peso stereotipato dell'etichetta balcanica.

Eppure, tra il 1999 e il 2018, "l'Europa sud-orientale" si è inequivocabilmente persa nei corridoi burocratici di Bruxelles. L'allargamento del Big Bang a dieci paesi (per lo più ex-comunisti) nel 2004 viene spesso riconosciuto come il padrino di alcuni dei partiti euroscettici oggi ben consolidati nell'Europa occidentale. A pensarci bene, potrebbe anche essere stato il tacito padrino dell'etichetta "Balcani occidentali". Ai due paesi non "Balcani occidentali" dell'Europa orientale rimasti esclusi dall'allargamento del 2004, Romania e Bulgaria, non poteva essere permesso di rimanere in una categoria senza nome con i cinque paesi futuri "Balcani occidentali": ciò avrebbe implicato che nessuno di questi sette paesi fosse fondamentalmente diverso dai paesi che avevano aderito nel 2004.

Ciò avrebbe quindi implicato che l'allargamento del Big Bang sarebbe presto dovuto essere completato con l'ammissione di altrettanti paesi ex comunisti che nel 2004: solo meno sviluppati, più instabili e con una crescente emigrazione. Così, con un tratto di penna, la creazione dell'etichetta "Balcani occidentali" ha rinviato indefinitamente l'ammissione di questi paesi, privandoli del loro carattere "(sud)-est europeo", e riportandoli nell'alveo della fin troppo familiare "balcanità”.

Nel 2018, è ancora improbabile che il mio amico americano trovi il termine "Balcani occidentali" negli opuscoli di viaggio locali. Tuttavia, ciò che troverà fra le popolazioni dei "Balcani occidentali" è un graduale, ma incontrovertibile crollo nel gradimento dell'UE: ora poco più della metà della popolazione considera l'appartenenza all'UE come una "buona cosa". L'etichetta "Balcani occidentali" si è sfacciatamente dimostrata una doppia sconfitta. A quindici anni dal suo conio, ha chiaramente fallito nel contrastare l'euroscetticismo all'interno dell'UE. E nei "Balcani occidentali", anni di riforme cosmetiche hanno reso l'"occidentale" e il "balcanico" sempre più inconciliabili. La condizione di limbo di questi paesi, così saldamente perpetuata dall'etichetta di Balcani occidentali, potrebbe benissimo essere diventata una triste profezia che si autoavvera.




(hrvatskosrpski / français / english / deutsch / italiano)

Raduno clericonazista a Bleiburg

1) In Austria il raduno degli ustascia (A. Mayr, Il Manifesto)
2) Smrt fašizmu! I nazisti europei a Bleiburg, in Austria (G. Rossi, Contropiano)
3) NE fašističkom skupu u Bleiburgu! / Nein zum faschistischen Treffen bei Bleiburg! / No to the fascist meeting at Bleiburg! [Dichiarazione congiunta dei partiti SRP (Croazia) e PdA (Austria) contro la manifestazione clericonazista di Bleiburg]



Isto pogledaj:

Uhapšeno sedam osoba na komemoraciji u Bleiburgu (Al Jazeera Balkans, 12 mag 2018)

Bleiburg: Prosvjed aktivista protiv komemoracije na Bleiburškom polju (prigorskihr portal, 12 mag 2018)

A lire aussi:

CROATIE : L’ÉGLISE CATHOLIQUE CÉLÈBRE LA MÉMOIRE DU CARDINAL STEPINAC, COLLABORATEUR DES OUSTACHIS (Courrier des Balkans, jeudi 10 mai 2018)
Une nouvelle statue a été érigée mardi à Sisak en l’honneur de l’archevêque de Zagreb, Alojzije Stepinac, caution religieuse du régime oustachi pendant la Seconde Guerre mondiale. « Saint » et « héros national » pour l’Église catholique croate, cette figure controversée divise les Balkans...


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In Austria il raduno degli ustascia

Diecimila fascisti croati si incontrano in Carinzia per ricordare l’uccisione di 45 mila filo-nazisti da parte dei partigiani avvenuta nel 1945. E le autorità austriache fingono di non vedere

di Angela Mayr, su Il Manifesto del 15.05.2018

Una valle verde placida, il Loibacher Feld adiacente a Bleiburg-Pliberk a dieci chilometri dal confine sloveno in Carinzia. Lì in mezzo agli abeti una roccia di commemorazione che richiama ogni anno in pellegrinaggio in Austria migliaia di croati. Per una celebrazione religiosa in memoria dei caduti, così recita la versione ufficiale. E’ noto invece che si tratta di ben altro, di un raduno fascista con tanto di bandiere e simboli apertamente esibiti. Un incontro cresciuto negli anni diventando il più grande raduno di questo genere in Europa. Rivelatrice la stessa roccia commemorativa, con la scritta in due lingue: reca la data 1945, in croato glorifica l’esercito, vale a dire gli ustascia alleati dei nazisti mentre la traduzione tedesca, volutamente non fedele rievoca solo i caduti croati, persone dunque e non organizzazioni, evitando così di violare la legge austriaca che vieta la celebrazione del nazismo e l’esibizione di suoi simboli.

Ciò nonostante ogni anno fin dal 1951 in forme sempre più esplicite e vistose si celebrano a Bleiburg le milizie croate che come si sa non sono state seconde ai nazisti come crudeltà e crimini contro l’umanità. Le autorità austriache che hanno sempre guardato dall’altra parte si sono giustificate sostenendo che la simbologia croata non è vietata dalla legge. Quest’anno però il raduno di Bleiburg è stato oggetto di forti polemiche. Tre parlamentari europei austriaci, il socialdemocratico Josef Weidenholzer , Othmar Karas del partito popolare e Angelika Mlinar dei Neos hanno chiesto una legge europea di divieto della propaganda fascista e nazista. Il governatore della Carinzia Peter Kaiser si è detto contrario alla manifestazione ma impossibilitato a vietarla, così il sindaco di Bleiburg entrambi socialdemocratici. La manifestazione si svolge su un terreno privato del «Bleiburger Ehrenzug» – corteo d’onore di Bleiburg organizzatore insieme alla chiesa cattolica croata dell’evento che ha bisogno solo, pare, dell’autorizzazione del clero che è stato concesso dalla diocesi di Gurk (e che solo la chiesa di Roma avrebbe il potere di censurare). Stavolta imponendo ai partecipanti condizioni più rigide: niente divise, canzoni bandiere e distintivi degli ustascia, niente gazebo che vendono simboli nazisti, niente discorsi politici, niente alcool.

Non è servito a molto. Sabato scorso sono arrivati in 10mila di ogni età dalla Croazia, emigrati dalla Germania, veterani della guerra nella ex Jugoslavia degli anni 90. Circa la metà degli autobus erano di croati dalla Bosnia Herzegovina. Ingente presenza di polizia, un magistrato sul campo, telecamere diffuse. Sette gli arresti, nove le denunce per violazione della legge di divieto di riorganizzazione nazista. Le violazioni però sono state di massa come hanno documentato il quotidiano viennese Der Standard e numerosi siti con tanto di foto come no-ustasa.at che fornisce anche dettagliata informazione sul revisionismo storico croato. Magliette col ritratto di Ante Pavelic, capo dello stato fantoccio croato NDH filonazista, bandiere a scacchiera bianco rosso, quella degli ustascia, magliette con la scritta Hos (forza di difesa croata, ala paramilitare del Partito Croato dei Diritti durante la guerra degli anni 90). Presenti alla cerimonia sul Loibacher Feld il presidente del parlamento croato Goran Jandroković (il suo predecessore aveva tolto il patrocinio rifiutando l’invito al «party degli ustascia»), i ministri della Difesa e delle Proprietà statali.

Nel 1945 a fine guerra le milizie ustascia inquadrate nella tredicesima divisione di montagna della SS fuggirono verso la Carinzia per non essere catturati dai partigiani, con l’intento di arrendersi agli inglesi alcuni, altri combattendo fino all’ultimo. Gli inglesi stazionati in Carinzia li consegnarono ai partigiani dell’esercito jugoslavo. A migliaia allora sulla strada del ritorno furono giustiziati, secondo lo storico croato Slavko Goldstein si tratta di circa 45mila persone. Bleiburg è diventato così il simbolo del massacro, della «via crucis croata», rimuovendo il fatto che le vittime non erano civili comuni ma massacratori. Infatti Zelimir Puljic arcivescovo di Zadar che patrocina dal 2003 la manifestazione di Bleiburg nel suo discorso non fa nessun cenno ai crimini nazisti, come se la storia iniziasse nel 1945. Non stupisce: nel dibattito croato sull’uso pubblico del saluto fascista «Za dom spremni», per la patria pronti, Puljic ha difeso il diritto dell’esercito croato di poterlo usare. Una lapide con inciso «Za dom spremni» era stata affissa persino in un luogo come Jasenovac – e in seguito rimossa –, dove gli ustascia croati crearono e gestirono un campo di sterminio, l’unico non gestito da tedeschi o austriaci. Lì uccisero tra 80-100mila persone, a maggioranza ebrei e serbi come documenta uno studio presentato inizio maggio a Zagabria. Globalmente, secondo fonti americane gli ustascia avrebbero assassinate tra le 700-800mila persone in maggioranza serbi.

«Za dom spremni» sabato campeggiava ovunque, leggermente modificato, solo «za dom», per la patria, o solo le iniziali zds per evadere la legge di divieto. Per la prima volta quest’anno vi è stato anche una contro manifestazione. Circa 150 attivisti antifascisti da Austria, Croazia, Slovenia e Italia (Antonia Romana di Transform Italia) hanno creato una preziosa rete.


=== 2 ===


Smrt fašizmu! I nazisti europei a Bleiburg, in Austria

di Giustiniano Rossi, 15 maggio 2018

Sull’asfalto, per tutta la larghezza della strada, qualcuno ha dipinto le parole «Smrt fašizmu», «morte al fascismo». E’ il famoso motto dei partigiani jugoslavi. Nel corso della giornata ci dovranno passare migliaia di fascisti. Molti scoppiano di rabbia quando vedono la scritta. 
Quella che si svolge ogni anno a metà maggio a Bleiburg (Austria) è una delle più grandi marce fasciste d’Europa. Quest’anno i partecipanti, nella piccola località di frontiera, fra Carnia e Slovenia, sono almeno 10.000.
Pliberk (come la minoranza slovena chiama Bleiburg) ha un significato quasi mitologico per i fascisti croati. E’ qui che ha avuto luogo uno degli ultimi grandi scontri della II Guerra mondiale, finito, per i fascisti, in un’amara disfatta. 
Nel 1945 sono decine di migliaia a fuggire verso nord, incalzati dai partigiani jugoslavi. Si tratta soprattutto di militari e sostenitori dei fascisti croati, gli Ustascia, che intendono arrendersi alle truppe inglesi senza rinunciare a proseguire la lotta contro i partigiani. Il progetto non ha successo. I fascisti sono fatti prigionieri dai partigiani. Fra 50 e 70.000 sono passati per le armi. Non senza motivo. Il fascismo cattolico croato degli Ustascia ha imperversato fra ebrei, Rom, serbi ed avversari politici. Nel solo campo di concentramento di Jasenovac gli Ustascia hanno assassinato 100.000 persone.
Dopo la fine della Yugoslavia, i partiti di destra della Croazia indipendente hanno rispolverato il mito di Bleiburg, un’operazione in cui si è distinta l’Unione Democratica Croata (HDZ) attualmente al governo. A Bleiburg, il partito fratello della CDU/CSU tedesca è rappresentato anche quest’anno da alti personaggi, fra i quali il presidente del parlamento Gordan Jandroković e il ministro della Difesa Damir Krstičević.
Ufficialmente, la marcia di Bleiburg è una commemorazione cattolica. Il fascismo ustascia era cattolico, erano preti persino dei comandanti del campo di concentramento di Jasenovac. Ancora oggi, i rapporti fra clero e fascismo sono stretti. Quest’anno la messa è stata celebrata da Želimir Puljić, vescovo di Zadar. 
Anche la Chiesa cattolica austriaca è coinvolta. Durante la messa e la marcia conclusiva verso il memoriale, le migliaia di fascisti ostentano apertamente la loro fede. I simboli del movimento fascista degli Ustascia sono visibili dappertutto. I partiti croati concorrenti, di estrema destra, brandiscono le loro insegne. I saluti nazisti si sprecano.
Tutto si svolge alla luce del sole. T-shirt, elmetti della Wehrmacht, tatuaggi SS, emblemi ustascia. Sotto gli occhi della polizia. Salta agli occhi anche la forte presenza di strutture croate in esilio, provenienti dall’Austria e dalla Germania. 
Un centinaio di persone, arrivate dall’Austria, dalla Slovenia e dalla Croazia, protestano contro la marcia. Un inizio. L’anno prossimo, secondo la rappresentante dell’Associazione degli ex internati nei campi di concentramento, la protesta sarà più vasta e a carattere internazionale.


=== 3 ===

[Dichiarazione congiunta dei partiti SRP (Croazia) e PdA (Austria) contro la manifestazione clericonazista di Bleiburg]



--- NE fašističkom skupu u Bleiburgu!


Zajednička izjava Socijalističke radničke partije Hrvatske (SRP) i Radničke partije Austrije (PdA), Zagreb i Beč, 12. 05. 2018.

Svake godine, druge nedjelje u mjesecu maju, u Bleiburgu/Pliberku (Koruška, Austrija) održava se komemoracija hrvatskim žrtvama Drugog svjetskog rata. Formalno je to memorijalna misa koju zajednički predvode Katolička crkva Hrvatske i Koruške.

U stvari, događaj koji već desetljećima organizira Počasni bleiburški vod je sastanak desničarskih ekstremista i fašista. U Bleiburgu se svake godine okupljaju stari i novi nacisti, ustaše, “veterani” Wehrmachta i SS-a i njihovi simpatizeri, fašisti, ekstremne desničarske grupe i pojedinci i oplakuju poraz Hitlerove Njemačke i kolaboracionističke Nezavisne države Hrvatske. Sudionici slave fašističke ideje, povijesni revizionizam, rasizam i antisemitizam, veličaju Adolfa Hitlera i Antu Pavelića.

Istovremeno pokušavaju falsificirati povijest. Fašističke režime oslobađaju od krivnje, a kriminaliziraju antifašistički otpor, posebno onaj koji su pružali jugoslavenske i austrijsko-slavenske partizanske jedinice, kao i komunističke organizacije. Ali činjenice su činjenice: u maju 1945. je izvojevana velika antifašistička pobjeda naroda, Antihitlerovska koalicija je slavila vojnu pobjedu nad fašizmom, terorom, masovnim uništenjem i genocidom u Europi. To su dani oslobođenja i radosti, a ne oplakivanja ustaškog režima, hrvatskih ratnih kriminalaca i njihovih njemačkih i austrijskih saveznika.

Socijalistička radnička partija Hrvatske i Radnička partija Austrije zajednički izjavljuju:

– Osuđujemo fašističko okupljanje u Bleiburgu, bez obzira na izgovor pod kojim se održava, i tražimo da se zabrani!

– Pozivamo hrvatsku i austrijsku vladu da osude ovo okupljanje i da ubuduće spriječe njegovo održavanje!

– Od Katoličke crkve u Hrvatskoj i Austriji, koje nose povijesnu ljagu kolaboracije s ustašama i austrijskim fašistima, očekujemo da preispitaju svoju ulogu i da se distanciraju od Počasnog bleiburškog voda!

– Pozivamo narode Austrije i država sljednica Jugoslavije da bez obzira na državljanstvo, jezik ili vjeroispovijest zajednički ustanu protiv nacionalizma i rasizma, da rade u duhu internacionalizma i antifašizma, za mir i međunarodno prijateljstvo!

Smrt fašizmu, sloboda narodu!


--- Nein zum faschistischen Treffen bei Bleiburg!

Gemeinsame Erklärung der Sozialistischen Arbeiterpartei Kroatiens (SRP) und der Partei der Arbeit Österreichs (PdA), Zagreb und Wien, 12. Mai 2018.

Am zweiten Sonntag im Mai findet jedes Jahr bei Bleiburg/Pliberk (Kärnten, Österreich) ein Treffen zur Erinnerung an kroatische Todesopfer des Zweiten Weltkrieges statt. Formell wird eine Gedenkmesse durchgeführt, die sowohl von der Römischen-katholischen Kirche Kroatiens als auch jener des österreichischen Bundeslandes Kärnten unterstützt wird.

In Wirklichkeit handelt es sich bei der Veranstaltung des „Bleiburger Ehrenzuges“ (Počasni Bleiburški vod) seit Jahrzehnten um ein Treffen rechtsextremer und faschistischer Kräfte. Jedes Jahr kommen in Bleiburg Alt- und Neonazis, Ustascha-, Wehrmachts- und SS-„Veteranen“ und -Sympathisanten, faschistische und rechtsextreme Gruppierungen und Personen zusammen, um die Niederlage Hitler-Deutschlands und des mit ihm kollaborierenden „Unabhängigen Staates Kroatien“ ((Nezavisna Država Hrvatska, NDH) zu betrauern. Faschistisches Gedankengut, Geschichtsrevisionismus, Rassismus und Antisemitismus werden von den Teilnehmern zelebriert, Adolf Hitler und Ante Pavelić werden verehrt.

Gleichzeitig wird versucht, die Geschichte zu fälschen. Die faschistischen Regime sollen entlastet werden, während der antifaschistische Widerstand kriminalisiert werden soll, insbesondere jener der jugoslawischen und österreichisch-slowenischen Partisanengruppen sowie der kommunistischen Organisationen. Doch es bleibt dabei: Der Mai 1945 markiert den großen antifaschistischen Sieg der Völker und den militärischen Triumph der Anti-Hitler-Koalition über die Kräfte des Faschismus, des Terrors, der Massenvernichtung und des Völkermordes in Europa. Es sind Tage der Befreiung und der Freude, nicht der Trauer um das Ustascha-Regime, seine kroatischen Kriegsverbrecher und seine deutschen und österreichischen Verbündeten.

Die Sozialistische Arbeiterpartei Kroatiens und die Partei der Arbeit Österreichs halten gemeinsam fest:

– Wir verurteilen das Faschistentreffen bei Bleiburg, egal unter welchem Deckmantel es stattfindet, und verlangen sein Verbot!

– Wir fordern die kroatische und die österreichische Regierung auf, dieses Treffen ebenfalls zu verurteilen und für die Zukunft zu verhindern!

– Wir erwarten von den Katholischen Kirchen in Kroatien und Österreich, die sich als Kollaborateure des Ustascha-Faschismus bzw. des Austrofaschismus historisch belastet haben, dass sie ihre Rolle überdenken und sich vom „Bleiburger Ehrenzug“ distanzieren!

– Wir rufen die Völker Österreichs und der Nachfolgestaaten Jugoslawiens, ungeachtet persönlicher Staatsbürgerschaft, Sprache oder Religion, dazu auf, sich gemeinsam gegen Nationalismus und Rassismus zu stellen, im Geiste des Internationalismus und Antifaschismus für Frieden und Völkerfreundschaft zu wirken!

Tod dem Faschismus, Freiheit den Völkern!


--- No to the fascist meeting at Bleiburg!

Joint Declaration by the Socialist Workers Party of Croatia (SRP) and the Party of Labour of Austria (PdA), Zagreb and Vienna, 12th May 2018

On the second Sunday of every May, a meeting is held at Bleiburg/Pliberk (Carinthia, Austria) to commemorate Croatian victims of the Second World War. Formally a memorial mass is held, which is supported by both the Catholic Church of Croatia and that of the Austrian province of Carinthia.

In reality, for decades the “Bleiburger Ehrenzug” (Počasni Bleiburški vod) event has been a meeting of right-wing extremist and fascist forces. Every year, old Nazis and neo-Nazis, Ustasha, Wehrmacht and SS “veterans” and sympathisers, fascist and right-wing extremist groups and individuals gather in Bleiburg to mourn the defeat of Hitler-Germany and the “Independent State of Croatia” (Nezavisna Država Hrvatska, NDH) that collaborated with it. Fascist ideas, historical revisionism, racism and anti-semitism are celebrated by the participants, Adolf Hitler and Ante Pavelić are venerated.

At the same time, an attempt is made to falsify history. The fascist regimes are to be exonerated, while the antifascist resistance is to be criminalised, especially those of the Yugoslavian and Austrian-Slovenian partisan groups as well as the communist organisations. But the fact remains: May 1945 marked the great anti-fascist victory of the peoples and the military triumph of the anti-Hitler coalition over the forces of fascism, terror, mass destruction and genocide in Europe. These are days of liberation and joy, not mourning for the Ustasha regime, its Croatian war criminals and its German and Austrian allies.

The Socialist Workers Party of Croatia and the Party of Labour of Austria jointly declare:

– We condemn the fascist meeting at Bleiburg, no matter what guise under which it takes place, and demand that it should be banned!

– We call on the Croatian and Austrian governments to condemn this meeting too and to prevent it from taking place in the future!

– We expect the Catholic Churches in Croatia and Austria, who bear the historical stain as collaborators with Ustasha fascism and Austrofascism, to reconsider their role and distance themselves from the “Bleiburger Ehrenzug”!

– We call on the peoples of Austria and the successor states of Yugoslavia, regardless of personal citizenship, language or religion, to stand together against nationalism and racism, to work in the spirit of internationalism and anti-fascism for peace and international friendship!

Death to fascism, freedom to the peoples!