Informazione


FEBBRAIO, MESE DEI NECROFILI

Oltre al 10 Febbraio, dedicato agli infoibati, avremo anche il 9 "Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi":

http://saviano.blogautore.repubblica.it/2010/12/03/per-decisione-della-magistratura/?ref=HREC1-2

(IS)




(srpskohrvatski / italiano)

L'appello dei sindacalisti della Zastava

1) Lettera dei sindacalisti Zastava agli adottanti italiani
2) Intervista a Zoran Mihajlovic, a cura di Gilberto Vlaic
3) Zastava, FAS i Fijat: Intervju sa Zoranom Mihajlovićem (Crvena Kritika)

Segnaliamo che un interessantissimo articolo sul calvario della Zastava Auto di Kragujevac, oggi requisita dalla FIAT con un colpo di mano imperialista di quelli da manuale, appare sull'ultimo numero (3-4/2010) de L'ERNESTO: http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=4

FIAT SERBIA: UN CLASSICO CASO DI IMPERIALISMO
di Andrea Catone

La rivista si trova in alcune librerie e si riceve per abbonamento: http://www.lernesto.it/index.aspx?m=53&did=4
Speriamo di poter pubblicare in internet nel prossimo futuro una versione elettronica di questo saggio illuminante sullo scontro capitale-lavoro in atto a livello internazionale.


=== 1 ===

Lettera dei sindacalisti Zastava agli adottanti italiani

La lettera che segue è stata inviata nei giorni scorsi, in forma adattata per ciascun referente specifico, alle associazioni di solidarietà che da anni mantengono progetti di sostegno alle famiglie dei lavoratori della Zastava bombardata.
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JEDINSTVENA SINDIKALNA ORGANIZACIJA ZASTAVA

Adresa : Тrg Тopolivaca 4, 34000 Kragujevac
Telefon/Faks : 034/335 367 & 335 762 - lokal : 22 69 - Elektronska pošta : jsozastava @ nadlanu.com

Care amiche, cari amici


Siamo a distanza di 20 anni da quando e’ iniziato il disastro nei Balcani, lo sfascio di un grande paese che fu l’esempio di convivenza multietnica; poi arrivarono l’embargo e missili del 1999 che rasero al suolo la piccola Yugoslavia gia’ distrutta e impoverita dalle sanzioni.


Cosa e’ cambiato in un decennio?


Il nostro paese ora si chiama Serbia (dal 1882 fino ad oggi 9 volte ha cambiato nome), la maggioranza della popolazione si dichiara ancora come yugoslavi, siamo in 7 milioni e secondo le statistiche uno su 10 vive sotto la soglia della poverta’. La piú colpita e’ la fascia dei bambini, particolarmente i malati e figli dei profughi.


Cos’e’ la soglia della poverta in Serbia? Sono 8.800 dinari cioe’ chi spende meno di 80 euro al mese, piu precisamente 2,5 euro al giorno per cibo, bollette, vestiario, istruzione, sanita’ ecc.


Con cambio dinaro/euro la poverta’ aumenta ogni giorno e cresce il numero di mense popolari dove alle famiglie viene consegnato un pasto al giorno (per queste famiglie l’unico pasto nella giornata).


Il salario medio in Serbia e’ 321 euro al mese, la pensione media 193 euro al mese (Istat – 25.11.2010.).


Secondo l’ISTAT serbo il paniere mensile a settembre del 2010 (di una famiglia media di 4 membri) e stato 85.479,63 dinari cioé 810 euro.


Per quanto riguarda “l’affare del secolo“ secondo il governo serbo riferito al contratto con la Fiat, fino ad oggi alla FAS (Fiat Auto Serbia) si fa solo l’assemblaggio della vettura Punto con i pezzi che arrivano dall’Italia; per parecchi mesi la maggioranza dei lavoratori è stata in cassa d’integrazione 2 settimane al mese con salario medio di 270 euro al mese. Ora tutti lavorano (1050 lavoratori della FAS) per assemblare le scorte di auto entro Pasqua perche’ dalla Pasqua fino a novembre del 2011 saranno tutti in cassa d’integrazione. Ora percepiscono un salario di 300 euro al mese.

Nel frattempo 1.600 lavoratori della fabbrica Auto che non sono stati assunti dalla FIAT aspettano una soluzione per il futuro.

Cari amici e compagni, speriamo che i dati di cui sopra possano aiutarvi a immaginare la vita in Serbia ed innanzitutto a capire quanto sia ancora prezioso il vostro contributo di solidarieta’. Noi sappiamo che una grave crisi economica ha colpito pure il vostro paese ma vi invitiamo a non far cessare il vostro contributo di solidarieta’ per aiutare questi ragazzi sfortunati a finire gli studi e costruire assieme ai vostri figli un mondo migliore senza guerre, odio etnico e con lavoro per una vita dignitosa.


Rajka Veljovic

Ufficio relazioni estere e adozioni a distanza

Radoslav Delic
Segretario generale Sindacato ZASTAVA

Kragujevac, 30 novembre 2010


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Non bombe ma solo caramelle - onlus
Viaggio a Kragujevac 20-24 ottobre 2010

Intervista a Zoran Mihajlovic, 
segretario generale del sindacato Samostalni della Fiat Auto Serbia e della Zastava Automobili di Kragujevac
e Vicesegretario dei metalmeccanici serbi del Samostalni

(a cura di Gilberto Vlaic)


Domanda: 
c’è stata la riunione dei Sindacati Metalmeccanici a Bruxelles a settembre; come è andata?

Risposta: 
l’incontro di Bruxelles era stato pensato come l’inizio di una rete dei sindacati presenti nelle fabbriche FIAT in tutta Europa; erano presenti 32 rappresentanti sindacali di 12 Paesi di tutta Europa e Peter Scherrer della Confederazione Europea dei Sindacati (segretario della Fédération Européenne des Métallurgistes).

Zoran è stato invitato insieme ad un altro rappresentante sindacale serbo del sindacato Nezavisnost; la traduzione era piuttosto carente e non è riuscito a capire esattamente tutto anche se i documenti preliminari erano stati tradotti preventivamente in Serbo.

L’argomento principale era la ristrutturazione della FIAT in due strutture separate: industria auto da una parte e camion e macchine agricole e trasporti in genere dall’altra. Ristrutturazione che dovrebbe essere completata entro l’anno 2010.
C’è la preoccupazione che questo comporterà la scomparsa di un interlocutore unico e che dovranno essere organizzati due luoghi diversi di contrattazione, cosa che porterà ad un indebolimento del Sindacato.
Altra preoccupazione: a chi saranno dati in carico i debiti della Fiat?
La delegazione italiana voleva una conclusione concreta della riunione ma non c’è una visione comune tra tutti i sindacati, questa volta a frenare erano gli Spagnoli e come sempre i Polacchi; l’incontro è stato interrotto a metà senza alcun accordo.

Zoran è rimasto molto deluso perchè è la seconda volta che si sono incontrati (il precedente incontro era di settembre 2009) senza avere alla fine conclusioni concrete perchè hanno sempre parlato di quello che farà la Fiat e mai di una strategia sindacale.
Non si è neppure parlato dell’accordo di Pomigliano.

Domanda:
 l’accordo del Governo serbo con il FMI (prestito di 2.9 miliardi di euro) del febbraio scorso prevedeva il blocco delle pensioni e licenziamenti massicci nel pubblico impiego.

Risposta: 
non è successo niente e non sono noti i meccanismi di impiego di quei soldi.

Domanda: 
durante la vostra permanenza in Friuli V.G. ad agosto scorso si era detto di uno sciopero generale al 29 settembre.

Risposta: 
abbiamo organizzato recentemente vari scioperi, fino ad ora tre in tre città differenti, l’ultimo ieri (il 22 ottobre) a Novi Sad, c’erano circa 10.000 persone.
Purtroppo noi abbiamo un boicottaggio mediatico totale e nulla esce sulle televisioni.
Sui nostri telegiornali si parla degli scioperi in Francia, in Grecia, in Italia, ma non se de dicono i motivi; in questo modo è stata anche la manifestazione della FIOM del 16 ottobre a Roma: non si sapeva chi l’aveva organizzata e perchè.

La segreteria nazionale del Samostalni ha deciso di lanciare un referendum contro la legge proposta dal governo sulle pensioni. Il Governo ha ritirato immediatamente la legge, che prevedeva un aumento dell’età pensionabile, la cancellazione dei diritti per lavoratori sottoposti a lavori usuranti ed una modifica al ribasso per i parametri per il calcolo della pensione, che potrebbero arrivare addirittura al 30% del salario medio.
Questo perchè questo referendum potrebbe significare la caduta del governo.

Sulla Zastava (per accorciare la parte scritta ometto di riportare le domande che noi abbiamo posto, ma riporto solo le risposte):

Zastava Kamioni

La Iveco non è interessata ad entrare nella fabbrica, e la situazione è totalmente incerta.
I lavoratori sono circa 700, la produzione è bassissima, poche decine di camion all’anno.
La paga media è di 320 euro.

Fiat Auto Serbia (FAS) e Zastava Auto (cioè quella parte dei lavoratori rimasti a carico del Governo)

I lavoratori FAS sono 1000, come prima, e Zastava Auto 1600.
La fabbrica al momento è un grande cantiere dove entrano sia lavoratori FAS che Zastava Auto.

I lavoratori FAS assemblano la Punto nella unica linea rimasta, mentre gli altri lavorano sulla ricostruzione dei reparti.

Il Sindacato ha chiesto un aumento dei salari in FAS e proclamato uno sciopero per il 19 ottobre.
La Fiat ha risposto dichiarando il 19 ottobre giorno non lavorativo.
La risposta finale di Zoran è stata che la Fiat non potrà dichiarare sempre giorni non lavorativi e che comunque il primo giorno lavorativo sarebbe stato un giorno di sciopero.
A questo punto il nostro governo ha reagito ed abbiamo avuto un incontro al Ministero dell’Economia, dove è stato deciso di continuare le trattative e Giovanni De Filippis direttore dela FAS è stato letteralmente portato per forza alla fabbrica a trattare con noi e ci siamo messi d’accordo per gli aumenti; questo mese e a dicembre avranno due bonus pari al 50% di una mensilità e da novembre un aumento del 10%.
Il salario attuale medio è di 320 euro per un mese completo di lavoro, cosa che non accade mai.
Questi aumenti sono solo per il lavoratori FAS, non per quelli che sono in Zastava Auto, dove i salari medi sono di 250-260 euro al mese.

L’orario di lavoro attuale è di 5 giorni per otto ore giornaliere, mentre la Fiat propone ora 4 giorni lavorativi con orario di 10 ore; noi abbiamo rifiutato.
La proposta è tesa a risparmiare un giorno di riscaldamento, luce, acqua e indennità di trasporto che è una voce della busta paga.
I nostri lavoratori non riescono già a lavorare le otto ore, perchè i ritmi sono alti e l’età media è molto alta, e dopo venti anni di una vita anormale non sono più in grado di lavorare così.
Se e quando inizieremo la produzione di 200.000 vetture anno i ritmi teoricamente dovrebbero aumentare di 4 volte! Meglio uccidere tutti i lavoratori subito.

A settembre e ottobre hanno lavorato metà mese, la situazione è un po' migliorata e la Fiat si è impegnata a fare orario intero fino ad aprile, perchè poi da aprile a ottobre sarà fermato l’assemblaggio perchè dovrebbero arrivare gli impianti nuovi che dovrebbero essere installati nei capannoni.
Per questi sei mesi di fermo il salario dei lavoratori FAS sarà dell’80%.
Per i lavoratori Zastava auto ci sarà una trattativa con il governo a novembre prossimo.
Quello che non va bene in questo momento è che i subfornitori della Fiat non sono ancora arrivati e noi abbiamo seri dubbi che questi arriveranno; questo vuol dire che l’assunzione di altri mille lavoratori per la futura produzione del nuovo modello potrà essere possibile, ma si tratterà solo di montaggi di pezzi prodotti altrove.
La vettura quindi non sarà un prodotto serbo ma un prodotto italiano montato in Serbia.

Per il 2010 la FAS aveva previsto il montaggio di 30.000 Punto.
Ieri [cioè il 22 ottobre, nota di Gilberto] le televisioni serbe erano piene di trasmissioni che celebravano il montaggio della trentamillesima Punto, spacciandola come produzione del 2010.
In realtà queste 30.000 Punto sono quelle uscite dalla fabbrica a partire dal 30 marzo del 2009.
Nel 2009 sono state 18.000, e nel 2010 fino ad ora 12.000.
Totale 30.000!!!

Quest’anno esiste ancora il bonus governativo di 1000 euro per vettura nuova.
Comunque in relazione alla crisi economica sempre più forte è calata anche la vendita e il Governo ha anche abbassato le tasse sulla importazione di macchine usate, perchè la popolazione ha sempre meno risorse possibili.
Quindi adesso potrete comprare una vettura della stessa fascia della Punto ad un prezzo molto più basso, però usata.
Paradossalmente è cresciuto il mercato della Yugo usata, che non è più prodotta dalla nostra fabbrica.

Fino ad ora l’investimento della Fiat è stato zero. Hanno versato 100 milioni, che sono su qualche conto in qualche Banca.

Tutti gli investimenti che si vedono sono del Governo, il resto sono chiacchiere del Sindaco di Kragujevac e della Fiat, ma con le chiacchiere non si vive.

La nuova linea di produzione non esiste ancora, non è arrivato nulla. Si dice che la fabbrica sarà fermata da aprile fino ad ottobre del 2011 per l’installazione dei nuovi impianti.

Per quanto riguarda i mercati in cui le Punto assemblate sono vendute: oltre alla Serbia, le ex repubbliche jugoslave, l’Africa del Nord, la Siria.

Tra Kragujevac e Batocina c’è l’area di circa 70 ettari di Korman Polje, che dovrebbe essere attrezzata (con spese a carico pubblico) per ospitare i subfornitori della Fiat [vedi nostra relazione di viaggio di ottobre 2009]. La previsione iniziale era che poteva entrare in funzione intorno al 2017; attualmente è tutto fermo, in quanto non sono iniziati neanche gli espropri, se non in minima parte. Se il problema non si risolve entro novembre ci saranno penali da pagare alla Fiat. I terreni al momento sono stati seminati dai contadini proprietari.
Per mettere in funzione Korman è anche necessario finire la bretella autostradale, che necessita di almeno un altro anno e mezzo per essere finita.

Dovrebbe essere inoltre costruita una circonvallazione della città e un tunnel di alcuni chilometri che si dice sia stato appaltato ad una azienda cinese, che dovrebbe inviare 500 minatori.

In conclusione al momento non è arrivato nulla dell’indotto Fiat.

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Nota di Gilberto Vlaic

Su questa vicenda di Korman Polje sono molto recentemente usciti due articoli sul Piccolo di Trieste esattamente opposti tra di loro:
http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2010/09/28/NZ_09_SPAL.html
di AZRA NUHEFENDIC 28-9-2010 dove si dice che tutto a Korman va a rilento

ed il seguente
http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2010/10/14/NZ_09_APRE.html
di Giulio Garau dove si dice che Korman non ci sono problemi e che inoltre parla di 30.000 posti di lavoro in Serbia targati Fiat.


Su questo problema esiste anche un interessante documento del 25-5-2010 di Giovanni De Filippis, Amministratore delegato della FAS, nel quale si possono vedere gli schemi dell’autostrada, del tunnel e di Kozman e capire meglio ciò che dice Zoran in questa intervista.

Secondo Zoran i 30.000 posti di cui parla Garau sono probabilmente quelli che il Governo dice che ci saranno per tutta la Serbia nel prossimo anno (Novosti, del 22 ottobre 2010).

Sempre nell’articolo di Garau si parla della compagnia koreana Yura che ha comperato fabbrica di cablaggi per auto Zastava Elektro a Raca, cittadina della Sumadija a 30 kilometri da Kragujevac; questo acquisto è paradigmatico di come funzionano le privatizzazioni e conviene descriverlo con un certo dettaglio.

La fabbrica era già stata privatizzata nel 2006 ed acquistata da un consorzio di imprenditori privati con a capo Ranko Dejanovic, marito della attuale Presidente della Camera dei Deputati Slavica Djukic-Dejanovic; questa privatizzazione era poi stata dichiarata nulla alla fine del 2008 per il mancato rispetto degli obblighi contrattuali, tra i quali acquisto di macchinari vecchi come nuovi, mancato pagamento dei salari per molte mensilità. I lavoratori avevano manifestato in tutti i modi per sei mesi consecutivi.

Yura ha deciso di acquistare la fabbrica ed ha pagato per questo acquisto 3 milioni di euro al Governo serbo.
L’impegno di Yura è di investire 8 milioni di euro a Raca.
Successivamente Yura ha assunto circa mille lavoratori, ricevendo per ciascuno di essi un contributo di 4.500 euro dal Governo, e cioè 4.5 milioni!!! sufficienti per pagare i salari per circa due anni.
Il Governo serbo si è fatto anche carico di tutte le spese legate al processo di acquisto e di ulteriori 700.000 euro per i costi di training.

Secondo il contratto di privatizzazione la Yura non aveva obbligo di riassumere i lavoratori precedenti e dunque tutti i 285 (meno che otto) si sono licenziati per aderire al programma sociale di tutela che prevede 300 euro di liquidazione per anno lavorato pregresso.

Il processo di privatizzazione è iniziato alla fine di gennaio 2010 ed è terminato due mesi dopo; a giugno la fabbrica è entrata in funzione; l’occupazione è cresciuta da circa 300 lavoratori ad aprile a 800 a settembre con la previsione di 1000 dipendenti a fine dicembre 2010.

I lavoratori sono assunti in prova con un contratto di 195 euro/mese e indennità mensa di 30 euro/mese.
Se superano il periodo di prova e vengono assunti a tempo indeterminato hanno un aumento di circa 30-50 euro/mese.


La Yura ha proposto di costruire una nuova fabbrica a Nis, durante il 2011, con la prospettiva di impiegare 1500 lavoratori; il Ministro dell’economia Mladjan Dinkic ha dichiarato che il bonus governativo sarà portato a 7000 euro per posto di lavoro perchè (testualmente dichiarato alla televisione B92) ‘’Yura è un investitore serio’’. Ecco uno più realista del re...


Segnalo il sito in italiano della agenzia governativa SIEPA che sovvenziona le aziende che investono in Serbia: http://www.siepa.gov.rs/site/it/home/

Si scoprono delle cose allucinanti!
Le ditte che investono in Serbia ricevono a fondo perduto cifre dell’ordine di 3-10 mila euro per posto di lavoro creato, a seconda del numero totale di lavoratori, della sede geografica in Serbia e del settore merceologico.

E’ impossibile riassumere qui tutti i benefici fiscali previsti per queste aziende; si consiglia a chi è interessato di consultare il sito della SIEPA.


=== 3 ===


Zastava, FAS i Fijat: Intervju sa Zoranom Mihajlovićem


 

Napisao Crvena Kritikačetvrtak, 02 decembar 2010 17:46


Šta se desavalo sa kragujevačkom Zastavom tokom dve decenije tranzicije?

Koje su okolnosti pod kojima je ovo preduzeće privatizovano od strane italijanske multinacionalne kompanije Fijat?

Šta se u medijima retko čuje i zašto?

U potrazi za odgovorima na ova pitanja, članovi redakcije "Crvene kritike"su razgovarali sa Zoranom Mihajlovićem, sekretarom Samostalnog sindikata Fijat automobila Srbija.

 

Crvena Kritika: Kakvo je stanje u Zastavi, odnosno u Fijat automobilima Srbija, kakvo je bilo pre
devedesetih, i kako se sadašnji način rada razlikuje od toga?

Zoran Mihajlović: Zastava automobili imaju tradiciju saradnje od neke 1955-56. godine sa Fijatom
odnosno tih godina se odlučilo da fabrika, koja je proizvodila oružje, malo proširi svoje kapacitete i da
se napravi jedna nova fabrika koja će proizvoditi automobile i tada se stupilo u kontakt sa Fijatom, mi
smo prvom opremom koju smo dobili od Fijata proizvodili fiću tj. malo veću verziju Fijatovog topolina, i
svi kasniji proizvodi su bili slični Fijatovim i bili su kompatibilni sa njihovim proizvodima. Znači, već u tom
periodu smo imali neku saradnju.

Do 1988/89. godine se beleži stalan rast u proizvodnji i plasmanu automobila i čak se u tim rekordnim
godinama dostizao broj od skoro 200 000 proizvedenih vozila godišnje, što je značilo značajan boljitak za
radnike, a i za čitavu zemlju. Tada se krenulo sa izvozom i za Ameriku, za koji se na kraju ispostavilo da je
bio takav kakav je bio. To je bio naš maksimum koji smo postigli kao proizvođač automobila, a onda je
došla 1990. godina kada su počele krize, kada je počelo razdvajanje zemlje i rat. Tada smo izgubili veoma
značajno tržište u Jugoslaviji, gde smo plasirali većinu svoje robe, a uz to smo izgubili i komponentaše koji
su bili rasuti po celoj bivšoj državi, npr. najveći naš komponentaš je bila Jugoplastika iz Splita koja je po
početku rata prestala da nam isporučuje delove. Godine 1991. smo imali drastičan pad kad je
proizvodnja sa tih 200 000 automobila pala na svega nekih 15 000 automobila godišnje. Uz to smo imali
sankcije, nove ratove, bombardovanje u kojem smo rušeni nekoliko puta, pa smo sami obnavljali fabriku i
negde do 2000. godine smo uspeli fabriku da stavimo pod krov, odnosno da je dovedemo u ono stanje u
kojem je bila devedesetih godina. Međutim, značajnije investicije u opremu i proizvodnju, nešto novo,
nismo imali, i bili smo u situaciji da 2000. godine imamo fabriku koja ima modele stare petnaest godina,
opremu na kojoj se jednostavno više nije mogao praviti kvalitetan proizvod, a takođe nije bilo ni
kooperacije nego smo sami morali da osvajamo pozicije za neke delove, a kooperacija je bila u još goroj
situaciji. Čak i kad bismo bili u kontaktu sa njima nismo od njih mogli da dobijemo kvalitetne proizvode
koje bismo ugrađivali u naše automobile, tako da je pao i kvalitet naših automobila do trenutka kada smo
privatizovani, dotle smo se krpili i pokušavali da preživimo u tim godinama. Kada su 2000. nastupile
demokratske promene u zemlji smatrali smo da će stvari preko noći da se promene na bolje, ali, to
nažalost nije išlo tako. Mi smo bili prvi koji smo došli u sukob sa tom novom vlašću, prvi smo organizovali
proteste koji su trajali šest meseci iz dana u dan. Dolazili si ministri koji su pokušavali da reše taj problem,
ako se sećate Đelić, Vlahović, tadašnji ministar rada Milovanović. Čak su u jednom trenutku dobili batine
od radnika koji su srušili kapije, polomili automobile, revoltirani time što su ovi pokušali da pobegnu iz
fabrike. Posle toga se stupilo u neke pregovore. To je bila tipična prevara radnika.Tada se fabrika sa blizu
10 000 zaposlenih svela na nekih 4 500, 6 000 radnika je prešlo na neki ZZO (Zastava zapošljavanje i
obrazovanje, prim. red.). Ljudi su bili na plaćenom odsustvu, čekali su neki posao, i to je trebalo da traje
tri-četiri godine dok se fabrika ne privatizuje i napravi nešto novo, pa da ti radnici budu vraćeni na radna
mesta. Tako je nama pričana priča, nažalost, to se nikad nije desilo. Taj ZZO koji je trebalo da traje te tri-
četiri godine je trajao sedam godina. Mi smo to prolongirali, pokušavali da dobijemo na vremenu, da ti
radnici dobijaju platu i prežive nekako te godine, a onda je ministarstvo ekonomije odnosno ministar
Dinikić rešio da prekinu finansiranje tog ZZO-a i ljudi su u jednom danu dobili otpremnine i ostali su bez
ikakvog posla, a u fabrici je ostalo 4 500 radnika. Međutim, ni tu nisu završili svoj posao, bilo je stalnih
pritisaka da smanjimo broj radnika jer nije bilo nikakvog efekta, nije bilo proizvodnje, nije se dešavala
privatizacija koju smo očekivali, strateških partnera nije bilo. Mi smo svake godine u nekoj predizbornoj
kampanji, pred neke izbore i sl. korišćeni, zloupotrebljavani od strane vlasti tako što su nam dovodili
neke ljude koji su navodno bili zainteresovani da kupe fabriku, a u stvari su to bili neki šarlatani koji nisu
imali ni novac niti mogućnost za to.

CK: Koliki je tačno i prema kome bio dug Zastave? Šta se desilo sa tim dugom?

Z.M: U 2006, kad je ministar Bubalo bio u ministarstvu privrede, mi smo rešili da vratimo dug Fijatu
koji smo vukli još iz osamdesetih godina, oko 11 500 000 eura. Prodali smo nešto od naše imovine koju
smo tada imali. To su bile servisno-prodajne kuće u zemlji, neka odmarališta koja smo imali u Hrvatskoj
i Makedoniji. Tako smo namirili dug, a onda smo ušli u priču da od njih kupimo opremu i da počnemo
sa sklapanjem punta. Oko 14 000 000 evra smo uložili u nabavku i instaliranje opreme, odnosno platili
smo Fijatovom partneru, koji njima nabavlja opremu. Pored proizvodnje starih modela krenulo se i sa
sklapanjem punta i to je trajalo nekih godinu dana. Paralelno sa tim pokrenuli smo ugovor sa Opelom
i tu je trebalo da bude ista priča, da nam država omogući da uvezemo kontingent od 5000 automobila
bez carine i poreza, da to ide za kupovinu nove opreme i da posle toga u jednom momentu imamo
sklapanje punta i opela astre klasik, a da stare modele izbacimo iz upotrebe, da postepeno uvozimo
novu tehnologiju, da bi kasnije Fijat i Opel ušli sa još po jednim modelom, pa bismo imali 4 modela
novije generacije, a polako bismo ulagali i u obnovu fabrike, jer u to vreme nije bilo zainteresovanih
strana za privatizaciju fabrike i investiranje.

Onda se desio maj mesec 2008. godine. U jeku predizborne kampanje Fijat je odjednom pokazao
interesovanje, i potpisali smo preliminaran ugovor o nekoj tehničkoj saradnji. Došli su pompezno, to
je sada vladajuća garnitura iskoristila kako na lokalnom tako i na državnom nivou. Svi su dolazili da
se slikaju, najavljivali dolazak Fijata, valike investicije, posao veka. To je, za nas u Zastavi, koji smo
deset godina tavorili, normalno, značilo izlaz iz agonije jer je situacija bila ili da nas zatvore ili da se
privatizujemo, što je značilo ozbiljnog strateškog partnera. Naravno, mi smo na tu priču vrlo lako naseli
jer su obećavali dva nova modela, proizvodnju od 300 000 automobila godišnje, 10 000 radnih mesta.
Sada vidimo da to baš i ne ide onako kako se obećavalo.

CK: Koje sve pogodnosti je država dala Fijatu i firmama sa kojima sarađuje da bi došli u Srbiju?

Z.M: U septembru se potpisao i zvanični ugovor ali nažalost daleko od očiju javnosti i daleko od
propagirane ideje da to bude transparentno. Mi smo ugovore, kao sindikat, videli tek nekih 15 dana
posle potpisivanja i bili smo vezani poslovnom tajnom da moramo neke detalje iz ugovora da držimo u
tajnosti zato što bismo odavanjem tih detalja čak mogli dospeti i u zatvor, ali se i izdaleka videlo da je
država dala prevelike pogodnosti odnosno da je dosta favorizovala Fijat, i da je bilo kojoj drugoj firmi
dala takve pogodnosti verovatno bi i ta firma došla. Država je Fijatu pružila mogućnost da imaju fabriku
u dvotrećinskom vlasništvu, da Fijat ulaže prema reciprocitetu 1:3 što znači da za 3 evra koje oni ulože
Vlada uloži 1 evro, da svoju robu bez plaćanja carine uvoze u i izvoze iz Srbije. Po meni, njih je u to
vreme najviše privukao trgovinski sporazum sa Rusijom, po kojem smo imali mogućnost da izvozimo za
Rusiju uz simboličnu carinu od 1% . Izvozili bi na rusko tržište, koje je ogromno, a ovde bi imali jeftinu
radnu snagu i jeftine energente. Fijat bi imao ogroman profit, država bi imala korist samo utoliko što je
zaposlila određen broj ljudi i što bi uzela deo poreza. Međutim, u sporazumu koji je potpisan sa Rusijom
je stajalo da najmanje dve trećine od sirovina koje se ugrađuju u neki proizvod mora da bude srpskog
porekla tako da je taj posao koji su planirali doživeo fijasko jer smo mi 90% stvari koje smo sklapali
uvozili iz Italije, tako da vozilo koje smo sklapali ovde nije moglo da nosi srpsku marku, nego je i dalje
bilo italijansko vozilo. Takođe, infrastruktura je dobijena besplatno, oslobođeni su poreza na zemljište
na kojem se fabrika nalazi u narednih deset godina. Čak su i za kooperantske firme koje treba da dođu
obezbeđeni isti uslovi i stvarno mislim da Fijat i njegovi kooperanti ovakve uslove ne bi mogli da dobiju
ni u jednoj drugoj zemlji. Fijat je po ugovoru bio u obavezi da primi najpre 1000 radnika, a ostalih oko
1 400 kada krene stalna proizvodnja, znači oko 2 430 radnika. Takođe, ako Fijat zaposli mlade ljude sa
biroa onda neće morati godinu dana da plaća nikakve poreze i doprinose jer je to država uzela na sebe, i
tako je napravljen ambijent da se Fijatu na svaki način izađe u susret.

Posle toga, u januaru 2009. je trebalo da počne proizvodnja i zapošljavanje radnika ali je to stalo zbog
svetske ekonomske krize i ulog od 200 000 000 evra koji se Fijat obavezao da uplati i koji je trebalo da
stigne početkom 2009. godine jednostavno nije došao i ceo proces je prolongiran za nekih godinu dana,
tako da je Fijat nastavio da radi na opremi koju smo mi kupili, a koju je naša država njima jednostavno
poklonila, ustupila bez ikakve naknade. Licencu, koju smo imali za proizvodnju punta pod imenom
zastava 10, koju smo platili 1 500 000 evra, država je vratila Fijatu, takođe bez ikakve naknade. Mi smo
njima, dakle, poklonili pare, oni su došli, preuzeli opremu, preuzeli 1000 radnika, a od njihovog ualganja
još ništa nije stiglo. Onih 100 000 000 koji su navodno stigli kao prvi deo ulaganja mi još ne vidimo gde
su tačno investirani. Jedino što se vidi je da fabrika dobija novu konturu, tj. krovovi su zamenjeni,kao i
pod i instalacije u fabričkim halama, stara oprema je izvađena ali to sve država Srbija plaća, a trenutno
se čeka da Fijat instalira novu opremu koja treba da počne negde u maju naredne godine i trajaće do
oktobra-novembra 2011. za kada je planirano da se počne sa proizvodnjom neke probne serije.

CK: Kakvo je bilo i kako je teklo testiranje 3100 radnika koji su konkurisali za posao u FAS-u? Na koji
način je primljeno prvih 1000 radnika?


Z.M: Radnici su morali da polažu neki test, kao kad se polaže test za vozačku dozvolu. To je bilo dosta
problematično i stresno za radnike koji po dvadeset i nešto godina rade taj posao, a onda ih anketiraju
da vide da li su sposobni da rade taj posao. Ljudi su više od dvadeset godina bili odvučeni od škole,
tako da jednostavno kad postavite pitanje ko je bio prvi predsednik SAD radniku koji je zavijao šrafove i
završio osnovnu ili srednju školu pre, recimo, dvadeset i nešto godina, to, prvo, oduzima vreme, drugo,
pitanje da li se čovek bavio time ili ne je totalno van toga i nebitno za posao koji obavlja. Takođe, bila
su matematička pitanja gde su radnici morali da preračunavaju kurs dinara u evre, pa iz evra u dolare,
koliko po srednjem, a koliko po prodajnom kursu i sl, dakle, to što rade ekonomisti date radniku da
odradi što je, naravno, malo problematično. Bilo je pitanja iz fizike, kako se računa presipanje tečnosti
iz jednog suda u drugi, pa onda tegovi, dodavanje i oduzimanje tegova da bi se dobila određena težina.
Bilo je prostih zadataka koji su iziskivali jednostavnu, prostu logiku ali bilo je i toliko složenih pitanja
na koja su čak i ljudi koji su, da kažemo više obrazovani, doktori i magistri, teško odgovarali. Tako da je
pitanje da li je to testiranje uopšte urađeno na pravi način. Posle toga je izvršen prijem radnika koji baš
i nije odgovarao onome što su rezultati testa pokazivali, jer je bilo dosta upliva političkih stranaka, kao i
svuda. Mi smo se nadali da je Fijat imun na te rodbinske veze i političke uplive, ali je, nažalost, kao i svi,
podlegao uticaju raznih političkih stranaka da se prime neki ljudi, bez obzira da li je njihov rezultat na
testu zadovaljavajući ili ne, tako da je to testiranje probudilo dosta sumnji među radnicima.

CK: Koliko je sigurno da će početi proizvodnja novih Fijatovih modela u Srbiji? Da li postoji mogućnost
ponovnog odlaganja početka proizvodnje pod izgovorom da je kriza i da je trenutak nepovoljan, a na
uštrb 1600 radnika koji čekaju na zaposlenje u FAS-u?


Z.M: Vidite, što se toga tiče, ja sam uvek bio pesimista. Dok ne vidim da počne da stiže oprema i dok ne
vidim da je proizvodnja krenula, još nisam siguran da je Fijat tu. Njihovi ljudi su tu, šetaju se, nešto rade,
ponašaju se kao da je fabrika njihova, ali ono što je problem tu je da je već početkom novembra trebalo
da se na Kormanskom polju krene sa instalacijom infrastrukture 14 kooperanata kako je i planirano,
a to još nije ni u začetku, niti se vidi kad će to tačno da počne jer tamo postoji problem sa vlasnicima
tog zemljišta. Nisu rešeni svojinski odnosi, postoje tužbe, tako da se sa tim dosta kasni. S druge strane,
dosta se kasni i sa onim što je država takođe preuzela na sebe, a to je obaveza da završi put Kragujevac-
Batočina koji povezuje Kragujevac sa autoputem. Trebalo je da se elektrificira pruga da bi dopremanje
materijala koji treba da stigne do kooperanata bilo brže i da se napravi zaobilaznica koja bi povezala
kooperante sa fabrikom da se ne bi išlo kroz grad, već zaobilaznim putem. To takođe nije ni u začetku.
Građevinska sezona traje negde od marta do oktobra, pa je teško da očekujemo da će sad bilo šta da se
započne, a ako se krene u martu sledeće godine, teško da će da se završi do kraja godine, tako da svi ovi
problemi dovode u pitanje da li će kooperacija uopšte doći. To nije dobro jer fabrika sama ne zapošljava
mnogo ljudi, 2400, što nije rešenje za grad.

CK: Koliko su realne izjave da „jedno radno mesto u automobilskoj industriji generiše pet do sedam
radnih mesta, kako direktno u proizvodnji, tako direktno i u uslugama“?


Z.M: Ovih 14 kooperantskih firmi kad bi došlo bi zaposlilo negde oko 7-8 000 ljudi i to je posao koji
građani Kragujevca očekuju. Ukoliko fabrika sama nastavi samo da sklapa automobile, bez kooperanata,
mi smo onda Italijanima obezbedili da zaposle svojih 6-7 000 radnika u Italiji i da nam tu robu dopremaju
na sklapanje. U ovakvim okolnostima to vrlo lako može da se desi, i ja sam nekoliko puta intervenisao
i kod predsednika Tadića da se to pitanje reši da bismo znali konačno na čemu smo i šta dalje da
očekujemo. On je obećao da će razgovarati direktno sa Markijoneom u vezi sa tim, ali još uvek nemamo
zvaničan odgovor. Ono što je sigurno, je da je dosta para uloženo i da fabrika sada ima obrise jedne
savremene fabrike kojoj sad samo fali savremena oprema. Ukoliko Fijat na kraju ne dođe, ili odloži
proizvodnju, bilo koja druga firma koja se bude zainteresovala, bi imala veoma povoljne uslove jer bi
ušla u nove hale, sa obučenom, jeftinom radnom snagom, tako da je ta fabrika sada dosta konkurentna.
Dosta je problematično to što Fijat non-stop koči, što non-stop izmišlja neke razloge da se posao ne
privede kraju i jedino njemu odgovara ovakva situacija. Mislim da je, pored svetske ekonomske krize,
na to uticalo i to što je u jednom momentu imao mogućnost da uđe u Krajsler. Krajsler je bila večita
težnja Markijonea, ne samo zbog mreže i infrastrukture, nego i zbog prilike za plasman na tržište SAD.
On je video svoju priliku u tome što je Krajsler prestao zbog svetske ekonomske krize da proizvodi one
glomazne modele i prešao na proizvodnju manjih, onakvih kakve Fijat proizvodi. Ta priča je još u toku
i videćemo kako će to da prođe, ali mislim da Fijat sa jednim istim parama ide malo u Srbiju, malo u
Poljsku, malo do Rusije, pa se onda vrati u Italiju, pa onda kreće ponovo u Ameriku, i tako sa nekih 200-
300 000 000 evra on naizgled krpi svud redom, a u stvari nigde ništa ne ulaže, nego samo priča.

CK: Kako su organizovane smene i pauze u fabrici? Kolika je prosečna zarada u FAS-u?

Z.M: Dosta je problematično to što kompanija Fijat pokušava da uradi isto što je uradila u Poljskoj i Italiji
sa fabrikom u Pomiljanu, a koliko sam čuo postoje indicije da se to sad pokušava sa fabrikom u Torinu,
Mirafjori i sa fabrikom u Kragujevcu u Srbiji. Pokušavaju da uvedu takvo radno vreme da se ljudi odreknu
prava na pauzu, da pauzu koriste na kraju smene, da se ne radi 5 dana u nedelji po 8 sati nego 4 dana po
11 sati. To znači uštedu za njih ali radnik u proizvodnji teško može to da istrpi. Mi smo imali najavu
štrajka za 18. oktobar zato što Fijat ne želi da potpiše kolektivni ugovor oko kojeg sada vodimo
pregovore. Druga stvar, od Nove godine kako su oni preuzeli fabriku, 1000 radnika koji su prešli u FAS
rade samo deset do petnaest dana u mesecu, drugi deo meseca se ne radi, radnici su na plaćenom
odsustvu i primaju 65% plate kad ne rade. Pala je prodaja punta i plate koje su bile negde oko 30 000 din
u proseku su sada pale na nekih 23-24 000 din. Radnici su vrlo nezadovoljni time, tako da smo mi bili
najavili jedan protest, međutim , Fijat je taj dan, za kada je bio najavljen protest, odnosno štrajk
upozorenja, proglasio neradnim danom i na taj način su to izbegli. Posle smo u pregovorima uspeli da ih
nateramo da za poslednja tri meseca isplate neke bonuse za radnike i da povećaju platu za 10%, ali mi je
malopre javljeno da su uradili obračun, a da nisu uzeli u obzir nikakvo povećanje tako da je moguće da
opet zakažemo štrajk i da to bude prvi štrajk u FAS-u. To bi vrlo bolelo ovu našu vladu jer oni Fijat
prikazuju kao nešto najlepše u Srbiji, a u stvari niko osim nas samih nema pravu sliku o tome šta se tamo
zapravo dešava. Kad god kažemo nešto i malo loše o Fijatu, to se nigde ne prenosi u medijima, imamo
totalnu medijsku blokadu što se tiče negativnih izjava o Fijatu, jer to kao da je zabranjeno medijima,
odnosno ljudima koji vrše cenzuru. Takvu medijsku blokadu ja nisam video čak ni za vreme Miloševića.
Od novembra meseca se očekuju problemi sa takvim načinom rada jer je planirano da se radi punom
parom do aprila da bi se stvorile zalihe proizvoda. Tako bi mogla da se vrši prodaja i u letnjem periodu jer
se prvog maja prekida sa proizvodnjom do novembra. Tada će da se počne sa uvođenjem nove opreme i
tada neće biti moguće da se radi. Očekujem da će, zbog toga, sada doći problem prekovremenog rada,
rada po smenama, svega onoga što do sada nije bilo, a dešavalo se po drugim Fijatovim fabrikama.

CK: Bilo je slučajeva da su neki radnici hteli da napuste FAS žaleći se na prebrz tempo rada, kratke
pauze, odnos nižih rukovodilaca. Kako su radnici koji su prešli da rade u FAS podnosili novi tempo
rada? Da li je bilo posledica po radnike koji su se žalili, ali su odlučili da ipak ostanu u FAS-u?


Z.M: Radi se o grupi od nekih pedesetak radnika koji su imali zdravstvenih problema. Kada se radilo
malo pre pomenuto testiranje, posle tog testiranja su ljudi koji su ušli u uži izbor išli na lekarski pregled.
Među radnicima se pojavio strah, svi su hteli da budu primljeni, niko nije hteo da izostane pa su prikrivali
bolesti i zdravstvene probleme od lekara, npr. bio je jedan radnik, koji sam sebi davao injekcije insulina
jer je imao problem sa šećerom, a radio je na traci, i pošto je to naporan posao čovek je nekoliko
puta imao kolaps, pao je, nije mogao da izdrži taj tempo. Takvi i ljudi sa sličnim problemima su hteli
da se vrate u Zastavu. Svih 1000 radnika je pre prijema u radni odnos potpisalo jedan ugovor koji
podrazumeva da su primljeni na probni rad i obećanje ministarstva ekonomije je bilo da, ako neko
od radnika posle tri meseca ne može da ostane iz ovog ili onog razloga, mogu da se vrate u Zastavu
bez ikakvih sankcija.Međutim, očekivalo se da to bude 5-10 ljudi, ali kad je krenuo stampedo od 50-
60 ljudi Dinkić je rekao da nema ništa od toga da bi zaustavio potencijalno još veću grupu ljudi da se
odluči za odlazak iz FAS-a. Posle je na neki način većina tih radnika nagovoreno da ostane, neki su
bili i pod pritiskom, a oko 10-15 radnika koji zbog zdravlja nisu mogli da ostanu su uzeli otpremninu i
otišli... Posledica po radnike zbog toga što su se bunili i žalili nije bilo.

CK: Da li je bilo nekakvih pritisaka da radnici prihvate socijalni program i odu iz Zastave?

Z.M: Nije bilo pritisaka na radnike da prihvate socijalni program. To je bilo na dobrovoljnoj osnovi i za to
su se najčešće odlučivali radnici kojima je malo falilo do penzije. Jedino je početkom 2001, kada se sa 10
000 radnika smanjio broj na 4 500, bilo pritisaka. Isto tako i 2007. kad je finansiranje ZZO-a presečeno i
kad je Dinkić za otpremnine rekao uzmi ili ostavi, to je bila nekakva vrsta prinude.

CK: Da li su isplaćena dugovanja radnicima Zastave? Da li dobijaju obećane plate za za 2010. i da li su
one redovne i cele?


Z.M: Svi primaju redovno plate, nažalost, te plate su umanjene, pa sad imamo dogovor da imamo
rotacije za poslove za ovih 1 600 radnika koji su na čekanju jer oni primaju 65% plate. Radnici rade u tim
rotacionim smenama na poslovima raščišćavanja fabrike, podizanja infrastrukture i sličnih pomoćnih
radova, pa dođu do nekih 80% plate i to je predviđeno da tako ide do kraja godine.

CK: To je rezultat protesta i pregovora u aprilu i maju 2009?

Z.M: Da. To je tako moralo da bude jer ljudi moraju od nečega da žive. Nisu oni krivi što je Fijat odložio
prizvodnju, što se rokovi prolongiraju i sl. Narednog meseca bi trebalo da imamo pregovore kako ćemo
da organizujemo isplatu plata u sledećoj godini.

CK: Kakva razmišljanja i raspoloženje vladaju među radnicima s obzirom na to da znamo da Fijat
italijanske radnike ucenjuje preteći prebacivanjem proizvodnje dva nova modela? Da li radnici
smatraju to opravdanim ili na to gledaju samo kao na nužno zlo s obzirom da kod nas nema posla?


Z.M: Radnici možda i nisu baš mnogo upoznati sa time šta se dešava u fabrikama u Italiji i u drugim
zemljama. Mi iz sindikata ih obaveštavamo šta se dešava. Naravno, radnicima je stalo do njihovog posla i
njihove egzistencije, ali ih pogađa cela situacija, a pogotovo reči Markijonea koji kaže da
zbog „nesaradnje“ italijanskih sindikata on za kaznu proizvodnju mora da premesti u Srbiju. Mislim da to
nije korektno. Mi ne želimo da nekome otimamo posao. Naš cilj je da zaradimo naše plate i da od te plate
možemo pristojno da živimo, naravno ne pod svaku cenu, ali nismo mi ti koji smo doneli odluku o selidbi
opreme i proizvodnje. Menadžment Fijata tvrdi da mora, da bi fabrika u Mirafjoriu opstala, da traži
jeftiniju radnu snagu, da bi opstao na tržištu, da bi proizvodio konkurentan automobil, koji cenovno može
da se prodaje. Tako da veći deo profita FAS-a svakako završava u Mirafjoriu, ništa ne završava kod nas. U
ovom trenutku mislim da naša proizvodnja nije nešto što bi moglo da realno ugrozi Italijanske radnike.
Pogotovo što se u fabrikama u Brazilu i Poljskoj pravi po nekih 600 000 automobila godišnje, a kod nas
tek 2012. treba da počne proizvodnja pa tek možda tada da postanemo neki problem. Mislim da ovakve
situacije menadžment Fijata koristi za obračun sa radnicima i njihovim sindikatima u Italiji i na taj način
pokušava da ih „disciplinuje“ i da im smanji privilegije – ako su to privilegije - koje su imali u prethodnom
periodu. Mislim da je to izuzetno loše i to je razlog više da sindikati prisnije sarađuju. Prošle godine sam
bio u Torinu, kao učesnik na skupu predsednika svih sindikata iz sveta koji pokrivaju Fijatove fabrike. Bili
su i iz Pomiljana, iz Španije, Turske, Poljske, Brazila, čak je bilo predstavnika iz Krajslera. Pokušali smo na
tom skupu da organizujemo jednu sindikalnu mrežu gde bi protok informacija bio olakšan, gde bi se znalo
šta Fijat u kom trenutku preduzima i šta radi. Čak sam predložio da, kad radnici u bilo kom delu imaju
problem, mi ostali u znak solidarnosti zaustavimo proizvodnju i na taj način u svim zemljama izvršimo
pritisak da se problem reši. Međutim, da li su me razumeli ili nisu, ili tada to nekome tamo nije
odgovaralo, jednostavno nismo mogli da se dogovorimo, a taj moj predlog je čak i zaprepastio sve. Čini
mi se da su se našli malo u čudu, otkud sad to. Mislim da su Španci bili u nekom štrajku, proizvodnja
kamiona IVECO i trebalo je da se dogovorimo da sa skupa pošaljemo jedan telegram podrške, ali ni oko
toga nismo mogli da se dogovorimo. Predstavnik sa Sicilije je rekao da i oni imaju problem i da i njima
treba podrška, a ja sam tada rekao „Okej, hajde i njima da se pošalje telegram, to bar nije teško...“ Posle
toga smo bili u Briselu na skupu na kome se pričalo o tome šta Fijat planira da radi. Oni krajem godine
prave jedno razdvajanje automobilskog dela od ostalih proizvodnih programa. Sindikati se plaše da će
veliki broj radnika ostati bez posla i da će doći do prebacivanja kapitala iz ostalih sektora u automobilski i
da će kamionski sektor i sektor za poljoprivredne mašine biti pušteni niz vodu, a automobilska industrija
će da dobije najviše sredstava. To znači gubitak posla za radnike koji rade u manje profitabilnom sektoru i
takođe pad vrednosti akcija tih grana kompanije, a i među radnicima ima ljudi koji imaju akcije. Tako je
na tom sastanku bilo dogovoreno da se napravi zajedničko pismo Markijoneu u kojem se uprava Fijata
poziva na sastanak, ali sa tog sastanka su italijanski sindikati otišli vrlo nezadovoljni. Sada su, koliko ja
imam informaciju, italjanski sindikati potpisali neki dogovor sa Fijatom u Mirafjoriju, protiv kojeg se bune
ostali sindikati jer to nije bilo po dogovoru. Tako da, nikako da profunkcioniše ono za šta se svi mi
zalažemo, a to je da nas poslodavac ne svađa nego da mi budemo u zajedničkoj priči, kako bismo se
oduprli tome. Nažalost to teško ide, svako brani svoje neke parcijalne interese.

CK: Koliko je radnika realno potrebno da se zaposli u proizvodnji da bi se postigla očekivana brojka
od 200 000 automobila godišnje, a da se pri tom poštuje norma osmočasovne smene sa standardnim
pauzama?


Z.M: To je relativna stvar. To zavisi od stepena automatizacije fabrike. Postoji mogućnost da se sa 2 500
radnika radi tih 200-300 000 automobila godišnje uz veliki stepen automatizacije, tj. robotike i svega
što zamenjuje ljude. Znam da oko 4 500 radnika u Mirafjoriu proizvede oko 500 000 automobila, da,
recimo, švedski Volvo sa nekih 4 500 radnika radi oko 500-600 000 automobila, s tim što je nekih 2
500 u proizvodnji, a ostatak radi na razvoju novih modela. To je ono što mi nemamo i nećemo imati, mi
ćemo samo sklapati automobile ali nećemo imati razvoj gde bismo mogli da uposlimo i inženjere i druge
radnike koji nisu u funkciji proizvodnje. Tako da je 2 500 radnika sasvim realna cifra uz dovoljan stepen
automatizacije.

CK: �

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FIFTH INTERNATIONAL CONFERENCE ON JASENOVAC
Friday, 23 April 2010
Proceedings and Papers of Fifth International Conference on Jasenovac

 

Dear Sir or Madam,
 On behalf of the Organising Board, it is my great pleasure to invite you to participate in The Fifth International Conference on Jasenovac, which will be held in Banja Luka and Donja Gradina (Republic of Srpska – Bosnia and Herzegovina) on 24 and 25 May 2011.The Fifth International Conference on Jasenovac will be held in a time of sustained efforts not only to consign the Jasenovac system of concentration camps to oblivion, but also to minimize the number of its victims, officially relabel it as a work camp, and, by drawing various outrageous comparisons, redefine the notion of genocide itself.
This Conference is supported by all those who refuse to reconcile with the fact they find unbelievable, that the truth about Jasenovac has not seen the light of day, or has not been fully and properly recognized after a long period of 70 years. Bearing all this in mindthe Conference will particularly focus on the children inmates in the Independent State of Croatia, the monstrous state construct that was the only country during World War II where children were imprisoned, and even had their own camps. Also, the Conference will address the issue of other camps and execution grounds across the former Yugoslavia. The Association «Jasenovac – Donja Gradina», in cooperation with the International Commission for Establishing the Truth on Jasenovac, has raised the issue of The Declaration of Genocide Against Serbs, Jews and Roma, and it is also expected to be considered in this Conference.
Therefore, it is an obligation of not only the few surviving inmates, but even more of various professionals and researchers – historians, sociologists, anthropologists, writers, artists, political scientists and others – to demystify and reveal the facts behind this and other notorious camps in the Independent State of Croatia. We believe that The Program of Construction and Preservation of the Donja Gradina Memorial Area, which you will be given and which is a continuation of the project initiated in the 1980’s aimed to plan and construct Donja Gradina, will make a significant contribution to achieving this goal.Please find enclosed the Agenda for The Fifth International Conference on Jasenovac. Any suggestions or objections will be appreciated.After you have received this invitation, you are kindly asked to confirm your participation to:
Fax: +387 51 332 595
E-mail: 
donjagradina@...
 Papers and other contributions should be sent in by 31 January 2011 at the latest, in English or Russian, or in English or Serbian for the participants coming from the former SFRY republics/provinces. The papers may be up to 10 pages long and should be submitted in an electronic form in the А4 format (font size 12). The accepted papers will be published in the Collection of Papers prior to the Conference. Each participant may send in only one paper.The proceedings of the Conference will be interpreted simultaneously from Serbian to English and vice versa.For any further information, please contact The Association «Jasenovac – Donja Gradina» Banja Luka:Tel: +387 51 332 596 Fax: + 387 51 332 595
E-mail: donjagradina@...
Web site: http://www.ic-jasenovac.com/
Contact person: 
Saša AćićSecretary 


Faithfully, 

Chair of Organising Board, 
Milorad Dodik, 
Prime Minister  
 
Програм Међународне комисије за утврђивање истине о Јасеновцу 
Програм V.међународне конференције



Per prenotazioni: 02 36592544 oppure info@...

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Milano - TEATRO MENOTTI - dal 30 novembre al 5 dicembre

BRAT (Fratello)

cantieri per un'opera rom

Quello di "Brat" è un percorso iniziato tre anni fa, a Smederevo, 70 chilometri da Belgrado, tra una dozzina di giovani rom, altrettanti attori loro coetanei di quella città, e il gruppo teatrale Koreja di Lecce, da sempre interessato a misurarsi con il fascino e i nodi irrisolti, l’ignoto e le diversità dell’est Europa.
Non concede illusioni o facili scorciatoie di “redenzione” lo spettacolo elaborato da Salvatore Tramacere con Fabrizio Saccomanno: una parabola zingara contro i “nuovi olocausti”.
Nasce così uno spettacolo accolto trionfalmente dal pubblico nelle rapide incursioni al NapoliTeatroFestival e al Festival Castel dei Mondi di Andria fino all’approdo nel capoluogo salentino. Come l'originale, l'Opera dei mendicanti di Gay, ritroviamo un affresco di malavita organizzata, tra polizia corrotta, un affarismo senza scrupoli, e un bordello di ragazze scatenate.
Interpreti brillanti, pronti a cambiare di ruolo e di genere, mentre la musica balcanica di Admir Shkurtaj, eseguita dal vivo, li incalza e li dirige verso un apparente happy end.

Regia e adattamento di Salvatore Tramacere
Con Miljan Guberinic, Ajnur Ibraimi, Damir Kriziv, Sead Kurtisi, Vukosava Lazic, Marija Miladinovic, Marija Mladenovic, Ana Pasti, Darko Petrovic, Igor Petrovic, Maria Rosaria Ponzetta, Ferdi Ramadani, Ajnur Redzepi, Emran Sabani, Senad Sulejmani, Marko Stojanovic, Danijel Todorovic, Andjelka Vulic
Musiche di Admir Shkurtaj
Cura del progetto di Franco Ungaro

produzione Cantieri Teatrali Koreja e Centar Za Kulturu di Smederevo (Serbia)
con il sostegno di Teatro Pubblico Pugliese 

* prima milanese *

Tieffe Teatro Menotti
via Ciro Menotti, 11 - Milano
ORARIO SPETTACOLI:
mar. gio. ven. sab. ore 21.00
mer. ore 19.30
dom. ore 17.00
www.tieffeteatro.it



Svim Jugoslavenima i prijateljima Jugoslavije srdačno čestitamo Dan Republike, s nadom za budućnost Bratstva i Jedinstva između svim radnicima i narodima.
Italijanska Koordinacija za Jugoslaviju


A tutti gli jugoslavi e gli amici della Jugoslavia rivolgiamo i nostri auguri di cuore per la Giornata della Repubblica, nella speranza di un futuro di Fratellanza e Unità tra tutti i lavoratori e i popoli.
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus





Koha Ditore


Privatisation au Kosovo : dix années d’échec


Traduit par Belgzim Kamberi

Une population paupérisée, des services publics sabordés et des infrastructures inopérantes, voilà le résultat des neuf années de privatisation orchestrée par la Minuk et la Kosovo Trust Agency. Mené sans concertation et entaché de nombreuses irrégularité, ce processus n’a jamais fait l’objet d’une évaluation sérieuse ni du moindre débat public. Il s’agit pourtant d’un enjeu majeur pour l’avenir du pays.

Publié dans la presse : 15 septembre 2010
Mise en ligne : mardi 5 octobre 2010

Par Parim Olluri

L’Institut Norvégien pour les Relations Internationales (NUPI) a présenté mardi 14 septembre un rapport très sévère sur les privatisations menées par le « pilier IV » de la Minuk, en charge de la reconstruction économique du Kosovo. « Les neuf années de privatisation, conduite par les acteurs internationaux, qui en avait fait le cœur de leur stratégie économique, ne semblent pas avoir amélioré la situation globale du pays. Près de la moitié de la population se trouve toujours sans emploi ou dans une situation de pauvreté. Les infrastructures, l’agriculture et la production nationale sont dans une situation très difficile et l’éducation comme les services sociaux ont été sabordés », a expliqué Rita Augestad Knudsen, en présentant le rapport.

Le rapport porte sur les neuf années de gestion des privatisations par la Kosovo Trust Agency (KTA) et montre que les internationaux ont été incapables de mener à bien cette mission. « Bien qu’il n’y ait toujours pas de chiffres exacts, il apparaît que la processus de privatisation dirigé par les internationaux a occasionné une perte sèche d’emplois », note le rapport. En 2002, de 50 à 60.000 emplois ont été supprimés en raison de la gestion des entreprises publiques par la Minuk alors que, selon le syndicat du Kosovo (BSPK), 70.000 travailleurs se sont retrouvés sans emploi, sans retraite et sans aide sociale à cause de la privatisation.

La privatisation menée par la Minuk, une « catastrophe »

Selon l’auteur de ce rapport, la privatisation gérée par les internationaux n’a pas rempli les objectifs déterminés par la Minuk concernant la reconstruction et le développement économique. « Même si aucune évaluation générale n’a encore été réalisée sur l’influence de la privatisation sur l’économie du Kosovo, les quelques résultats disponibles montrent que le processus a surtout limité le potentiel socio-économique du pays », déplore le rapport.

Ce rapport va même jusqu’à affirmer que les actions de la Minuk et de la KTA ont eu des conséquences destructrices. Le BSPK et la société civile ont formulé de vives critiques, portant notamment sur la mauvaise gestion et la corruption. « Ceux qui ont intérêt à soutenir le processus de privatisation au Kosovo affirment que celui-ci a été un succès, arguant qu’il était indispensable. Les experts, par contre, le décrivent comme une catastrophe, comme un échec quasi-total du point de vue économique. »

Selon ce rapport, les officiels affirment que le processus de privatisation illustre la faillite de la mission dont se réclamait de la Minuk, en éclairant ses limites dans l’utilisation de la privatisation au Kosovo pour favoriser la reprise économique.

« Certains affirment que la Minuk était incapable d’administrer l’économie du Kosovo et donnait ainsi une mauvaise image de l’Onu, minant de fait son principal objectif de créer une économie qui fonctionne selon les principes de l’état de droit », constate le rapport.

L’UE et les États-Unis poussent à la privatisation

Indépendamment du caractère douteux du processus de privatisation au Kosovo – à l’image d’expériences semblables dans d’autres pays –, les internationaux ont continué à mener une privatisation rapide et totale, même lorsqu’a pris fin l’activité de la Kosovo Trust Agency (KTA).

« L’UE et surtout les États-Unis continuent d’inciter à la privatisation en insistant sur le fait que l’économie kosovare a besoin de se libérer du fardeau de l’État et en déclarant que c’est la seule solution pour garantir la survie à long terme du Kosovo indépendant ». Mais, selon ce rapport, au lieu de promouvoir la gouvernance démocratique ou le vrai renforcement des pouvoirs locaux, les internationaux sont plus disposés à écarter toute gestion locale et à distinguer l’ami de l’ennemi selon des critères subjectifs. D’après ce rapport, il y a eu notamment une politisation de la loi dans la participation internationale sur la privatisation au Kosovo.

L’épineuse question des mises en faillite

Le processus de mise en faillite est le principal obstacle de la privatisation au Kosovo. De même, 451 millions d’euros sont toujours bloqués et ne peuvent toujours pas être utilisés, parce qu’ils peuvent tomber aux mains des créditeurs et propriétaires qui sont principalement serbes, évoque ce rapport.

« La conséquence de la responsabilité des internationaux s’est présentée lors des discussions à propos du processus de liquidation ». Ceux-ci se sont concentrés sur la légalisation de la propriété privée sans s’exposer personnellement, qu’ils ont ensuite utilisée à des fins politiques.

« Le KTA n’a terminé aucune mise en liquidation, qui était un de ses objectifs finaux », ajoute le rapport. « Ceci a mené au blocage des 451 millions d’euros de la privatisation, qui ne peuvent pas être retiré parce qu’ils sont bloqués par les créditeurs et les propriétaires, à qui la plus grande partie de cette somme reviendra. Selon le rapport, Pieter Feith a soulevé ces questions dans une lettre au ministre de l’Économie et des finances, Ahmet Shala ; courrier qui faisait suite à un conflit entre la Banque centrale du Kosovo et l’Agence kosovare de privatisation.

« L’issue du processus de liquidation est attendue avec impatience par ceux qui pensent que le Kosovo profitera de la privatisation menée par les internationaux, alors que les autres insistent sur le fait que les bénéfices n’iront pas dans les caisses du Kosovo, mais dans celles des créditeurs et des propriétaires, majoritairement serbes. Certains craignent que la liquidation ne soit à l’origine d’un conflit social », affirme le rapport.

Les problèmes liés au processus de liquidation, ainsi que l’évaluation des plaintes qui y sont relatives par une Chambre spéciale, favorisent le maintien de la Minuk comme seule autorité officielle compétente, démontrant de fait le pouvoir des internationaux sur des pans essentiels de l’économie kosovare.

Des rumeurs gênantes

Le rapport rappelle qu’au début du processus de privatisation, des rumeurs couraient sur le Parti démocratique du Kosovo (PDK) du Premier ministre Hashim Thaçi concernant son influence sur la privatisation des entreprises publiques.

Ainsi, le retrait par la Minuk du droit historique des communes sur les entreprises publiques aurait été la conséquence des liens politiques des membres locaux du Département du Commerce et de l’Industrie avec le Parti démocratique du Kosovo (PDK), qui avait en charge leur nomination. Ce parti ayant perdu les élections municipales de 2001 contre la Ligue démocratique du Kosovo (LDK), la majorité des municipalités n’étaient plus contrôlées par le PDK. Le contrôle des communes par la LDK avait incité le PDK à inciter les communes à abandonner leurs droits sur les entreprises publiques.

« Indépendamment des raisons qui ont conduit la Minuk à mettre hors-jeu les communes en 2001, les responsables internationaux impliqués dans la privatisation au Kosovo ont prouvé depuis longtemps leurs préférences à minimiser l’autorité locale », conclut le rapport.



NATO summit reveals cracks in Atlantic Alliance

1) Encircling Russia, Targeting China (Diana Johnstone)

2) NATO, world gendarme (Fidel Castro Ruz)

3) NATO summit reveals cracks in Atlantic Alliance (Peter Schwarz)


See also:

America Threatens Russia: U.S. Consolidates New Military Outposts In Eastern Europe
By Rick Rozoff - Global Research, September 24, 2010


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Encircling Russia, Targeting China


Diana Johnstone
  
(Counterpunch, November 18, 2010)

Encircling Russia, Targeting China, NATO'S True Role in US Grand Strategy

A crucial question is whether “Western democracy” still has the strength to dismantle this war machine before it is too late.

On November 19 and 20, NATO leaders meet in Lisbon for what is billed as a summit on “NATO’s Strategic Concept”. Among topics of discussion will be an array of scary “threats”, from cyberwar to climate change, as well as nice protective things like nuclear weapons and a high tech Maginot Line boondoggle supposed to stop enemy missiles in mid-air. The NATO leaders will be unable to avoid talking about the war in Afghanistan, that endless crusade that unites the civilized world against the elusive Old Man of the Mountain, Hassan i Sabah, eleventh century chief of the Assassins in his latest reincarnation as Osama bin Laden. There will no doubt be much talk of “our shared values”.
Most of what they will discuss is fiction with a price tag.
The one thing missing from the Strategic Concept summit agenda is a serious discussion of strategy.
This is partly because NATO as such has no strategy, and cannot have its own strategy. NATO is in reality an instrument of United States strategy. Its only operative Strategic Concept is the one put into practice by the United States. But even that is an elusive phantom. American leaders seem to prefer striking postures, “showing resolve”, to defining strategies.
One who does presume to define strategy is Zbigniew Brzezinski, godfather of the Afghan Mujahidin back when they could be used to destroy the Soviet Union. Brzezinski was not shy about bluntly stating the strategic objective of U.S. policy in his 1993 book The Grand Chessboard: “American primacy”. As for NATO, he described it as one of the institutions serving to perpetuate American hegemony, “making the United States a key participant even in intra-European affairs.” In its “global web of specialized institutions”, which of course includes NATO, the United States exercises power through “continuous bargaining, dialogue, diffusion, and quest for formal consensus, even though that power originates ultimately from a single source, namely, Washington, D.C.”
The description perfectly fits the Lisbon “Strategic Concept” conference. Last week, NATO’s Danish secretary general, Anders Fogh Rasmussen, announced that “we are pretty close to a consensus”. And this consensus, according to the New York Times, “will probably follow President Barack Obama’s own formulation: to work toward a non-nuclear world while maintaining a nuclear deterrent”.
Wait a minute, does that make sense? No, but it is the stuff of NATO consensus. Peace through war, nuclear disarmament through nuclear armament, and above all, defense of member states by sending expeditionary forces to infuriate the natives of distant lands.
A strategy is not a consensus written by committees.
The American method of “continuous bargaining, dialogue, diffusion, and quest for formal consensus” wears down whatever resistance may occasionally appear. Thus Germany and France initially resisted Georgian membership in NATO, as well as the notorious “missile shield”, both seen as blatant provocations apt to set off a new arms race with Russia and damage fruitful German and French relations with Moscow, for no useful purpose. But the United States does not take no for an answer, and keeps repeating its imperatives until resistance fades. The one recent exception was the French refusal to join the invasion of Iraq, but the angry U.S. reaction scared the conservative French political class into supporting the pro-American Nicolas Sarkozy.

In search of “threats” and “challenges”

The very heart of what passes for a “strategic concept” was first declared and put into operation in the spring of 1999, when NATO defied international law, the United Nations and its own original charter by waging an aggressive war outside its defensive perimeter against Yugoslavia. That transformed NATO from a defensive to an offensive alliance. Ten years later, the godmother of that war, Madeleine Albright, was picked to chair the “group of experts” that spent several months holding seminars, consultations and meetings preparing the Lisbon agenda. Prominent in these gatherings were Lord Peter Levene, chairman of Lloyd’s of London, the insurance giant, and the former chief executive of Royal Dutch Shell, Jeroen van der Veer. These ruling class figures are not exactly military strategists, but their participation should reassure the international business community that their worldwide interests are being taken into consideration.
Indeed, a catalogue of threats enumerated by Rasmussen in a speech last year seemed to suggest that NATO was working for the insurance industry. NATO, he said, was needed to deal with piracy, cyber security, climate change, extreme weather events such as catastrophic storms and flooding, rising sea levels, large-scale population movement into inhabited areas, sometimes across borders, water shortages, droughts, decreasing food production, global warming, CO2 emissions, the retreat of Arctic ice uncovering hitherto inaccessible resources, fuel efficiency and dependence on foreign sources, etc.
Most of the enumerated threats cannot even remotely be construed as calling for military solutions. Surely no "rogue states" or "outposts of tyranny" or "international terrorists" are responsible for climate change, yet Rasmussen presents them as challenges to NATO.
On the other hand, some of the results of these scenarios, such as population movements caused by rising sea levels or drought, can indeed be seen as potentially causing crises. The ominous aspect of the enumeration is precisely that all such problems are eagerly snatched up by NATO as requiring military solutions.
The main threat to NATO is its own obsolescence. And the search for a “strategic concept” is the search for pretexts to keep it going.

NATO’s Threat to the World

While it searches for threats, NATO itself is a growing threat to the world. The basic threat is its contribution to strengthening the U.S.-led tendency to abandon diplomacy and negotiations in favor of military force. This is seen clearly in Rasmussen’s inclusion of weather phenomena in his list of threats to NATO, when they should, instead, be problems for international diplomacy and negotiations. The growing danger is that Western diplomacy is dying. The United States has set the tone: we are virtuous, we have the power, the rest of the world must obey or else.
Diplomacy is despised as weakness. The State Department has long since ceased to be at the core of U.S. foreign policy. With its vast network of military bases the world over, as well as military attachés in embassies and countless missions to client countries, the Pentagon is incomparably more powerful and influential in the world than the State Department.
Recent Secretaries of State, far from seeking diplomatic alternatives to war, have actually played a leading role in advocating war instead of diplomacy, whether Madeleine Albright in the Balkans or Colin Powell waving fake test tubes in the United Nations Security Council. Policy is defined by the National Security Advisor, various privately-funded think tanks and the Pentagon, with interference from a Congress which itself is composed of politicians eager to obtain military contracts for their constituencies.
NATO is dragging Washington’s European allies down the same path. Just as the Pentagon has replaced the State Department, NATO itself is being used by the United States as a potential substitute for the United Nations. The 1999 “Kosovo war” was a first major step in that direction. Sarkozy’s France, after rejoining the NATO joint command, is gutting the traditionally skilled French foreign service, cutting back on civilian representation throughout the world. The European Union foreign service now being created by Lady Ashton will have no policy and no authority of its own.

Bureaucratic Inertia

Behind its appeals to “common values”, NATO is driven above all by bureaucratic inertia. The alliance itself is an excrescence of the U.S. military-industrial complex. For sixty years, military procurements and Pentagon contracts have been an essential source of industrial research, profits, jobs, Congressional careers, even university funding. The interplay of these varied interests converge to determine an implicit U.S. strategy of world conquest.
An ever-expanding global network of somewhere between 800 and a thousand military bases on foreign soil.
Bilateral military accords with client states which offer training while obliging them to purchase U.S.-made weapons and redesign their armed forces away from national defense toward internal security (i.e. repression) and possible integration into U.S.-led wars of aggression.
Use of these close relationships with local armed forces to influence the domestic politics of weaker states.
Perpetual military exercises with client states, which provide the Pentagon with perfect knowledge of the military potential of client states, integrate them into the U.S. military machine, and sustain a “ready for war” mentality.
Deployment of its network of bases, “allies” and military exercises so as to surround, isolate, intimidate and eventually provoke major nations perceived as potential rivals, notably Russia and China.
The implicit strategy of the United States, as perceived by its actions, is a gradual military conquest to ensure world domination. One original feature of this world conquest project is that, although extremely active, day after day, it is virtually ignored by the vast majority of the population of the conquering nation, as well as by its most closely dominated allies, i.e., the NATO states.
The endless propaganda about “terrorist threats” (the fleas on the elephant) and other diversions keep most Americans totally unaware of what is going on, all the more easily in that Americans are almost uniquely ignorant of the rest of the world and thus totally uninterested. The U.S. may bomb a country off the map before more than a small fraction of Americans know where to find it.
The main task of U.S. strategists, whose careers take them between think tanks, boards of directors, consultancy firms and the government, is to justify this giant mechanism much more than to steer it. To a large extent, it steers itself.
Since the collapse of the “Soviet threat”, policy-makers have settled for invisible or potential threats. U.S. military doctrine has as its aim to move preventively against any potential rival to U.S. world hegemony. Since the collapse of the Soviet Union, Russia retains the largest arsenal outside the United States, and China is a rapidly rising economic power. Neither one threatens the United States or Western Europe. On the contrary, both are ready and willing to concentrate on peaceful business.
However, they are increasingly alarmed by the military encirclement and provocative military exercises carried on by the United States on their very doorsteps. The implicit aggressive strategy may be obscure to most Americans, but leaders in the targeted countries are quite certain they understand what it is going on.

The Russia-Iran-Israel Triangle

Currently, the main explicit “enemy” is Iran.
Washington claims that the “missile shield” which it is forcing on its European allies is designed to defend the West from Iran. But the Russians see quite clearly that the missile shield is aimed at themselves. First of all, they understand quite clearly that Iran has no such missiles nor any possible motive for using them against the West. It is perfectly obvious to all informed analysts that even if Iran developed nuclear weapons and missiles, they would be conceived as a deterrent against Israel, the regional nuclear superpower which enjoys a free hand attacking neighboring countries. Israel does not want to lose that freedom to attack, and thus naturally opposes the Iranian deterrent.
Israeli propagandists scream loudly about the threat from Iran, and have worked incessantly to infect NATO with their paranoia.
Israel has even been described as “Global NATO’s 29th member”. Israeli officials have assiduously worked on a receptive Madeleine Albright to make sure that Israeli interests are included in the “Strategic Concept”. During the past five years, Israel and NATO have been taking part in joint naval exercises in the Red Sea and in the Mediterranean, as well as joint ground exercises from Brussels to Ukraine. On October 16, 2006, Israel became the first non-European country to reach a so-called “Individual Cooperation Program” agreement with NATO for cooperation in 27 different areas.
It is worth noting that Israel is the only country outside Europe which the U.S. includes in the area of responsibility of its European Command (rather than the Central Command that covers the rest of the Middle East).
At a NATO-Israel Relations seminar in Herzliya on October 24, 2006, the Israeli foreign minister at the time, Tzipi Livni, declared that "The alliance between NATO and Israel is only natural....Israel and NATO share a common strategic vision. In many ways, Israel is the front line defending our common way of life."
Not everybody in European countries would consider that Israeli settlements in occupied Palestine reflect “our common way of life”.
This is no doubt one reason why the deepening union between NATO and Israel has not taken the open form of NATO membership. Especially after the savage attack on Gaza, such a move would arouse objections in European countries. Nevertheless, Israel continues to invite itself into NATO, ardently supported, of course, by its faithful followers in the U.S. Congress.
The principal cause of this growing Israel-NATO symbiosis has been identified by Mearsheimer and Walt: the vigorous and powerful pro-Israel lobby in the United States.
Israeli lobbies are also strong in France, Britain and the UK. They have zealously developed the theme of Israel as the “front line” in the defense of “Western values” against militant Islam. The fact that militant Islam is largely a product of that “front line” creates a perfect vicious circle.
Israel’s aggressive stance toward its regional neighbors would be a serious liability for NATO, apt to be dragged into wars of Israel’s choosing which are by no means in the interest of Europe.
However, there is one subtle strategic advantage in the Israeli connection which the United States seems to be using… against Russia.
By subscribing to the hysterical “Iranian threat” theory, the United States can continue to claim with a straight face that the planned missile shield is directed against Iran, not Russia. This cannot be expected to convince the Russians. But it can be used to make their protests sound “paranoid” – at least to the ears of the Western faithful. Dear me, what can they be complaining about when we “reset” our relations with Moscow and invite the Russian president to our “Strategic Concept” happy gathering?
However, the Russians know quite well that:
The missile shield is to be constructed surrounding Russia, which does have missiles, which it keeps for deterrence.
By neutralizing Russian missiles, the United States would free its own hand to attack Russia, knowing that the Russia could not retaliate.
Therefore, whatever is said, the missile shield, if it worked, would serve to facilitate eventual aggression against Russia.

Encircling Russia

The encirclement of Russia continues in the Black Sea, the Baltic and the Arctic circle.
United States officials continue to claim that Ukraine must join NATO.
Just this week, in a New York Times column, Zbigniew’s son Ian J. Brzezinski advised Obama against abandoning the “vision” of a “whole, free and secure” Europe including “eventual Georgian and Ukrainian membership in NATO and the European Union.” The fact that the vast majority of the people of Ukraine are against NATO membership is of no account.
For the current scion of the noble Brzezinski dynasty it is the minority that counts. Abandoning the vision “undercuts those in Georgia and Ukraine who see their future in Europe. It reinforces Kremlin aspirations for a sphere of influence…”
The notion that “the Kremlin” aspires to a “sphere of influence” in Ukraine is absurd considering the extremely close historic links between Russia and Ukraine, whose capital Kiev was the cradle of the Russian state. But the Brzezinski family hailed from Galicia, the part of Western Ukraine which once belonged to Poland, and which is the center of the anti-Russian minority. U.S. foreign policy is all too frequently influenced by such foreign rivalries of which the vast majority of Americans are totally ignorant.
Relentless U.S. insistence on absorbing Ukraine continues despite the fact that it would imply expelling the Russian Black Sea fleet from its base in the Crimean peninsula, where the local population is overwhelmingly Russian-speaking and pro-Russian. This is a recipe for war with Russia if ever there was one.
And meanwhile, U.S. officials continue to declare their support for Georgia, whose American-trained president openly hopes to bring NATO support into his next war against Russia.
Aside from provocative naval maneuvers in the Black Sea, the United States, NATO and (as yet) non-NATO members Sweden and Finland regularly carry out major military exercises in the Baltic Sea, virtually in sight of the Russia cities of Saint Petersburg and Kaliningrad. These exercises involve thousands of ground troops, hundreds of aircraft including F-15 jet fighters, AWACS, as well as naval forces including the U.S. Carrier Strike Group 12, landing craft and warships from a dozen countries.
Perhaps most ominous of all, in the Arctic region, the United States has been persistently engaging Canada and the Scandinavian states (including Denmark via Greenland) in a military deployment openly directed against Russia. The point of these Arctic deployment was stated by Fogh Rasmussen when he mentioned, among “threats” to be met by NATO, the fact that “Arctic ice is retreating, for resources that had, until now, been covered under ice.”
Now, one might consider that this uncovering of resources would be an opportunity for cooperation in exploiting them. But that is not the official U.S. mindset.
Last October, US Admiral James G Stavridis, supreme Nato commander for Europe, said global warming and a race for resources could lead to a conflict in the Arctic. Coast Guard Rear Admiral Christopher C. Colvin, in charge of Alaska’s coastline, said Russian shipping activity in the Arctic Ocean was “of particular concern” for the US and called for more military facilities in the region.
The US Geological Service believes that the Arctic contains up to a quarter of the world’s unexplored deposits of oil and gas. Under the 1982 United Nations Law of the Sea Convention, a coastal state is entitled to a 200-nautical mile EEZ and can claim a further 150 miles if it proves that the seabed is a continuation of its continental shelf.
Russia is applying to make this claim.
After pushing for the rest of the world to adopt the Convention, the United States Senate has still not ratified the Treaty.
In January 2009, NATO declared the “High North” to be “of strategic interest to the Alliance,” and since then, NATO has held several major war games clearly preparing for eventual conflict with Russia over Arctic resources.
Russia largely dismantled its defenses in the Arctic after the collapse of the Soviet Union, and has called for negotiating compromises over resource control.
Last September, Prime Minister Vladimir Putin called for joint efforts to protect the fragile ecosystem, attract foreign investment, promote environmentally friendly technologies and work to resolve disputes through international law.
But the United States, as usual, prefers to settle the issue by throwing its weight around. This could lead to a new arms race in the Arctic, and even to armed clashes.
Despite all these provocative moves, it is most unlikely that the United States actually seeks war with Russia, although skirmishes and incidents here and there cannot be ruled out. The U.S. policy appears to be to encircle and intimidate Russia to such an extent that it accepts a semi-satellite status that neutralizes it in the anticipated future conflict with China.

Target China

The only reason to target China is like the proverbial reason to climb the mountain: it is there. It is big. And the US must be on top of everything.
The strategy for dominating China is the same as for Russia. It is classic warfare: encirclement, siege, more or less clandestine support for internal disorder. As examples of this strategy:
The United States is provocatively strengthening its military presence along the Pacific shores of China, offering “protection against China” to East Asian countries.
During the Cold War, when India got its armaments from the Soviet Union and struck a non-aligned posture, the United States armed Pakistan as its main regional ally. Now the U.S. is shifting its favors to India, in order to keep India out of the orbit of the Shanghai Cooperation Organization and to build it as a counterweight to China.
The United States and its allies support any internal dissidence that might weaken China, whether it is the Dalai Lama, the Uighurs, or Liu Xiaobo, the jailed dissident.
The Nobel Peace Prize was bestowed on Liu Xiaobo by a committee of Norwegian legislators headed by Thorbjorn Jagland, Norway’s echo of Tony Blair, who has served as Norway’s prime minister and foreign minister, and has been one of his country’s main cheerleaders for NATO.
At a NATO-sponsored conference of European parliamentarians last year, Jagland declared: “When we are not able to stop tyranny, war starts. This is why NATO is indispensable. NATO is the only multilateral military organization rooted in international law. It is an organization that the U.N. can use when necessary — to stop tyranny, like we did in the Balkans.” This is an astoundingly bold misstatement of fact, considering that NATO openly defied international law and the United Nations to make war in the Balkans – where in reality there was ethnic conflict, but no “tyranny”.
In announcing the choice of Liu, the Norwegian Nobel committee, headed by Jagland, declared that it “has long believed that there is a close connection between human rights and peace." The “close connection”, to follow the logic of Jagland’s own statements, is that if a foreign state fails to respect human rights according to Western interpretations, it may be bombed, as NATO bombed Yugoslavia. Indeed, the very powers that make the most noise about “human rights”, notably the United States and Britain, are the ones making the most wars all over the world. The Norwegian’s statements make it clear that granting the Nobel Peace Prize to Liu (who in his youth spent time in Norway) amounted in reality to an endorsement of NATO.

“Democracies” to replace the United Nations

The European members of NATO add relatively little to the military power of the United States. Their contribution is above all political. Their presence maintains the illusion of an “International Community”. The world conquest being pursued by the bureaucratic inertia of the Pentagon can be presented as the crusade by the world’s “democracies” to spread their enlightened political order to the rest of a recalcitrant world.
The Euro-Atlantic governments proclaim their “democracy” as proof of their absolute right to intervene in the affairs of the rest of the world. On the basis of the fallacy that “human rights are necessary for peace”, they proclaim their right to make war.
A crucial question is whether “Western democracy” still has the strength to dismantle this war machine before it is too late.

Note: Grateful thanks to Rick Rozoff for his constant flow of important information.
Diana Johnstone is the author of Fools Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions. She can be reached at diana.josto@...


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http://www.granma.cu/ingles/reflections-i/22noviembre-47Reflex1.html

Granma International - November 22, 2010

Reflections of Fidel

NATO, world gendarme


Many people feel sickened on hearing the name of that organization.

On Friday, November 19, 2010 in Lisbon, Portugal, the 28 members of that bellicose institution engendered by the United States, decided to create what they cynically describe as "the new NATO."

The institution emerged after World War II as an instrument of the Cold War unleashed by imperialism on the Soviet Union, the country which paid for the victory over Nazism with tens of millions of lives and colossal destruction.

The United States mobilized against the USSR, together with a healthy part of the European population, the extreme right and the Nazi-fascist scum of Europe, full of hatred and prepared to squeeze every advantage out of the errors committed by the very leaders of the USSR after the death of Lenin.

The Soviet people, with great sacrifice, were able to maintain nuclear parity and support the national liberation struggles of many peoples against the efforts of European states to maintain the colonial system imposed by force throughout the centuries; states that were postwar allies of the yankee empire, which assumed command of the counterrevolution worldwide.

In just 10 days – less than two weeks – world opinion has received three great and unforgettable lessons: the G20, APEC and NATO meetings in Seoul, Yokohama and Lisbon, in such a way that all upstanding people who can read and write, and whose minds have not been mutilated by the conditioned reflexes of imperialism’s media apparatus, can have a real idea of the problems currently affecting humanity.

In Lisbon, not one word was uttered that could convey hope to the billions of people enduring poverty, underdevelopment, insufficient food, housing, health, education and employment.

On the contrary, Anders Fogh Rasmussen, the vain character who figures as secretary general of the NATO military mafia, declared in the tone of a little Nazi fuehrer, that the "new strategic concept" was in order "to act in any part of the world."

It was not for nothing that the government of Turkey was at the point of vetoing his appointment when, in April 2009, Fogh Rasmussen – a neoliberal Dane – in his position as prime minister of Denmark, and using the pretext of freedom of the press, defended the authors of serious offenses to the Prophet Mahoma, a figure respected by all Muslim believers.

More than a few people in the world can recall the close relations of cooperation between the Danish government and the Nazi "invaders" during World War II.

The North Atlantic Treaty Organization (NATO), a bird of prey hatched in the skirts of yankee imperialism, and moreover equipped with tactical nuclear weapons many times more destructive than the atom bomb that erased the city of Hiroshima, has been committed by the United States to the genocidal Afghanistan war, even more complex than the Kosovo adventure and the war on Serbia, where its forces massacred the city of Belgrade and were at the point of suffering a disaster if the government of that country had remained firm, instead of trusting in the institutions of European justice in the Hague.

In one of its points, the inglorious Lisbon Declaration affirms in a vague and abstract manner:

"In the strategically important Western Balkans region, democratic values, regional cooperation and good neighborly relations are important for lasting peace and stability."

"KFOR is moving towards a smaller, more flexible, deterrent presence."

Now?

Nor will Russia be able to forget it so easily: the real fact is that when Yeltsin dismembered the USSR, the United States advanced NATO’s borders and its nuclear attack bases to the heart of Russia from Europe and Asia.

Those new military installations also threatened the People’s Republic of China and other Asian countries.

When that took place in 1991, hundreds of SS-19s, SS-20s and other powerful Soviet weapons could reach U.S. and NATO bases in Europe in a matter of seconds. No NATO secretary general would have dared to talk with the arrogance of Rasmussen.

The first agreement on limiting nuclear weapons was signed as early as May 26, 1972, between President Richard Nixon of the United States and Leonid Brezhnev, general secretary of the Communist Party of the Soviet Union, with the aim of limiting the number of anti-ballistic missiles (the ABM Treaty) and to defend certain points against nuclear missiles.

In Vienna in 1979, Brezhnev and Carter signed new agreements known as SALT II, but the U.S. Senate refused to ratify those agreements.

The new rearmament promoted by Reagan with the Strategic Defense Initiative put en end to the SALT agreements.

The Siberian gas pipeline had already been blown up by the CIA.

Instead, a new agreement was signed in 1991 between Bush Sr. and Gorbachev, five months before the collapse of the USSR. When that event took place, the socialist bloc no longer existed. The countries that the Red Army had liberated from Nazi occupation were not even capable of maintaining their independence. Right-wing governments that came to power moved into NATO with their arms and equipment and fell into the hands of the United States. The German Democratic Republic, which had made a great effort under the leadership of Erich Honecker, could not overcome the ideological and consumerist offensive launched from the capital itself, occupied by Western troops.

As the virtual master of the world, the United States increased its adventurist and warmongering policy.

Due to a well manipulated process, the USSR disintegrated. The coup de grace was dealt it by Boris Yeltsin on December 8, 1991 when, as president of the Russian Federation, he declared that the Soviet Union had ceased to exist. On the 25th of that month, the red hammer and sickle flag flying over the Kremlin was lowered. 

A third agreement on strategic weapons was subsequently signed between George W. Bush and Boris Yeltsin on January 3, 1993, prohibiting the use of Intercontinental Ballistic Missiles (ICBM) with multiple warheads. It was ratified by the U.S. Senate on January 26, 1993, by a margin of 87 votes to 4.

Russia inherited the science and technology of the USSR – which in spite of the war and enormous sacrifice was capable of creating a military power on a level with that of the immense and rich yankee empire – the victory over fascism, the traditions, the culture and the glories of the Russian people.

The war on Serbia, a Slavic nation, sunk its teeth hard into the security of the Russian people, something that no government could afford itself the luxury of ignoring.

The Russian Duma – angered by the first Iraq war and that of Kosovo in which NATO massacred the Serb people – refused to ratify START II and did not sign that agreement until the year 2000 and, in that case, in an attempt to save the ABM treaty which, by that date, the yankees weren’t interested in maintaining.

The United States is trying to use its enormous media resources to maintain, deceive and confuse world public opinion.

The government of that country is going through a difficult stage as a consequence of its military adventures. All the NATO countries without exception are committed to the Afghanistan war, as are various others in the world, whose peoples find odious and repugnant the butchery in which rich and industrialized countries such as Japan and Australia, and other Third World nations are involved in to a greater or lesser degree.

What is the essence of the agreement approved in April of this year by the United States and Russia? Both parties have committed themselves to reducing the number of the strategic nuclear missiles to 1,550. Not one word is being said about the nuclear missiles of France, the United Kingdom and Israel, all of them capable of striking Russia. Not one word has been said either about tactical nuclear weapons, some of them with far more power than that which erased the city of Hiroshima. There is no mention of the destructive and lethal capacity of numerous conventional weapons, the radio-electric and other weapons systems into which the United States is channeling its growing military budget, superior to that of all the other nations of the world put together. Both governments know, as many others meeting there do, that a third world war would be the last.

What kind of illusions can the NATO members create? What is the peace for humanity derived from that meeting? What benefit can possibly be expected for the peoples of the Third World, and even for the international economy?

They cannot even offer the hope that the world economic crisis can be overcome, or how much longer any improvement would last. The total public debt of the United States, not only that of central government, but the rest of the country’s public and private institutions, has already risen to a figure that is equal to the world GDP of 2009, which amounted to $58 trillion. Did those meeting in Lisbon maybe think to ask themselves where those fabulous resources came from? Simply, from the economy of all the other nations in the world, to which the United States handed over pieces of paper converted into dollar bills which, for 40 years now, unilaterally ceased having their backing in gold, and now that the value of that metal is 40 times superior. That country still possesses its veto within the International Monetary Fund and the World Bank. Why wasn’t that discussed in Portugal?

The hope of extracting U.S. troops, those of NATO and their allies from Afghanistan, is an idyllic one. They will have to abandon that country before the defeated hand over power to the Afghan resistance. The United States’ own allies are beginning to acknowledge that dozens of years could go by before that war is over; is NATO prepared to remain there for all that time? Would the very citizens of each one of the governments meeting there allow that? Not to forget that a country with a very large population, Pakistan, shares a border of colonial origin with Afghanistan and a none-too insignificant percentage of its inhabitants.

I am not criticizing Medvedev, he is acting very well in trying to limit the number of nuclear missiles pointing at his country. Barack Obama cannot invent any justification whatsoever for that. It would be laughable to imagine that that colossal and costly deployment of the anti-missile nuclear shield is to protect Europe and Russia from Iranian missiles proceeding from a country which does not even possess a tactical nuclear weapon. Not even a children’s story book could affirm that.

Obama has already admitted that his promise to withdraw U.S. soldiers from Afghanistan could be delayed and that taxes from the wealthiest contributors are to be immediately suspended. After the Nobel Prize one would have to grant him the prize for the "greatest snake charmer "ever to have existed.

Taking into account the George W. Bush autobiography, which has already become a bestseller, and which some intelligent editor drafted for him, why didn’t they do him the honor of inviting him to Lisbon? The extreme right, the "Tea Party" of Europe, would doubtless have been happy.


=== 3 ===


NATO summit reveals cracks in Atlantic Alliance


By Peter Schwarz 
22 November 2010


On November 20 in Lisbon, NATO adopted a new strategic concept. It is the seventh in the 61-year history of the military alliance and the first since 1999.

The summit was preceded by months of preparation and discussion. A group of experts chaired by former US Secretary of State Madeleine Albright issued recommendations for the new strategy in May.

After a long tug of war, the strategic concept has now been adopted and was presented to the public in Lisbon. Those attending the summit celebrated it as a historic breakthrough. Germany’s Chancellor Angela Merkel said, “This summit will go down in history. The strategic approach is clear, and it shows we are all working on the same footing.”

In reality, the eleven-page document barely manages to paper over the fault lines that have opened up between the 28 members of the largest military alliance in the world. It is a verbal compromise between divergent interests. The different factions were able to agree on many formulations only at the last minute.

Where the summit was unanimous was that the military should in the future play a far more important role in political and social life. In addition to collective defence with conventional and nuclear weapons, the new strategy sanctions international interventions of various kinds, such as those NATO has already conducted in the former Yugoslavia and is presently carrying out in Afghanistan, the Horn of Africa and elsewhere in the world.

The strategic concept lists a variety of reasons that could serve NATO as a pretext for war in the future. These include “the proliferation of ballistic missiles, of nuclear weapons and other weapons of mass destruction,” “instability, including by fostering extremism, terrorism and trans-national illegal activities such as trafficking in arms, narcotics and people,” and the attacking and disruption of “vital communication, transport and transit routes on which international trade, energy security and prosperity depend.”

Even environmental issues can be exploited for military aims. “Key environmental and resource constraints, including health risks, climate change, water scarcity and increasing energy needs will further shape the future security environment in areas of concern to NATO and have the potential to affect significantly NATO planning

(Message over 64 KB, truncated)



A Lisbona il via alla Nato globale

1) A Lisbona il via alla Nato globale
Tommaso Di Francesco Manlio Dinucci

2) Summit di Lisbona: NATO per conservare gli armamenti nucleari, per costruire lo scudo missilistico in Europa 
Rick Rozoff

3) BILANCIO DEL SUMMIT DI LISBONA. L’Europa ingabbiata dagli Usa nella Nato
Tommaso Di Francesco Manlio Dinucci


LINK:

Grande successo della manifestazione pacifista e antimperialista di Lisbona

GALLERIA FOTOGRAFICA: http://www.pcp.pt/fotografias
SITO DELLA CAMPAGNA: http://www.pazsimnatonao.org/

Manifestação da campanha «Paz Sim, NATO Não»


Мир да, НАТО не - Протести у Лисабону

http://www.beoforum.rs/index.php/komentari-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih/167-mir-da-nato-ne-lisabon-portuguese-council-for-peace-and-cooperation-pccp-and-world-peace-council-wpc-komentari-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih.html
http://www.beoforum.rs/index.php/komentari-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih/167-mir-da-nato-ne-protesti-u-lisabonu-portuguese-council-for-peace-and-cooperation-pccp-and-world-peace-council-wpc-komentari-beogradskog-foruma-za-svet-ravnopravnih.html



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A Lisbona il via alla Nato globale

di Tommaso Di Francesco Manlio Dinucci

Oggi e domani si tiene a Lisbona il summit dei capi di stato e di governo della Nato, cui partecipano per l’Italia Berlusconi, La Russa e Frattini. Uno dei vertici più importanti di quella che il segretario generale Anders Rasmussen definisce «l’alleanza che ha avuto il maggior successo nella storia». Un «successo» che costituisce la nuova narrazione atlantica, una rinnovata filosofia dell’uso della guerra, per un organismo giustificato all’origine per contenere il Patto di Varsavia. Questa nuova «storia di sé» è l’introduzione necessaria, daparte dei leader occidentali, per motivare ora la sua necessità e attualità. Così Anders Rasmuss spiega che finora la Nato ha attraversato due fasi, quella della guerra fredda e quella del dopo-guerra fredda, ed in entrambe «ha funzionato molto bene». Come negarlo?


La terza fase atlantica

Terminate la prima e seconda fase, annuncia il segretario Rasmussen, è arrivato il momento della Nato-versione 3.0, una alleanza più moderna, più efficiente e più capace di lavorare con i nostri partner a livello globale. Essa ha «una potenza militare che nessun avversario può eguagliare», basata anche sulle armi nucleari che «la Nato deve mantenere finché vi saranno nel mondo tali armi». La minaccia di un attacco militare su larga scala contro il territorio dell’Alleanza è basso, afferma Rasmussen, ma vi è il rischio di attacchi terroristici e missilistici. Oltre 30 paesi stanno infatti acquisendo la capacità di costruire missili balistici. Viene così annunciato che il summit varerà ufficialmente il progetto dello «scudo» anti-missili, che gli Stati uniti vogliono estendere all’Europa. Progetto cui la Russia si oppone, considerandolo una minaccia nei propri confronti, e che la Nato cerca di far digerire a Mosca: a tal fine ha invitato il presidente Medvedev al Consiglio Nato-Russia che si svolgerà a Lisbona subito dopo il Summit, il 20 novembre, per «approfondire la cooperazione politica e rafforzare la comune sicurezza».

Oggi, sottolinea Rasmussen, la difesa del territorio dell’Alleanza e dei suoi 900 milioni di cittadini non è circoscritta all’area delimitata dai confini. La globalizzazione ha reso le nostre economie sempre più dipendenti da forniture provenienti da tutto il mondo. Ciò significa che un attacco a queste linee di rifornimento può avere effetti drammatici sulla nostra sicurezza, nel caso ad esempio che le nostre petroliere non potessero più transitare dallo Stretto di Hormuz (all’imboccatura del Golfo Persico tra Iran e Oman). Occorre quindi investire meno nelle forze statiche, dislocate all’interno dei 28 paesi membri dell’Alleanza, e di più nelle forze mobili, in grado di essere proiettate rapidamente fuori del territorio della Nato.

La Nato è già oggi impegnata, sulla scia della strategia Usa, in diverse «missioni» militari fuori della sua area geografica: in Kosovo, dove opera per «costruire la stabilità e la pace»; nel Mediterraneo, dove conduce operazioni navali «contro le attività terroristiche»; in Sudan, dove aiuta l’Unione africana a «porre fine alla violenza e migliorare la situazione umanitaria»; nel Corno d’Africa, dove conduce «operazioni anti-pirateria» controllando le rotte marittime strategiche; in Iraq, dove contribuisce a «creare efficienti forze armate»; in Afghanistan, dove ha assunto con un colpo di mano nel 2003 la leadership dell’Isaf, impantandosi però in una guerra che ora la costringe a cercare una «exit strategy». Tanto che oggi è stato convocato a Lisbona il presidente afghano Hamid Karzai. La Nato non sembra però aver imparato nulla dalla lezione afghana: si prepara infatti a nuove «missioni» fuori area.


La mutazione genetica

Per capire il passaggio sancito dal summit di Lisbona, occorre ricordare quali sono state le prime due fasi della storia della Nato.

Attraverso di essa, durante la guerra fredda, gli Stati uniti mantengono il loro dominio sugli alleati europei, usando l’Europa come prima linea nel confronto, anche nucleare, col Patto di Varsavia (fondato nel 1955, sei anni dopo la Nato). Lo scenario cambia radicalmente quando, nel 1991, si dissolve il Patto di Varsavia, quindi la stessa Unione sovietica.

Ne approfittano subito gli Stati uniti, che riorientano la propria strategia con la prima guerra del Golfo. Premendo sulla Nato, perché faccia altrettanto: vi è infatti il pericolo che gli alleati europei effettuino scelte divergenti o ritengano perfino inutile la Nato nella nuova situazione geopolitica. Il 7 novembre 1991 il Consiglio atlantico, riunito a Roma, vara la prima versione del «nuovo concetto strategico», in cui si stabilisce che la «sicurezza» dell'Alleanza non è circoscritta all’area nord-atlantica.

Poco tempo dopo esso viene messo in pratica nei Balcani. In Bosnia, dopo il voluto fallimento dell’Onu, la Nato interviene nel 1994 con la prima azione di guerra dalla fondazione dell’Alleanza. Segue la guerra contro la Iugoslavia, nel 1999. Gli Stati uniti riescono così a far scoppiare una guerra (che avrebbe potuto essere evitata) nel cuore dell’Europa, rafforzando la loro influenza in questa regione nel momento critico in cui se ne ridisegnano gli assetti politici, economici e militari. Mentre è in corso la guerra, il vertice Nato convocato a Washington impegna i paesi membri a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza».

Inizia così l’espansione della Nato nel territorio dell’ex-Patto di Varsavia e dell’ex-Urss. Nel 1999 essa ingloba Polonia, Repubblica ceca e Ungheria; nel 2004 Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia; nel 2009 Albania e Croazia. Viene inoltre preparato l’ingresso nell’Alleanza di Macedonia, Ucraina, Georgia e Montenegro. Emblematica la pressione Nato sul Caucaso, con il conflitto lanciato dalla Georgia a riconquista dell’Abkhazia e la guerra che ne segue con la Russia nell’estate 2008. Cresce in tal modo l’influenza Usa in Europa, poiché i governi dei paesi dell’ex-Patto di Varsavia e dell’ex-Urss, entrati prima nella Nato e quindi quasi tutti nella Ue, sono legati più a Washington che a Bruxelles.

Ora, spiega Rasmussen, si apre la terza fase. Quella di una alleanza che, sotto l’indiscussa leadership statunitense, si propone di estendere il suo dominio su scala globale. Crescerà di conseguenza la spesa militare dei paesi della Nato, che oggi ammonta a circa 1000 miliardi di dollari annui, equivalenti ai due terzi della spesa militare mondiale.


(il manifesto, 19 novembre 2010)



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Summit di Lisbona: 
NATO per conservare gli armamenti nucleari, per costruire lo scudo missilistico in Europa 

di Rick Rozoff
(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
richardrozoff Stop NATO
10 novembre 2010

Fra poco più di una settimana, la NATO, la North Atlantic Treaty Organization, Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico si riunirà in un summit di due giorni (19 e 20 novembre 2010) a Lisbona, in Portogallo, con la presenza dei capi di stato e di governo (presidenti e primi ministri) dei suoi 28 Stati membri.
A questo summit, l’unico blocco militare del mondo approverà il suo nuovo Concetto Strategico, il primo dal 1999, e quindi il primo per il XXI secolo, una dottrina che renderà ufficiale il ruolo della NATO come forza internazionale militare-sicuritaria-politica, e a questo proposito avversa alle Nazioni Unite.
I principali elementi dell’agenda NATO di Lisbona saranno: 
la guerra in Afghanistan, il primo conflitto armato dell’Alleanza lontano dall’Europa e le prime operazioni di combattimento sul campo della sua storia; 
la presentazione di un sistema di missili intercettori esteso su tutto il continente Europa, ricondotto sotto gli auspici di uno scudo missilistico globale degli Stati Uniti; 
in analogia, attività di cyber-guerra costruite sulle iniziative del centro di cyber-difesa della NATO in Estonia e subordinate al nuovo Cyber Comando del Pentagono; 
la conservazione di centinaia di bombe nucleari usamericane all’interno di basi aeree in cinque nazioni dell’Europa; 
la moltiplicazione di nuovi ruoli e missioni, dal pattugliamento strategico di corridoi del mare con navi da guerra alla protezione degli interessi energetici degli Stati membri della NATO in alcune parti (in tutte!) del mondo.
Al summit di Lisbona, i leader delle varie nazioni membri della NATO si occuperanno anche del raggio di intervento sempre più allargato dell’Alleanza militare sotto egemonia statunitense, con particolare riguardo alla guerra in Afghanistan, dove attualmente sono impegnati 140.000 uomini di truppa dagli Stati Uniti e da altre quasi 50 nazioni assegnati all’ISAF, International Security Assistance Force, la Forza di Assistenza per la Sicurezza Internazionale della NATO.
L’ISAF dovrebbe includere partecipanti da: 
Partnership for Peace, il programma della NATO di partenariato per la pace in Europa e in
Asia: Armenia, Austria, Azerbaijan, Bielorussia, Bosnia, Finlandia, Georgia, Irlanda, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Macedonia, Malta, Moldavia, Montenegro, Serbia, Svezia, Svizzera, Tajikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan.
Mediterranean Dialogue in Africa e Medio Oriente: Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia.

[immagine: NATO, membri di Partnership for Peace e Mediterranean Dialogue]

Istanbul Cooperation Initiative nel Golfo Persico: Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti
Contact Country, alleati dall’Asia Orientale e dal Sud Pacifico: Australia, Giappone, Nuova Zelanda, e Corea del Sud
NATO-Russia Council: il Presidente Dmitry Medvedev sarà il primo capo di stato della Russia a partecipare ad un summit della NATO
Commissione Tripartita dei comandanti militari di NATO, Afghanistan e Pakistan.

[immagine: Incontro della Commissione Tripartita]

Nazioni Contribuenti di Truppe ufficialmente all’ISAF per la NATO, non presenti in alcuna delle categorie precedenti: Malaysia, Mongolia, Singapore e Tonga.
Anche la Colombia si è impegnata a fornire truppe per l’ISAF e nazioni come il Bangladesh sono state invitate pressantemente a fare lo stesso.

I 28 membri della NATO e i partner qui sopra elencati raggiungono un totale di 75 nazioni. Quasi il 40% dei 192 membri delle Nazioni Unite. Questa è la NATO del XXI secolo, la prima Alleanza militare globale della storia, un’alleanza che ha forze militari – truppe, strutture, aerei e navi da guerra – dispiegate all’esterno del territorio dei suoi stati membri, in tre continenti: nell’Europa sud- orientale, nell’Asia centrale e meridionale, e nell’Africa nord-orientale.
Un gran numero di paesi africani stanno sviluppando relazioni con la NATO in sintonia con il nuovo Comando Africa degli Stati Uniti, che è stato istituito dal Comando Europa statunitense, il cui comandante al vertice militare è anche il comandante della NATO in Europa.

Alla vigilia del summit della NATO dello scorso anno tenutosi a Strasburgo, in Francia, e a Kehl, in Germania, il Presidente francese Nicolas Sarkozy aveva annunciato che egli avrebbe riportato il suo paese all’interno della struttura di comando militare della NATO, dalla quale si era ritirato il suo predecessore Charles de Gaulle nel 1966.
Il completo reintegro della Francia è emblematico dell’inclusione nella NATO di quasi tutti gli Stati d’Europa, come membri a pieno titolo e come candidati ad uno stadio progressivamente sempre più avanzato, secondo i seguenti accordi di partenariato, specifici per nazione: Partnership for Peace (Partenariato per la Pace), Individual Partnership Action Plans (Piani di Azione per Partenariato Individuale), Membership Action Plans (Piani di Azione per l’Insieme dei Membri) e Annual National Programs (Programmi Nazionali Annuali).
Delle 44 nazioni europee membri delle Nazioni Unite, escludendo i microstati ed includendo i paesi del Caucaso meridionale, solo una – Cipro – non è membro o partner della NATO, e il governo cipriota è sotto pressione dei partiti conservatori di opposizione per un suo ingresso nel “Partnership for Peace”.
Solo sei di queste 44 nazioni – Bielorussia, Cipro, Malta, Moldavia, Russia e Serbia – non hanno fornito truppe alla NATO per la missione ISAF in Afghanistan.

[immagine: Truppe italiane ISAF in Afghanistan]

Quando la Francia è rientrata nel comando militare integrato della NATO, le sono state assegnate due cariche ai vertici militari: il luogotenente generale Philippe Stoltz è diventato comandante del Comando delle Forze Congiunte Alleate a Lisbona, uno dei tre comandi operativi della NATO, e il generale dell’areonautica militare Stéphane Abrial ha assunto il comando dell’Allied Command Transformation (ACT) a Norfolk, Virginia, uno dei due comandi strategici della NATO, l’altro essendo l’Allied Command Operations presso il quartier generale supremo delle Forze alleate europee in Belgio. Abrial è il primo non-Usamericano a comandare l’ACT nei sette anni della sua esistenza.
Al Forum sulla Sicurezza Internazionale di Halifax, nella Nuova Scozia, Canada, durato tre giorni, dal 5 al 7 novembre, il general Abrial ha reiterato la posizione della NATO di mantenere armamenti nucleari statunitensi in Europa, negli stessi termini dei recenti commenti del Segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen e della Segretaria di Stato degli Stati Uniti Hillary Clinton.
Il comandante dell’ACT ha dichiarato: “Finché il mondo è nucleare, l’Alleanza (NATO) deve conservare armi nucleari.” [1] Il mese scorso “la Clinton ha preso posizione contro le intenzioni di rimuovere dall’Europa le 200 restanti armi nucleari tattiche dell’Alleanza, affermando che la NATO deve rimanere un’Alleanza nucleare fintantoché esisteranno armi nucleari.”[2] Praticamente nello stesso momento Rasmussen affermava che “il sistema di difesa anti-missilistico è un complemento al sistema di deterrenza nucleare, e non un sostituto.” [3] Sempre il mese scorso, la Cancelliera tedesca Angela Merkel, il cui paese è stato rappresentato come fautore della rimozione dall’Europa delle testate nucleari degli Stati Uniti, comprese quelle presenti in Germania, ha dichiarato il suo appoggio alla loro conservazione, in occasione del summit della NATO a Lisbona, dichiarando: “Fino a che vi saranno armi nucleari nel mondo, noi abbiamo la necessità di possedere queste risorse, come afferma la NATO.” [4]

Il 4 novembre, Rasmussen si è incontrato con il Primo Ministro britannico David Cameron a Londra, due giorni dopo la firma di un innovativo Patto anglo-francese atto “a creare una forza militare congiunta e a condividere gli impianti per i test nucleari e una portaerei.” [5] Uno sviluppo non irrilevante, visto che “la Gran Bretagna e la Francia insieme coprono per il 50 % la capacità operativa militare di Europa, per il 45 % la spesa per la sua difesa e per il 70% la ricerca e lo sviluppo indispensabili per combattere le guerre del futuro.” [6]
In un editoriale pubblicato prima della firma di questo Trattato, il Ministro della Difesa britannico Liam Fox ha scritto: “Vi sono molteplici ragioni per cui questa operazione diventa significativa. In Europa, noi siamo le uniche due potenze nucleari.” Di fatto, in Europa esiste un’altra nazione con armamento nucleare, la sola a non essere membro della NATO, l’unica contro la quale è indirizzato l’accoppiata “scudo missilistico-armi nucleari”, e questa è la Russia.
Fox continuava, vantandosi che la Gran Bretagna e la Francia “sono i paesi che sostengono la maggior spesa per la difesa in Europa e i soli due paesi in Europa con una reale possibilità di spedizioni militari su larga scala.” “Dal momento in cui il Presidente Sarkozy ha assunto la sua carica, abbiamo assistito allo sforzo, con rinnovato vigore, di portare l’Europa e l’America a più stretto collegamento nel partenariato e nella cooperazione, e alla effettiva determinazione di inserire la Francia in ruoli di alta responsabilità all’interno della NATO, che molti di noi ritengono siano di sua competenza...La portaerei francese Charles de Gaulle, per la quale è prevista la presenza a bordo di un ufficiale di collegamento britannico, starà già arrivando nell’Oceano Indiano per fornire una maggior potenza aerea alla NATO in Afghanistan.” [7]

A Lisbona, il 19 e il 20 novembre, la NATO manterrà le sue posizioni sulle armi nucleari statunitensi collocate all’interno di basi aeree della NATO in Belgio, Germania, Italia, Olanda e Turchia, come è stato confermato nel suo ultimo Concetto Strategico adottato undici anni fa: “La suprema garanzia della sicurezza degli Alleati è fornita dalle forze nucleari strategiche dell’Alleanza, in particolare da quelle degli Stati Uniti; le forze nucleari indipendenti del Regno Unito e della Francia, che rivestono un ruolo di deterrenza a favore delle due nazioni, comunque contribuiscono alla deterrenza e alla sicurezza di tutti gli Alleati.”

Nelle cinque nazioni sopraindicate sono collocate fra le 200 e le 350 bombe atomiche a gravità di proprietà degli Stati Uniti, parte delle quali viene definita alternativamente di “burden sharing” (condivisione degli oneri) e di “nuclear sharing” (condivisione nucleare) [N.d.tr.: Per i paesi partecipanti all’Alleanza, la condivisione nucleare e la condivisione degli oneri consistono nel prendere decisioni comuni in materia di politica sulle armi nucleari, nel mantenere le attrezzature tecniche necessarie per l’uso delle armi nucleari (tra cui aerei da guerra, sottomarini e così via) e conservare le armi nucleari sul loro territorio.], mentre tecnicamente sono di proprietà degli Stati Uniti e sono date in assegnamento ai paesi ospitanti, che le trasportano con i loro bombardieri. Questa disposizione è una palese violazione del Trattato di Non-Proliferazione delle Armi Nucleari (Nuclear Non-Proliferation Treaty), che stabilisce: “ Ogni Stato firmatario del Trattato sulle armi nucleari si impegna di non trasferire a qualsivoglia destinatario armi nucleari o altri congegni esplosivi nucleari, o il controllo diretto o indiretto su tali armi o congegni esplosivi...” [8]

[immagine: La bomba nucleare B61]

In aggiunta alle armi nucleari usamericane depositate nelle basi NATO – nel caso della Turchia, in un paese confinante con l’Iran e la Siria e separato dalla Russia sola dalla Georgia e dall’Azerbaijan – la Francia possiede testate nucleri valutate sulle 300 unità e la Gran Bretagna 225. Quindi, vi possono essere in Europa non meno di 900 armi nucleari sotto il controllo delle potenze della NATO.
Il summit di Lisbona porterà la NATO ad assumere un ulteriore impegno per l’addestramento dell’esercito e delle forze di sicurezza Afghani, che presumibilmente dovranno assumere il controllo della guerra nel loro paese nei prossimi quattro o cinque anni, proprio mentre la forza dei reparti statunitensi e della NATO è a livelli record, e sono in arrivo ancora truppe. Tuttavia, la decisione più importante e significativa che verrà formalizzata in Portogallo è quella di subordinare tutta l’Europa al sistema missilistico di intercettazione globale degli Stati Uniti. Nel mese di maggio, il Pentagono ha rafforzato in Europa il primo dispiegamento a lungo termine di missili anti-balistici, posizionando una batteria di missili Patriot Advanced Capability-3 (PAC-3) a Morag, in Polonia, 35 miglia dal territorio della Russia. In febbraio, la Romania e la Bulgaria avevano concordato di consentire agli Stati Uniti di posizionare componenti dello scudo missilistico sul loro territorio, un adattamento di posizionamento a terra di missili intercettori Standard Missile-3 (SM-3) in Romania, integrato da un sistema radar missilistico in Bulgaria. Anche la Polonia ha consentito di ospitare gli SM-3, che sono missili sia anti-satellitari che anti- balistici. [9]

[immagine: Lancio di un missile Patriot]

Il Sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e per gli affari internazionali sulla sicurezza degli Stati Uniti, Ellen Tauscher, sta promuovendo l’insediamento nella Repubblica Ceca di un radar per lo scudo missilistico e il Segretario della NATO Rasmussen, interpellato l’1 novembre sulla costituzione di una base missilistica radar nella città di Mukachevo, in Ucraina, nell’ambito del sistema missilistico NATO, ha affermato: “Penso che questa spinta propulsiva dovrebbe allargarsi anche ai nostri partner euro-atlantici, così come all’Ucraina, se l’Ucraina lo desidera.” [10]
Malgrado il rullo di tamburi dei fabbricanti di panico rispetto a minacce, inesistenti, contro l’Europa – contro tutta l’Europa, fino alle Isole britanniche più ad occidente – provenienti dal Golfo Persico e dalla penisola di Corea, si concentrano nell’Europa orientale I progetti di posizionamento di missili intercettori degli Stati Uniti e della NATO, tranne che per impianti accessori di minore portata in Gran Bretagna, Norvegia e Groenlandia. Dal Mar Baltico al Mar Nero, lungo il fianco occidentale della Russia!

[immagine: Lancio di uno Standard Missile-3]

Nel clima di cooperazione della NATO con l’Europa – e non solo con l’Europa - la parte preponderante delle più recenti discussioni e polemiche verte sulla componente, che interessa la Turchia, dei progetti di missili intercettori degli Stati Uniti con estensione mondiale.

Fonti all’interno della Turchia e dai paesi confinanti hanno commentato la questione, mettendo in guardia sul fatto che il dispiegamento di elementi del sistema di missili intercettori in Turchia comporterebbe numerose conseguenze negative, perfino pericolose. La pressione su Ankara da parte degli Stati Uniti e della NATO, esercitata inevitabilmente a causa degli impegni della NATO, è designata al conseguimento di diversi obiettivi geopolitici, che non hanno nulla a che vedere con le supposte minacce missilistiche provenienti dall’Iran, dalla Siria o – cosa ancora più assurda – dalla Corea del Nord.

La Turchia viene pressata perché riassuma il ruolo che giocava nella seconda metà del secolo scorso, come avamposto della NATO, il più ad oriente e il più a sud, come testa di ponte militare dell’Occidente contro l’Unione Sovietica, più tardi Russia, a nord, e contro il Medio Oriente a sud e ad est, stazionando aerei e bombe atomiche degli Stati Uniti e della NATO per un loro potenziale uso in queste tre direzioni. In anni recenti, la Turchia ha intrapreso relazioni e vincoli di sicurezza su piano paritario con l’Iran, la Russia e la Siria. Accogliendo il programma di scudo missilistico di Washington e di Brussels, la Turchia comprometterebbe – sarebbe inteso come un sabotaggio – queste nascenti relazioni di partenariato. In aggiunta alla prefissata inaugurazione di siti per missili intercettori in Romania e in Bulgaria, paesi confinanti con la Turchia sul Mar Nero, due anni fa il Pentagono ha aperto in Israele una base radaristica Forward-Based X-Band Radar per missili intercettori, dotata di personale militare statunitense approssimativamente sulle 100 unità, primo dispiegamento di truppe straniere nella storia di Israele. [11]

Inoltre, Washington ha progettato di espandere le sue vendite di missili anti-balistici ai partner degli Stati Uniti e della NATO nel Golfo Persico - Bahrain, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti - come parte di una fornitura di armamenti senza precedenti, del valore di 123 miliardi dollari. Questi cinque Stati sono stati equipaggiati con, o riceveranno, missili anti-balistici statunitensi, che annoverano i missili a corto raggio Patriot Advanced Capability-3, fino a quelli a medio raggio Standard Missile-3 e a gittata media ed intermedia Terminal High Altitude Area Defense. [12]

[immagine: Lancio di un missile Terminal High Altitude Area Defense]

Per di più, gli Stati Uniti hanno dispiegato missili SM-3 posizionati su navi nel Mar Mediterraneo orientale e nel Golfo Persico, e hanno in progetto di ottenere e di migliorare basi missilistiche terrestri nel Caucaso meridionale. [13]

La Turchia è la chiave di volta per consolidare un potenziale sistema di intercettazione missilistica di primo intervento [14], dal Mar Baltico al Mar Caspio, dal Mar Rosso al Golfo Persico. Con i complementari dispiegamenti ad Oriente – Giappone, Corea del Sud, Australia, Taiwan ed in Alaska, sia sulla terraferma che sulle isole Aleutine, – e sull’Oceano Artico, che la Direttiva presidenziale sulla sicurezza nazionale 66 del 9 gennaio 2009 ha identificato come area da impegnare per scopi di difesa missilistica [15], e con gli elementi dello scudo missilistico posizionati nello spazio e con un laser aviotrasportato, gli Stati Uniti progettano di costruire una cupola missilistica impenetrabile, coordinata con strutture per cyber-guerra e per un Prompt Global Strike (Pronto Attacco Globale), che dovrebbe renderli invulnerabili da attacchi di rappresaglia. E per circondare il cuore dell’Eurasia, non solo la Corea del Nord, ma la Russia, l’Iran e la Cina, con un sistema stratificato di missili intercettori.

[immagine: Il Radar X-Band posizionato sul mare nei pressi del porto di Adak, Alaska, nelle isole Aleutine]

Un editoriale apparso di recente nella stampa russa affermava: “Se la Turchia dovesse aderire ai piani di difesa missilistica degli Stati Uniti e della NATO, sorgeranno pochi dubbi sul sistema di difesa di missili a gittata diversificata che Washington sta introducendo su larga scala. La Polonia, la Repubblica Ceca, la Bulgaria e la Romania hanno già annunciato di essere pronte a parteciparvi. Senza ombra di dubbio, un potente “ombrello anti-missile” di questa natura è ingiustificato per respingere una minaccia immaginaria proveniente dall’Iran. Precisamente, l’Iran ancora non è arrivato a possedere alcuna sorta di misssile balistico.
Molti esperti politici e militari in Russia sono arrivati alla conclusione che, per costruire un tale sistema, gli Stati Uniti cercano di controbilanciare il potenziale missilistico della Russia, dispiegando basi di difesa missilistica lungo l’intera lunghezza dei confini con il territorio russo. Washington sta puntando su uno scudo di difesa missilistica globale, i cui elementi sono già in fase di installazione in Estremo Oriente, nell’Oceano Indiano e nei mari del nord.” [16]
L’ex Capo degli Stati Maggiori Congiunti delle Forze armate russe, Leonid Ivashov, di recente ha avvertito che un’ulteriore espansione del programma di scudo missilistico degli Stati Uniti in collaborazione con la NATO ha come obiettivo quello di “neutralizzare il potenziale missilistico nucleare della Russia.”
“Noi non abbiamo altre possibilità, eccetto il potenziale missilistico nucleare, per proteggere anche una sola parte dei nostri territori.” [17] .... Alla fine del mese, i leader delle 28 nazioni della NATO festeggeranno un accordo sulla installazione di uno scudo missilistico a copertura dell’intero continente europeo, in tanti discorsi apparentemente per proteggere il Lussemburgo e l’Islanda dai missili dell’Iran e della Corea del Nord. Quello che di fatto andranno a ratificare è la perniciosa escalation del progetto di difesa strategica globale del XXI secolo, la Strategic Defense Initiative. Guerre Stellari!


Note

1) Agenzia France-Presse, 7 novembre 2010 
2) Associated Press, 14 ottobre 2010 
3) Deutsche Presse-Agentur, 15 ottobre 2010, “Nuclear Weapons And Interceptor Missiles: Twin Pillars Of U.S.-NATO Military Strategy In Europe – Armi nucleari e missili intercettori: due pilastri della strategia militare in Europa degli Stati Uniti-NATO” ; Stop NATO, 23 aprile 2010 http://rickrozoff.wordpress.com/2010/04/23/nuclear-weapons-and-interceptor-missiles-twin-pillars- of-u-s-nato-military-strategy-in-europe
4) Deutsche Presse-Agentur, 22 ottobre 2010, “Germany And NATO’s Nuclear Nexus – Interrelazioni nucleari fra Germania e NATO”; Stop NATO, 18 luglio 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/09/01/germany-and-natos-nuclear-nexus 
5) Agenzia France-Presse, 4 novembre 2010
6) Agenzia France-Presse, 1 novembre 2010 
7) Sunday Telegraph, 31 ottobre 2010 
8) “NATO’s Sixty-Year Legacy: Threat Of Nuclear War In Europe – Eredità di sessanta anni di NATO: pericolo di guerra nucleare in Europa”; Stop NATO, 31 marzo 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/27/natos-sixty-year-legacy-threat-of-nuclear-war-in- europe “NATO’s Secret Transatlantic Bond: Nuclear Weapons In Europe – Vincolo segreto transatlantico della NATO: armi nucleari in Europa”; Stop NATO, 3 dicembre 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/12/03/natos-secret-transatlantic-bond-nuclear-weapons-in- europe 
9) “Rasmussen In Poland: Expeditionary NATO, Missile Shield And Nuclear Weapons – Rasmussen in Polonia: missione NATO, scudo missilistico ed armi nucleari”; Stop NATO, 14 marzo 2010 http://rickrozoff.wordpress.com/2010/03/14/rasmussen-in-poland-expeditionary-nato-missile- shield-nuclear-weapons 
10) Russian Information Agency Novosti, 3 novembre 2010 
11) “Israel: Forging NATO Missile Shield, Rehearsing War With Iran – Israele: lo scudo missilistico della NATO in fase di avanzamento, prove di guerra con l’Iran”; Stop NATO, 5 novembre 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/11/05/israel-forging-nato-missile-shield-rehearsing-war-with- iran 
12) “U.S. Extends Missile Buildup From Poland And Taiwan To Persian Gulf – Gli Stati Uniti estendono l’armamento missilistico dalla Polonia e Taiwan fino al Golfo Persico”; Stop NATO, 3 febbraio 2010 http://rickrozoff.wordpress.com/2010/02/03/u-s-extends-missile-buildup-from-poland-and-taiwan- to-persian-gulf 
13) “Black Sea, Caucasus: U.S. Moves Missile Shield South And East – Mar Nero, Caucaso: gli Stati Uniti mettono in azione lo scudo missilistico a sud e ad est”; Stop NATO, 19 settembre 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/09/19/283 
14) “U.S. Accelerates First Strike Global Missile Shield System - Gli Stati Uniti accelerano il sistema di scudo missilistico globale di primo attacco”; Stop NATO, 19 agosto 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/09/02/u-s-accelerates-first-strike-global-missile-shield-system 
15) “NATO’s, Pentagon’s New Strategic Battleground: The Arctic – Nuovo campo di battaglia strategico del Pentagono e della NATO: l’Artico”; Stop NATO, 2 febbraio 2009 http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/natos-pentagons-new-strategic-battleground-the-arctic 
16) “Victor Yenikeev, US and NATO missile defenses in Turkey get negative response - Victor Yenikeev, la difesa dei missili statunitensi e della NATO in Turchia ottengono una risposta negativa”; Voice of Russia, 9 novembre 2010


=== 3 ===

BILANCIO DEL SUMMIT DI LISBONA

L’Europa ingabbiata dagli Usa nella Nato

Tommaso Di Francesco   Manlio Dinucci

Nella dichiarazione del summit Nato di Lisbona (20 novembre) si annuncia la creazione di una nuova struttura di comando, più snella ed efficiente. Immutata resta però la gerarchia. Il Comandante  supremo alleato in Europa (Saceur) non può essere un militare europeo. Deve, per regolamento, essere un generale o ammiraglio nominato dal presidente e confermato dal senato degli Stati uniti. Solo dopo, formalmente,  il Consiglio atlantico viene chiamato ad approvare la scelta. L’attuale Saceur è l’ammiraglio James Stavridis, già a capo del Comando meridionale Usa, la cui area di responsabilità abbraccia l’intera America latina. 
Lo stesso criterio vale per gli altri comandi chiave dell’Alleanza. Ad esempio, a capo della Forza congiunta  alleata a Napoli c’è l’ammiraglio Sam Locklear III, allo stesso tempo comandante delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa. Poiché tutti questi alti ufficiali fanno parte della catena di comando statunitense, che per loro ha priorità assoluta, anche le forze alleate europee ai loro ordini sono di fatto inserite nella stessa catena di comando che fa capo al presidente degli Stati uniti. Si capisce quindi perché, anche dopo la guerra fredda, l’Alleanza atlantica sia rimasta così importante per Washington. 

L’effetto Nato sull’Europa

Per oltre 60 anni, ha sottolineato il presidente Obama nella conferenza stampa al termine del Summit, la Nato si è dimostrata l’alleanza che ha avuto il maggior successo nella storia: essa ha difeso l’indipendenza dei suoi membri e allevato le giovani democrazie in una Europa unita a libera. Questione di punti di vista. Il successo c’è stato, ma soprattutto a vantaggio degli Stati uniti.  Essi sono riusciti a mantenere l’Unione europea, di cui temono la crescente forza economica, sotto la loro tutela politica e militare. Ciò perché i governi europei di ogni segno politico non hanno attuato una politica estera e della difesa diversa da quella degli Stati uniti, ma si sono accodati a loro in cambio di una fetta della torta nell’area di dominio e influenza dell’impero Usa. Come spiega la Commissione europea, la difesa collettiva, in origine di competenza della Ueo, è ora entrata a far parte delle competenze della Nato. 
E quelle che Obama definisce le giovani democrazie allevate dalla Nato, ossia i 12 paesi dell’ex-Patto di Varsavia e dell’ex-Urss inglobati nell’Alleanza tra il 1999 e il 2009, sono legate tramite i loro governi più a Washington che a Bruxelles. Ciò ha permesso agli Stati uniti di avere maggiore influenza nella Ue e di estendere la loro presenza militare sul territorio europeo, allargandola verso est, in particolare nelle repubbliche baltiche, in Romania e Bulgaria. E nella dichiarazione del summit si indicano i paesi cui guarda la Nato per un ulteriore allargamento: Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia, Ucraina, Georgia. 
La presa militare Usa sull’Europa si rafforzerà enormemente con lo «scudo» missilistico, che i governi europei hanno ufficialmente accettato al summit di Lisbona. L’intera architettura dello «scudo» (batterie missilistiche mobili, radar terrestri mobili, radar e altri sensori su aerei e satelliti) sarà gestita dal Pentagono nel quadro della sua rete globale di comando, controllo e comunicazioni. Le conseguenze sono facilmente immaginabili. Il contenzioso con la Russia è tutt’altro che superato dal clima distensivo, creato ad arte al summit di Lisbona, e sarà acuito dall’ulteriore spinta della Nato verso est. L’Europa rischia quindi di trovarsi ancora una volta in prima linea. Per di più, gli Stati uniti potrebbero un giorno usare l’architettura dello «scudo», da loro controllata, per mettere i paesi europei in allarme su un imminente attacco missilistico (ad esempio da parte dell’Iran) e giustificare così la necessità di un attacco preventivo. Soprattutto a questo è destinato lo «scudo», concepito per proteggere le forze militari proiettate in aree esterne al territorio della Nato.
Questa – ha chiarito al summit il premio Nobel per la pace Barack Obama – resterà un’alleanza nucleare e gli Stati uniti manterranno un efficiente arsenale nucleare per assicurare la difesa di tutti i loro alleati.  Ciò significa che gli Usa manterranno le loro bombe nucleari tattiche in Europa e useranno il suo territorio quale base avanzata delle loro forze strategiche nucleari.    

L’Italia a stelle e strisce


Ancora più critica diverrà la situazione del nostro paese nel quadro del nuovo concetto strategico, varato dal summit di Lisbona.  Acquisterà ulteriore importanza il quartier generale della Forza congiunta alleata a Napoli, che nel 2011 si trasferirà da Bagnoli a Lago Patria in una nuova sede di 85000 m2, con un personale di 2.100 militari e 350 civili. Aumenterà anche l’attività del Comando marittimo alleato e delle Forze navali Nato di supporto e attacco, i cui quartieri generali sono a Napoli, e del Corpo di spiegamento rapido Nato di Solbiate Olona (Varese). A Sigonella entrerà in funzione il sistema Ags, il più sofisticato sistema di spionaggio elettronico non per la difesa del territorio dell’Alleanza, ma per il potenziamento della sua capacità offensiva fuori area, soprattutto in quella mediorientale. A tutto questo si aggiungeranno i missili e altri componenti dello «scudo» Usa e l’Hub aereo militare di Pisa, che sarà messo a disposizione della Nato. 
Sarà allo stesso tempo potenziata l’intera rete delle basi Usa. Da quella aerea di Aviano, dove probabilmente saranno concentrate tutte le bombe nucleari Usa in Europa, a quella di Vicenza, base della 173a brigata aviotrasportata e dello U.S. Army Africa (Esercito Usa per l’Africa). Da Camp Darby, la base logistica che rifornisce le forze terrestri e aeree Usa, a quella aeronavale di Sigonella, dove si trova uno dei due centri di rifornimento della U.

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Kosovo: Linke 1999 Erfüllungsgehilfen der NATO

1) Pro memoria: Von der «Friedenspartei» zur Kriegstreiberei
SPD und Grüne im Kosovo-Diskurs 1999
(von Kurt Gritsch - Zeit-Fragen, 08.11.2010)

2) „Humanitärer“ Bellizismus
Kurt Gritsch unterzieht die mediale Legitimation des „Kosovo-Kriegs“ einer skeptischen Revision
(von Franz Siepe - literaturkritik.de)


Inizio messaggio inoltrato:

Da: truth @ public-files.de
Data: 21 novembre 2010 14.15.31 GMT+01.00

-------- Original-Nachricht --------
Datum: Thu, 18 Nov 2010 21:35:10 +0100
Von: "Y.&K.Truempy" 
Betreff: Kosovo: Linke 1999 Erfüllungsgehilfen der NATO


Weitere Literaturangaben Zu Srebrenica:

Alexander Dorin, Zoran Jovanovic
Srebrenica – wie es wirklich war
Unterdrückte Tatsachen über die an Serben begangenen Massaker 1992–1995

Srebrenica
von Alexander Dorin
Die Geschichte eines salonfähigen Rassismus


Weitere Links:

www.free-slobo.de



Bücher von Gritsch:

Peter Handke und "Gerechtigkeit für Serbien" Eine Rezeptionsgeschichte von Kurt Gritsch von Studienverlag (Broschiert - 24. März 2009)


Inszenierung eines gerechten Krieges?: Intellektuelle, Medien und der "Kosovo-Krieg" 1999. von Kurt Gritsch von Olms, Georg (Taschenbuch - Juni 2010)



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Pro memoria: Von der «Friedenspartei» zur Kriegstreiberei


SPD und Grüne im Kosovo-Diskurs 1999


von Kurt Gritsch


1999 führte die Nato ihren ersten Krieg out of area, was für Deutschland, das sich an der «Operation Allied Forces» beteiligte, zugleich die erste kriegerische Betätigung seit 1945 darstellte. Die politischen Eliten, welche den neuen Kurs verantworteten, entstammten indes nicht, wie bis zum Ende des kalten Krieges zu vermuten gewesen wäre, dem rechtskonservativen Lager. Ähnlich wie in zahlreichen anderen Nato-Ländern waren auch in Deutschland 1999 linksgerichtete Parteien an der Macht. Deren Bedeutung zur Rechtfertigung der «humanitären Intervention», angeblich zum Schutz der von Serbien bedrohten Kosovo-Albaner, wird von Befürwortern wie Kritikern der Luftangriffe auf Jugoslawien gleichermassen anerkannt.


Nur eine rot-grüne Regierung habe Deutschland in einen Krieg führen können, «ohne die deutsche Gesellschaft einer Zerreissprobe auszusetzen, die alle innenpolitischen Auseinandersetzungen an Schärfe und Bedrohlichkeit in den Schatten gestellt hätte.»1 Dabei wurde der Topos des linken Antifaschismus zur Legitimation der Luftangriffe verwendet.2 Wie die USA Deutschland vom Hitler-Terror befreit hätten, müssten nun die Deutschen Jugoslawien vom Neo-Hitler Milosevic befreien:


«Diese Wiederbelebung des Hitler-Gespenstes richtet sich vor allem gegen die bisher kriegsunwilligen Deutschen und die dortige Friedensbewegung, […] Sie wirkt vor allem bei den Medien, die bis heute nicht müde werden, den Krieg als Normalfall hinzustellen.»3


Allerdings hatten die USA NS-Deutschland keineswegs alleine besiegt. Abgesehen von den Westalliierten Grossbritannien und Frankreich hatte die Sowjetunion die Hauptlast getragen und neben Auschwitz zahlreiche weitere Vernichtungslager in Osteuropa befreit. Dennoch kämpfte die UdSSR keineswegs aus humanitären Gründen gegen das «Dritte Reich». Gleiches gilt für die USA, die in den Krieg weder wegen Pearl Harbor eingetreten waren, noch um «die Juden» zu retten, sondern weil sie ihre aussenpolitischen und geostrategischen Interessen insbesondere im Pazifik bedroht sahen.4 Schon von daher bleibt eine auf den Zweiten Weltkrieg aufbauende moralische Rechtfertigung fragwürdig. Eine ethische Verpflichtung durch «Auschwitz» müsste auf einen Krieg aus ausschliesslich humanitären Interessen hinauslaufen, was es in der Geschichte noch nie gegeben hat. Damit kann ein drohender Genozid nur durch pluralistische, heterogene zivile Organisationen wie OSZE und Uno glaubwürdig bekämpft werden.
Diese Präambel sollte vorausgeschickt werden, um die Inszenierung der Luftangriffe als «gerechten Krieg» durch linksgerichtete Politiker in Deutschland besser verstehen zu können – eine Inszenierung, die gerade deshalb so überzeugend gelang, weil SPD und Grüne in ihrer Vergangenheit den Slogan «Nie wieder Krieg» vertreten hatten. Vorgeblich linksgerichtet, konnten sie im historisch günstigen Moment um so leichter konservative Positionen wie die Remilitarisierung der deutschen Aussenpolitik erobern, da sie auf Grund ihrer Geschichte als unverdächtiger in Bezug auf Machtpolitik galten als CDU- und FDP-Kreise. Ähnliches gilt für mehrere Nato-Mitgliedsstaaten. Die «Wandlung der Friedenstauben zu Falken»5 aus moralischen Gründen erfolgte in den USA ebenso wie in Deutschland. Die Grünen trugen wesentlich dazu bei, «einen breiten Konsens in der deutschen Politik und der öffentlichen Meinung zugunsten der Nato-Intervention zu erreichen».6 Während sich deutsche Linke im neuen Interventionismus wie die US-Liberalen auf Menschenrechte und insbesondere auf den Antifaschismus beriefen, bezog die US-Linke ihren Bellizismus aus der «Vorstellung von multikulturellem Pluralismus, dem friedlichen Zusammenleben unterschiedlicher Kulturen und Religionen».7
Der Versuch der CDU/FDP-Regierung Kohl, die Nachkriegsordnung einer Revision zu unterziehen, kam nach der erfolgten «Wiedervereinigung» nicht überraschend. Dass hingegen Sozialdemokraten und Grüne die Bestrebungen des Landes, nach 1945 erneut eine militärisch aktive Macht zu werden, massgeblich befördern würden, verwunderte, oberflächlich betrachtet, eher. Immerhin hiess es im SPD-Programm zur Bundestagswahl 1998 noch, die Bundeswehr diene zur Landes- und Bündnisverteidigung und könne darüber hinaus nur für Uno- oder OSZE-mandatierte Friedensmissionen eingesetzt werden. Die Nato wurde als Verteidigungsbündnis bezeichnet und betont, dass das «globale Gewaltmonopol zur Sicherung des Weltfriedens» ausschliesslich bei den Vereinten Nationen liege.8 «Deutsche Aussenpolitik ist Friedenspolitik»,9 schrieben SPD und Grüne in die Koalitionsvereinbarungen. Auslandeinsätze deutscher Soldaten orientierten sich dort ebenfalls am Völkerrecht. Sogar der Rat der Friedensforscher und die Förderung der Friedensforschung wurden vermerkt.10 Wie konnte es unter diesen Voraussetzungen zum Bruch des Völkerrechts durch die Beteiligung am Luftkrieg kommen?


Die Sozialdemokratie in Krise und Wandel


Hans Joachim Giessmann vom Hamburger Institut für Friedensforschung und Sicherheitspolitik machte im Juni 1999 den Anpassungsdruck als Regierungsparteien dafür verantwortlich, «dass fast alle neuen Ideen in der Koalitionsvereinbarung mittlerweile ad acta gelegt worden sind – einschliesslich der Förderung der Friedensforschung».11 Allerdings war die Hoffnung auf eine friedliche Aussenpolitik angesichts der bellizistischen Äusserungen Fischers12 und Schröders13 zu Oppositionszeiten bereits fragwürdig gewesen, mit der Regierungsübernahme verlor sie weiter an Berechtigung. Bei der Reaktivierung militärischer Gewalt als Mittel der Aussenpolitik und damit der Übernahme einer zentralen konservativen Position kam der Koalition aus Sozialdemokraten und Grünen entgegen, dass «sie die einzigen sind, die Kriege führen und gleichzeitig den Protest auf der Strasse lahmen».14 Der Soziologe Ralf Dahrendorf hatte schon 1979 konstatiert, dass rechte Sozialdemokraten nicht zufällig die konsequentesten Konservativen würden. Denn während letztere nach Grundsatzprogrammen suchten, kämen erstere sowohl mit einem Minimum an Programm als auch an Regierung aus, «sie lassen die vorherrschenden Annahmen der Wirtschafts- und Gesellschafts­politik unbestritten, kümmern sich im übrigen um law and order und um die Verwaltung des Bestehenden».15 Dies deshalb, weil die Sozialdemokratie angesichts der Institutionalisierung der Demokratie, des Massenwohlstandes und der Bürgerrechte am Ende sei. Da das grosse Programm verwirklicht wurde, machten sich seine Vertreter nun zu Bewahrern.16 Auch wenn der sozialdemokratische Konsensus noch eine Zeitlang überleben werde, sei er dennoch erledigt, weil Wandlungen und neue Entwicklungen nicht mehr hervorgebracht und sogar eigene Widersprüche hervorgerufen würden.17 Vor diesem Hintergrund ist das Renegatentum zu betrachten – ehemalige Linke, die sich von den alten ideologischen Formeln losgesagt und die einst kritisierten Positionen eingenommen haben. Handelt es sich bei diesen «Verrätern»18 um Opportunisten oder um Menschen, die sich weltanschaulich weiterentwickelt haben?19
Der Soziologe Frank Deppe jedenfalls kritisierte am 7.September 1999, dass viele Linke Macht und Interessen nicht analysierten und unfähig seien oder sich dagegen wehrten, herrschende Legitimationsmuster ideologiekritisch zu überprüfen. Deppe zufolge manifestierten sich in der mit «Globalisierung» charakterisierten neuen Weltordnung «ökonomische Sachzwänge, denen sich die Politik unterzuordnen hat».20 Krieg stelle dabei nur eine radikalere politische Gangart einer in sich kohärenten Politik der «Ideologen des dritten Weges, der neuen Mitte und der neuen Sozialdemokratie» dar:
«Der Krieg neuen Typs ist die gewaltsame, aber auch reine Form dessen, was Stephen Gilt […] als ‹disciplinary neoliberalism› bezeichnet hat, das heisst: der Neoliberalismus im Übergang von der Marktliberalisierung zur politischen (auch militärischen) Disziplinierung, denn die Marktliberalisierung hat die Widersprüche, die sie überwinden wollte, keineswegs aufgehoben, sondern eher noch verstärkt und neue Widersprüche und Konflikte erzeugt. Daher tritt nun die Seite der politischen Repression sehr viel stärker in den Vordergrund.»21
Noch Mitte der 1990er Jahre hatten zahlreiche Deutsche ihre Hoffnung auf Frieden in die Politik von Sozialdemokraten und Grünen gesetzt. Wer, wenn nicht die Generation der ehemaligen «68er», von der sich viele Mitglieder der späteren Regierungsparteien in der Friedensbewegung engagiert hatten,22 sollte dafür sorgen? Das Gegenteil war der Fall. Die SPD-Spitze liess sich bereits im Februar 1994 vom nationalistischen Politikwissenschaftler Tilman Fichter,23 zwischen 1986 und 2001 Referent für Schulung und Bildung im Parteivorstand, ideologisch auf einen Nato-Angriff gegen Jugoslawien vorbereiten, obwohl die Parteimehrheit noch im selben Jahr und vor dem «Schlüsselereignis Srebrenica» vergeblich gegen Auslandeinsätze deutscher Soldaten vor dem Bundesverfassungsgericht klagte.24 So scheiterte der pazifistische Flügel einerseits am Bundesverfassungsgericht, andererseits am eigenen Vorstand. Mit welchen Argumenten rüstete sich indes die Parteispitze? Es gelte, «Verantwortung zu übernehmen»:


«Denn der versuchte [sic!] Völkermord der Deutschen und Österreicher in Auschwitz an den europäischen Juden verpflichtet geradezu die Demokraten in Deutschland (beziehungsweise in Österreich) zu einem eindeutigen Engagement für Menschenrechte und die bürgerlichen Freiheiten.»25


Unter tatkräftiger Mitwirkung der Grünen wurde Deutschland schliesslich mehr als 50 Jahre nach Ende des Zweiten Weltkriegs erneut zur militärisch aktiven Macht.26 Dabei vollzog sich quasi über Nacht unter Zustimmung einer zur Verfassungsänderung berechtigten Bundestagsmehrheit ein Paradigmenwechsel, der in dieser Geschwindigkeit selbst Konservative überraschte.27 Diesem Konsens unterlagen auch innerparteiliche Kritiker. Die Linke der SPD um den «Frankfurter Kreis» und seinen Sprecher Detlev von Larcher bemühte sich zwar nach Beginn des Nato-Bombardements um ein Ende der Kriegshandlungen, konnte sich jedoch ebenso wenig gegen Schröders Mehrheit behaupten28 wie Vorstandsmitglied Hermann Scheer oder die Arbeitsgemeinschaft Sozialdemokratischer Juristen (ASJ) unter ihrem Vorsitzenden Klaus Hahnzog.29 Auf dem SPD-Sonderparteitag in Bonn am 12. April stimmte schliesslich eine grosse Mehrheit für die rot-grüne Kosovo-Poli­tik.30 Innerparteilichen Streit gab es auch bei den Grünen, und nicht erst auf dem Parteitag am 13.Mai in Bielefeld, als Fischer von einem militanten Kritiker mit einem Farbbeutel beworfen wurde. Angelika Beer, verteidigungspolitische Sprecherin und Interventionsbefürworterin, erhob nach der Veröffentlichung von Details des Rambouillet-Textes schwere Vorwürfe gegen den Aussenminister.31 Doch auch Proteste der pazifistischen Mitglieder nützten nichts. Der Politologe Elmar Altvater, einer der Gründerväter der Grünen und einer ihrer wichtigsten wissenschaftlichen Köpfe, erklärte anschliessend seinen Rückzug. Er warf den Grünen u.a. vor, durch den Bielefelder Beschluss eine Aussenpolitik zu unterstützen, «die nicht nur für einen illegalen Krieg verantwortlich ist, sondern Verbrechen gegen die Menschlichkeit billigend und unterstützend hinnimmt».32 Altvater bezichtigte seine Partei, mit der Nato ein Kriegsziel zu verfolgen, das jede politische Lösung ausschliesse, indem es entweder die Kapitulation Jugoslawiens, «wie sie im Rambouillet-Diktat (von Vertrag zu sprechen verbietet die politische Kultur) vorgesehen war oder die Zerstörung von Land und Gesellschaft Jugoslawiens und möglicherweise darüber hinaus»33 nach sich ziehe. Die Delegiertenmehrheit habe in Bielefeld den Rubikon überschritten, so Altvater, der für die Politik Fischers vernichtende Worte fand:


«Die Rechtfertigung des Bielefelder Beschlusses mit den ‹Friedensinitiativen›34 des Aussenministers ist daher lächerlich, wenn man Dummheit attestiert, oder zynisch, wenn man annimmt, dass die Leute wissen, worum es geht.»35


Jugoslawien-Diskurs für Nato-Einsätze und Joseph Fischers Rolle


Doch wie war es so weit gekommen? Ein Blick zurück: Bedingt durch ihre Nato-kritische und antimilitaristische Vergangenheit war es für die «68er» grundsätzlich zuerst einmal nicht einfach, in ihrer Rolle als Staatsregenten Krieg als Mittel der Politik zu relegalisieren. Da sie kapitalistischen wie geostrategischen Interessen als Motivation für militärische Gewalt als Oppositionelle offiziell skeptisch (SPD) bis ablehnend (Grüne) gegenübergestanden hatten, konnte man als Regierungskoalition die Basis nur mühsam auf den neuen Kurs umstimmen. Dies gilt insbesondere für die Grünen, welche im Unterschied zur SPD lange Zeit gegen die Integration Deutschlands in die Nato gewesen waren. Die zunehmende Aufweichung der militärische Gewalt ablehnenden Position gelang in den 1990er Jahren durch die Interpretation des «Jugoslawien-Krieges» als vermeintlichen oder tatsächlichen Exzess von Vertreibungen und Völkermord. Die entscheidende Wende geschah durch die Abkehr von der als unzulänglich diskreditierten Uno und zeitgleicher Hinwendung zur Nato. Die Instrumentalisierung des jugoslawischen Bürgerkriegs diente dem Aufbauen des Nordatlantikpakts als angeblich effizientes Lösungsinstrument anstelle von UN-Friedensmissionen. Massgebend war die Wahrnehmung der Bürgerkriegsereignisse in den Parametern des Zweiten Weltkriegs bei gleichzeitiger Zuschreibung der «Nazi-Rolle» an eine Bürgerkriegsseite, i.e. an Serbien. Während alle Parteien Gefangenenlager hatten und die Anzahl nicht disproportional zur militärischen Stärke war, wie das Internationale Rote Kreuz im Sommer 1992 feststellte,36 mutierten gerade im politisch sensiblen Lager der Linken, insbesondere bei den Grünen, Gefangenenlager zu KZs. Gleichzeitig verlor man, absichtlich oder nicht, die Verantwortung aller Kriegsparteien für die Menschenrechtsverletzungen aus den Augen und konzentrierte sich zunehmend nur mehr auf die lange Zeit stärkste Partei, die bosnisch-serbische Seite, die von der JVA unterstützt wurde. Mit der fragwürdigen Kolportierung des angeblichen Genozids an den bosnischen Muslimen war lange vor den Ereignissen von Srebrenica die Basis für einen ethischen Diskurs gelegt, dem sich nicht nur kaum jemand – und erst recht niemand aus der antifaschistischen «Rebellengeneration» – zu widersetzen traute, sondern der gerade wegen seiner Moralisierung dem Denken der «68er-Generation» entsprach. Hatte sie nicht dem Recht der Staatsgewalt die für die eigenen Vorstellungen beanspruchte Moral entgegengestellt und den Faschismus der Väter gegeisselt? Mit derselben Inbrunst predigten sie nun als Regierende das Gegenteil dessen, was sie einst gefordert hatten, aber immer noch im Namen der Humanität: «Aus ‹Frieden schaffen ohne Waffen› wird ‹Frieden – mit aller Gewalt›.»37 Der von der Friedensbewegung entlehnte moralische Imperativ führte dazu, dass alle Argumente unterhalb der grossen ethischen Geste für belanglos erklärt wurden.38
Es lässt sich feststellen, dass SPD und speziell Grüne ihrer Basis generelle Kriegszustimmung prinzipiell zwar schwerer, aber unter «richtiger», i.e. moralisch begründeter Argumentation, glaubwürdiger abringen konnten als Christdemokraten und FDP. Gegen deren Kriegspolitik hätte man als Opposition eher protestiert, was umgekehrt nicht zu erwarten war, weil die CDU militärischem Engagement ausserhalb der bundesdeutschen Grenzen grundsätzlich nicht ablehnend gegenüberstand. Dies erklärt die Stilisierung des autoritären Milosevic-Regimes zur faschistischen Diktatur – denn um den Gesinnungsbruch, der schon lange vorbereitet und nach dem Gang in die Regierung schliess­lich umgesetzt worden war, zu verschleiern, knüpfte Rot-Grün an das amerikanische Konzept des «Schurkenstaates» an.39
Bis Ende 1994 noch Gegner einer Nato-Einmischung, wandelte Joseph «Joschka» Fischer seine Position so konsequent,40 dass Verteidigungsminister Volker Rühe (CDU) im Juni 1998 befürchtete, von ihm in der Forderung nach militärischer Intervention in Jugoslawien überholt zu werden.41 Eine, wenn nicht die zentrale Rolle auf dem Weg der deutschen Linken von «make Love not War» zu «Krieg für Menschenrechte» spielte damit ein Mann, der in jungen Jahren als erklärter Antifaschist auf Polizisten eingeprügelt und sich später vom Kleinbürgertum an die Macht gekämpft hatte. Er wurde zur Galionsfigur, zur moralischen Autorität einer Bewegung, die sich für Frieden einsetzte und am Ende Krieg führte. Dabei hatte Fischer 1991 noch seiner Hoffnung Ausdruck verliehen, die Grüne Partei möge genug Kraft haben, damit Pazifisten eine «friedensbezogene Aussenpolitik ohne Militär»42 machten. Ende Dezember 1994 erklärte er, eine deutsche Beteiligung an UN-Einsätzen und die Debatten darüber würden bloss als Türöffner für das Bestreben der Bundesregierung, Deutschland aussenpolitisch voll handlungsfähig zu machen, benutzt.43 Im Streitgespräch mit dem Interventionsbefürworter und Parteifreund Daniel Cohn-Bendit sagte er u.a.:


«Ich bin der festen Überzeugung, dass deutsche Soldaten dort, wo im Zweiten Weltkrieg die Hitler-Soldateska gewütet hat, den Konflikt anheizen und nicht deeskalieren würden. […] Das ist mein grosses Problem […], wenn ich sehe, wie die Bundesregierung den Bundestag an der Nase, an der humanitären Nase, in den Bosnienkrieg führen will.»44


Was aber hat Fischer vom Interventionsgegner zum Befürworter werden lassen? Seit ­Srebrenica habe er seine Position verändert, verkündete er am 19. April 1999, denn ihm sei klar geworden, «dass Appeasement gegenüber Milosevic immer nur zu weiteren Massengräbern führen»45 werde. Damit instrumentalisierte Fischer jenes Ereignis, das bis heute westliche Massenmedien und Gesellschaften als Beweis für serbischen Völkermord gilt. Skepsis hierbei ist allerdings nicht nur auf Grund der bis dato nicht sehr zahlreichen Quellen zu Srebrenica46 oder der fragwürdigen Wahrheitssuche durch das Den Haager Tribunal47 geboten. 1999 wandten sich auch Diskutierende gegen die Instrumentalisierung Srebrenicas zugunsten des Nato-Angriffs auf Jugoslawien, die an der Interpretation des Massakers als Völkermord festhielten. So forderte der in Dortmund beheimatete Verein «Vive Zene» (Frauen lebt), der sich in Tuzla um kriegstraumatisierte Frauen kümmert, im Vorfeld des Grünen Parteitags vom 13. Mai 1999 in einem offenen Brief an Minister Fischer u. a. die sofortige Beendigung der Bombenangriffe, die Anklage aller Kriegsverbrecher, egal welcher Seite, eine Uno-Friedenstruppe und die Aufnahme von weiteren Kosovo-Flüchtlingen in Deutschland. Vive Zene begründete ihre Kriegsgegnerschaft folgendermassen:


«Monate, bevor Sie auf der Bundesversammlung der Grünen im Dezember 1995 für militärische Kampfeinsätze der Bundeswehr plädierten, haben wir auf die schreckliche Situation in der sogenannten damaligen ‹Schutzzone› Srebrenica aufmerksam gemacht. […] Wir haben aber auch jedesmal auf Grund unserer eigenen langjährigen Erfahrungen vor Gewalt-Eskalationen im ehemaligen Jugoslawien und in allen Ländern der Welt gewarnt, in denen die militärische Logik den letzten Rest von humanitärem Handeln beseitigt. […] Es ist nicht einfach nur ‹Prinzip›, es ist nicht Pazifismus, der uns leitet, es ist Erfahrung und Bewusstsein, Studium der Historie einschliesslich unserer eigenen deutschen Vergangenheit, Diskussion mit Expertinnen.»48


Explizit distanzierte sich Vive Zene von der militärischen Logik des Aussenministers:


«Herr Fischer, damals auf der Bundesversammlung kannten Sie Srebrenica nicht, auch die Frauen nicht, die bis heute um ihr Überleben nach dem Krieg bemüht sind. […] Sie, Herr Fischer, konnten damals noch nicht einmal den Namen der Stadt, die Ihnen so am Herzen lag, richtig aussprechen. Sie sagten ‹Schrebrenidscha›, das wäre weiter nicht schlimm, hätten Sie nicht so getan, als würden Sie es kennen, und hätten Sie nicht mit ‹Schrebrenidscha› ihre Kriegslogik verinnerlicht.»49


Letztlich setzte der Regierungspolitiker Fischer das um, was er als Oppositioneller vier Jahre zuvor kritisiert hatte. Seine ehedem ge­äusserte Sorge, mitansehen zu müssen, «wie die rechtlichen und historischen Barrieren abgeräumt werden zugunsten einer völligen Optionsfreiheit der deutschen Aussenpolitik mit militärischen Mitteln»,50 wurde durch ihn selbst zur Realität. Allerdings wurde dies inzwischen in der deutschen Öffentlichkeit ­positiv interpretiert, und so folgte der Wandlung «vom Paulus zum Saulus»51 eine ganze Generation in der Instrumentalisierung des Massakers von Srebrenica als Argument für militärische Interventionen. Weil Pazifismus «Lifestyle, die Mehrheitskultur der achtziger Jahre»52 gewesen war, hatte sich Fischer, obwohl selbst nicht von pazifistischer Vergangenheit,53 gegen Nato, Wiedervereinigung und militärische Emanzipation Deutschlands gestellt. Und so, wie sich in den 1990ern die Mode von Turnschuhen und Pazifismus in italienische Massanzüge und «humanitäre Interventionen» wandelte, passte Fischer seine politischen Positionen an den Zeitgeist an, wobei er sich bei seinem Aufstieg von links unten nach rechts oben jener Salamitaktik bediente, welche er seinen politischen Gegnern zuvor angekreidet hatte.54



1    Heiko Hänsel/Heinz-Günter Stobbe, Die deutsche Debatte um den Kosovo-Krieg: Schwerpunkte und Ergebnisse. Versuch einer Bilanz nach drei Jahren! (verfasst im Auftrag der Heinrich Böll Stiftung), Berlin, März 2002 (Internet-Publikation als pdf-Datei), S. 121.
2    Zur Diskussion Linke und Krieg vgl. Die Linke im Krieg. Streitgespräch zwischen Jutta Ditfurth, Thomas Ebermann, Jürgen Elsässer und Hermann L. Gremliza, in: Konkret 7/1999, S. 14–19; Daniel Cohn-Bendit, Wer vom Totalitarismus schweigt, sollte auch nicht über die Freiheit reden, in: Kommune 3/2001, S. 6–10; Zur Rolle der 68er-Linken vgl. Klaus Theweleit, Logical, radical, criminal. Der Krieg als letztes Mittel, erwachsen zu werden, oder: Warum die Alt-68er in der neuen Regierung ohne Zögern bereit waren, Völkerrecht und Grundgesetz zu brechen, in: Konkret 5/1999, S. 22–29; Gerd Koenen, Ach, Achtundsechzig. Fischer, das «Rote Jahrzehnte» und wir, in: Kommune 2/2001, S. 6–11; Martin Altmeyer, Geschichte, Mythos, Psychodynamik. Deutungsmuster in der 68er-Debatte, in: Kommune 3/2001, S. 36ff.; Siegfried Knittel, Aufrechter Gang und krummer Weg. 68er-Revolte paradox, in: Kommune 3/2001, S. 39f.: Kurt Seifert, Achtundsechziger Erbe, in: Kommune 3/2001, S. 45.
3    Maria Mies, Krieg ohne Grenzen. Die neue Kolonisierung der Welt (Neue Kleine Bibliothek 94), Köln 20052, S. 78.
4    Vgl. Robert B. Stinnett, Day of Deceit. The Truth about FDR and Pearl Harbor, London 2000, S. 253.
5    Michaela Schiessl, «Politik der Predigten». Während konservative Amerikaner den Kosovo-Krieg stoppen wollen, plädieren die Liberalen für den Einmarsch, in: Der Spiegel 21, 24.5.1999.
6    Hänsel/Stobbe, Die deutsche Debatte um den ­Kosovo-Krieg, S. 121.
7    Schiessl, Der Spiegel, 24.5.1999.
8    Zitiert nach Ano Neuber, Armee für alle Fälle. Der Umbau der Bundeswehr zur Interventionsarmee, ISW-Report 44, August 2000, S. 7.
9    Jürgen Elsässer, Kriegslügen. Vom Kosovo-Konflikt zum Milosevic-Prozess, Berlin 2004, S. 76.
10    Vgl. Koalitionsvereinbarung zwischen SPD und Grünen, auszugsweise abgedruckt in: Internationale Politik 12/1998, S. 67–79, S. 75. Zitiert nach Jana Puglierin, Zwischen realistischen Interessen und moralischem Anspruch. Eine theoriegeleitete Analyse der deutschen Aussenpolitik seit 1989/90 (Studien zur Internationalen Politik Heft l), Hamburg 2004, S. 55.
11    Hubert Wetzel, «Engstirnig, völkerrechtswidrig, erfolglos». Wissenschaftler kritisieren die Strategie der Nato im Kosovo-Krieg, in: Süddeutsche Zeitung, 9.6.1999.
12    Vgl. Elsässer, Kriegsverbrechen, S. 38.
13    Schröder hatte als Kanzlerkandidat schon am 16. August 1998 verkündet, sich ein Eingreifen der Nato in Kosovo auch ohne Uno-Mandat vorstellen zu können. Vgl. Ralph Hartmann, Es war Vorsatz im Spiel: Ziel des Krieges war der Krieg, in: Wolfgang Richter/Elmar Schmähling/Eckart Spoo (Hg.), Die Wahrheit über den Nato-Krieg gegen Jugoslawien, Schkeuditz 2000, S. 62–68, S. 63.
14    Rafik Schami, Mit fremden Augen gesehen, in: Wochenzeitung, 20.5.1999.
15    Ralf Dahrendorf, Lebenschancen. Anläufe zur ­sozialen und politischen Theorie, Frankfurt a.M. 1979, S. 147.
16    Ebd., S. 149.
17    Ebd., S. 150f.
18    Innerhalb dieser Diskussion wird der Begriff als Abkehr von der traditionellen Lehre und damit sachlich beschreibend und nicht moralisch wertend verwendet.
19    Jörg Lau, Die Verräter sind unter uns. Cohn-Bendit, Enzensberger, Fischer & Co.; Sie kämpften für die Weltrevolution, nun verteidigen sie Grundgesetz, Unternehmertum oder Nato-Bomben. Nie waren Renegaten einflussreicher als heute. Ist ihre Inkonsequenz Klugheit oder Opportunismus?, in: Die Zeit, 22.4.1999.
20    Frank Deppe, Nach dem Krieg ist vor dem Krieg. Die Risiken der «Neuen Weltordnung» und die neue Strategie der Nato, in: Junge Welt, 7.9.1999.
21    Deppe, Junge Welt, 7.9.1999.
22    Zur Geschichte der deutschen Friedensbewegung vgl. Willi van Ooyen, Aspekte der politischen und historischen Entwicklungen der Friedensbewegung der Bundesrepublik Deutschland, in: Michael Berndt/Ingrid El Masry (Hg.), Konflikt, Entwicklung, Frieden. Emanzipatorische Perspektiven in einer zerrissenen Welt (Kasseler Schriften zur Friedenspolitik 8), Festschrift für Werner Ruf, Kassel 2003, S. 309–325.
23    Fichter gehörte 1992 zu den Neugründern des Hofgeismarer Kreises, der an die Tradition des ersten Hofgeismarer Kreises national gesinnter Jungsozialisten zwischen 1923 und 1926 anknüpfte. Vgl. www.de.wikipedia.org/wiki/Tilman_Fichter, 31.8.2010.
24    Elsässer, Kriegslügen, S. 36.
25    Tilman Fichter, In der neuen Heimat der Weltmoral? Deutschland, die Völkergemeinschaft und der bosnische Krieg. Die Gewalt entwaffnen, in: Die Welt, 26.2.1994, zitiert nach Hartmann, Es war Vorsatz im Spiel, S. 63.
26    Zum Wandel deutscher Aussenpolitik seit 1990 vgl. Rafael Biermann, Deutsche Konfliktbewilligung auf dem Balkan – eine Einführung, in: Ders. (Hrg.), Deutsche Konfliktbewältigung auf dem Balkan. Erfahrungen und Lehren aus dem Einsatz (Schriften des Zentrums für Europäische Integrationsforschung, Center for European Integration Studies der Rheinischen Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn 37), Baden-Baden 2002, S. 13–36.
27    Klaus Naumann, Vorwort, in: Rafael Biermann (Hg.), Deutsche Konfliktbewältigung auf dem Balkan. Erfahrungen und Lehren aus dem Einsatz (Schriften des Zentrums für Europäische Integrationsforschung, Center for European Integration Studies der Rheinischen Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn 37), Baden-Baden 2002, S. 7–12, S. 7.
28    Christoph Schwennicke, SPD-Linke fordert sofortiges Ende der Kampfhandlungen. «Bombardement der Nato wendet die Katastrophe im Kosovo nicht ab, sondern beschleunigt sie», in: Süddeutsche Zeitung, 7.4.1999.
29    Ebd.
30    Reuters, Die Entschliessung der SPD zum Kosovo, in: Süddeutsche Zeitung, 13.4.1999.
31    swn, Angelika Beer: Nicht alle diplomatischen Spielräume genutzt. Kosovo-Einsatz spaltet die Grünen, in: Süddeutsche Zeitung, 12.4.1999.
32    Elmar Altvater, «Nicht mehr alle Tassen im Schrank», in: Junge Welt, 19. S. 1999.
33    Ebd.
34    Der Plan vom 14. April 1999 sah eine 24stündige Feuerpause, die Einbindung Russlands in die Nachkriegsentwicklung, ein UN-Mandat, den Rückzug serbischer Truppen, die Entmilitarisierung der UÇK und die Implementierung einer Übergangsverwaltung vor. Der politische Status des Kosovo sollte später geklärt werden. Vgl. SZ, EU will Annan in Friedenslösung einbinden. Staats- und Regierungschefs beraten auf Brüsseler Sondergipfel mit dem UN-Generalsekretär. Forderungen an Belgrad sollen als Resolution in den Sicherheitsrat der Vereinten Nationen eingebracht werden, in: Süddeutsche Zeitung, 15.4.1999. – Am 6. Mai 1999 wurde der Plan auf dem Treffen der G
8 beraten und am 2. Juni angenommen. Das serbische Parlament stimmte am 3. Juni nach der Zusage territorialer Unversehrtheit Jugoslawiens zu.
35    Altvater, Junge Welt, 19. Mai 1999.
36    George Kenney, Desinfomation der Medien führte zur Intervention in Bosnien, in: Novo 27, 3/4 1997, S. 26f., zitiert nach www.novo-magazin.de/itn-vs-lm/novo27-6.htm, 31.8.2010.
37    Heribert Prantl, Franz von Assisi und die Nato. Wohin ist der deutsche Pazifismus verschwunden?, in: Süddeutsche Zeitung, 26.3.1999.
38    Cora Stephan, Der moralische Imperativ. Die Friedensbewegung und die neue deutsche Aussenpolitik, in: Thomas Schmid (Hg,.), Krieg im Kosovo, Reinbek bei Hamburg 1999, S. 269–277, S. 272.
39    Heinz Loquai, Der Kosovo-Konflikt – Wege in einen vermeidbaren Krieg. Die Zeit von Ende November 1997 bis März 1999 (Demokratie, Sicherheit, Frieden 129), Baden-Baden 2000, S. 158.
40    Zur Sichtweise Fischers vgl. Joschka Fischer, Die rot-grünen Jahre. Deutsche Aussenpolitik – vom Kosovo bis zum 11. September, Köln 2007.
41    «Wenn ich Sie sprechen höre, habe ich manchmal Angst, dass Sie die sofortige Bombardierung Belgrads fordern, nur um im Rennen der Realpolitiker weiter vorn zu sein.» Volker Rühe am 19. Juni 1998 im Bundestag, zitiert nach Jürgen Elsässer, Kriegsverbrechen. Die tödlichen Lügen der Bundesregierung und ihre Opfer im Kosovo Konflikt (Konkret Texte 27), Hamburg 2000, S. 38.
42    Prantl, Süddeutsche Zeitung, 26.3.1999.
43    Matthias Geis/Andrea Seibel, Warten auf den nächsten Parteitag, in: taz, 30.12.1994. Vgl. auch Fischers Aussagen in der Wochenzeitung Die Woche, 30.12.1994.
44    Geis/Seibel, taz, 30.12.1994.
45    Spiegel-Gespräch, «Milosevic wird der Verlierer sein». Aussenminister Joschka Fischer über den Stand im Krieg gegen Jugoslawien, über die Kriegsziele der Nato und seine fehlgeschlagene Friedensinitiative, in: Der Spiegel, 19.4.1999.
46    George Pumphrey, Sechs Quellen der Srebrenica Legende, 2/2010, zitiert nach www.free- slobo.de/news/l0020gp.pdf, 31.8.2010.
47    Vgl. Germinal Civikov, Srebrenica. Der Kronzeuge, Wien 2009.
48    Vive Zene e. V., Erst «seit Srebrenica»? Das Zentrum für Frauen und Kinder in Tuzia (Bosnien) – Vive Zone e.V. – wendet sich in einem Brief an Joschka Fischer, zitiert nach www.infopartisan.net/archive/kosovo/17199.html, 31.8.2010.
49    Ebd.
50    So Fischer im Interview mit Geis/Seibel, taz, 30.12.1994.
51    Prantl, Süddeutsche Zeitung 26.3.1999.
52    Ebd.
53    Vgl. www.de.wikipedia.org/wiki/Joschka_Fischer, Update 29. Juli 2008.
54    Christian Y. Schmidt, Die Grünen, die Nato und der Krieg, in: Klaus Bittermann/Thomas Deichmann (Hg), Wie Dr. Joseph Fischer lernte, die Bombe zu lieben. Die SPD, die Grünen, die Nato und der Krieg auf dem Balkan (Critica Diabolis 86), Berlin 1999, S. 133–154; Andreas Spannbauer, Der lange Marsch, in: Jürgen Elsässer (Hg.), Nie wieder Krieg ohne uns, Berlin 1999, S. 43–49; Jutta Ditfurth, Zahltag, Junker Joschka! (Teil 1–10), in: Neue Revue zwischen 14.10. und 16.12. 1999.


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Zeit-Fragen, 08.11.2010



=== 2 ===

Humanitärer“ Bellizismus


Kurt Gritsch unterzieht die mediale Legitimation des „Kosovo-Kriegs“ einer skeptischen Revision

Von Franz Siepe


Mehr noch als sonst empfiehlt es sich bei der Hildesheimer Dissertation des Zeithistorikers Kurt Gritsch, das Vorwort nicht zu überblättern, weil sich dort erklärt findet, was sonst vielleicht unverständlich bleiben würde: die Lust an der Kontamination von wissenschaftlicher Argumentationsstrenge mit aufklärerischer Polemik.
Der Leser, sofern er nicht vom akademischen Pathos der Pathoslosigkeit beseelt ist, wird dem Autor kaum verargen, dass er in diesem Buch, das am Beispiel der breiten Zustimmung der Medienöffentlichkeit zum NATO-Angriff auf Serbien (Jugoslawien) von 1999 die Verführbarkeit der deutschen Intelligenz dokumentiert, bisweilen die Zügel schießen lässt. Gritsch mahnt unter Berufung auf die Historikerin Martina Winkler an: „Der Intellektuelle ist skeptisch und kritisch, er stellt die herrschende Ordnung in Frage, er problematisiert und greift an.“ Emile Zolas „J’accuse“ ist eines der publizistisch-interventionistischen Vorbilder Gritschs.
Dem Autor war es wie so manchem ergangen: „Als damals 23jähriger Student diskutierte ich an der Universität mit vielen anderen über die Ereignisse im Kosovo. Das moralische Argument der Befürworter, ‚ein zweites Auschwitz zu verhindern‘, forderte mich zu intensiverer Beschäftigung mit der Frage der Rechtmäßigkeit des Angriffs heraus, denn es suggerierte, dass Kriegsgegner moralisch gleichbedeutend mit Indifferenten, Zynikern oder gar Leugnern der Shoa sein sollten. Hinzu kam, dass Minderheitenfragen auch auf Grund meiner Südtiroler Herkunft schon früh mein Interesse geweckt hatten.“
Ein Wissenschaftler, der mit derart offenem Visier und durchaus nicht sine ira et studio in die Diskursarena steigt, nötigt gewiss Achtung ab. Doch wenn er sich dabei wie Kurt Gritsch zugleich auf Max Webers „Wissenschaft als Beruf“ stützt, ist das schon ein Ausrufezeichen wert. Dies nicht etwa deshalb, weil dem Autor ein Mangel an „schlichter intellektueller Rechtschaffenheit“ vorzuwerfen wäre; im Gegenteil: Gerade die Bemühung um Forschungsredlichkeit führt hier wie so oft nolens volens zur Ideologiekritik. Dann nämlich, wenn das zur Untersuchung stehende historische Gebilde sich dem sehenden Auge als pure Ideologie – Ideologie im Sinne von interessiertem falschen Bewusstsein – darbietet.
Im vorliegenden Fall handelt es sich um das Ideologem des „traditionalistischen Geschichtsbildes“, welches, so Gritsch, die Geschichte Jugoslawiens und seiner „Zerfalls“-Produkte so interpretiert, dass die völkerrechtswidrige NATO-Bombardierung Serbiens (35.000 Luftangriffe mit katastrophalen Schäden und sprichwörtlich gewordenen „Kollateralschäden“) als moralisch gerechtfertigt erscheint: „Für die Vertreter dieser Auffassung war der Krieg die Konsequenz serbischer Aggression unter ‚großserbischen‘ Vorzeichen. Sprachliche Kategorien des Konflikts sind jene der ‚ethnischen Säuberung‘, des ‚Genozids’ und ‚Völkermords‘, der ‚Konzentrationslager‘ sowie der Gleichsetzung ‚Serben = Nazis‘“.
Und weil man es nicht klarer und pointierter sagen kann als der Autor in einem seiner Fazits, die nie an urteilender Drastik sparen, hier eine Kurzcharakteristik der von ihm so genannten „traditionalistischen Darstellung“ des Kosovo-Konflikts: „Sie zeichnet sich durch Auslassung von Indizien aus, die das evozierte Bild stören. So beschäftigt sie sich auch nicht mit […] realistischen Friedensalternativen, sondern verweist ebenso unintellektuell wie konsequent auf ein angebliches ‚tertium non datur‘. Der Traditionalismus dient damit schlussendlich weniger der wissenschaftlichen Erkenntnissuche denn der postumen Rechtfertigung der westlichen Politik, insbesondere jener Deutschlands und der NATO.“
Gritsch erinnert daran, dass es die rot-grüne Regierung mit den Hauptagitatoren Gerhard Schröder, Joschka Fischer und Rudolf Scharping war, die uns in die, so Gritsch, „Auschwitzfalle“ tappen ließ. Gegner des NATO-Angriffs („Pazifisten, Sozialisten und Linksliberale“) „mussten sich“, so wieder der Autor, „der moralischen Überlegenheit jener, die sich auf die Shoa beriefen, beugen, weil in einer ‚faktenresistenten‘ und ideologisch argumentierenden Gesellschaft immer derjenige Recht hat, der sich argumentativ zuerst auf ‚Auschwitz‘ beruft.“
Dabei konnten die damaligen – um in Gritschs Metaphorik zu bleiben – Auschwitz-Fallensteller erschreckenderweise mit einem immens peinlichen Aufklärungsdefizit in der deutschen Öffentlichkeit kalkulieren: „Tatsächlich haben viele Menschen aber nur sehr wenig Wissen über Auschwitz und die Shoa. Die meisten haben nur begriffen, dass ein medialer Konsens existiert, demzufolge die NS-Verbrechen als schrecklich abzulehnen sind. Führt man Auschwitz als Argument in eine Diskussion ein, setzt man sich meist durch, weil man dem anderen moralisch überlegen ist.“
Leicht ist also zu erkennen, dass Gritsch die „traditionalistische“ Sicht keineswegs teilt. Folglich schlägt er sich auf die Seite der „revisionistischen“ Interpretation, welche die Ereignisse um den Kosovo-Krieg in einen größeren historischen Kontext stellen, die Rolle Serbiens nicht dämonisieren und die der UÇK nicht verharmlosen möchte, einiges Verständnis für die Außenseiterhaltung Peter Handkes aufbringt sowie insgesamt den Untergang Jugoslawiens als von außen „unterstützt“ begreift. Erkenntnisleitend ist die Cui-bono-Frage, die in die Aufdeckung der tatsächlichen Kriegsziele mündet: „Die Berufung auf die Menschenrechte diente zur Verschleierung der ökonomischen, geostrategischen, militärischen und politischen Interessen.“
Freilich widersprechen die „revisionistischen“ Geschichtsdeutungen Gritschs der seinerzeit in den Medien mehrheitlich verbreiteten Auffassung. Fünf Presseorgane („FAZ“, „SZ“, „taz“, „Die Zeit“ und „Der Spiegel“) unterzieht er einer rückblickenden statistischen Analyse mit dem Ergebnis, dass Kriegsgegner und -skeptiker massiv unterrepräsentiert waren: „Es gibt einen Zusammenhang zwischen NATO-Propaganda und veröffentlichtem Bild der intellektuellen Diskussion. Letzteres stimmte mit Ausnahme der ‚taz‘ bei keiner Zeitung mit der tatsächlichen Meinungsverteilung unter den Intellektuellen überein, was auf eine gesteuerte Debatte schließen lässt.“
Die formale Qualität dieser Aussage („schließen lässt“) dürfte nach den Kriterien eines puristisch-faktenverpflichteten Wissenschaftsbegriffs wohl einigermaßen problematisch sein. Gritsch hat sich aber nun einmal entschlossen, Plausibilitäten als Erkenntnismittel gelten zu lassen, wo solide Tatsachen nicht zu haben sind. Er sichert diese methodologische Entscheidung ab mit dem Rekurs auf die „Tradition der ‚erzählerischen Geschichtsschreibung‘“ nach dem Vorbild Christian Meiers, der sich als Althistoriker oftmals damit abzufinden hat, „eher Wahrscheinlichkeiten als Tatsachen“ verhandeln zu müssen. Der Befund indes, dass selbst die hier unter die Lupe genommenen Vorkommnisse der jüngsten Zeitgeschichte so umnebelt zu sein scheinen, dass mehr vermutet werden muss, als gewusst werden kann, ist geeignet, auch in dem Leser, der ansonsten Verschwörungstheorien mindestens ebenso misstrauisch begegnet wie herrschenden Mainstream-Lehren, dunkelste Befürchtungen zu nähren: Was darf ich eigentlich wissen? Welche Information wird mir von wem vorenthalten? Was ist eine Demokratie wert, die Intransparenz der Entscheidunsprozeduren zur Basis hat, und zwar gerade auch in Situationen, in denen es buchstäblich um Leben und Tod geht?
Laut Klappentext liegt mit dem besprochenen Band „auf wissenschaftlichem Gebiet erstmals eine umfassende und kritische Gesamtdarstellung des öffentlichen Diskurses über den ‚Kosovo-Krieg‘ in Deutschland“ vor. Auch wenn man nicht jede der vom Autor in investigativ-aufklärerischer Absicht entwickelten Thesen unterschreiben mag, ist das Buch unbedingt zu empfehlen. Indem es medien- und demagogiekritisch über die Umstände der schleusenöffnenden erstmaligen Beteiligung von Soldatinnen und Soldaten der Bundeswehr an einem kriegerischen „Out of Area“-Einsatz unterrichtet, führt es zugleich Klage gegen das Skandalon der Abhängigkeit der veröffentlichten Meinung vom Machtkalkül der Herrschenden.



Quale loggia copre gli assassini di Piazza della Loggia

<< Il quadro che emerge da tutte le inchieste (...) chiama direttamente in causa nella strategia delle stragi i servizi segreti militari USA più che la CIA. In particolare gli apparati di stanza nella base del comando FTASE di Verona, i quali attraverso i loro agenti italiani (Digilio, Minetto, Soffiatti) agivano in modo coordinato con le cellule neofasciste di Ordine Nuovo e con gli apparati dello stato italiano nella “guerra sul fronte interno” contro i comunisti, i sindacati e i settori della DC recalcitranti a trasformare la “guerra fredda in guerra civile”. L’amerikano supervisore della rete degli uomini neri ha un nome - Joseph Longo - ed è l’agente che cooptò nella guerra di bassa intensità anche alcuni criminali nazisti come Karl Hass... >>

1) Tutti assolti per la strage di Brescia. Perchè la cosa non riesce a sorprenderci? (www.contropiano.org)
2) Sentenza per la strage di Brescia e complicità USA con i criminali nazisti. In Italia troppi finti tonti (Rete dei Comunisti)
3) PIAZZA LOGGIA: PARTI CIVILI PRONTE A APPELLO, STATO HA DEPISTATO (AGI)


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Tutti assolti per la strage di Brescia. Perchè la cosa non riesce a sorprenderci?

di redazione*

Non esiste nessuno stato al mondo in cui una strage di cittadini inermi sia, dopo 36 anni, ancora impunita. Nessuna democrazia, almeno.

Nell'Italia del dopoguerra, invece, tutte le stragi sono rimaste senza colpevoli. Fa eccezione solo quella di Peteano, tre carabinieri uccisi il 31 maggio 1972, grazie a una circostanza irripetuta: l'esecutore materiale - il fascista Vincenzo Vinciguerra – si costituì, ricostruendo nei dettagli la trappola omicida.

Non ci stupisce dunque che il terzo processo per la strage di Piazza della Loggia, a Brescia, 28 maggio 1974, abbia visto concludere il primo grado con l'assoluzione di tutti e cinque gli imputati con una formula equivalente alla vecchia “insufficienza di prove”.

Anzi, ne eravamo praticamente certi. Questo Stato, allora, non aveva sciolto la sua continuità con gli apparati repressivi del fascismo, riciclati in funzione anticomunista dai servizi segreti Usa. Il principale “bombarolo” dei gruppi neo fascisti, Carlo Digilio, ha confessato di esser stato sia un neonazista di Ordine Nuovo che un agente statunitense. Preparando tra l'altro la bomba esplosa in Piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, di cui era già stata pianificata l'accusa agli anarchici.

Questa parte dello Stato non ha subito mai alcuna riforma effettiva. E' una semplice dependance delle varie agenzie Usa. E la magistratura, quando è stata chiamata a dire una parola chiara sulle stragi, ha sempre preso atto – senza troppe angosce - che esisteva una sovranità superiore, sovraordinante. E intangibile. Ricordiamo che che persino uno degli “eroi” di Tangentopoli, l'attuale senatore Pd Gerardo D'Ambrosio, chiuse le indagini sull'uccisione del ferroviere Giuseppe Pinelli all'interno della questura di Milano sentenziando che era precipitato da una finestra del quarto piano a causa di un “malore attivo” sconosciuto alla scienza medica.

Non esiste infine nessuno Stato che mantenga o imponga, dopo oltre 30 anni, il “segreto di stato” su fatti di questo genere. Indipendentemente dalle coalizioni politiche, anche teoricamente “opposte”, che hanno guidato il governo.

Non ci sono parole abbastanza dure per qualificare uno Stato che, per conservare il potere di una classe dirigente in crisi o incapace, uccide a casaccio i propri cittadini, pretendendo per questo l'impunità. E ogni “assoluzione” in un processo di strage ci ricorda che, dietro la maschera della democrazia, questo potere minaccia il presente e il futuro di questo sventurato popolo. Questa è la realtà da cambiare.

www.contropiano.org 


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Sentenza per la strage di Brescia e complicità USA con i criminali nazisti. In Italia troppi finti tonti


Di fronte all'ennesima sentenza che manda assolto il consorzio tra fascisti, servizi segreti e carabinieri accusati della strage di piazza della Loggia a Brescia, non si possono che ribadire  due tesi fondamentali:

1) la verità giudiziaria sulla stragi (Piazza Fontana, Brescia, treno Italicus, Bologna, treno 204)  è ormai depotenziata da ogni possibile conclusione coerente mentre è possibile, doveroso e necessario praticare il terreno della verità storica e politica che restituisca il senso della realtà a quanto accaduto. 

2) C’è una continuità ideologica, politica, morale tra la rete degli “uomini neri”  - che concepì e realizzò la strategia delle stragi e della Guerra di Bassa Intensità contro la sinistra in Italia - con il blocco reazionario che oggi ancora gestisce il potere nel nostro paese. E’ altrimenti difficile spiegarsi l’odio di classe e l’anticomunismo viscerale che continua a ispirare le azioni del governo in carica, il clima di vendetta che permea quelle forze che da decenni impediscono con campagne di criminalizzazione politica, mediatica e giudiziaria ogni tentativo di spiegare storicamente il conflitto di classe degli anni ’70, la “beatificazione” e la cooptazione e dei neofascisti in tutti gli ambiti interni o collaterali alle forze di governo. E' una continuità che vorrebbe sancire una vittoria della storia contro le forze della sinistra di classe che in Italia si opposero frontalmente alla strategia stragista e alla guerra di bassa intensità.

Il quadro che emerge da tutte le inchieste sul mattatoio scatenato nelle piazze, sui treni, nelle stazioni o nelle banche negli anni '70, chiama direttamente in causa nella strategia delle stragi i servizi segreti militari USA più che la CIA. In particolare gli apparati di stanza nella base del comando FTASE di Verona, i quali attraverso i loro agenti italiani (Digilio, Minetto, Soffiatti) agivano in modo coordinato con le cellule neofasciste di Ordine Nuovo e con gli apparati dello stato italiano nella “guerra sul fronte interno” contro i comunisti, i sindacati e i settori della DC recalcitranti a trasformare la “guerra fredda in guerra civile”. L’amerikano supervisore della rete degli uomini neri ha un nome - Joseph Longo - ed è l’agente che cooptò nella guerra di bassa intensità anche alcuni criminali nazisti come Karl Hass (con cui Longo si è fatto anche fotografare insieme in un matrimonio). 

Salutiamo positivamente il fatto che - assai tardivamente - il New York Times pubblichi i documenti ufficiali che confermano quanto denunciato da anni sulla protezione e il reinserimento che i servizi segreti USA hanno garantito ai criminali nazisti per utilizzarli nella guerra fredda e nella lotta anticomunista in Europa e nel resto del mondo. Ai più distratti, vogliamo ricordare che la "rat line" (il sentiero dei topi) gestita da servizi segreti USA e Vaticano per mettere in salvo i nazisti in Spagna, America Latina e Stati Uniti, aveva come snodo proprio il porto italiano di Genova. Così come vogliamo ricordare che se Verona è stata e continua ad essere il "cuore nero" del nostro paese è anche perchè tra Verona e Vicenza c'è un alta densità di basi militari USA/NATO.

L'inchiesta del giudice Salvini ha portato alla luce tutto o gran parte di quello che c’era da sapere dietro e dopo la strage di Piazza Fontana sul piano giudiziario. Lo stesso hanno fatto i magistrati di Brescia riaprendo l'inchiesta sulla strage di Piazza della Loggia (riaperta proprio grazie ad una derivazione dell'indagine milanese di Salvini).  Ma la sentenze giudiziarie per un verso e la complice inerzia della politica dall’altro (inclusi i partiti della sinistra eredi del PCI), hanno scientemente perseguito l’obiettivo di lasciare impunite le stragi di Stato e di depistare l'attenzione su mille piste diverse che hanno confuso quella giusta. La verità sui mandanti delle stragi era e rimane scomoda per il potere democristiano e per l’opposizione del PCI che allora scelse il compromesso storico con la DC e la subalternità agli USA e alla NATO. Quando nel primo governo Prodi (1996-2001) con la nomina di Giorgio Napolitano a Ministro degli Interni ci fu la speranza e la possibilità di fare chiarezza, prevalse invece la decisione di lasciare la verità sulle stragi seppellita negli archivi e in sentenze assolutorie. Di questo occorre essere consapevoli e da questo occorre partire per una battaglia di verità storica e politica sulle stragi fasciste e di stato che non deve e non può fare sconti a nessuno.

La Rete dei Comunisti



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PIAZZA LOGGIA: PARTI CIVILI PRONTE A APPELLO, STATO HA DEPISTATO


17:19 18 NOV 2010 

(AGI) - Brescia, 18 nov. - "La citta' non smette di chiedere giustizia e continuera' anche in appello la sua battaglia legale per accertare la verita' giudiziaria di una strage che porta la firma dell'eversione di destra e di un pezzo di Stato connivente". E' questo il messaggio emerso oggi da una conferenza stampa alla Casa delle Memoria di Brescia, dove si e' commentata la sentenza di assoluzione giunta martedi' al termine del processo di primo grado per la strage di piazza Loggia. Una sentenza che ha decretato l'assoluzione dei cinque imputati, Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti e Francesco Delfino ai sensi dell'articolo 530 secondo comma, dunque per insufficienza di prove. Le parti civili - tra loro anche sindacati e Comune - hanno mostrato la volonta' di non arrendersi. Il parere condiviso e' che "non si e' trattato di un processo storico, ne' inutile: le responsabilita' penali c'erano. La corte ha riconosciuto la presenza di elementi di prova, anche se insufficienti - ha detto Michele Bontempi, del collegio difensivo -. Certo la grande mole di atti non ha contribuito a fare luce. Ora procederemo a riorganizzare in sequenza logica tutte le prove, cosi' da prepararle per i giudici d'appello. La sentenza, avendo equiparato posizioni diverse con la formula assolutoria, mostra elementi di debolezza che impugneremo". E ancora: "Il vero responsabile di questa sentenza e' lo Stato, i cui funzionari hanno iniziato dal luglio 74 una sistematica attivita' di depistaggio che forse si e' perpetuata aanche nel corso di questo processo".




A PROPOSITO DI “MARTIRI DELLE FOIBE”.
 
Dopo tanti anni da quando ho iniziato a fare ricerca storica sulle foibe (cioè dal 1995), dopo tutta la documentazione che ho analizzato e tutte le cose che ho pubblicato (e che nessuno storico serio, finora, ha smentito), quando sento ancora parlare di diecimila “infoibati”, di migliaia di “martiri delle foibe”, non so se mi sento più arrabbiata o più demoralizzata. Perché, mi domando, una ricerca storica seria deve venire snobbata, ignorata, vilipesa, mentre si prosegue a parlare a sproposito di certi argomenti, solo per mantenere viva la propaganda anticomunista ed antijugoslava, sostanzialmente per rivalutare il fascismo?
Così, su segnalazione del Comitato antifascista e per la memoria storica di Parma, che ha elevato una protesta riguardo all’intitolazione in quella città di una via ai cosiddetti “martiri delle foibe” (termine che per la sua genericità e vaghezza di definizione necessiterebbe di un’analisi di svariate pagine, ma su cui tornerò più avanti), sono andata a vedere il forum di Alicenonlosa (http://www.alicenonlosa.it/aliceforum/) e di fronte a tanta (peraltro spocchiosa e saccente) ignoranza relativamente ai fatti storici di cui si pretende di parlare, mi sono davvero cadute le braccia.
Leggere di “almeno diecimila” infoibati, di “compagni del CLN” gettati nelle foibe, di paragoni tra Tito e Pol Pot, così come insulti al presidente Pertini, e citazioni fuori tema su Goli Otok (che fu campo di prigionia, orribile fin che si vuole, ma destinato ad oppositori interni e non c’entra per niente con le “foibe”), il tutto per rispondere all’equilibrata e documentata presa di posizione del Comitato antifascista e per la memoria storica mi ha fatto riflettere sul senso che ha cercare di fare ricerca storica circostanziata se poi quello che continua ad essere diffuso sono stereotipi di falsità e propaganda.
Uno dei vari anonimi polemisti, quello che cita i “compagni del CLN” infoibati, dopo avere parlato di “diecimila” vittime, fa i seguenti nomi: Norma Cossetto, i sacerdoti don Bonifacio e don Tarticchio, le tre sorelle Radecchi, i tre componenti della famiglia Adam. Nove persone. Punto. Dove don Tarticchio, Norma Cossetto e le tre sorelle Radecchi furono uccisi nel settembre 1943 in tre distinte località dell’Istria nel corso del conflitto; don Bonifacio scomparve nel 1946 e non si sa che fine abbia fatto, ma visto che è scomparso nel nulla, dice la propaganda, ovviamente è stato “infoibato”; la famiglia Adam, di Fiume, che faceva parte del CLN filo italiano che nell’estate del 1945, quando Fiume era passata sotto sovranità jugoslava operava per riannettere la città all’Italia, in barba a tutti gli accordi tra Alleati, fu arrestata appunto per questa attività eversiva, e non vi è prova che qualcuno dei tre sia stato “infoibato”.
Ed i “compagni” del CLN di cui parla l’Anonimo (diamogli una dignità di nome proprio con un’iniziale maiuscola) chi sarebbero? Non certo coloro (una ventina) che furono arrestati durante l’amministrazione jugoslava di Trieste perché organizzavano attentati dinamitardi contro l’autorità esistente, che amministrava Trieste in quanto potenza alleata; né i tre membri del CLN arrestati per essersi appropriati dei fondi della Marina militare della RSI pur di non lasciarli in mano agli jugoslavi, due dei quali furono rilasciati un paio di anni dopo, mentre il terzo, già malato al momento dell’arresto, morì in prigionia un anno dopo.
Si possono poi considerare “martiri” i membri dell’Ispettorato Speciale di PS che furono arrestati e condannati a morte dal tribunale di Lubiana, perché colpevoli di essersi macchiati di azioni criminali, come Alessio Mignacca, che picchiò una donna arrestata fino a farla abortire, ed uccise almeno tre persone che cercavano di sfuggire all’arresto, sparando contro di loro?
Si potrebbe continuare a lungo con questi esempi, ma il discorso da fare è, a mio parere, un altro, e ritorno sulla questione della definizione “martiri delle foibe”. Innanzitutto la maggior parte di coloro che vengono così indicati non furono veramente uccisi e poi gettati in una foiba: in parte si tratta di prigionieri di guerra morti durante la detenzione (così come accadde in altri campi di detenzione gestiti dagli Alleati, ad esempio in Africa), in parte di arrestati perché accusati di crimini di guerra o di violenze contro i prigionieri (vedi il caso di Mignacca sopra citato, ma anche quello di Vincenzo Serrentino, giudice del Tribunale speciale per la Dalmazia, che mandò a morte moltissimi innocenti) e condannati a morte dopo un processo. Coloro che finirono nelle foibe furono per lo più vittime di regolamenti di conti o di vendette personali, così come Norma Cossetto, così come don Tarticchio, sul quale gravava il sospetto che fosse un informatore dell’Ovra.
Intitolare strade a generici “martiri delle foibe” significa non rendere giustizia a nessuno, tantomeno alle vittime innocenti, serve solo ad eternare la polemica sulla “ferocia slava” che voleva operare una pulizia etnica contro gli italiani nella Venezia Giulia (teoria nazionalfascista che nessuno storico degno di questo nome ha mai avallato). Per questo sono solidale con il Comitato antifascista e per la memoria storica di Parma, che con i suoi puntuali interventi cerca di fare un po’ di chiarezza, necessaria per la convivenza civile di questo Paese.
 
Claudia Cernigoi – Trieste


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Chiarezza su alcuni aspetti e punti legati alla vicenda delle foibe  

L’accusa di “negazionismo” dei morti delle foibe rivolta al Comitato antifascista si smentisce da sola considerando che abbiamo iniziato a fare nomi e cognomi di morti delle foibe, nomi di uomini che sono stati capi fascisti o militari o funzionari dell’amministrazione dell’Italia fascista occupante la Jugoslavia o collaborazionisti. Quasi fatale che in quelle circostanze, nel contesto della guerra, siano morti anche degli innocenti. Nel complesso i morti delle foibe del settembre-ottobre ’43 e del maggio ’45 sono stati cinquecento, seicento. Il numero è più alto di un fattore dieci se si considerano i morti, fino a qualche anno dopo, nei campi di concentramento jugoslavi. Campi di concentramento che vi furono anche perché nessuno – nessuno! – dei criminali di guerra fascisti italiani (almeno settecento secondo l’apposita commissione delle Nazioni Unite) è mai stato consegnato alle autorità jugoslave o ha mai scontato alcuna pena in Italia o altrove. Diversamente dai criminali nazisti che sono stati processati a Norimberga.
Riguardo, in particolare, alle guardie di finanza morte nelle foibe, va detto che nelle zone del Litorale Adriatico la Guardia di Finanza, come la Pubblica Sicurezza, era, al pari dei corpi armati dell’esercito, alle dipendenze non già dell’Italia, nemmeno della repubblichina di Salò, ma dei tedeschi. Un’ordinanza di Hitler del 10 settembre ’43 diceva infatti che «Gli Alti commissari nella zona d'operazione Litorale Adriatico, consistente nelle province del Friuli, di Gorizia, di Trieste, dell’Istria, di Fiume, del Quarnero, di Lubiana (...) ricevono le istruzioni fondamentali per lo svolgimento della loro attività da me». Soltanto negli ultimi giorni di guerra alcuni reparti di finanzieri passarono al CNL triestino. Riguardo a Norma Cossetto, figlia del gerarca fascista Giuseppe Cossetto, anch’ella fervente fascista, sulla sua fine la testimonianza alla base del riconoscimento attribuitole, come vittima dei partigiani, è quella fornita da una donna che avrebbe visto, dall’interno della propria casa in cui stava nascosta con le finestre sbarrate, quello che accadeva nella scuola di fronte, anch’essa con le finestre chiuse, mentre dal verbale redatto dal maresciallo dei Vigili del Fuoco di Pola il corpo della giovane non appare essere stato oggetto delle mutilazioni di cui parlano le “cronache”, né sarebbe stato possibile stabilire, con le conoscenze mediche dell’epoca, se fosse stata violentata prima di essere uccisa. (Per il caso di don Bonifacio si veda l’articolo del settembre 2008 “La beatificazione di don Bonifacio” scritto da Claudia Cernigoi su “La nuova alabarda”).
Ci furono sì, comunque, episodi di giustizia sommaria, di crudeltà della popolazione, di jacquerie, e poi i morti nei campi di concentramento jugoslavi. La stessa sorte per altro, e anche di peggio, toccò ai prigionieri tedeschi da parte degli Alleati angloamericani e francesi o in Francia ai collaborazionisti di Vichy o, nella stessa nuova Jugoslavia a guida comunista, agli ustascia fascisti e ai cetnici.
In Italia molti fascisti di quelli imprigionati furono rimessi in libertà appena un anno dopo la Liberazione, grazie alla generosa amnistia del segretario comunista Togliatti allora ministro di Grazia e Giustizia, e già alla fine di quello stesso anno, il ’46, ebbe modo di costituirsi il partito politico “Movimento Sociale Italiano” di reduci della Repubblica di Salò ed ex esponenti del regime fascista, partito che dal ’48 è stato nel Parlamento della Repubblica italiana democratica e che già negli anni cinquanta faceva parte delle Giunte comunali di diverse e importanti città.
Soprattutto, è imprescindibile ricordare che la tragica vicenda delle foibe è avvenuta perché c’è stata l’occupazione italiana di vasti territori della Jugoslavia, costata decine di migliaia di morti civili, anche coi campi di concentramento fascisti, perché c’è stata l’aggressione militare dell’Italia alla Jugoslavia, perché le popolazione slave delle zone di confine sono state oppresse dal regime fascista e fatte oggetto della violenza squadrista.
Non è la Jugoslavia che ha aggredito l’Italia, è l’Italia che ha aggredito la Jugoslavia, non è Lubiana che ha occupato terre italiane, è il fascismo che ha fatto della slovena Lubiana una provincia d’Italia, non sono gli jugoslavi ad aver distrutto centri culturali italiani, sono le squadracce fasciste ad aver incendiato l’hotel Balkan sede del Narodni Dom (centro di cultura nazionale slovena),  non è Tito ad aver espresso razzismo, è Mussolini che nel ’20 a Pola disse: «Di fronte ad una razza inferiore e barbara come quella slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone… I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
Il Governo Berlusconi ha riconosciuto i crimini commessi dall’Italia e dal fascismo in Libia,  riconoscerà anche quelli commessi in Jugoslavia? 

Comitato antifascista e per la memoria storica-Parma, 20/11/2010


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Il giorno 17/nov/2010, alle ore 23.27, Coord. Naz. per la Jugoslavia ha scritto:

 
Da: Comitato antifascista e per la memoria storica - Parma <comitatoantifasc_pr @ alice.it>

Oggetto: Comunicato Stampa.  NO  a via 'martiri delle foibe' , SI a una via ai partigiani italiani all'estero

Data: 17 novembre 2010 22.52.09 GMT+01.00


NO  all’intitolazione di una via di Parma ai “martiri delle foibe”
SI    all’intitolazione di una via di Parma ai partigiani italiani all’estero
 
Il Comune di Parma, con la riunione di lunedì 15 novembre ‘10 della Commissione Toponomastica presieduta dall’assessore Fecci, ha deciso l’intitolazione di una via della città ai cosiddetti “martiri delle foibe”.
Esprimiamo la nostra netta contrarietà di democratici antifascisti di Parma a questa scelta.
Vittime delle foibe, al confine nordorientale dell’Italia con l’allora Jugoslavia, sono stati nel settembre-ottobre 1943 e nel maggio 1945 alcune centinaia di italiani in gran parte militari, capi fascisti, dirigenti e funzionari dell’amministrazione dell’Italia occupante  la Jugoslavia , collaborazionisti. Si è trattato nel complesso di circa seicento vittime (escludendo dispersi e fucilati in guerra, deportati e morti in campi di concentramento, ecc.) per mano di partigiani jugoslavi, conseguenza dell’odio popolare e della rivolta nei confronti dell’Italia fascista che aveva dagli anni ’20 sottomesso e oppresso le popolazioni slave delle zone di confine e poi aggredito militarmente e occupato interi territori della Jugoslavia fino a fare della slovena Lubiana una provincia d’Italia.
Dalla foiba di Basovizza, assunta a simbolo di tutte le foibe, sono state rinvenute le spoglie di una decina di uomini soltanto, e tutti militari tedeschi.
Riportiamo alcuni nominativi di italiani  riconosciuti  quali “martiri delle foibe”.
Cossetto Giuseppe, infoibato nel ’43 a Treghelizza, possidente, segretario del fascio a S. Domenica di Visinadacapomanipolo MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, sottoposta direttamente ai tedeschi), già squadrista sciarpa Littorio;
-  Morassi Giovanni, arrestato a Gorizia nel maggio ’45 e scomparso, Vicepodestà e Presidente della Provincia di Gorizia;
Muiesan Domenico, ucciso nel ’45 a Trieste, irredentista, legionario fiumano, volontario della guerra d’Africa, squadrista delle squadre d’azione a Pirano;
- Nardini Mario, ucciso nel ’45 a Trieste, capitano della MDT (Milizia Difesa Territoriale, sottoposta direttamente ai tedeschi), già XI Legione MACA (milizia fascista speciale di artiglieria controaerei);
- Patti Egidio, ucciso nel ’45, pare infoibato presso Opicina, vicebrigadiere del 2° Reggimento MDT, già MVSN, GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), squadrista;
- Polonio Balbi Michele, scomparso a Fiume il 3 maggio ’45, sottocapo manipolo del 3° Reggimento MDT;
- Ponzo Mario, morto nel ‘45 in prigionia, colonnello del Genio Navale, poi inquadrato nel Corpo Volontari della Libertà del Comitato di Liberazione Nazionale (antifascista) di Trieste, arrestato per spionaggio sul movimento partigiano jugoslavo in favore del fascista Ispettorato Speciale di PS (Pubblica Sicurezza, sottoposta direttamente ai tedeschi);
Sorrentino Vincenzo, arrestato nel maggio ’45 a Trieste, condannato a morte da tribunale jugoslavo e fucilato nel ’47, ultimo prefetto di Zara italiana, membro del Tribunale Speciale della Dalmazia che comminava condanne a morte con eccessiva facilità secondo gli stessi comandanti militari italiani (“girava per  la Dalmazia , e dove si fermava le poche ore strettamente indispensabili per un frettoloso giudizio, pronunciava sentenze di morte; e queste erano senz’altro eseguite”).
E’ assolutamente grave, mistificatorio, e inaccettabile che persone come queste, fascisti e criminali fascisti, vengano ricordate definendole “martiri” e attribuendo loro riconoscimenti come l’intitolazione di una via cittadina.
Chiediamo alla Giunta Comunale di Parma città delle Barricate antifasciste del ’22 e medaglia d’oro della Resistenza di desistere dal proposito di realizzare “via martiri delle foibe”.
Chiediamo al Comune di Parma di dedicare una via ai quarantamila soldati italiani che l’indomani dell’8 settembre ’43 si unirono alla Resistenza jugoslava e combatterono insieme con l’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, la metà di loro dando la vita in quell’epica lotta nei Balcani, per
la liberazione  dal nazifascismo e il riscatto dell’Italia dell’onta in cui il fascismo l’aveva gettata.

COMITATO ANTIFASCISTA  E  PER  LA MEMORIA STORICA  – PARMA



Abbiamo appreso con dolore della morte di Marco Aurelio Rivelli, storico e saggista coraggioso e capace. 

Solo tramite i lavori di Rivelli molti di noi hanno potuto conoscere aspetti della storia del Novecento di cui è negato l'insegnamento nelle scuole, impedita la divulgazione sui media, omesso ogni approfondimento o iniziativa da parte degli Istituti di Storia contemporanea e del mondo accademico in genere.

Rivelli si è spento a Milano pochi giorni fa. Era affetto da alcuni anni da una tremenda malattia che poco per volta aveva paralizzato le sue facoltà cognitive. Per di più, le condizioni economiche ed esistenziali sue e di sua moglie erano diventate critiche, con uno sfratto incombente e senza sapere dove andare. Questa è la sorte che in Italia è riservata agli intellettuali che mantengono il proprio rigore scientifico e morale, uscendo così dal "coro".

Ricordiamo i suoi libri accurati e precisi, frutto di ricerche negli archivi militari e di Stato:

* "Le génocide occulté" (Il genocidio nascosto - Ed. L'Age d'Homme, Losanna 1998) 
basato sulla tesi di dottorato discussa dall'autore nel 1978 all'Università di Milano, pubblicata ben venti anni dopo, in occasione della beatificazione dell'arcivescovo Stepinac (vedi l'articolo più avanti)

* L'Arcivescovo del genocidio (Kaos Edizioni, Milano 1999)
saggio sul clerico-nazismo nella Croazia di Stepinac e di Pavelic, finalmente in versione italiana

Dio è con noi! La Chiesa di Pio XII complice del nazifascismo (Kaos edizioni, Milano 2002)
uno studio dedicato alle responsabilità di Pio XII nei genocidi compiuti dal nazifascismo: eppure ancora vogliono farlo Santo!

(a cura di Italo Slavo)

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L'articolo che segue e' apparso su "il manifesto" del 3 Ottobre 1998, giorno della beatificazione di Alojzije Stepinac da parte del papa di Roma:


REVISIONISMO STORICO

L'arcivescovo Stepinac, altro che martire

MARCO AURELIO RIVELLI *

Costituito il 10 aprile 1941 lo Stato Indipendente Croato, cioè il regime ustascia di Ante Pavelic, fu immediatamente posta in atto una mostruosa crociata volta al totale sterminio dei serbi ortodossi, degli ebrei e dei Rom, gli zingari. Nel corso di quattro anni vennero sterminati all'incirca un milione di esseri umani in una maniera così feroce che non ha avuto eguali, per le modalità, in tutto il corso della seconda guerra mondiale. Se l'atroce sterminio di sei milioni di ebrei avvenne nel chiuso dei campi, e per i più la constatazione dell'Olocausto ebbe luogo solo alla fine del conflitto, i massacri ustascia furono invece posti in atto con la maggiore pubblicità di fronte agli occhi di tutti: nelle strade, nelle piazze, nelle campagne. I torturatori si facevano un vanto di essere ripresi dalle macchine fotografiche nell'atto di uccidere le vittime. Mentre i vescovi tedeschi sostennero sempre di essere stati all'oscuro degli avvenimenti, lo stesso non si può dire dell'episcopato croato, dell'"Ambasciatore Vaticano", Monsignor Ramiro Marcone e dell'Arcivescovo Stepinac. Il numero delle vittime varia da settecentomila ad un milione. L'Enciclopedia Britannica riporta settecentomila, secondo il rapporto redatto dal Sottosegretario di Stato Usa Stuart Eizenstadt nel giugno 1998, inerente l'oro predato alle vittime degli ustascia e nascosto - secondo il rapporto stesso - in Vaticano, sono sempre settecentomila, per l'autore si aggirano intorno al milione. Andrjia Artukovic, Ministro degli Interni dello Stato Croato Indipendente e capo di tutti i campi di sterminio, affermò al suo processo che nel solo campo di Jasenovac i trucidati furono settecentomila. L'orrore della crociata diventa ancora più fosco quando si considera la partecipazione fisica ai massacri di centinaia di preti e frati, in particolare i monaci francescani. Secondo la politica ustascia, i serbi dovevano essere tutti convertiti al cattolicesimo. Il Ministro Mile Budak affermò a proposito dei serbi "... un terzo lo convertiremo, un terzo lo uccideremo, un terzo verrà rimandato in Serbia".

A capo del campo di sterminio di Jasenovac, vi fu per un certo periodo il frate francescano, Filipovic-Majstorovic, detto Frà Satana. Al suo processo si vantò di aver ucciso oltre quarantamila prigionieri. Gli successe alla guida del campo un altro religioso. Nel mio saggio indico i nomi di circa 160 religiosi, colpevoli di partecipazione diretta all'eccidio, ma furono molti di più. Il Resto del Carlino, quotidiano bolognese, in due articoli del 18 e 22 settembre 1941, in pieno periodo fascista, pubblicò a firma di Corrado Zoli due articoli nei quali, inorridito, narrava gli eccidi commessi dai francescani. Altre testimonianze oculari, quelle degli appartenenti all'esercito italiano, la maggior parte delle quali accessibili a tutti conservate negli archivi dello Stato Maggiore - Ufficio Storico.

L'Arcivescovo Alojs Stepinac accolse con calore l'arrivo di Ante Pavelic, il Poglavnik (duce), ordinando che fosse cantato il Te Deum in tutte le chiese dello stato e diffondendo una lettera pastorale che incitava ad appoggiare il nuovo Stato perché esso "... rappresenta la Santa Chiesa Cattolica ...". La Pastorale di totale appoggio al regime di Pavelic vedeva la luce quando già le prime notizie di massacri si erano diffuse e Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri Italiano e genero del Duce, annotava nel suo diario, il 28 aprile 1941, "... spoliazioni, rapine, uccisioni sono all'ordine del giorno". Il 26 giugno 1941, Ante Pavelic, che aveva già al suo attivo il massacro di 180 mila tra serbi ed ebrei, compresi tre vescovi e oltre cento pope ortodossi, concedeva udienza all'episcopato cattolico e, anche in quell'occasione, Stepinac non mancava di esternare lodi per il Poglavnik come documentato dai periodici cattolici, "Katolicki List" e "Hrvatski Narod" del 30 giugno 1941. Da ricordare che il 17 maggio precedente, Ante Pavelic, accompagnato da 120 ustascia in divisa, era stato ricevuto a Roma da Papa Pio XII. Alla fine dell'anno, l'Arcivescovo, che precedentemente con altri 11 religiosi cattolici era stato nominato deputato al Parlamento Croato, riceve la carica di capo dei cappellani delle Forze Ustascia. Più tardi riceverà anche un'altra onorificenza ustascia. Superfluo aggiungere che mai condannerà le efferatezze compiute davanti ai suoi occhi da individui con i quali per quattro lunghi anni intratterrà cordiali rapporti.

Nell'aprile del 1945, gli ustascia in fuga depositano, per ordine di Pavelic, tutti gli atti e i documenti governativi, oltre ad oro gioielli e preziosi rubati alle vittime serbe ed ebree, nell'Arcivescovado di Zagabria, dove verranno nascosti e scoperti dopo alcuni mesi dalle autorità del Nuovo Stato Jugoslavo.

Stepinac non punì mai - naturalmente in maniera ecclesiastica - i sacerdoti che si erano resi colpevoli di delitti, non proibì ai cappellani ustascia di continuare - quanto meno - ad essere testimoni di crimini, né vietò alla stampa cattolica la continua esaltazione del regime e delle sue leggi, e tanto meno censurò pubblicamente un regime reo di siffatte scelleratezze. Qualche apologeta ha scritto in questi giorni che Stepinac elevò alcune proteste contro, si badi bene, le modalità della conversioni ma non,l'affermo recisamente contro i massacri. Mi chiedo se, di fronte ad un eccidio di tale proporzione e nefandezza, per di più non isolato ma commisto ad infiniti altri si possa tacere e non esprimere lo sdegno di uomo di chiesa verso tali assassini. Mi chiedo come si possa assistere a cerimonie cui presenziano criminali conclamati e i loro capi senza rendersi conto di dare con la propria presenza un sostegno di fatto a quel regime sanguinario. Da non dimenticare che il sostegno fu anche dato, dopo la costituzione del Nuovo Stato Jugoslavo alla fine della guerra, alle attività clandestine di terrorismo condotte dagli ustascia che si erano dati alla macchia e dei quali benedì, dentro l'Arcivescovado, alcuni gagliardetti. Infatti, rientrato clandestinamente a Zagabria l'ex capo della polizia ustascia, Lisak, al fine di svolgere un'attività di terrorismo contro la Federazione, appena composta, l'Arcivescovo lo nascose nel suo palazzo, come dichiarato durante il processo dallo stesso Lisak.

Stepinac non fu certamente un martire. Lo stesso Tito chiese a Monsignor Patrizio Hurley, rappresentante ufficiale del Vaticano, di richiamare a Roma l'Arcivescovo, non desiderando una rottura con la Santa Sede, altrimenti avrebbe dovuto arrestarlo, come riportato dall'Unità del 7 novembre 1946 in relazione ad un colloquio fra Tito e Togliatti.

No. Stepinac non fu un martire. Chi scrive, pur avendo visionato migliaia di atti, non ne ha mai trovato uno dove l'Arcivescovo manifestasse la sua pietà per i tanti innocenti trucidati, fra i quali i migliaia di donne e bambini; non ha mai trovato la fiera condanna del Presule per l'uccisione barbara dei vescovi e dei preti ortodossi, nonché dei rabbini: sarebbe stato un gesto di carità cristiana di amore verso il prossimo in un contesto dove imperversava il "Male". No. Questo, Alojis Stepinac non lo fece. Seguitò le sue frequentazioni con i criminali, che in seguito, aiutò a fuggire. Condannato a sedici anni di carcere, fu posto, dopo quattro anni di detenzione, agli arresti domiciliari nel suo paese natale. Morì nel suo letto. Pochi giorni or sono il Centro Simon Wiesenthal ha chiesto al Papa di soprassedere alla beatificazione fino a che non fossero stati meglio accertati i fatti.

Oggi, a Zagabria, Giovanni Paolo II beatifica Alojis Stepinac. Nella teologia cattolica, la santità è il complesso delle perfezioni morali. Propria di Dio in senso assoluto, e, in grado diverso, delle persone che hanno riprodotto in qualche modo la perfezione divina e che hanno modellato la loro vita ad imitazione di quella. Non ci sembra il caso del Cardinale Stepinac.