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La Madre di tutte le menzogne di guerra: le mani mozzate ai bambini in Belgio

4 FEBBRAIO 2015

Questo articolo viene pubblicato contemporaneamente anche nel sito www.centoannidiguerre.org  quale contributo di Sibialiria all’istituendo Comitato contro le celebrazioni della Prima guerra mondiale. 


Incombe il governativo Centenario della Grande Guerra che già si annuncia all’insegna della esaltazione del sacrificio per la Patria, dell’onore di essere “Italiani brava gente”, al richiamo alla compattezza nazionale contro i nemici interni ed esterni, alla necessità di rafforzare il nostro apparato militare contro le “forze ostili”… Temiamo quindi che la quantità enorme di celebrazioni metterà in secondo piano un aspetto fondamentale di quel conflitto e cioè l’irrompere di una propaganda  basata su menzogne che servirono a spingere verso la guerra una opinione pubblica che , fino a quel momento , sembrava riluttante.  La più famosa di queste menzogne fu, certamente, la sbalorditiva malvagità esternata dalle truppe tedesche in Belgio, malvagità  di cui le mani mozzate ai bambini rappresenta l’apice.

Se Sibialiria si sofferma su questa impostura, vecchia ormai di cento anni, non è certo per velleità enciclopediche o per additare una recente pubblicazione che, incredibilmente, la riprende come vera. Da sempre le guerre sono accompagnate o precedute da accuse al nemico di turno, presentato come un mostro capace di qualsiasi crimine : ma è solo con la Prima guerra mondiale – con l’irrompere dei quotidiani e delle cartoline a colori – che la creazione di falsi di guerra diventa una vera e propria industria che assolda grafici di talento, scrittori famosi, giornalisti… Il primo prodotto di successo di questa industria è stata, appunto,  la leggenda dei bambini belgi con le mani mozzate dai tedeschi. Una menzogna, che ha avuto un impatto emotivo enorme (il compianto giornalista Alessandro Curzi, ad esempio, ricordava che suo padre, socialista e da sempre contrario alla guerra, nel 1915 divenne interventista, quando apprese dai giornali questa notizia) e che ha contribuito in modo determinante a far precipitare l’umanità in una guerra costata milioni di morti.

E dire che se c’era una nazione che, veramente, faceva mozzare le mani ai bambini, questo era il Belgio.

 

Il Rapporto Bryce

Tutti le campagne mediatiche per avere successo devono contenere almeno due elementi: una storytelling, – e cioè un episodio di grande impatto emotivo che suggerisce un corpus di credenze – e l’autorevolezza di chi questo episodio narra (che, solitamente dissuade il pubblico dal verificarne la veridicità). Ad esempio, la storytelling dei “neonati strappati alle incubatrici nel Kuwait dai soldati iracheni” raccontata da Nayirah – una infermiera del Kuwait – fu considerata da molti attendibile non già dalla dichiarazione di questa anonima infermiera (che poi si scoprì essere la figlia di Saud Nasir al-Sabah, ambasciatore del Kuwait negli USA, e istruita dall’agenzia di pubbliche relazioni Hill & Knowlton,) ma dalla circostanza che nessuno della Commissione senatoriale USA (davanti alla quale fu pronunciata) osò metterla in dubbio. Oggi, generalmente, la veridicità della notizia è garantita dalla televisione e dai suoi ineffabili corrispondenti di guerra che, in qualche caso, dopo aver diffuso evidentissimi falsi – ad esempio, le “Fosse comuni di Gheddafi” – quando questi falsi sono universalmente riconosciuti tali, per garantirsi una verginità, dichiarano di essere stati ingannati.

Cento anni fa l’autorevolezza della notizia fu garantita dal ponderoso Rapporto Byrce, (qui è possibile leggere il documento in originale) – redatto, nel dicembre 1914, dal Comitato per indagare le voci sulle atrocità in Belgio istituito dal primo ministro inglese Herbert Asquith e diretto dal visconte Lord James Bryce – che riportante mostruose atrocità commesse dai soldati tedeschi in Belgio (persone stuprate, crocifisse, impalate, accecate… donne sgozzate e/o con mammelle amputate… e, soprattutto, bambini con mani mozzate) divenne, in poche settimane, un best seller.

Subito tradotto in 30 lingue dal governo inglese, il Rapporto Byrce, (anche grazie a veementi promotori come lo scrittore Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes) conobbe varie versioni. In Italia, ad esempio, sia il Corriere della sera sia Il Messaggero ne stamparono una edizione popolare arricchita con varie illustrazioni. Da qui il libro di Achille De Marco Sangue belga che descriveva, con una fantasia davvero perversa, tutta una serie di mutilazioni tra cui “bimbe mutilate dei piedi e obbligate a correre sui moncherini per il passatempo spirituale della soldataglia tedesca”. Curiosamente, questo episodio non era riportato nel Rapporto Byrce – che il De Marco assicurava essere la fonte del suo libro – ma fu comunque ampiamente ripreso dalle successive “edizioni popolari” del Rapporto.

Innumerevoli sono state poi le raffigurazioni attestanti le atrocità riportate nel Rapporto. Soprattutto cartoline illustrate a colori; le più famose quelle commissionate dallo Stato maggiore francese al disegnatore Francisque Poulbot: si stima che la serie più famosa delle sue cartoline sia stata stampata in un milione di copie.

 

L’attendibilità del Rapporto Byrce

Finita la prima guerra mondiale, i documenti originali delle deposizioni dei presunti testimoni belgi (tutti anonimi) che costituivano il Rapporto Byrce rimasero secretati. Non fu questa l’unica stranezza che insospettì gli storici. Verosimilmente, c’era anche la curiosità di sapere come avessero fatto i membri della commissione di indagine coordinata da Byrce a gironzolare in un Belgio occupato dall’esercito tedesco e a incontrare così tante persone disposte (se pur anonimamente) a testimoniare. Fu per questo che alcuni ricercatori – tra cui Arthur Ponsonby  e Fernand van Langenhove – ripercorsero le aree del Belgio (distretto di Liegi, Valle della Meuse, Aarschot,, Mechelen, Louvain…) menzionate nel Rapporto come teatro degli efferati crimini commessi dai tedeschi. Ma non trovarono alcuna conferma di questi supposti episodi. Analogo risultato quando indagarono su un famoso (cinque prime pagine sul Times) evento riportato nel Rapporto Byrce: tredici bambini del villaggio di Sempst violentati e poi finiti con le baionette. Poi passarono in esame l’evento clou: i bambini con le mani mozzate. Da cosa era nata questa leggenda? Sostanzialmente, da due rumors. Nel primo, un anonimo sacerdote del distretto di Termonde, in una predica, avrebbe raccontato di un bambino che lo aveva avvicinato per chiedergli quale preghiera innalzare a Gesù per fargli crescere le mani mozzate dai Tedeschi. Nel secondo, che sarebbe avvenuto in un ospedale del nord del Belgio, una bambina di sei anni con le mani mozzate avrebbe composto questa straziante preghiera (riportata nel periodico Semaine religieuse di l'Ille-et-Vilaine): “Signore non ho più le mani. Un crudele soldato tedesco me le ha prese, dicendo che i bambini belgi e francesi non hanno diritto ad avere le mani; che questo diritto lo hanno solo i bambini dei tedeschi. E me le ha tagliate. E mi ha fatto molto male. Ma il soldato rideva e diceva che i bambini che non sono tedeschi non sanno soffrire. Da quel giorno, Signore, la mamma è diventata pazza ed io sono sola. Il babbo è stato portato via dai soldati tedeschi il primo giorno di guerra. Non ha mai scritto. Certamente, lo avranno fucilato…”. Le puntigliose ricerche di van Langenhove e di altri non trovarono alcuna conferma di questi episodi. Analogo risultato ottenuto da Francesco Saverio Nitti, già ministro durante la guerra e in seguito, presidente del Consiglio: “Abbiamo sentito raccontare la storia dei piccoli infanti belgi ai quali gli unni avevano mozzato le mani. Dopo la guerra, un ricco americano, scosso dalla propaganda francese, inviò in Belgio un emissario per provvedere al mantenimento dei bambini cui erano state tagliate le povere manine. Non riuscì ad incontrarne nemmeno uno. Mister Lloyd George e io stesso, quando ero capo del governo italiano, abbiamo fatto eseguire delle minuziose ricerche per verificare la veridicità di queste accuse, nelle quali, in certi casi, si specificavano nomi e luoghi. Fu rilevato che tutti i casi oggetto delle nostre ricerche, erano stati inventati.”

L’inattendibilità del Rapporto Byrce non significa, certo, che non vi furono esecuzioni sommarie, o altri crimini, commessi dalle truppe di occupazione tedesche. Esecuzioni dettate anche dalla psicosi  imperante tra le truppe tedesche che vedevano nelle numerose feritoie che costellavano i muri delle case belghe (in realtà “fori in muratura” destinati a fissare le impalcature per gli imbianchini delle facciate) una postazione per cecchini. Psicosi, tra l’altro, istituzionalizzata da autorevoli opinionisti tedeschi come il professore universitario B. Händecke che sul quotidiano Nationale Rundschau spiegava che la crudeltà belga era già iscritta nell’arte fiamminga.

 

I falsi di guerra 

La leggenda dei bambini con le mani mozzate, oltre che per il suo enorme impatto nell’opinione pubblica (In Italia, uno dei pochissimi studiosi che ne denunciò la falsità fu Benedetto Croce) merita di essere analizzata perché si basa su un aspetto che caratterizzerà fino ai nostri giorni i falsi di guerra: l’illogicità  del gesto.

L’occupazione tedesca del Belgio era finalizzata all’invasione della Francia, non certo all’attuazione di una qualche pulizia etnica, per la quale, cioè, bisogna terrorizzare la popolazione autoctona per costringerla a fuggire. Corollario di questa strategia era l’esigenza per la Germania di garantirsi un Belgio relativamente tranquillo dopo che – già nei primi giorni dell’invasione – era stata neutralizzata gran parte della resistenza. In questo contesto – come fece notare van Langenhove – sarebbe stato del tutto illogico per la Germania non solo organizzare (secondo il Financial Times veniva direttamente dal Kaiser la direttiva di torturare i bambini, specificando – tra l’altro – quali torture dovessero essere eseguite) ma anche permettere ufficialmente il compiersi di tali gratuite atrocità contro la fascia più inerme della popolazione. In altri termini “…(di fronte a queste atrocità)… cosa altro avrebbero fatto gli abitanti dei paesini teatro di tali infamie se non avventarsi, magari con qualche coltello da cucina, sul primo tedesco che passava?” Se questo si fosse verificato, la Germania si sarebbe trovata ad affrontare una resistenza immensamente più feroce di quella che caratterizzo l’invasione del Belgio, durante la guerra franco-prussiana, nel 1870.

Nonostante ciò, innumerevoli, illogiche, menzogne di guerra (basti pensare ai cecchini di Assad che sparano sulle donne incinte), anche oggi, vengono prese per buone da gran parte dell’opinione pubblica. Come è possibile? Tra gli studiosi che si occuparono di questo fenomeno, un posto di rilievo spetta, certamente allo storico Marc Bloch che, nel 1921, pubblicò Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra un testo breve ma ancora oggi illuminante per capire su quali meccanismi i creatori di falsi di guerra basino il loro agire. “Solo grandi stati d’animo collettivi hanno il potere di trasformare in leggenda una cattiva percezione. – dichiara Bloch – Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; la sua messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento.”

Una menzogna di guerra, quindi , serve sostanzialmente a cementare tutto un corpus di credenze già imposte all’opinione pubblica e a trasformare in paranoia il diffuso senso di insicurezza. Paranoia che, quindi, impone di fermare il nemico di turno prima che possa colpire anche l’inerme consumatore della menzogna (oggi, solitamente, un telespettatore). E bisogna agire subito, perché il nemico dispone, nel paese del consumatore, di una quinta colonna (pacifisti, disfattisti, comunità etnico- religiose…) o è dotato di  imperscrutabili armi capaci di seminare ovunque distruzione. 

Agli albori della Prima guerra mondiale la costruzione di un nemico capace delle più turpi efferatezze, che, se non lo si fosse fermato in tempo sarebbero dilagate dovunque, fu affidata in Italia (fino ai primi mesi del 1915 alleata dell’Impero austro-ungarico) ad una torma di giornalisti i quali furono letteralmente comprati da emissari del governo francese o inglese e/o da gruppi industriali interessati alle commesse militari. E così, in pochi mesi, fu imbastita  una gigantesca campagna mediatica – imperniata sullo “stupro del piccolo e pacifico Belgio” – fatta propria da non pochi intellettuali e accompagnata da innumerevoli manifestazioni, culminate nel Maggio radioso, che chiedevano l’entrata in guerra.

Ironia della sorte, anche in quei giorni, “il Belgio” continuava a mozzare le mani ai bambini. Nel Congo, fino al 1909 proprietà privata di Leopoldo II re del Belgio. Per costringere le popolazioni a raccogliere nelle foreste il Caucciù e consegnarlo agli agenti della Société Générale de Belgique. Un abominio, accompagnato dallo sterminio – in 23 anni – di circa 9 milioni di congolesi, che aspetta ancora di essere ricordato in qualche museo o Giornata della Memoria.


Francesco Santoianni

Redazione di Sibialiria




(francais / srpskohrvatski / italiano)

Manifestazioni violente di ultranazionalisti in Kosovo

1) Nouveau livre, par J. Hogard : L'Europe est morte à Pristina / Evropa je umrla u Prištini 
2) Natale in Kosovo: raid antiserbo, sassaiola contro autobus di fedeli di fronte a chiesa Djakovica / Albanci kamenovali autobus sa Srbima koji su krenuli u crkvu na proslavu Božića!
3) Kosovo, a Pristina è guerriglia urbana (3 febbraio 2015)
4) Радован Радиновић: ОДЛУЧНО „НЕ“ ВОЈСЦИ КОСОВА


Sulle manifestazioni di piazza degli ultranazionalisti, che chiedono la appropriazione in toto del complesso minerario di Trepca da parte dello stato-mafia kosovaro, si veda anche il nostro post precedente:

Il tentato furto delle miniere di Trepca

Read also:

West accused of "allowing genocide in Kosovo" (13/1/2015)
Retired Czech Lt. Col. Marek Obrtel, who recently returned the military medals he received from NATO, says that "genocide against Serbs" took place in Kosovo...


=== 1 ===

Jacques Hogard

L'Europe est morte à Pristina
Chronique du Kosovo 

Hugo Document, 2014
ISBN: 978-2755614961


VIDEO (30 mag 2014 – http://www.tvlibertes.com/ ): 

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Žak Ogar: Evropa je pred mojim očima umrla u Prištini 


Goran ČVOROVIĆ | 19. oktobar 2014. 21:35 | Komentara:  66
Vođa francuskih specijalaca koji su prvi ušli na KiM: Albancima su pomagale strane obaveštajne službe. Na terenu sam otkrio da Srbi drže reč, a Albanci ne. Otkrili smo listu za ubijanje Srba s pečatom OVK

OD STALNOG DOPISNIKA - PARIZ

EVROPA je umrla u Prištini. Tako je svoju knjigu, koja je nedavno promovisana u Kulturnom centru Srbije u Parizu, naslovio Žak Ogar, vođa francuskih specijalnih operativnih snaga koji je na Kosovu u zvaničnoj misiji sa svojom elitnom jedinicom boravio svega petnaest dana, od potpisivanja Kumanovskog sporazuma do dolaska redovnih mirovnih snaga, ali sasvim dovoljno da stekne utisak šta se događalo u južnoj srpskoj pokrajini. Želja mu je bila da knjigu objavi na petnaestogodišnjicu NATO agresije.

- Počeli smo još potkraj 1998. da razmatramo vojnu opciju protiv Srbije, što znači da je sve odranije bilo isplanirano. U francuskim medijima, u ono vreme, moglo je da se čuje kako loši Srbi proteruju dobre Albance. Nisam poznavao Balkan i očekivao sam da vidim zle Srbe koji vrše etničko čišćenje, kako je govorila „zvanična istina“. Otkrili smo, međutim, sasvim suprotno - kaže Ogar u ekskluzivnom intervjuu za „Novosti“.

* S kakvim znanjima ste krenuli u misiju?

- U činjenice me je uputio otac, general u francuskoj vojsci. U mojoj porodici je postojala tradicija francusko-srpskog prijateljstva, koja mi je bila ostala u maglovitim sećanjima iz detinjstva, i otac me je na nju podsetio. Skrenuo mi je pažnju da nije sve tako kao što se priča i zavetovao me da ne budem prestrog prema Srbima.

* Šta ste otkrili na terenu?

- Sa srpskim oficirima sam pregovarao o ulasku francuskih trupa. Doček je, naravno, bio veoma hladan, ali uljudan. Rekao sam da ne dolazim kao neprijatelj, već kao vojnik koji obavlja svoju dužnost. Veoma brzo sam na terenu otkrio da su Srbi profesionalni i da drže reč, a da Albanci stalno pokušavaju samo jedno, da izvrdaju dogovoreno.

* Kako se ponašala OVK?

- Otimali su imovinu, praznili čitave gradove za jednu noć, kao u Vučitrnu. Ubijali su, na veliko i malo. Nadam se da će uskoro njihove vođe odgovarati pred pravdom. Otkrili smo, tako, listu s naredbama za likvidiracije Srba i nelojalnih Albanaca s pečatom OVK. Predali smo ova dokumenta pretpostavljenima, ali više nikada ništa nismo čuli o tome. To što je OVK bila privilegovani sagovornik EU predstavlja iskrivljavanje istorije, kršenje međunarodnog prava i vraćanje unazad civilizovanog sveta.

* Vi ste lično nacrtali novu kartu u ovom delu Balkana?

- Kada smo stigli u Kosovsku Mitrovicu, postojao je veliki i opravdani rizik od sukoba. Tenzija je bila velika, a situacija hitna. Moj zadatak je bio da razdvojim suprotstavljene strane i podela rekom Ibar mi se činila kao najispravnije rešenje. Odlučio sam da dve zajednice razdvojim na mostu.

* Da li vam je neko to sugerisao? 

- Nije! Odluku sam doneo sam, na osnovu procene. Nekada se neke stvari na terenu mnogo lakše odvijaju, nego što se misli.

* Pisali ste izveštaje koji se nisu mnogo sviđali vašim pretpostavljenima?

- Iznosio sam samo istinu. Nikada zbog toga nisam imao probleme, ali sam shvatio da je to što sam govorio išlo protiv zvanične francuske politike. Brzo sam postao svestan da je moj glavni posao postao da čuvam ljudske živote. Francuska vojska je profesionalna, s visokim moralnim vrednostima. Na vojnim školama učimo da se ne igramo životima civila. Kad oni koji sebe smatraju vojnicima, napadaju bespomoćnu monahinju, kao što je to radio OVK, šta vam preostaje drugo nego da je zaštitite i sukobite se s napadačima? To smo i radili, od početka.

* Imate li utisak da ste možda, skrećući od zvanične politike, na neki način odbili poslušnost u uniformi?

- Nekada je i to bolje, da bi se sačuvala čast. Ali, nisam stekao utisak da sam odbio poslušnost, i niko mi to nije zamerio. Ispunjavao sam obavezu francuskog vojnika.

* U jednom trenutku ste vratili srpsku vojsku iz povlačenja...

- Pripadnici OVK su napravili zasedu i napali konvoj srpskih izbeglica, uglavnom staraca, žena i dece, koji su se povlačili u dvesta traktora. Ovaj težak incident dogodio se uz podršku Britanaca. Albancima su, inače, pomagale strane obaveštajne službe, u prvom redu američka, nemačka i britanska. Sedma pešadijska brigada pukovnika Serkovića je bila u blizini, povlačila se u severnu Srbiju. Uradio sam ono što je bilo neophodno. Pozvao sam ih i dozvolio sam im da se vrate i da zaustave agresora. I, to su i uradili.

* Kažete da su sve vaše kolege po uniformi, Francuzi, na Kosovu manje-više stekli sličan utisak. Otkud takav odnos prema Srbima?

- Nije to samo slučaj s vojnicima. Mnogi Francuzi podržavaju Srbe, u svim slojevima društva, bez obzira na političke boje. Postoje zajedničke osnovne crte naših dvaju naroda. Kalili smo se u teškoćama, imamo istu žeđ za pravednošću i pružanjem otpora, držimo datu reč, dajemo celog sebe u onome što radimo, poštujemo porodicu i prijatelje. Te osobine su duboko ukorenjene i kod Srba i kod Francuza. Tu je i jak osećaj identiteta koji se, u Francuskoj, nažalost, u poslednje vreme polako gubi. Srbija bi zato trebalo da bude primer Francuskoj. Sačuvali ste naciju, kulturu, tradiciju, prirodu, religiju. Mi smo zaraženi mondijalizmom. Srbija danas podseća na zemlju Asteriksa i Obeliksa. Vi ste sada nesalomivi Gali Evrope!

* Kako, onda, pored svega, objašnjavate zvaničnu francusku politiku prema Srbiji tih godina?

- Za sve koji su se razvodnili u mondijalizmu negovanje identiteta deluje agresivno. A nije tako. Naprotiv, nikada nisam naišao na tako topao prijem kao u Srbiji. Uvek razdvajam legalnu državu od realne. Francuske vlasti su, slepo prateći politiku NATO, odabrale svoju stranu. To je bio OVK. Francuzi su zaboravili istoriju i svojom knjigom pokušavam da ih na to podsetim. Mnogi su smetnuli s uma da je Srbija bila sestra Francuske, kako su je u ono vreme zvali.

* Odakle razlozi za takve dezinformacije? 

- SAD su imale interes da oslabe i razbiju Jugoslaviju, a samim tim i Srbiju, koja je prirodna podrška Rusiji u regionu. Uništavanjem Jugoslavije približavaju se Rusiji. I, to se danas vidi u Ukrajini. Tradicionalni interes su imali i Nemci. Postoje i drugi strateški razlozi na veoma važnom području kao što je Balkan, a među političkim motivima je i zabadanje trna Evropskoj uniji, stvaranjem mikrodržava. Na kraju, postojali su i lični interesi. Madlen Olbrajt i Vesli Klark su danas akcionari velikih preduzeća na Kosovu. A Francuska se svemu tome mirno priklonila kroz politiku NATO.

* Kuda ide Evropa?

- Evrope danas nema. Izgubila je osećaj za realnost. EU ne poštuje suverenitet država. Evro je značajno smanjio kupovnu moć. Sistem u Briselu je potpuno nedemokratski. Mala ekipa ljudi bez legitimiteta odlučuje o svemu, i svima nameće svoje zakone. Onda određuje dobre i loše đake.

* Kako će se sve ovo završiti?

- Veoma sam zabrinut za situaciju u svetu. Uvek mislimo da više neće biti rata, ali se ispostavi da onaj prethodni nije bio i poslednji... Bosna i Kosovo su bili tačna slika onoga što će nam se kasnije dešavati, s istim načinom delovanja, i istim protagonistima. 

* Šta će biti s Kosovom?

- Samo neće moći da opstane. Ili će se vratiti Srbiji, ili će se pridružiti „velikoj Albaniji“, onakvoj kakvu smo videli na karti tokom nedavne fudbalske utakmice u Beogradu. Ali, takva Albanija bi bila efemerna. Nezavisno od bilo koje dnevne politike, Srbi se nikada neće pomiriti sa trajnim gubitkom svoje istorijske, kulturne i duhovne kolevke. Ako negde imate većinsku populaciju, ne znači da je to vaša zemlja. Cela istorija Kosova i Metohije uklesana je u njegovom kamenu. To bi bilo kao kada bi i Sen Deni, s nekropolom francuskih kraljeva, postao nezavisan zbog velikog broja muslimana koji tamo žive, pa da nas još zbog toga i bombarduju. 


NAPUSTIO VOJSKU ZBOG KOSOVA

ŽAK Ogar je vojsku napustio još dvehiljadite, zbog - Kosova.

- Mnogo me je povredilo to što smo bili na pogrešnoj strani - kaže Ogar.

Sada je na čelu dva preduzeća, koja se bave konsaltingom za ulaganja u inostranstvu i bezbednošću.


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NABOLjE 
* KAKVI su danas francusko-srpski odnosi? 
- Situacija se menja nabolje. Štampa sve više piše pozitivno o Srbiji. I moja knjiga je odlično primljena. Šesta je po broju prodatih političkih izdanja. Niko u to nije verovao kada smo je štampali. To govori da se stvari popravljaju.

PADEŽI 
OGAR sada često putuje u Srbiju.
- Veoma mi je lepo u Beogradu. Ostavljam svoj stres na Aerodromu „Nikola Tesla“ i ponovo ga preuzimam kad se vraćam - kaže i ističe da trenutno uči srpski, ali i priznaje da veoma teško izlazi na kraj s padežima.


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Kosovo: Natale ortodosso, raid antiserbo

Sassaiola contro autobus di fedeli di fronte a chiesa Djakovica

(ANSA) - DJAKOVICA, 6 GEN - Un bus con circa 40 sfollati serbi del Kosovo, giunti a Djakovica nel giorno della vigilia del Natale ortodosso, è stato attaccato a sassate da un gruppo di albanesi di fronte alla Chiesa della Santissima Madre di Dio.
    "L'autista del bus ha riportato ferite non gravi", ha detto Djokica Stanojevic, presidente dell'associazione dei profughi espulsi da Djakovica nel 1999. Stanojevic ha ricordato che non è la prima aggressione del genere e ha esortato la comunità internazionale a reagire.

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SKANDAL: Albanci kamenovali autobus sa Srbima koji su krenuli u crkvu na proslavu Božića!

Objavljeno: 6. januar 2015.

Nismo uspeli ni ove godine da zapalimo badnjak u gradu odakle smo proterani. Na samom ulazu u crkvu dočekala nas je grupa okupljenih Albanaca koji su kamenicama zasuli autobus, ispričao je predsednik Udruženja raseljenih iz Đakovice Đokica Stanojević

Autobus u kome je bilo oko 40 raseljenih Srba iz Đakovice kamenovali su Albanci u ovom gradu ispred crkve Uspenje presvete Bogorodice.

– Tom prilikom vozač autobusa zadobio je lakše povrede, rekao je predsednik Udruženja raseljenih iz Đakovice Đokica Stanojević. On je dodao da se incident dogodio i pored policijske pratnje koju su Srbi imali.

– Nismo uspeli ni ove godine da zapalimo badnjak u gradu odakle smo proterani.Na samom ulazu u crkvu dočekala nas je grupa okupljenih Albanaca koji su kamenicama zasuli autobus, precizorao je on.

Stanojević je rekao da je tom prilikom polomljeno prednje staklo autobusa i da je vozač zadobio manje posekotine.

“Vratili smo se nazad ne uspevši da unesemo badnjak u crkvu“, dodao je on.

Stanojević je najoštrije osudio ovaj incident, podsetivši da ovo nije prvi put i da se slično dogodilo i pre godinu dana i ranije. On je zatražio hitnu osudu i reakciju međunarodne zajednice kako bi se raseljenim Srbima iz Đakovice omogućilo jedno od osnovnih ljudskih prava – pravo na život, povratak, slobodu kretanja ipravo na veroispovest.

Ministar za rad, zapošljavanje, boračka i socijalna pitanja Aleksandar Vulin  je sa kosovskim ministrom za povratak i zajednice Aleksandrom Jablanovićem proveo badnje veče u manastiru Svetih vrača Kozme i Damjana u Zočištu, kod Orahovca na Kosovu i Metohiji.

Vulin je podsetio da treću godinu za redom Srbi ne mogu uđu u Ðakovicu da se pomole i to oni Srbi koji su rođeni u tom gradu iako bi to, kako je ocenio, moralo da bude univerzalno ljudsko pravo.

– Ne možemo govoriti o srećnom prazniku kada ne može svako da dođe u svoju crkvu i da se na praznik pomoli i ništa više. Opet, evo treća godina za redom, da nam se radost badnje večeri kvari Ðakovicom, da nam se radost badnje večeri kvari kamenovanjem, rekao je Vulin.

– Međunarodna zajednica ima obavezu da to uradi i tražim od međunarodne zajednice da to uradi, rekao je Vulin istakavši da incident u Ðakovici neće pomoći dijalog Beograda i Prištine.

– Ovo što se dogodilo danas u Ðakovici otežaće položaj pregovaračima u Briselu u februaru, ovo konstantno ponavljanje nasilja će otežati položaj pregovraračima i otežaće sam proces, zaključio je Vulin.

(Dnevne.rs /Telegraf.rs/Kurir.rs/Tanjug)


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Kosovo, a Pristina è guerriglia urbana

Scritto da: Sarah Camilla Rege  3 febbraio 2015

Da giorni ormai per le vie di Pristina è scoppiata una protesta che molti giornali locali stanno già considerando la più violenta da quando il Kosovo ha dichiarato la propria indipendenza dalla Serbia, nel 2008. La manifestazione, inizialmente pacifica, si è poi trasformata in guerriglia urbana: da una parte la polizia in assetto antisommossa che respinge i dimostranti con gas lacrimogeni, spray al peperoncino e violenti getti d’acqua, dall’altra i dimostranti, una parte dei quali, pur di raggiungere il palazzo del governo, non ha esitato a lanciare pietre e bombe molotov. Negli scontri sono rimasti feriti circa 100 poliziotti e più di 60 dimostranti, mentre sono state ben 120 le persone arrestate, fra cui anche il sindaco di Pristina Shpend Ahmeti.
La manifestazione è stata organizzata dai partiti di opposizione, fra cui il Movimento per l’Auto-determinazione (Vetevendosje) e l’Alleanza per il Futuro del Kosovo (AAK), come reazione ad una dichiarazione del Ministro delle Comunità e dei Ritorni Aleksander Jablanovic. Questi è accusato di aver offeso i kosovari-albanesi, chiamando “selvaggi” un gruppo di questi che avevano bloccato un pellegrinaggio di alcuni kosovari-serbi per il Natale ortodosso. In Kosovo convivono due popolazioni: la maggioranza di origine albanese e una forte minoranza di origine serba, concentrata per lo più nei comuni confinanti con la Serbia. Fin dagli anni ’90 i rapporti sono stati tesi e violenti, peggiorando ulteriormente con l’indipendenza dalla Serbia del Paese. Le provocazioni di una popolazione contro l’altra sono all’ordine del giorno e, nonostante i tentativi di normalizzare la vita quotidiana anche attraverso il dialogo con la Serbia, la tensione non accenna a calare.
Da una parte i kosovari-serbi si sentono discriminati e minacciati e chiedono per questo assistenza e protezione dalla Serbia, dall’altra i kosovari-albanesi vedono nelle strutture parastatali kosovare-serbe una minaccia alla sovranità statale del Kosovo. Il cammino per l’integrazione e la convivenza pacifica è ancora molto lungo e i ricordi delle violenze precedenti l’indipendenza ancora troppo freschi. Sono pochi i kosovari di origine serba che partecipano alla vita politica del Paese e Jablanovic è uno di quelli che, alle elezioni di giugno 2014, è riuscito ad entrare in Parlamento. Per questo, se il Primo Ministro kosovaro Isa Mustafa accettasse le dimissioni del Ministro per le Comunità e i Ritorni, potrebbe andare incontro a dure critiche da parte della minoranza e della Serbia, complicando ulteriormente la situazione.
In una dichiarazione il Primo Ministro Mustafa ha invece accusato l’opposizione di strumentalizzare le proteste per prendere il potere con la forza o per costringere i parlamentari della Lista Serba a dimettersi: in tal caso, secondo le norme del Paese, i posti vacanti sarebbero occupati dalle “riserve”, ovvero proprio da candidati dell’opposizione. Nel frattempo, Jablanovic si è scusato con la popolazione affermando di essere stato frainteso dai media. Dichiarazione che come effetto ha tutt’altro che calmato i dimostranti. Albin Kurti e Ramush Haradinaj, due leader dell’opposizione, hanno dichiarato ieri che le proteste continueranno finché Jablanovic non si dimetterà e finché la miniera di Trepca non sarà sotto totale controllo kosovaro.
Eppure, tutto quello detto finora non è altro che la miccia, non la vera causa. Quello che davvero ha portato migliaia di persone a dimostrare per le vie di Pristina è la grave crisi economica, la disoccupazione alle stelle e la mancanza di un futuro per le nuove generazioni. Appena la settimana prima la Presidente del Paese, Atifete Jahjaga, in visita istituzionale a Roma, aveva affermato la necessità di sicurezza economica per i propri cittadini. Sarebbe, inoltre, necessaria una classe politica matura, capace di attuare le riforme necessarie invece di agire “di pancia” solo per conquistare nuovi voti. Senza considerare che le continue proteste potrebbero danneggiare seriamente il fragile dialogo fra Pristina e Belgrado, dialogo più che mai necessario per normalizzare i rapporti e chiudere finalmente con il passato per dedicarsi ai progetti futuri. Nel frattempo l’Unione Europea si dice “preoccupata per le violenze, simbolo di frustrazione”, sentimento che spinge molti ad emigrare o, nei peggiori dei casi, a diventare vittime di traffico di esseri umani.


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ОДЛУЧНО „НЕ“ ВОЈСЦИ КОСОВА

Проф. Др Радован Радиновић, генерал у пензији

Војска је атрибут државе

Питање формирања Војске Косова се на мала врата уводи у нашу све невеселију политичку свакодневницу. Једном о томе говоре представници привремених институција у Приштини, други пут то чине лобисти са Запада који заступају интересе Албанаца, а понеки пут то чине и докони домаћи аналитичари, тек толико да се досоли и да чорба буде гушћа. Свима на српској страни који брину о српским државним и националним интересима то је свакако још један додатни разлог за озбиљну бригу и томе се свакако мора стати на пут. Ево неколико разлога у том смислу:

1. Војска је без сумње један од битних атрибута државе и државности. Ако би се остварила претња Запада и свих промотера косовске независности да ће у догледно време то питање доћи на дневни ред тзв. нормализација односа Приштине и Београда, односно да ће Косово, силом наметнути политички ентитет добити своју војску, то би практично значило да је тај ентитет израстао у независну државу. Јер, војска је по дефиницији институт државе који штити њен суверенитет и територијалну целовитост. Пристанак Србије, или непротивљење Србије успостављању Војске Косова, било би фактичко признање независности Српске јужне покрајине и свака даља прича о статусу тог дела Србије била би безпредметна.

2. На Балкану, па и шире, а посебно у Србији, ево већ деценију и по, ништа се не дешава што не би било по вољи Вашингтона, а тиме и Брисела као вашингтонског поданика. Ако Вашингтон то буде хтео, а знам да хоће, Брисел, као његов вазал, то свакако неће спречити. Утолико пре, што Немачка, као најутицајнија чланица снажно подржава независност и признање Косова као нове државе. Како сада ствари изгледају, бојим се, да ни у српској тзв. политичкој елити није мали број оних који то не би желели да спрече. Упркос свему, суштински је битно да Србија покаже одлучност да то спречи. Када то кажемо мислимо на ону Србију коју представља актуелна власт. На тај начин она исказује своје противљење успостављању Косова као независне државе. И што је не мање важно, на тај начин Србија пред центрима моћи савременог света, пре свих оних на Западу, са своје стране ставља тачку на сваку даљу причу о прекомпоновању њеног етничког простора, било путем јачања већ постојећих аутономија, било путем наметања нових, а тога има на претек.

3. Да се одлучно супротстави формирању Војске Косова Србија има снажна упоришта у свим релевантним међународним документима која регулишу статус Косова и Метохије у склопу међународног правног поретка и правног поретка Србије. Ни у једном од тих докумената – Кумановски споразум, Резолуција СБ УН 1244 (1999) на основу које се Косово и Метохија ставља под привремену управу УН, а ни у било ком другом документу након ове резолуције нема одредбе на основу које се легално и легитимно могу формирати оружане снаге, односно Војска Косова. Напротив, та документа су се обавезала да преко КФОР-а као наменских снага УН за Косово и Метохију у улози чувара мира разоружају и расформирају ОВК, што они, наравно, нису, из њима и нама знаних разлога учинили. Уместо разоружања и распуштања ОВК, КФОР (читај НАТО и САД) су ОВК преименовали у Косовски Заштитни Корпус, а потом у Безбедносне Снаге, да би до формирања Војске Косова остао само један мали корак. Но, корак који се без пристанка Србије неће нити се може достићи. Ништа не мења на ствари што те постојеће снаге Косовске Безбедности имају нека обележја војске као што су оклопни транспортери, хеликоптери и сл., те да могу имати и више од тога, али све док се на међународном нивоу не прихвати да то буде војска посебне државе она то и неће бити. А управо од Србије зависи и зато Србија мора то да одбије, јер тако ставља до знања и свету и себи да би то био још један акт окупатора на отетом делу наше државне територије.

Како Србија у том случају треба да поступи:

1. Да на свим нивоима где се води међународни дијалог: ОУН, СБ, ЕУ, Партнерство за мир, разни регионални скупови итд., Србија мора изразити своје снажно противљење. Не сме се догодити, као што је то био случај са пријемом Косова у МОК када су представници нашег ОК и сви за то одговорни државни органи, остали неми, наводно из алтруистичких спортских мотива како се не би омогућило спортистима да се такмиче. Јер, боже мој, спорт треба одвојити од политике и препустити их спортистима. А пријем Косова у МОК, без претходног пријема у УН, није ништа друго до политичко питање, јер је било много других начина да се спортистима Косова омогуће такмичења али не као представницима самосталне државе. Уосталом, међународне спортске институције у том погледу имају богата искуства. Управо су им то омогућили наши вајни спортски функионери, чија је дужност била да бране државне и националне интересе Србије, а не наводне спортске, а у суштини политичке интересе албанских спортиска на КиМ.

2. Немамо илузија да ће промотери косовске независности уважити противљење Србије да Косово добије своју војску, нити да Србија има моћи да то физички спречи, али она мора својим противљењем нагласити да би то било још једно у низу насиља које се Србији сервирају дуже од две деценије. То противљење мора бити тако снажно да се запрети напуштањем Бриселских преговора о нормализацији односа Београда и Приштине (а то је само еуфемизам за нормализацију односа Србије и Косова, односно за онај свеобухватни споразум који нам упорно сервирају бројни представници Немачке који нам стижу у походе из дана у дан). Ако је то услов за приступање Србије ЕУ, онда Србија без премишљања мора иступити из тих преговора. Јер, по нашем становишту држава је важнија од чланства у било којој међународној организацији и асоцијацији, па макар се она звала ЕУ.

3. Ако до формирања Војске Косова дође Србија мора бити свесна да би добила једног од заклетих и дуготрајних непријатеља који ће стално тражити начине и могућности да угрозе државне интересе Србије. А након евентуалног формирања војске те могућности би могле бити колосалне. Илустрација ради, на најужем делу државне територије, по оси исток-запад, на правцу Софија-Приштина, Србија је широка свега 50-так км, а то је мање од дубине замаха једне офанзивне операције корпуса копнене војске. Дакле, на том делу своје територије Србија би била геостратешки толико рањива да би у веома кратком времену могла бити пресечена и одсечени делови југа Србије од остатка Србије на северу.

4. Формирањем Војске Косова Србија у свом „меком трбуху“, а то је део Рашке области и подкопаонички део добија потенцијалног непријатеља који би везом са све милитантнијим екстремистима у Новом Пазару и шире, представљао озбиљну сметњу и претњу угрожавању стабилности Србије и њеног суверенитета, чиме би тзв. „зелена трансверзала“ од мита постала сасвим реална чињеница. Стим у вези, Србија би морала много одлучније него што је то до сада радила стабилизовати безбедносно, социјално и политичко стање у Рашкој области и спречити све отвореније, па и дрскије парадирање униформисаних паравојски које Србију нити желе нити јој чине никакво добро.

5. Формирање Војсе Косова би пројекат „Велика Албанија“ актуелизовало до крајњих граница и довело до готовог извршења, а нелојалност албанског живља на југу Србије према држави чији су држављани, која ни до сада није била бог зна каква, заоштрили до крајности, са могућношћу нових побуна ради издвајања из Србије и припајања Косову.

6. Прихватање формирања Војске Косова, без обзира на било каква друга уверавања, реметило би какву такву равнотежу у подрегиону, поготову имајући у виду чињеницу да је практично избрисана граница према Албанији. Са сигурношћу се може предвидети да би то био увод у ново гомилање оружја и војне технике на безбедносно нестабилном подручју, као и увод у оружане провокације у зони безбедности. Никакве и ничије гаранције и уверавања да до тога неће доћи не би имале вредност.

Све што је до сада речено императивно наметаће потребу редефинисања стратешке концепције обране и озбиљне промене у стратегијском груписању и оперативном развоју Војске Србије, али то је дуга и далеко озбиљнија прича од ове коју сада и овде можемо испричати.

Да ли је државно руководство свесно свега овога?

Проф.др Радован Радиновић
генерал у пензији




(slovenscina / italiano)


INIZIATIVE SUL "GIORNO DEL RICORDO"


* Trieste, 5/2: “La più complessa vicenda del confine orientale” / “Najbolj zapletena zadeva na vzhodni meji”
* Bassano (VI), 6/2: Foibe. Storia Mito Memoria 
* Torino, 7/2: Confini orientali: fascismo, foibe, esodo
* Torino, 8/2: 3° Presidio Antifascista per la Pace e la verità storica
* Bologna, 10/2: E allora... le foibe ?!
* Parma, 10/2: Foibe e fascismo - X edizione
* Arezzo, 10/2: Foibe, io ricordo... tutto!!


=== Trieste, febbraio 2015
alle ore 18.00 in via Tarabochia 3

Convegno-dibattito sul tema:

il Giorno del Ricordo
“la più complessa vicenda del confine orientale”

Relatori:

Vincenzo CERCEO:
L’amministrazione del Comune di Trieste nei 42 giorni

Claudia CERNIGOI:
la Foiba di Basovizza, tra vicende processuali e creazione della storia di regime

Sandi VOLK:
Chi e perché viene ricordato, analisi delle “medaglie del ricordo”


 Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra europea Federazione provinciale di Trieste
 Partito Comunista d’Italia Federazione di Trieste


--- Trst, Dne 5. februarja 2015,
ob 18.uri v Ul. Tarabochia 3

SKUPŠČINA Z RAZPRAVO ntemo:

Dan Spomina
“Najbolj zapletena zadeva na vzhodni meji”

Posegi:

Vincenzo CERCEO:
Uprava Občine Trst v 0s0h 42 dneh

Claudia CERNIGOI: 
Bazovski šoht med sodnimi obravnavami in ustvarjanjem režimske zgodovine

Sandi VOLK:
Koga se spominjajo in zakaj, analiza “spominskih medalj”

STRANKA KOMUNISTIČNE PRENOVE-EVROPSKA LEVICA pokrajinska federacija Trst "
Komunistična Stranka Italije - Tržaška federacija



=== Bassano del Grappa (VI), venerdì 6 febbraio 2015
alle ore 20.30 presso la Sala Bellavitis, via Beata Giovanna 65

FOIBE / Storia Mito Memoria 

INCONTRO CON LO STORICO SANDI VOLK

Negli ultimi anni in Italia si è sollevato un acceso dibattito pubblico attorno alla costruzione di una verità ufficiale sulla questione delle Foibe. In questo contesto stereotipi consolidati ed interessi politici contingenti hanno invaso il terreno della ricerca storica. Grazie al contributo di Sandi Volk, attraverso un esercizio di rigorosa contestualizzazione storica, ci proponiamo di individuare e discutere quelli che appaiono elementi di mistificazione, falsificazione e propaganda.



=== Torino, sabato 7 febbraio 2015
alle ore 9:30 presso il Museo Diffuso della Resistenza, Corso Valdocco 4a

A.N.P.I. - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia
Comitato Provinciale di Torino
Ente Morale dal 1945

Incontro pubblico sui

Confini orientali: fascismo, foibe, esodo

Sabato 7 Febbraio 2015
h 9.30-12.30

Museo Diffuso della Resistenza 
Torino, corso Valdocco 4/a

Intervengono:

Claudia Cernigoi, ricercatrice storica e giornalista

Eric Gobetti, storico e ricercatore

Introduce: Ezio Montalenti, Presidente ANPI Provinciale di Torino

Coordina: Fulvio Gambotto, responsabile Commissione Formazione ANPI Provinciale di Torino 

Per l'occasione è esposta una mostra documentaria dal titolo "Fascismo, foibe, esodo" curata dalla Fondazione Memoria della Deportazione.

Per info: www.anpitorino.it



=== Torino, domenica 8 febbraio 2015

ore 14.30-17.00 in piazza Nazario Sauro

A.N.P.I. - Associazione Nazionale Partigiani d'Italia
Ente Morale dal 1945
ANPI Provinciale di Torino

3° Presidio Antifascista per la Pace e la verità storica

Difendiamo la memoria contro tutti i neofascismi

Concerto acustico degli EGIN

Vin brulè
Esposizione mostra "Testa per dente" curata da Pol Vice
Esposizione mostra "Fascismo, foibe, esodo" curata dalla Fondazione Memoria della Deportazione
Interventi e letture
Testimonianze della Resistenza Italiana e Jugoslava

Per info: www.anpi.it



=== Bologna, 10 febbraio 2015

alle ore 15:30 presso la Facoltà di Economia, Aula 3
Piazza Scaravilli

E ALLORA... LE FOIBE ?!
Revisionismo di Stato e bombardamento mediatico

Conferenza-dibattito con

CLAUDIA CERNIGOI 
giornalista e ricercatrice storica

ANGELO D'ORSI
storico, Università di Torino 

FEDERICO TENCA MONTINI
autore del libro "Fenomenologia di un martirologio mediatico"

Promuovono
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS
Campagna Noi Restiamo Bologna
Partito Comunista d'Italia 
Rete Dei Comunisti Bologna
Ass. Il Manifesto in Rete 
Sinistra Classe Rivoluzione 
Sempre in Lotta 

per contatti: jugocoord(a)tiscali.it

Scarica la locandina: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/volantini/bologna100215.jpg


=== Parma, Martedì 10 febbraio 2015

alle ore 20.45 presso il Cinema Astra

Foibe e fascismo - X edizione

Evento organizzato da ANPI-ANPPIA-Comitato Antifascista e Antimperialista per la Memoria storica di Parma.

20:45 - Al violino CRTOMIR SISKOVIC.
21:00 . Conferenza "Resistenza, revisionismo, rovescismo" con ANGELO D'ORSI (storico dell'Università di Torino).
21:30 - Film "Pokret!" (regia di G. Callisti - ANPI Viterbo videointervista a italiani partigiani in Jugoslavia).
22:00 - Conferenza "Foibe fra storia e mito" con CLAUDIA CERNIGOI (giornalista e ricercatrice storica).
22:45 - All'arpa SIMONA MALLOZZI.

Ingresso gratuito



=== Arezzo, martedì 10 febbraio 2015
alle ore 21:00 presso il Centro giovani “Onda d'urto”, via F. Redi

FOIBE
IO RICORDO...TUTTO!!

La verità contro il revisionismo storico

ne parliamo con:
Davide Conti
(storico e autore di “Occupazione italiana dei Balcani”)

Presentazione della mostra
“Testa per dente”

A seguire serata punkrock con
Na Juris

promuovono: 
Coordinamento Antifascista Antirazzista Toscano - Arezzo
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS








L'INNOCENTE


Ha detto Sergio Mattarella ...

... nel corso della Informativa urgente alla Camera sulla partecipazione dell'Italia alla aggressione armata contro la Repubblica federale di Jugoslavia, 24 marzo 1999:
<< Sappiamo tutti che l'ONU (...) non ha espressamente autorizzato un intervento armato in Kosovo. È anche a tutti nota la ragione per cui ciò non avviene: la ferma opposizione dei paesi con diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. Come è noto, l'Italia si batte da anni per una riforma del Consiglio di sicurezza che lo renda più democratico e rappresentativo, ponendo le premesse per un superamento del diritto di veto... >>

[In merito si veda anche la polemica in Commissioni riunite, 18 marzo 2003:

... in risposta a una interrogazione parlamentare, 27 settembre del 2000:
<< ... a Sarajevo ... non vi è mai stato uso di uranio impoverito >>

[In merito si vedano ad esempio:
Depleted Uranium Contaminates Bosnia-Herzegovina (ENS, March 25, 2003)
Depleted uranium in Bosnia's water (Apr 30, 2003)
Depleted Uranium in Bosnia and Herzegovina:Post-Conflict Environmental Assessment (UNEP, March 2003)

... intervistato dal Corriere della Sera, 5 giugno 1999:
<< La fine della guerra poteva essere raggiunta solo puntando su una pace giusta... Non vogliamo l' indipendenza di quella regione, ne' cambiare l' assetto territoriale della Jugoslavia. >>

[In merito si veda la dichiarazione alla stampa di Massimo D'Alema, che nel febbraio 2008 annuncia il riconoscimento dello "Stato" del Kosovo da parte dell'Italia:

... esprimendosi in merito al colpo di Stato dei nazionalisti serbi contro il governo delle sinistre, Ottobre 2000:
<< Scompare, nel nostro continente, l'ultimo regime fondato su una visione nazionalistica ed espansionistica a discriminante etnica e su principi ed ideologie ereditati dal totalitarismo' >>

[In merito alla discriminante etnica, si veda il nostro 


Su Mattarella e i bombardamenti anticostituzionali contro la Jugoslavia si vedano anche:

La composizione del governo D'Alema I (21 ottobre 1998)

Conferenza stampa di Solana e Clark, a Bruxelles (25 marzo 1999)
... Anche il vicepresidente del Consiglio italiano Sergio Mattarella, intervendo brevemente, questa mattina, al Senato, ha confermato che la Nato va avanti ...

In risposta alle contestazioni di Ramon Mantovani in Commissione Difesa (5 luglio 2000)




Campi di concentramento per zingari

1) Tra Auschwitz e Agnone, l’eredità del Porrajmos (di  E. Martini, su Il Manifesto del 25.1.2015)
2) Rita e gli esperimenti nazisti sui bimbi Rom (di S. Pasta, su Il Corriere - Città Nuova del 28.1.2015)


LEGGI ANCHE:

Alcuni campi di concentramento per zingari, incluso quello di Agnone (CB), sono elencati alla nostra pagina sull'internamento degli jugoslavi:

Per ulteriori approfondimenti si vedano anche gli articoli
Paola Cecchi: Sui Rom morti durante la II Guerra Mondiale
Elena Romanello: Ricordata per la prima volta (2010) la rivolta degli zingari nei lager
Tatiana Sirbu: The Deportation of Roma to Transnistria
Giovanna Boursier: La persecuzione degli zingari da parte del Fascismo
alla nostra pagina dedicata: 

I VIDEO:

Sinti survivor Karl Stojka on his arrival in Auschwitz-Birkenau (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO / DEUTSCH) 
Sinti survivor Karl Stojka describes his arrival in Auschwitz-Birkenau in 1943...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=zWYg5Uk0VHk

Piero Terracina on the Zigeunerlager (Gypsy camp) in Auschwitz-Birkenau (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO)
Holocaust survivor Piero Terracina talks about the Gypsy family camp known as the Zigeunerlager (Gypsy camp) in Auschwitz-Birkenau and describes the night of the camp liquidation...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=f_poSK-a8hs

Roma survivor Tulo Reinhart on deportations of Roma in Italy during WWII (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO)
Roma survivor Tulo Reinhart talks about deportations of Roma in Italy during WWII...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=L0Us9oSjtEI


=== 1 ===

http://ilmanifesto.info/tra-auschwitz-e-agnone-leredita-del-purrajmos/

REPORTAGE

Tra Auschwitz e Agnone, l’eredità del Porrajmos

di  Eleonora Martini,  25.1.2015

Giornata della memoria. La «Devastazione» di Rom e Sinti in Germania e in Italia. Una storia quasi sconosciuta a causa dei pregiudizi italiani e per il ritardo con il quale Berlino ha riconosciuto lo sterminio razziale

Per tutta la vita Glazo si è sfor­zato di imma­gi­nare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desi­de­rio di andare a vedere Ausch­witz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata ster­mi­nata parte della mia fami­glia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accon­tenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bic­chiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più gio­vane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viag­gio della memo­ria, orga­niz­zato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 stu­denti e inse­gnanti imbar­cati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno rico­no­sciuto il nome di qual­che parente, nel lungo elenco espo­sto nel Blocco 13 del primo Campo.

In fuga perenne

Fu suo zio a sopran­no­mi­narlo Glazo, «da glas, bic­chiere, per­ché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle per­sone il nome delle cose che li cir­con­dano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Gal­liano, classe 1949, di Prato ma mila­nese di nascita, per sal­varsi la vita hanno dovuto pren­dersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liu­taio Nello Leh­mann, sce­gliendo il nome di un vio­lino di ori­gine napo­le­tana e sfug­gendo così al Por­ra­j­mos, la «Deva­sta­zione», lo ster­mi­nio delle mino­ranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludo­vico Leh­mann, anch’egli liu­taio, all’inizio del ’900 lasciò Ber­lino con i suoi cin­que figli per sfug­gire alla repres­sione della poli­zia tede­sca. Discen­dente della nume­rosa fami­glia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 per­sone in tutta Ita­lia e alcune cen­ti­naia in giro per l’Europa», Paolo Gal­liano è cre­sciuto giro­vago tra arti­sti, arti­giani e musi­ci­sti, e si è sta­bi­liz­zato a Prato solo una tren­tina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascol­tato le sto­rie dei suoi parenti dai nomi tede­schi — anche Rosen­feld, Win­ter, Hof­f­mann — impri­gio­nati nei campi di con­cen­tra­mento per zin­gari di Agnone o di Bol­zano e poi spe­diti a Mathau­sen o diret­ta­mente ad Ausch­witz. «Non è tor­nato nes­suno, solo una volta ho cono­sciuto una cugina di mio padre che aveva sul brac­cio il numero degli inter­nati e mi rac­con­tava di aver visto tutta la sua fami­glia in fila verso i forni cre­ma­tori». La parente del signor Gal­liano è una dei rari testi­moni diretti del “geno­ci­dio degli zin­gari”, mira­co­lo­sa­mente scam­pata e libe­rata dai sovie­tici nel giorno di cui ricorre domani il set­tan­te­simo anniversario.

Lo ster­mi­nio

Una sto­ria quasi sco­no­sciuta, quella del Por­ra­j­mos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricer­ca­tore di Sto­ria presso l’Università di Chieti che ha accom­pa­gnato in viag­gio gli stu­denti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popo­la­zione pre­sente nei ter­ri­tori occu­pati dal Reich in quel periodo». E «non è un con­teg­gio pre­ciso per­ché all’inizio del 1942, prima dei campi di ster­mi­nio veri e pro­pri, come gli ebrei, gli zin­gari veni­vano fuci­lati sul posto, appena arre­stati». Solo «ad Ausch­witz sono morti in 23 mila e lo sap­piamo per­ché un pri­gio­niero riu­scì a sal­vare il libro mastro dove veni­vano anno­tati i nomi delle per­sone che vive­vano nello Zigeu­ner­la­ger di Bir­ke­nau prima della sua liqui­da­zione totale, che avvenne nella notte del 2 ago­sto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».

La «razza pericolosa»

Abo­mini com­messi in nome dell’«igiene raz­ziale» garan­tita in Ger­ma­nia dalle unità del Reich dirette dallo psi­chia­tra infan­tile Robert Rit­ter che, rac­conta ancora Bravi, «dedicò anni a stu­diare la peri­co­lo­sità sociale di que­ste popo­la­zioni, indi­vi­duata in una carat­te­ri­stica ere­di­ta­ria che era l’istinto al noma­di­smo e l’asocialità». Stesse tesi soste­nute in Ita­lia dall’antropologo Guido Lan­dra, i cui “studi” soste­ne­vano le leggi raz­ziali di Mus­so­lini. Tra il 1940 e il ’43 il regime fasci­sta emana l’ordine di arre­sto di tutti i Rom e Sinti ita­liani e non, e il loro tra­sfe­ri­mento in spe­ci­fici campi di con­cen­tra­mento. «Se non fosse arri­vato l’8 set­tem­bre quelle per­sone sareb­bero sicu­ra­mente tran­si­tate verso i campi di ster­mi­nio tede­schi, i col­le­ga­menti c’erano e i docu­menti pro­vano que­sta linea­rità — spiega Bravi — Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fasci­sti salta com­ple­ta­mente, rie­scono a fug­gire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di com­pe­tenza della Repub­blica sociale, ven­gono arre­stati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathau­sen». Qual­cuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai par­ti­giani, come dimo­strano le sto­rie del pie­mon­tese sinto Amil­care Debar o di Wal­ter Vampa Cat­ter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre cir­censi, gio­strai e tea­tranti tru­ci­dati dalle Ss tra i dieci mar­tiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza».

Una memo­ria taciuta

Eppure del Por­ra­j­mos restano poche tracce nella memo­ria col­let­tiva. Per­ché, fa notare Bravi, «la memo­ria ha biso­gno di un con­te­sto sociale dispo­sto ad ascol­tare». In Ger­ma­nia, «lo ster­mi­nio raz­ziale degli zin­gari è stato rico­no­sciuto solo negli anni ’90 e il primo memo­riale è stato inau­gu­rato alla pre­senza di Angela Mer­kel vicino al Rei­ch­stag di Ber­lino solo due anni fa». In Ita­lia invece «la per­ma­nenza dello ste­reo­tipo dei Rom come nomadi, e quindi come peri­co­losi, ali­menta la poli­tica dei campi che con­ti­nua a tenere que­ste per­sone distanti, ad esclu­derle, anche dai diritti di cit­ta­di­nanza. I pre­giu­dizi di oggi sono esat­ta­mente lineari con quelli di allora». Ecco per­ché anche la ricerca sto­rica è «par­tita in ritar­dis­simo»: «Da noi i docu­menti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, gra­zie al pro­getto Memors finan­ziato dall’Unione euro­pea che ha per­messo anche l’apertura del primo museo vir­tuale ita­liano sul tema, www​.por​ra​j​mos​.it».
Eppure, con­clude Bravi, «il rac­conto del geno­ci­dio dei Sinti e dei Rom c’è sem­pre stato all’interno delle comu­nità ma dif­fi­cil­mente viene ripor­tato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il per­ché di que­sta memo­ria taciuta, e lui mi rispose: “Per­ché non vogliamo che que­sta nostra sto­ria possa essere trat­tata come spaz­za­tura, come trat­tano noi”».


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http://lacittanuova.milano.corriere.it/2015/01/28/maria-rita-e-gli-esperimenti-nazisti-sui-bimbi-rom/

28/1/2015

Rita e gli esperimenti nazisti sui bimbi Rom

Questa è una delle foto più note della follia nazifascista nei lager.

[FOTO: http://lacittanuova.milano.corriere.it/files/2015/01/Maria-Bihari-500x346.jpg ] 

Scattata nel 1941, ritrae Maria Bihari, una «zigeunerin» (zingara) di cinque anni. Conosciamo il volto di Maria – Miezi il nome con cui la chiamavano in famiglia – grazie ai cataloghi del Centro di Ricerca di Igiene Razziale del Ministero della salute nazista. Non sappiamo come sia morta, se gasata e cremata, o vittima degli esperimenti eugenetici.

Anche di Rita Prigmore, una sinti tedesca di Würzburg, non conoscevamo la storia.. La sua vita cambiò improvvisamente una sera qualsiasi mentre guidava in una stradina dello Stato di Washington. Un forte mal di testa, l’improvvisa perdita dei sensi, giusto il tempo di accendere le luci di emergenza e poi lo scontro con un palo della luce. All’ospedale i medici scrutarono le lastre, non capivano il motivo di quelle strane cicatrici sulle tempie. Rita chiamò sua madre in Germania e in un paio di giorni l’anziana donna arrivò al suo fianco e le raccontò della sua dolorosa infanzia nelle mani dei medici nazisti.
«Vivevamo in Germania da 600 anni – racconta – ed eravamo ben inseriti nella società». I nonni costruivano cesti per i viticoltori, il padre suonava il violino in una banda musicale molto affermata, la madre Theresia di giorno lavorava in una fabbrica di dolci mentre la sera era cantante e ballerina in uno dei teatri più prestigiosi della città. Racconta:

«Mio zio Kurt, il fratello maggiore di mia madre, era militare e faceva parte della squadra di motociclisti a cui spesso era chiesto di scortare il Führer. Per le sue qualità di soldato avevano deciso di promuoverlo, fu proprio nel corso delle ricerche sulla sua storia familiare che scoprirono che i genitori erano zingari: fu subito richiamato a Würzburg e venne sterilizzato. Aveva appena 25 anni».

Poco dopo, per evitare la deportazione nei lager, anche Theresia accettò la sterilizzazione:

«All’ospedale universitario – racconta Rita – si resero conto che aspettava due gemelli, me e mia sorella». Per evitare l’aborto, la costrinsero a firmare che avrebbero messo a disposizione i suoi bambini ai mdici del Reich. «Mia sorella Rolanda ed io siamo nate il 3 marzo 1943 e ci presero immediatamente».

Erano momenti terribili per i rom e sinti nei territori controllati dai nazisti: con un telespresso del 9 aprile 1942, l’Ambasciata italiana a Berlino informava Roma che «con recente provvedimento, gli zingari residenti nel Reich sono stati parificati agli ebrei e quindi anche nei loro confronti varranno le leggi antisemite attualmente in vigore». A Würzburg operava l’équipe del dottor Heyde, seguace di Mengele, specializzato negli esperimenti sui gemelli e in seguito capo del programma di eutanasia di Stato.

Alle neonate volevano cambiare il colore degli occhi e farli diventare azzurri. Dopo vari giorni, la madre riuscì a convincere un’infermiera che le mostrò Rita con un grosso cerotto sulla testa.

«Quando insistette per vedere anche mia sorella – racconta – la portò in bagno e le indicò Rolanda, con la testa fasciata. Era morta, le avevano fatto delle iniezioni di inchiostro negli occhi».

Grazie alla complicità di quell’infermiera, riuscì a scappare con la piccola sopravvissuta: «Si nascose nella cappella di Santa Rita, dove fui battezzata. Due giorni dopo, a casa ci attendeva la Gestapo. Per oltre un anno, mia madre non seppe più niente di me, finché ricevette una lettera della Croce Rossa in cui si diceva che poteva venirmi a prendere».

Dopo la guerra, la famiglia tornò a vivere nelle baracche insieme ad altri tedeschi che non erano sinti o rom, semplicemente avevano perso la casa con la guerra. L’ostilità verso il suo popolo non era finita; Rita lo racconta parlando di Erica: «Aveva la mia stessa età, andavamo insieme a scuola. Un giorno vennero a trovarci dei parenti dalla Francia: la sera ci sedemmo attorno al fuoco a prendere il caffè. Parlammo nella nostra lingua, il romanes. Il giorno dopo mi sono accorta che la mia migliore amica non parlava più con me; le chiesi perché e mi disse: “I vostri ospiti erano zingari, abbiamo sentito la vostra lingua e i miei genitori mi hanno detto che non devo aver più niente a che fare con voi”».
Cresciuta, Rita si sposò e andò a vivere negli Stati Uniti. Anni dopo, da quell’incidente ha riscoperto la storia della sua famiglia e con la Comunità di Sant’Egidio ha iniziato a girare l’Europa per testimoniare il genocidio dei rom e sinti (chiamato Porrajmos o Samudaripen). Lo sguardo della donna, che ha conservato gli occhi color verde smeraldo, è sul presente: «Sono sconvolta quando noi rom e sinti veniamo insultati con le stesse parole di allora, capita di sentirsi dire: “Nel Terzo Reich hanno dimenticato di gasarvi”».

Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria, il giorno della liberazione di Auschwitz. Nel lager nazista, c’era lo Zigeunerlager, la sezione per famiglie zingare composta da 32 baracche circondate da filo elettrico. Dobbiamo soprattutto ad alcuni testimoni ebrei, come Piero Terracina, il racconto della sua liquidazione totale, avvenuta la notte del 2 agosto 1944, quando i violini non suonarono più e, dopo grida disperate, le camere a gas zittirono quella zona del campo. Quante furono le vittime? Le stime variano, di solito si afferma siano almeno 500mila. Probabilmente è una sottostima, ma risulta impossibile conteggiare individui non segnalati all’anagrafe e spesso uccisi per strada o nelle esecuzioni sommarie all’Est. Ma la difficoltà a stabilire il numero delle vittime testimonia anche l’oblio e il disinteresse: subito dopo la guerra, su questo genocidio calò il silenzio.

Per approfondire: Giving memory a future. Rom e sinti in Italia e nel mondo, realizzato dal Centro di Ricerca sulle Relazioni Interculturali dell’Università Cattolica di Milano e dall’Usc Shoah Foundation. Il progetto è stato presentato il 27 gennaio 2015 al Senato (Giornata della Memoria) e il 16 ottobre 2013 alla Camera dei Deputati (Memoria della deportazione degli ebrei di Roma).



(srpskohrvatski / italiano)


GIUSEPPINA E' MENDACE


Da commento sul blog di Wu Ming:

<< Qualche mese fa ero alla coop a fare la spesa, e mi cade l’occhio su un libro esposto su uno scaffale (alla coop sono intellettuali, quindi vendono anche i libri). Si tratta di “Una grande tragedia dimenticata. La tragedia delle foibe” (che titolo originale) di tale Giuseppina Mellace. Mi colpisce la foto in copertina:
http://www.ansa.it/webimages/img_457x/2014/10/25/10ef3aa61b11d5d5d99d890e8db23734.jpg

Non è proprio proprio una foto, sembra piuttosto la rielaborazione grafica di una foto. 
Però cazzo. Quell’immagine mi ricorda qualcosa, sono sicuro di averla già vista. E non mi convince. Cerca che ti cerca, finalmente oggi ho trovato questo:

http://sh.wikipedia.org/wiki/Crne_trojke#mediaviewer/File:Crna_trojka_kolje.jpg

E ti credo che non mi convinceva! Quella foto non c’entra niente con le foibe. Infatti si tratta di tre cetnici che sgozzano un partigiano comunista a Belgrado. La foto proviene dagli atti del processo per collaborazionismo contro Draža Mihailović nel 1946. >>

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Izvor: FB-stranica "Četnici su sramota za srpski narod", 24/1/2015

Revizija i falsifikovanje Drugog svetskog rata nije samo osobenost naših (ex-yu) prostora. Ova pojava vrlo je zastupljena i u Italiji. Tamošnje neofašističke strukture nastoje da umanje zločine italijanskog fašizma nad jugoslovenskim narodima forsiranjem priča o tzv. komunističkim zločinima nad Italijanima u Istri i Slovenačkom primorju. Fojbe su postale sinonim za tzv. komunističke zločine, iako je prilična manjina italijanskih fašista pobacana u fojbe (kraške jame) od strane partizana, dok ih je većina ubijena streljanjem. Naravno, neofašisti nastoje da sve one koje su streljali partizani proglase nevinim žrtvama terora, što je providna propaganda. 
Prošle godine pojavila se još jedna knjiga na ovu temu gde je termin "Foibe" inkorporiran u patetični naslov. O kvalitetu ove knjige dovoljno govori činjenica da je autorka bila toliko glupa da je iskoristila poznatu sliku četničkih koljača (koju mi imamo na cover-u) kako bi prikazala "partizane" kako kolju nevine Italijane.

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Giuseppina Mellace la Nuova Pirina

LA NUOVA PIRINA! (recensione di un libro sulle foibe di Giuseppina Mellace del quale per obiezione di coscienza non citiamo il titolo).

A tre anni di distanza dalla prematura dipartita del sedicente storico Marco Pirina, abbiamo avuto la gioia di conoscere Giuseppina Mellace, prof. di storia che non riesce a parlare in un italiano comprensibile e che sembra avere anche problemi con l’aritmetica. Mellace si è dimostrata nel corso della presentazione a Gorizia della sua risma di carta stampata in copertina dura (definirla “libro” sarebbe un po' azzardato) la vera, tangibile, coerente epigona del mai abbastanza compianto Pirina, riuscendo in alcuni punti persino a superare il maestro.
La prima cosa interessante che abbiamo appreso è che Mellace non voleva fare un libro sulle foibe, ma scrivere della “violenza delle donne” (dato che lo ha ripetuto sempre così, ci abbiamo messo un po’ a capire che intendeva dire “violenza sulle donne”), sia operata dai “titini” (sempre parlato di “titini” e di “slavi”, sia chiaro, per lei la Jugoslavia non è mai esistita), sia dagli altri. Che poi il libro si sottotitoli “la verità sulle foibe” è stata una scelta editoriale che lei non ha condiviso (anche se, da quanto è dato capire, ha firmato il contratto e il libro).
Quindi ha parlato delle violenze delle donne comprendendo anche le donne violentate ed uccise dai nazisti, ed anche dagli italiani. Ha anche parlato dell’uccisione di una bambina di 8 anni “che aveva l’unica colpa di voler espatriare”, che così come detta sembrava essere stata compiuta dai "titini", mentre nel libro si vede che la bambina è stata uccisa da militari italiani nella primavera del 1943.
Dati questi presupposti si potrebbe già parlare di frode in commercio (diamine, io compro un libro per saper la verità sulle foibe e devo trovare anche la descrizione delle violenze fatte sugli slavi che sono notoriamente un popolo inferiore? fossi un’acquirente, protesterei), ma alla fine il “lavoro” sembra l'ennesima ristampa delle opere di Rocchi e Pirina, con un pizzico di Papo e una spruzzata di La Perna, il tutto omogeneizzato con le teorie di Pupo, ma privo del benché minimo controllo critico.
Ad esempio, nell’elenco delle foibe, subito dopo la “foiba di Orle” (dalla quale non si sa quanti cadaveri sarebbero stati recuperati) si passa alla “foiba di Gropada presso Orle” con la storia di Dora Čok (che l’autrice ha pronunciato Schock, dimostrando una volta di più la sua professionalità e preparazione), come se non avesse capito che si tratta della stessa foiba.
E, a dis/onore dell'esimia prof., quando le ho detto in separata sede che si trattava della stessa foiba e quindi avrebbe potuto risparmiare qualche riga non citandole tutte e due (ciò perché si era lamentata che non poteva scrivere un'enciclopedia Treccani, aveva già scritto 500 pagine, e non poteva approfondire altre cose), mi ha risposto (testuale): “questa è una sua opinione, e come tale io mi tengo la mia”. Scusi, ho detto, se io dico che l’Italia è entrata in guerra il 15 maggio 1915 e lei mi corregge dicendo che era il 24 maggio, io le posso rispondere che si tratta di una sua opinione? esiste un catasto grotte, casomai lei non lo sapesse.
Ma non è solo questo quanto la prof. non sa. Ad esempio, pur citandomi come riduzionista se non proprio negazionista, mai una volta che abbia scritto il mio nome giusto: perché l'aveva visto citato così, ha detto. Ah, allora lei non ha letto nulla di quanto ho scritto e mi dà della riduzionista così tranquillamente? Lei che si permette di scrivere, non si sa citando quale fonte, che da Basovizza sono stati recuperati 1000 civili, 500 finanzieri e probabilmente 1000 tedeschi (dove il probabilmente è un po’ oscuro, o sono stati recuperati o no, se l'italiano non è un'opinione, ma pare che qua siano tutte opinioni), dove quintuplica il numero di finanzieri che la stessa Guardia di finanza dichiara come scomparsi e che oltretutto non sono stati infoibati a Basovizza, per non parlare dei mille civili, che proprio non ci sta, dopo questo ha il coraggio di dire che io sono una “riduzionista”? eh, certo, perché se qualcuno spara cifre enormi a casaccio senza cognizione di causa, mentre i numeri sono altri, e qualcun altro ripristina i dati storici (non opinioni, dati), il secondo diventa riduzionista e negazionista.
D’altra parte, essendo la presentazione avvenuta nei giorni di Carnevale, come al solito Arlecchino si svela ridendo. Intanto, abbiamo appreso che la fonte della prof. (pressoché unica) è Marino Micich con l’Istituto di studi fiumani. Mellace ha detto di essere anche venuta a Trieste, ma non ha capito dove, perché ha parlato di un “istituto di storia contemporanea, quello sulla salita"...; cara prof., quasi tutto è sulle salite qua a Trieste, ma l’istituto di storia contemporanea (quello universitario) sta nella pianeggiante zona vicino alle rive. Forse si riferiva all'istituto di storia del movimento di liberazione? ma quando una persona non sa neppure dov’è andata a cercare informazioni, l’affidabilità delle sue “ricerche” è quantomeno dubbia. 
È stato però quando ha parlato della politica di italianizzazione del fascismo (condotta dal fascismo, sarebbe più giusto dire, ma noi citiamo pedissequamente) che l’autrice ha svelato il suo pensiero interiore. È vero, ha detto, che sono stati un po’ duri ed hanno voluto fare troppo in fretta, perché non hanno considerato che solo sul litorale le città erano interamente italiane, ed avrebbero dovuto agire con più calma... (l’elogio della pulizia etnica soft?) e questo ha indotto negli “slavi” l’equazione italiano = fascista, per il quale motivo poi si sono vendicati orribilmente con le maestre, “appese per i capelli” (ma dove e quando, di grazia, che questa storia neppure su Pirina l’avevamo letta?), che a volte per insegnare l’italiano a chi non lo aveva mai parlato forse esageravano (sì, in effetti, punizioni corporali sui bambini che non sapevano esprimersi in italiano possono essere considerate “esagerazioni”, sarebbe interessante conoscere le metodologie didattiche di cotanta prof.).
Per essere brevi, aggiungiamo soltanto che grazie a Mellace per la prima volta abbiamo appreso che Tito voleva fare il comunismo non solo in Jugoslavia ma in tutti i Balcani ed esportarlo anche in Grecia (anche se a noi risulta che la Grecia aveva già i suoi gruppi comunisti armati che combattevano per conto proprio) e che era per realizzare questo progetto che aveva bisogno di cacciare tutti gli italiani in modo da creare una Jugoslavia unita.
Infine è riuscita a superare Pirina compilando un elenco di 400 donne da lei definite “infoibate” ma tra le quali risultano non solo molte che furono invece deportate dai nazisti o uccise dai fascisti, e tantissimi nomi privi di ogni altra indicazione, di nascita e di luogo, data, modalità della “scomparsa”: dopo questa pirinata, ha fatto di più: ha inserito tra i nomi delle donne “infoibate, deportate, scomparse...” anche (attenzione, perché i titini sapevano essere davvero feroci) molte donne che per avere fatto attività antistatale sono state punite con una ... MULTA! (noi che viviamo in democrazia sappiamo bene come nelle patrie galere stiano, in attesa di processo, diversi attivisti Notav che non hanno fatto altro che esprimere il loro dissenso a quell’opera).
Chiudiamo con una nota di colore: come Cristicchi nel suo spettacolo Magazzino 18 fa pronunciare al suo protagonista Persichetti la parola esodo con l’accento sulla “o” (esòdo) perché “di queste cose non si è mai parlato” (ma visto che l’esodo, prima di essere quello istriano, era anche quello che ha dato il nome ad un libro della Bibbia, viene da chiedersi cosa abbiano studiato a scuola questi intellettuali), così il giornalista Covach che ha presentato il libro ha detto che in Italia si sente ancora dire foìbe (con l’accento sulla “i”) invece di foibe, a riprova che l’argomento non è conosciuto. Ora, nella nostra lunga carriera di foibologi non abbiamo mai sentito pronunciare foìbe da nessuna parte, ma tant’è, forse si confondono con quelli che ancora pronunciano Frìuli invece di Friùli…

marzo 2014



(francais / english / srpskohrvatski / italiano)

Il tentato furto delle miniere di Trepca

0) Nostro commento e LINKS
1) Serbia e Kosovo: il nodo delle miniere di Trepča (M.E. Marino, 25 gennaio 2015)
2) Kosovo, tensioni con la Serbia sulla nazionalizzazione delle miniere di Trepča (S. Herceg, 27 gennaio 2015)
3) FLASHBACK (2007): Kosovo's Trepca has reserves worth 13 billion euros 


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Il tentato furto delle miniere di Trepca

(a cura di Italo Slavo) - La privatizzazione della miniera di Trepca, uno dei massimi giacimenti mondiali di zinco e piombo, è ventilata sin dal 1999, anno in cui a seguito della aggressione militare e della occupazione del territorio da parte della NATO alleata con le formazioni terroriste dell'UCK, l'azienda mineraria è stata strappata al suo legittimo proprietario, lo Stato jugoslavo.
All'epoca, assieme a gravi episodi di violenza e pulizia etnica dell'area di Trepca contro tutti i non-albanofoni, l'amministrazione serba dell'azienda fu scacciata e fu decretato un massiccio licenziamento degli operai. Con motivazioni pretestuose rispetto a problematiche di inquinamento ambientale (che avrebbero dovuto piuttosto comportare l'aumento dei posti di lavoro per le operazioni di risanamento), l'allora plenipotenziario ONU – di fatto un governatore coloniale: Bernard Kouchner – bloccò le attività estrattive mettendo le basi per la liquidazione e svendita di Trepca a capitalisti stranieri.
Però la questione era troppo grossa e difficile per poterla liquidare con un mero colpo di mano. In seguito, l'attività estrattiva è parzialmente ripresa, con uno status legale-amministrativo ambiguo, allo scopo di dare lavoro a kosovari serbi e albanesi della zona di Mitrovica.
L'ex ministro serbo Oliver Ivanović, influente rappresentante dei serbo-kosovari (e per questo arrestato mesi fa con accuse inconsistenti e tenuto in galera nel Kosovo "democratico"), aveva fatto appello alle "istituzioni" kosovare nel 2011 contro una eventuale privatizzazione affinché, in ogni caso, l'azienda rimanesse un bene collettivo. Più recentemente, il governo della Serbia ha invece parzialmente cambiato strategia sul problema: proprio per riaffermare la proprietà dello Stato serbo – erede della Jugoslavia su quel territorio, anche in base alla Risoluzione ONU 1244 del 1999 – il governo di Belgrado ventila adesso piuttosto una "sua" privatizzazione, i cui ricavi vadano nelle casse serbe, piuttosto che acconsentire a una illegittima nazionalizzazione da parte kosovara, cioè al vero e proprio furto del patrimonio frutto di decenni di fatiche dei lavoratori e degli investimenti dello Stato jugoslavo. 
Ventilando la privatizzazione la Serbia crede forse di farsi benvolere dalle elites liberiste internazionali, dal FMI e dalla Unione Europea, che pone sempre la svendita di patrimoni e sovranità statali come precondizione per l'adesione; ma in pratica, anche la finta "nazionalizzazione" da parte dello "Stato" del Kosovo prelude alla svendita al grande capitale straniero. In mezzo a questa paradossale diatriba, piena di ipocrisie e falsi ideologici, stanno presi i lavoratori di ogni "etnia", che continuano a pagare sulla loro pelle lo squartamento dello Stato unitario jugoslavo e le brame di arricchimento delle classi dirigenti locali e internazionali...

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FLASHBACK VIDEO: 1967, la visita di Tito in Kosovo
TITO NA KOSOVU ТИТО НА КОСОВУ TITO NË KOSOVË KOSOVA'DA TITO (SFR Jugoslavija - SFR Yugoslavia)
1967.-KOSOVSKA MITROVICA-TREPČA-ZVEČAN-SPOMENIK KOSOVSKIM JUNACIMA -PRIŠTINA-PRIZREN-SPOMENIK BORI I RAMIZU -SINAN PAŠINA DŽAMIJA-CRKVA BOGORODICA LJEVIŠKA-MANASTIR DEČANI-ĐAKOVICA-RUGOVSKA KLISURA-PEĆ-PEĆKA PATRIJARŠIJA

FLASHBACK: Oliver Ivanović: Beograd protiv privatizacije "Trepče" (Tanjug 10. 04. 2011.)
Državni sekretar u Ministarstvu za Kosovo i Metohiju Oliver Ivanović apelovao je danas na predstavnike kosovskih institucija da odustanu od najavljene privatizacije "Trepče"...

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N.B. Le site Courrier des Balkans appelle "renationalisation" l'appropriation / vol des mines par Pristina au détriment de Belgrade:

Kosovo : le bras de fer autour des mines de Trepča tourne à l’avantage de Belgrade [sic!] (B92 / CdB, 20 janvier 2015)
http://balkans.courriers.info/article26436.html

Kosovo : les mineurs de Trepča suspendent leur grève pour un mois (CdB, 22 janvier 2015)

Kosovo : démonstration de force dans la rue pour la renationalisation [sic!] de Trepca (CdB, 25 janvier 2015)

VIDEO: Imponente e dura manifestazione a Pristina per l'albanizzazione delle miniere di Trepca
Sheshi Skenderbeu 27.01.2015

Kosovo : violentes émeutes à Pristina pour la renationalisation [sic!] du combinat de Trepça (CdB, 27 janvier 2015)
http://balkans.courriers.info/article26495.html

Kosovo : les mines de Trepça, « c’est l’histoire, c’est la vie, c’est tout pour nous » (Par Nerimane Kamberi / CdB, 27 janvier 2015)


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http://www.rivistaeuropae.eu/esteri/esterni/serbia-e-kosovo-il-nodo-delle-miniere-di-trepca/

Serbia e Kosovo: il nodo delle miniere di Trepča

Scritto da: Maria Ermelinda Marino 25 gennaio 2015


Il 19 gennaio, il premier kosovaro Isa Mustafa ha annunciato che la questione relativa all’acquisizione totalitaria del complesso minerario di Trepča, di proprietà (in gran parte) dello Stato serbo, è stata espunta dal provvedimento generale sulla riorganizzazione delle imprese pubbliche, adottato il 15 gennaio. Verrà riconsiderata invece a Bruxelles, con la mediazione dell’UE, nel quadro del negoziato Pristina-Belgrado, prossimo incontro fissato per il 9 febbraio. Una scelta più moderata, dopo che nei giorni scorsi il governo serbo aveva alzato la voce contro l’intenzione del Kosovo di acquisire, unilateralmente, il 100% dell’impianto minerario, situato nella “problematica” zona del Kosovo del Nord. Il complesso si trova infatti presso Mitrovica, città divisa in due dal fiume Ibar ed abitata da serbi (a nord) e kosovari di etnia albanese (a sud).

Il complesso ha rivestito nel tempo un’importanza rilevante. L’apice dell’importanza è stato raggiunto negli anni Settanta, nel pieno periodo titino, quando nel complesso, costituito da quaranta miniere d’oro, argento, piombo, zinco e cadmio, lavoravano oltre 20.000 operai. Fino al 1998-1999, prima dello scoppio della guerra, addirittura l’80% dell’economia kosovara dipendeva dall’estrazione mineraria. Ed a sua volta le miniere kosovare costituivano il 70% dell’intera attività minerario-estrattiva dell’intera Jugoslavia. Le vicende belliche e le questioni etniche si sono riverberate in maniera rovinosa anche sull’immenso complesso. La situazione attuale è quella di un patrimonio di fatto non adeguatamente sfruttato. Lo stabilimento di Mitrovica nord, che impiega in maggioranza serbi, è decadente, ma fornisce lavoro a circa mille persone. Quello di Mirtovica sud, che impiega in maggioranza kosovari di etnia albanese, sembra in condizioni migliori.

La notizia dell’intenzione del governo kosovaro di acquisire interamente la proprietà delle miniere di Trepča era stata, senza troppo stupore, accolta male dalle autorità serbe. Infatti prima che il premier kosovaro annunciasse la decisione di accantonare -per il momento – la questione, Marko Djuric, Direttore dell’Ufficio serbo per Kosovo, l’aveva definita una vera e propria “confisca”, dal momento che dal complesso industriale dipendono le sorti economiche di circa 4.000 serbo-kosovari (circa 20.000 se si considera l’indotto), aggiungendo che tale operazione, se dovesse essere realizzata, andrebbe ad inficiare gravemente l’intero processo di normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo. Il 56% circa del capitale sociale del complesso minerario è inoltre di proprietà del “Fondo per lo sviluppo della Repubblica di Serbia”, complesso a cui corrisponde un ammontare di debiti di circa 400 milioni di dollari.

In Serbia non sono mancate altre reazioni. Il complesso di Trepča era stato inizialmente incluso nella lista delle 502 aziende da privatizzare nell’ambito del piano di privatizzazioni avviato dal governo serbo. Pare ci fossero anche manifestazioni di interesse provenienti da Ungheria, Canada, Svizzera e Stati Uniti. Belgrado aveva però deciso, in seguito, di escludere dal piano 19 aziende localizzate in Kosovo, al fine di evitare intoppi con Pristina (e soprattutto con Bruxelles). “Se però le autorità di Pristina non si asterranno dall’acquisire unilateralmente la proprietà di Trepča, l’Agenzia serba avvierà nuovamente le procedure per privatizzare il complesso. La Serbia è tenuta a proteggere le sue proprietà”, ha avvertito il Ministro dell’Economia serbo, Željko Sertić.

La decisione del governo kosovaro di sospendere l’acquisizione potrebbe temporaneamente calmare le acque. Via del compromesso cui non giovano sicuramente le parole – poco diplomatiche – dell’attuale Ministro degli Esteri kosovaro (ed ex premier) Hashim Thaçi, che ha affermato: “su Trepča non si negozia con la Serbia, poiché Trepča è una ricchezza del Kosovo”.

Sempre il 19 gennaio, David McAllister, relatore del Parlamento Europeo, dopo aver presentato la propria relazione sui progressi della Serbia sul percorso di adesione europea, si è augurato che i capitoli negoziali vengano aperti entro giugno, aggiungendo che “la Serbia non dovrebbe considerare la questione della nazionalizzazione di Trepča come una condizione per la normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi, altrimenti verrebbe meno il dialogo, una delle condizioni per il prosieguo del percorso europeo della Serbia”. Questione al momento rimandata, quindi. Il braccio di ferro tra Pristina e Belgrado sulla questione Trepča sembra però ben lungi dall’essere risolto.

Ermelinda Marino, responsabile Balcani, Studentessa Giurisprudenza, Universita' degli Studi Trento



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KOSOVO: Tensioni con la Serbia sulla nazionalizzazione delle miniere di Trepča

Posted 27 gennaio 2015 
di Silvija Herceg


Da BELGRADO - Da alcuni giorni le tensioni tra Serbia e Kosovo sono tornate sulle prime pagine di tutti i media locali. Questa volta, a provocare le tensioni è stata una decisione del governo di Pristina che avrebbe trasformato in azienda pubblica e dunque in proprietà della Repubblica del Kosovo, il mastodontico complesso minerario-industriale di Trepča/Trepça, situato a Mitrovica nel nord del Kosovo. É cosi che un problema di natura economica si è trasformato in una crisi politica che nel corso dello scorso fine settimana ha rischiato di causare l’ennesima rottura tra Belgrado e Priština.

Che cos’è Trepča e cosa rappresenta?

Il complesso minerario industriale di Trepča è stato una delle più grandi società della Jugoslavia socialista che al culmine della propria storia dava lavoro a circa 23.000 dipendenti e produceva circa il 70% delle risorse minerarie utilizzate e distrubuite in Jugoslavia. Trepča all’epoca era un conglomerato di circa 40 miniere e fabbriche distribuite sul territorio di Serbia e Kosovo, il cui cuore pulsante ruotava attrono al complesso minerario situato ad est di Mitrovica, nel nord del Kosovo.

Dal 1999 la situazione di Trepča è diventata ancora più complessa: il mastodontico complesso venne di fatto suddiviso “su base etnica”, tra parte serba ed albanese, tralasciando quindi tutto l’aspetto tecnologico necessario a garantire la produttività del sito. Trepča è quindi stata ufficiosamente suddivisa sull’asse nord – sud, dove la parte meridionale albanese comprende il 70% delle capacità produttive, ma anche quattro miniere tra le quali la più grande e famosa, “Stari Trg”. La parte settentrionale “Trepča Sever” è legalemente una holding serba che assume ufficialmente 1.200 dipendenti, che di fatto sono 4.000. Grazie infatti ad un sistema di rotazione mensile, in base al quale i dipendenti si sostituiscono ogni 30 giorni, si garantisce la sopravvivenza di larga parte della popolazione serba del nord del Kosovo. Trepča risulta dunque una risorsa fondamentale per ambo le parti.

Trepča oggi

Quindi, seppur ufficialmemte considerata un’unica entità, in Trepča convivono di fatto due componenti tecnologico-economiche. Per questo motivo le compenenti di Trepča si trovano cosi a dover rispettare le leggi della repubblica di Serbia così come la normativa kosovara e quella della missione UNMIK che ha prima posto sotto amministrazione speciale parte del complesso e poi e’ rimasta parte della sua gestione.

problemi politici, legislativi ed economici legati al complesso sono tuttavia sintomo di interesse multilaterale per lo stesso. Le miniere infatti hanno ancora un potenziale enorme che rimane ancora da sfruttare: circa 3 milioni di tonnellate di piombo, 2 milioni di tonnellate di zinco e circa 5000 tonnellate di argento. In base ad alcune stime Trepča è inoltre il quinto bacino al mondo per la lignite.

La mossa del governo di Priština

La situazione già caotica è stata ulteriormente complicata quando in una seduta straordinaria del governo del Kosovo, è stata approvata una proposta di modifica della Legge sulle aziende pubbliche, che avrebbe consentito alla Repubblica del Kosovo di ottenere il pieno controllo sul complesso di Trepča, trasformandolo in azienda pubblica e di fatto nazionalizzandola in base al principio di territorialità. “Trepča è su territorio kosovaro e di conseguenza proprietà di tutti i cittadini che vi vivono, siano essi serbi, albanesi o altri” Con questa dichiarazione si è espresso il premier del Kosovo, Isa Mustafa, annunciando che lunedì 19 gennaio il Parlamento avrebbe votato l’approvazione della proposta.

La risposta di Belgrado

La decisione ha suscitato l’immediata reazione del governo di Belgrado che ha dichiarato che qualora la proposta di legge fosse stata approvata, la Serbia non avrebbe in nessun modo riconosciuto l’acquisizione unilaterale di Trepča. La motivazione è che il proprietario di maggioranza del complesso è il Fondo per lo sviluppo della repubblica di Serbia che ne detiene il 56%. Il premier Aleksandar Vučić ha inoltre aggiunto che tale decisione del governo kosovaro avrebbe minato alla base i negoziati a seguito degli Accordi di Bruxelles, ed ha invitato anche la comunità internazionale ad intervenire per trovare una soluzione consona e corretta per tutte le parti coinvolte. “Non toccate ciò che è nostro, è una rapina. Con questo atto unilaterale minate Bruxelles-2 con il quale dovremmo discutere il tema della proprietà e gestione degli immobili in Kosovo e Metohija. Gli atti unilaterali vanificano gli accordi di Bruxelles e riporteranno l’instabilità nella regione” - queste le parole di Marko Đurić, direttore dell’Ufficio della Serbia per Kosovo e Metohija.

Trepča appariva anche nella lista delle 502 aziende offerte in privatizzazione dalla Serbia. Per Trepča, l’Agenzia serba di competenza ha infatti ricevuto quattro lettere d’interesse da parte di società estere ma ne aveva posticipato la procedura di privatizzazione, per dare priorità allo svolgimento dei negoziati nel contesto degli accordi di Bruxelles. Tale decisione si riferiva a tutte le 18 società serbe operanti su territorio kosovaro ed offerte ai privati. La buona fede della componente serba ha subito traballato ed il ministro dell’economia serbo Željko Sertić ha subito dichiarato che “qualora le autorità non modifichino la loro posizione su Trepča, avvieremo immediatamente la privatizzazione della società perchè la Serbia ha l’obbligo di tutelare la propria proprietà”.

La giornata di lunedì si è tuttavia conclusa con un dietrofront del governo kosovaro che ha ceduto alle pressioni degli ambasciatori internazionali presenti in Kosovo e del governo serbo. Il premier Mustafa ha infatti chiesto al parlamento kosovaro di approvare la modifica alla legge, ma di escluderne Trepča, La motivazione presentata  è che la proposta di legge presentata al parlamento non includeva anche la questione relativa ai 1.4 miliardi di euro di debiti che pesano sul complesso, aggiungendo che gli stessi non fossero noti al governo. A conclusione della giornata l’unica vera certezza è che le negoziazioni sulla gestione della proprietà previste dagli accordi di Bruxelles (cosìddetti Bruxelles-2) verranno aperte prima del previsto.

Il futuro di Trepča

Il destino di Trepča rimane dunque incerto. La crisi è rientrata ma ha lasciato dietro di se due importanti segnali. In primis, gli accordi di Bruxelles per la prima volta vengono visti come un quadro desiderabile entro il quale risolvere le questioni tra Belgrado e Pristina. Secondo, sono emersi segnali di instabilità nel governo kosovaro, mentre l’opposizione ha invitato i lavoratori della parte kosovara di Trepča allo sciopero. Stabilito poi che il fallimento di Trepča non sarebbe favorevole né all’una né all’altra parte, il destino dei numerosissimi dipendenti del colosso industriale sarà salvo solo se le parti politiche coinvolte sapranno riportare la discussione sul piano economico piuttosto che politico. Un po’ a ricordare Germania e Francia, la CECA e il 1951.



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Koha Ditore (Kosovo) / Economic Initiative for Kosova (Austria)
December 20, 2007

Kosovo's Trepca has reserves worth 13 billion euros

Prishtina - Kosovo's mining complex Trepca has at least €3 billion mineral reserves more than what the estimates of the Ministry of Energy and Mining (MEM) show, reported the Kosovar daily Koha Ditore.
These data were made public by experts of the Independent Commission for Mines and Minerals (ICMM), who referred to a feasibility study for Trepca. “The study demonstrates that Trepca has reserves worth €13 billion. But we believe they are even higher,” the member of ICMM Board, Ibush Jonuzi, was quoted as saying.
The feasibility study on Trepca has been conducted by local and international experts in June 2006. It has never been fully published because it contains data on Trepca’s internal financial matters. The paper reports
that the data on Trepca’s mineral reserves, presented by MEM, some time ago, were lower, namely €10 billion.
The paper also reports on the airborne geophysical survey conducted recently by ICMM.
The survey showed that Kosovo has an unexpected potential of metals and minerals. Especially gold, nickel and chrome deposits under Kosovo’s surface seem to be larger than known so far.





STRASBURGO E' RUSSEN-FREI !


Ucraina: Consiglio d’Europa sospende il diritto di voto ai parlamentari russi


29/01/2015 – Nuove sanzioni da parte dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’ Europa contro la Russia. 
Con una risoluzione è stato sospeso ai parlamentari russi il diritto di voto fino ad aprile e la possibilità di partecipare agli organi direttivi. Una presa di posizione contro Mosca a seguito dell’annessione della Crimea e per la crisi ucraina. 
“Abbiamo informato i nostri colleghi – ha reagito Alexey Pushkov, capo parlamentare della delegazione russa – che considerato che non avremo diritto di voto e non potremo partecipare agli organismi dirigenti dell’Assemblea parlamentare – come l’Ufficio di presidenza e il comitato permanente – la delegazione russa ha deciso di non essere presente in Parlamento e lascia questa sessione “.
Il Consiglio d’ Europa è pronto a ridiscutere la posizione di Mosca il prossimo aprile. Ma la Russia dovrà rispettare alcune richieste tra cui il ritiro delle loro truppe dal territorio ucraino e la liberazione di tutti i prigionieri trattenuti illegalmente.


Solidarietà ai dirigenti comunisti russi aggrediti a Strasburgo da nazisti ucraini

Dichiarazione del Presidium del Partito Comunista della Federazione Russa
da kprf.ru | Traduzione dal russo di Mauro Gemma – 29 Gennaio 2015 

Il 26 gennaio, i deputati del Partito Comunista della Federazione Russa (tra cui Ghennadij Zyuganov) che partecipavano, a Strasburgo, alla seduta dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa (APCE), sono stati vigliaccamente aggrediti da alcuni esponenti del Partito Radicale ucraino, che rappresentano questa formazione fascista alla Rada Suprema di Kiev. Sull'episodio di criminalità politica avvenuto in una prestigiosa sede europea, il Presidium del PCFR ha diffuso la seguente dichiarazione:

All'ingresso del Palazzo del Consiglio di Europa a Strasburgo, dove si è svolta la seduta dell'APCE, è avvenuta un'aggressione contro membri della delegazione russa, tra cui il presidente e il vicepresidente del PCFR, G.A. Zyuganov e I.I. Melnikov. Come è stato accertato, gli aggressori sono stati i deputati della Rada Suprema ucraina D. Linko e A. Vitko del partito Radicale. Si ha l'impressione che il Majdan si sia trasferito nel cuore dell'Europa.
La delegazione russa si augura che l'APCE dia una corretta valutazione di quanto è accaduto. Qualsiasi incoraggiamento a tali azioni favorirebbe il rafforzamento dei movimenti ultra-nazionalisti e neofascisti in Europa, il che è categoricamente inaccettabile, soprattutto nell'anno del 70° anniversario della vittoria comune sul fascismo.
Che altro ancora è necessario all'Europa illuminata per capire chi ora si trovi al potere a Kiev? Dove sono finiti i tanto propagandati valori europei? E' venuto il tempo di smetterla di adottare i due pesi e le due misure.
Il nostro partito si è sempre pronunciato per una soluzione pacifica e democratica delle controversie, per relazioni di buon vicinato con tutti i popoli, compreso il popolo dell'Ucraina. Eravamo e rimaniamo popoli fratelli e faremo tutto ciò che è nelle nostre forze per trovare una giusta soluzione ai problemi che sono sorti.
Esprimiamo solidarietà ai nostri compagni, che hanno dato una risposta adeguata ai provocatori.
Il Presidium del PCFR
Mosca, 27 febbraio 2015


Vedi anche:

13 gennaio, 13:21 STRASBURGO - Le indagini per identificare i membri delle forze dell'ordine e i civili che hanno picchiato e torturato i manifestanti durante le proteste di piazza Maidan, sono a un punto morto. Lo rivela, in un rapporto preliminare, il Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d'Europa. Basandosi sulle informazioni raccolte in Ucraina tra il 9 e 16 settembre 2014, il Comitato afferma che le indagini sono in una fase di "stallo", ma anche che "sembrerebbe che sinora si sia impedito ai procuratori di condurre delle indagini efficaci".
Il Cpt elenca le ragioni che spiegano la lentezza delle inchieste e l'impossibilità, almeno sinora, d'identificare i responsabili dei pestaggi dei manifestanti nella quasi totalità dei casi. Inoltre gli inquirenti stanno avendo grande difficoltà a ottenere informazioni sul dispiegamento dei vari reparti coinvolti nei fatti. Alcuni dei documenti inerenti queste operazioni, denuncia il Cpt, sono stati classificati 'segreti'.





(fonte: mailing-list del Comitato NO NATO - vedi anche:
Sul volume "Se dici guerra" – Kappa Vu, aprile 2014 – vedi anche:
M. Dinucci è anche membro del Comitato Scientifico del Coord. Naz. per la Jugoslavia - onlus


Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 4

Manlio Dinucci


Le armi nucleari Usa/Nato in Europa
Gli Stati uniti, mentre sono impegnati a Ginevra a denuclearizzare l’Iran, nuclearizzano l’Europa potenziando le armi mantenute in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. Sono circa 200 bombe B-61, che si aggiungono alle oltre 500 testate nucleari francesi e britanniche pronte al lancio. Secondo una stima al ribasso, in Italia ve ne sono 70-90, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre. Ma ce ne potrebbero essere di più, anche in altri siti. Tantomeno si conosce quante armi nucleari sono a bordo delle unità della Sesta flotta e altre navi da guerra che approdano nei nostri porti. Quello che ufficialmente si sa è che ora le B-61 vengono trasformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» che, grazie a un sistema di guida satellitare e laser, potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo. Le nuove bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, il cui costo è previsto in 8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, avranno una potenza media di 50 kiloton (circa quattro volte la bomba di Hiroshima). 
Altri aspetti, emersi da una audizione della sottocommissione del Congresso sulle forze strategiche, gettano una luce ancora più inquietante sull’intera faccenda. Washington ribadisce che «la Nato resterà una alleanza nucleare» e che, «anche se la Nato si accordasse con la Russia per una riduzione delle armi nucleari in Europa, avremmo sempre l’esigenza di completare il programma della B61-12». La nuova arma sostituirà le cinque varianti dell’attuale B61, compresa la bomba penetrante anti-bunker B61-11 da 400 kiloton, e la maxi-bomba B83 da 1200 kiloton. In altre parole, avrà la stessa capacità distruttiva di queste bombe più potenti.
Allo stesso tempo la B61-12 «sarà integrata col caccia F-35 Joint Strike Fighter», fatto doppiamente importante perché «l’F-35 è destinato a divenire l’unico caccia a duplice capacità nucleare e convenzionale delle forze aeree degli Stati uniti e di molti paesi alleati». Quella che arriverà tra non molto in Italia e in altri paesi europei, non è dunque una semplice versione ammodernata della B-61, ma un’arma polivalente che svolgerà la funzione di più bombe, comprese quelle progettate per «decapitare» il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee in un first strike nucleare. Poiché le bombe anti-bunker non sono oggi schierate in Europa, l’introduzione della B61-12, che svolge anche la loro funzione, potenzia la capacità offensiva delle forze nucleari Usa/Nato in Europa. 
I piloti italiani – che vengono addestrati all’uso delle B-61 con i caccia Tornado, come è stato fatto nell’esercitazione «Steadfast Noon» svoltasi ad Aviano e Ghedi, saranno tra non molto addestrati all’attacco nucleare con gli F-35 armati con le B61-12. In tal modo l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione che la impegna a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente». E gli Stati uniti lo violano perché si sono impegnati a «
non trasferire a chicchessia armi nucleari né il controllo su tali armi». 

Il nuovo confronto militare Ovest-Est
Mosca si oppone allo «scudo antimissile», che permetterebbe agli Usa di lanciare un first strike nucleare sapendo di poter neutralizzare la ritorsione. È contraria all’ulteriore espansione della Nato ad est e al piano Usa/Nato di demolire la Siria e l’Iran nel quadro di una strategia che mira alla regione Asia/Pacifico. Tutto questo viene visto a Mosca come un tentativo di acquisire un netto vantaggio strategico sulla Russia (oltre che sulla Cina). Sono solo «vecchi stereotipi della guerra fredda», come sostiene il presidente Obama?  Non si direbbe, visto il programma annunciato dalla Nato nel 2013. Esso prevede «più ambiziose e frequenti esercitazioni militari» a ridosso della Russia. Tra queste la «Brilliant Arrow», effettuata in Norvegia con cacciabombardieri Nato (anche italiani) a duplice capacità convenzionale e nucleare; la «Steadfast Jazz», con lo spiegamento di cacciabombardieri Nato in Polonia, Lituania e Lettonia, al confine russo; la «Brilliant Mariner», effettuata da navi da guerra Nato nel Mare del Nord e nel Mar Baltico. 
Gli Usa e gli alleati Nato accrescono nel corso degli anni la pressione militare sulla Russia la quale, ovviamente, non si limita a quella che Obama definisce «retorica anti-americana». Dopo che gli Usa decidono di installare uno «scudo» missilistico anche sull’isola di Guam nel Pacifico occidentale, il Comando delle forze strategiche russe annuncia che sta costruendo un nuovo missile da 100 tonnellate «in grado di superare qualsiasi sistema di difesa missilistica». Ed è già in navigazione il primo sottomarino nucleare della nuova classe Borey, lungo 170 m, capace di scendere a 450 m di profondità, armato di 16 missili Bulava con raggio di 9mila km e 10 testate nucleari multiple indipendenti, in grado di manovrare per evitare i missili intercettori. 
Su questo e altro i media europei, in particolare quelli italiani campioni di disinformazione, praticamente tacciono. Così, prima che esploda la crisi ucraina, la stragrande maggioranza ha l’impressione che la guerra minacci solo regioni «turbolente», come il Medio Oriente e il Nordafrica, senza accorgersi che la «pacifica» Europa sta divenendo di nuovo, sulla scia della strategia Usa, la prima linea di un confronto militare non meno pericoloso di quello della guerra fredda. 
 
Il colpo di stato in Ucraina
L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato, come hanno fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani. 
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo. 
Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato. 
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles. E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare. 
Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati. Lo stesso fece la Nato durante la guerra fredda per formare la struttura paramilitare segreta di tipo «stay-behind», col nome in codice «Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, vennero addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo di stato. 
È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza Maidan, trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno l’assalto ai palazzi di governo, «ignoti»  cecchini sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa). Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della Nato si rivolge, con tono di comando, alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici delle forze armate e da gran parte dell’apparato governativo, il presidente Viktor Yanukovych è costretto alla fuga. La direzione delle forze armate viene assunta da Andriy Parubiy, cofondatore del partito socialnazionalista ridenominato Svoboda, divenuto segretario del Comitato di difesa nazionale, e, in veste di ministro della difesa, da Igor Tenjukh, legato a Svoboda. 
La Nato si sente ormai sicura di poter compiere un altro passo nella sua espansione ad Est, inglobando l’Ucraina. Lo conferma la riunione dei ministri Nato della difesa, che si svolge il 26-27 febbraio 2014 al quartier generale di Bruxelles. Primo punto all’ordine del giorno l’Ucraina, con la quale –  sottolineano i ministri nella loro dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui quadro continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria «la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in Ucraina). I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere intervenute nella crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi armati) e ribadiscono che per «la sicurezza euro-atlantica» è fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia stabilmente sotto la Nato).
 
(4 – continua)


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Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda / 5

Manlio Dinucci


Il ruolo dell’Italia nella Nato
«Amore per il popolo italiano»: lo dichiara il presidente Obama nel febbraio 2013, ricevendo alla Casa Bianca il presidente Napolitano. Perché tanto amore? Il popolo italiano «accoglie e ospita le nostre truppe sul proprio suolo». Accoglienza molto apprezzata dal Pentagono, che possiede in Italia (secondo i dati ufficiali 2014) 1428 edifici, con una superficie di oltre un milione di metri quadri, cui se ne aggiungono oltre 800 in affitto o concessione. Sono distribuiti in oltre 30 siti principali (basi e altre strutture militari) e una ventina minori. Nel giro di un anno, i militari Usa di stanza in Italia sono aumentati di oltre 1500, superando i 10mila. Compresi i dipendenti civili, il personale del Pentagono in Italia ammonta a circa 14mila unità. 

Alle strutture militari Usa si aggiungono quelle Nato, sempre sotto comando Usa: come il Comando interforze, col suo nuovo quartier generale di Lago Patria (Napoli). «Ospitando» alcune delle più importanti strutture militari, l’Italia svolge un ruolo cardine nella strategia Usa/Nato che, dopo la guerra alla Libia, non solo mira alla Siria e all’Iran ma va oltre, spostando il suo centro focale verso la regione Asia/Pacifico per fronteggiare la Cina in ascesa.

Il Comando della forza congiunta alleata a Napoli (Jfc Naples) è tenuto ufficialmente in «standby», ossia pronto in qualsiasi momento a entrare in guerra. Il nuovo quartier generale a Lago Patria, costruito per uno staff di oltre 2mila militari ed espandibile per «la futura crescita della Nato», è in piena attività. Avamposto delle operaziont militari del Jfc Naples  è la Turchia, dove la Nato ha oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico. A queste è stato aggiunto (come già detto) uno dei più importanti comandi Nato: il Landcom, responsabile di tutte le forze terrestri dei 28 paesi membri, attivato a Izmir (Smirne). Lo spostamento del comando delle forze terrestri dall’Europa alla Turchia – a ridosso del Medio Oriente (in particolare Siria e Iran) e del Caspio – indica che, nei piani Usa/Nato, si prevede l’impiego anche di forze terrestri, soprattutto europee, in quest’area di primaria importanza strategica. 

Il Jfc Naples (come già detto) è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che è allo stesso tempo comandante della Forza congiunta alleata a Napoli, delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali del Comando Africa. Un gioco strategico delle tre carte, che permette al Pentagono di mantenere sempre il comando. E l’Europa? Essa è importante per gli Usa geograficamente, chiarisce il Comandante supremo alleato: le basi in Europa non sono residui «bastioni della guerra fredda», ma «basi operative avanzate» che permettono agli Usa di sostenere sia il Comando Africa che il Comando centrale nella cui area rientra il Medio Oriente. Sono quindi essenziali per «la sicurezza del 21° secolo», garantita da una «potente e capace alleanza» diretta dagli Usa, che possiede «24mila aerei da combattimento, 800 navi militari oceaniche, 50 aerei radar Awacs». 
 
Quanto ci costa la Nato
L’Italia sta assumendo nella Nato crescenti impegni che portano a un inevitabile aumento della spesa militare, diretta e indiretta. 
La Nato non conosce crisi. Si sta costruendo un nuovo quartier generale a Bruxelles, il cui costo, previsto in 460 milioni di euro, è quasi triplicato salendo a 1,3 miliardi. Lo stesso è stato fatto in Italia, dove si sono spesi 200 milioni di euro per costruire a Lago Patria una nuova sede per il Jfc Naples. Tali spese sono solo la punta dell’iceberg di un colossale esborso di denaro pubblico, pagato dai cittadini dei paesi dell’Alleanza. 

Vi è anzitutto la spesa iscritta nei bilanci della difesa dei 28 stati membri che, secondo i dati Nato del febbraio 2014, supera complessivamente i 1000 miliardi di dollari annui (circa 750 miliardi di euro), per oltre il 70% spesi dagli Stati uniti. La spesa militare Nato, equivalente a circa il 60% di quella mondiale, è aumentata in termini reali (al netto dell’inflazione) di oltre il 40% dal 2000 ad oggi. Sotto pressione degli Stati uniti, il cui budget della difesa (735 miliardi di dollari) è pari al 4,5% del prodotto interno lordo, gli alleati si sono impegnati nel 2006 a destinare al bilancio della difesa come minimo il 2% del loro pil. Finora, oltre agli Usa, lo hanno fatto solo Gran Bretagna, Grecia ed Estonia. 

L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al 2% del pil è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi. 
Secondo i dati Nato, essa ammonta oggi in media a 52 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si precisa nel budget, non comprende però diverse altre voci. In realtà, calcola il Sipri, la spesa militare italiana (all’undicesimo posto su scala mondiale) ammonta in media a 72 milioni al giorno. Adottando il principio del 2%, questi salirebbero a circa 100 milioni al giorno. 

Agli oltre 
1000 miliardi di dollari annui iscritti nei 28 bilanci della difesa, si aggiungono i «contributi» che gli alleati versano per il «funzionamento della Nato e lo sviluppo delle sue attività». Si tratta per la maggior parte di «contributi indiretti», tipo le spese per «le operazioni e missioni a guida Nato». Quindi i molti milioni di euro spesi per far partecipare le forze armate italiane alle guerre Nato nei Balcani, in Afghanistan e in Libia costituiscono un «contributo indiretto» al budget dell’Alleanza. 

Vi sono poi i «contributi diretti», distribuiti in tre distinti bilanci. Quello «civile», che con fondi forniti dai ministeri degli esteri copre le spese per lo staff dei quartieri generali (4000 funzionari solo a Bruxelles). Quello «militare», composto da oltre 50 budget separati, che copre i costi operativi e di mantenimento della struttura militare internazionale. Quello di «investimento per la sicurezza», che serve a finanziare la costruzione dei quartieri generali, i sistemi satellitari di comunicazione e intelligence, la creazione di piste e approdi e la fornitura di carburante per le forze impegnate in operazioni belliche. Circa il 22% dei «contributi diretti» viene fornito dagli Stati uniti, il 14% dalla Germania, l’11% da Gran Bretagna e Francia. L’Italia vi contribuisce per circa l’8,7%: quota non trascurabile, nell’ordine di centinaia di milioni di euro annui.

Vi sono diverse altre voci nascoste nelle pieghe dei bilanci. Ad esempio l’Italia ha partecipato alla spesa per il nuovo quartier generale di Lago Patria sia con la quota parte del costo di costruzione, sia con il «fondo per le aree sottoutilizzate» e con uno erogato dalla Provincia, per un ammontare di circa 25 milioni di euro (mentre mancano i soldi per ricostruire L’Aquila). 
Top secret resta l’attuale contributo italiano al mantenimento delle basi Usa in Italia, quantificato l’ultima volta nel 2002 nell’ordine del 41% per l’ammontare di 366 milioni di dollari annui. Sicuramente oggi tale cifra è di gran lunga superiore. Si continua così a gettare in un pozzo senza fondo enormi quantità di denaro pubblico, che sarebbero essenziali per interventi a favore dell’occupazione, dei servizi sociali, delle zone terremotate. 
 
Il riposizionamento militare Usa in Europa
«Gli Stati uniti ridimensionano le forze militari in Europa e sotto la scure dei risparmi cade anche la base di Camp Darby», titola un giornale toscano, precisando che «mezzo Camp Darby tornerà all’Italia». Un vero e proprio bluff: l’area che verrà restituita dal Pentagono nell’arco di 5 anni è in reatlà quantificata in 5-6 ettari su un totale di oltre 800. 

In realtà, quella annunciata dal Pentagono non è una riduzione ma un riposizionamento delle forze militari Usa, così da «massimizzare le nostre capacità militari in Europa e rafforzare le nostre importanti partnership europee, sostenendo nel miglior modo i nostri alleati Nato e partner nella regione». Risparmiando allo stesso tempo, secondo i calcoli di Washington, circa 500 milioni di dollari annui. 

In tale quadro si inserisce Camp Darby, la base logistica dello U.S. Army che rifornisce le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana, mediorientale e oltre, l’unico sito dell’esercito Usa in cui il materiale preposizionato (carrarmati, ecc.) è collocato insieme alle munizioni. Nei suoi 125 bunker e in altri depositi vi è l’intero equipaggiamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria meccanizzata, che può essere rapidamente inviato in zona di operazione attraverso il porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa. Da qui sono partire le bombe usate nelle due guerre contro l’Iraq e in quelle contro la Iugoslavia e la Libia.

Il collegamento di Camp Darby col porto di Livorno è stato potenziato dai lavori effettuati dagli enti locali (a guida Pd) sul Canale dei navicelli, allo scopo dichiarato di dare impulso ai cantieri che fabbricano yacht (in realtà in crisi e in attesa di qualche compratore straniero). Il vero scopo emerge da uno studio della Provincia di Livorno: «
Il Canale dei navicelli riveste una notevole importanza strategica militare, per il fatto di attraversare la base militare di Camp Darby, costituendo una componente determinante per i traffici della base». Per di più nel limitrofo interporto di Guasticce, sullo Scolmatore dove sono in corso lavori per accrescerne la navigabilità, si può creare un indotto per lo stoccaggio di materiali logistici di Camp Darby. In tal modo si può liberare, nella base, spazio da destinare agli armamenti. Per di più, la limitata area che il comando Usa dovrebbe «restituire all’Italia» nei prossimi anni andrà al Ministero della difesa, che la potrà destinare a funzioni di supporto di Camp Darby e alla proiezione di forze: l’aeroporto militare di Pisa è stato trasformato in Hub aereo nazionale da cui transitano gli uomini e i materiali destinati ai vari teatri bellici, e sempre a Pisa si è appena costituito il Comando delle forze speciali dell’esercito.

Il «ridimensionamento» di Camp Darby è comunque compensato dal potenziamento della base Usa di Aviano. Qui, annuncia il Pentagono, sarà trasferito dalla base aerea di Spangladem (Germania) il 606th Air Control Squadron, addetto (con un personale di 200 militari) al comando, controllo e  rifornimento di grandi operazioni di guerra aerea. Il suo spostamento ad Aviano conferma il ruolo «privilegiato» dell’Italia quale base della proiezione di forze Usa/Nato nell’area mediterranea, mediorientale e africana. Ruolo destinato a crescere poiché, annuncia il Pentagono, «la U.S. Air Force dislocherà permanentemente suoi caccia F-35 in Europa», a cominciare dalla base britannica di Lakenheath, e quindi anche in Italia.

Il riposizionamento di forze e basi, sottolinea il Pentagono, non indebolisce ma rafforza la presenza militare Usa in Europa. Esso permette di «potenziare la presenza a rotazione di forze Usa in Europa per esercitazioni e altre attività Nato; migliorare le infrastrutture per una accresciuta presenza militare Usa e alleata nell’Europa orientale; permettere agli Usa di accrescere la capacità dei nuovi alleati, come Ucraina, Georgia e Moldavia». In tal modo, partendo dall’Europa, gli Usa e gli alleati Nato saranno in grado di «rispondere rapidamente alle crisi su scala planetaria». Ossia di scatenare guerre ovunque nel mondo siano ostacolati i loro interessi.
 
(5 – fine)





Inizio messaggio inoltrato:

Da: Iniziativa PARTIGIANI! <partigiani7maggio @tiscali.it>
Data: 27 gennaio 2015 00:18:18 CET
Oggetto: Ricordo di Dragutin -Drago- V. Ivanović / Voce Jugoslava del 27/1/2015 -Giornata della Memoria-
A: partigiani7maggio @tiscali.it


VOCE JUGOSLAVA / JUGOSLAVENSKI GLAS
"Od Vardara do Triglava - Dal fiume Vardar al monte Triglav"

Svakog drugog utorka, od 13,00 do 13,30 sati, na Radio Città Aperta, i valu FM 88.9 za regiju "Lazio", emisija "Jugoslavenski glas".
Emisija je u direktnom prijenosu. Može se pratiti i preko Interneta: http://radiocittaperta.it/
Emisija je dvojezična, po potrebi i vremenu na raspolaganju. Podržite taj slobodni i nezavisni glas, kupujući knjige koje imamo na raspolaganju, itd. .
Pišite nam na: jugocoord@..., potražite na www.cnj.it

Ogni due martedì dalle ore 13,00 alle 13,30 su Radio Città Aperta, FM 88.9 per Roma ed il Lazio, va in onda la trasmissione radiofonica "Voce Jugoslava".
Essa si può seguire, come del resto anche le altre trasmissioni della Radio, anche via internet: http://radiocittaperta.it/
La trasmissione è bilingue (a seconda del tempo disponibile e della necessità), e in diretta. Sostenete questa voce libera e indipendente acquistando i libri a nostra disposizione e con il vostro 5 x mille. Scriveteci: jugocoord@..., leggeteci su www.cnj.it


Program Dana Pamćenja ** 27. I. 2015 ** Programma per la Giornata della Memoria
 
Umro je Dragutin -Drago- V. Ivanović
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E' morto Dragutin -Drago- V. Ivanović

 
Il 2015 si è aperto per noi con la triste mancanza di DRAGUTIN "DRAGO" V. IVANOVIC, il nostro carissimo compagno e amico jugoslavo, con il quale abbiamo strettamente collaborato negli ultimi cinque anni. Drago si è spento venerdì 12 dicembre 2014 a Lubiana alla presenza dei tre amati figli.

Drago è stato antifascista dal primo all'ultimo respiro. Nato a Doljani - sobborgo di Titograd/Podgorica - nel 1923, ha trascorso l'infanzia nella Metohija. Nel corso della II Guerra Mondiale la sua famiglia ha duramente patito l'occupazione italiana e le violenze dei collaborazionisti: il padre e un fratello sono stati uccisi, lui stesso - da giovanissimo liceale militante della SKOJ, la gioventù comunista - è stato arrestato dagli occupatori italiani e deportato successivamente in diversi campi di concentramento in Montenegro, Albania e Italia, fino a Colfiorito (Foligno) da dove con un altro migliaio di antifascisti montenegrini è evaso alla fine di settembre del 1943. Fino alla estate successiva ha partecipato alla Resistenza nelle Marche e in Abruzzo, poi si è unito alle formazioni dell'EPLJ che si andavano organizzando in Puglia, addestrandosi nel campo di addestramento di Gravina, e potendo così infine rientrare a combattere per la liberazione del proprio paese. Assunto l'incarico di commissario politico della IV Divisione di Artiglieria da montagna motorizzata, ha combattuto lungo la dorsale dalmata verso nord, fino a partecipare alla liberazione di Trieste (1/5/1945). 
Nel dopoguerra, proseguita la carriera militare, è stato promosso fino al grado di colonnello. 

Dopo il pensionamento (1973) Drago si è dedicato a ricerche storiche accurate sugli eventi di cui lui stesso era stato protagonista, scrivendo numerosi libri. Il suo contributo è stato fondamentale per le ricerche che sono sfociate nella pubblicazione del nostro lavoro "I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana". 
Ancora lo scorso 29 gennaio 2014 a Udine, nonostante la malattia, Drago aveva voluto intervenire all'importante convegno organizzato dalla casa editrice KappaVu "con un bellissimo e sentito contributo", come ricorda Alessandra Kersevan. Ne proponiamo la registrazione integrale (25 minuti circa di ascolto) non solo perché riteniamo che questo sia il modo migliore per rendergli omaggio, ma anche perché ci sembra particolarmente significativo riportare la testimonianza diretta di un internato jugoslavo nei campi di concentramento italiani, proprio in occasione della Giornata della Memoria (27 Gennaio).

La registrazione dell'intervento di Drago a quel convegno rimarrà a disposizione sulle nostre pagine internet, e un più dettagliato articolo biografico sarà redatto e messo in diffusione prossimamente. Vi terremo aggiornati.

(a cura della redazione di Voce Jugoslava e degli autori de I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana – www.partigianijugoslavi.it )


=== * ===
I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA Storie e memorie di una vicenda ignorata Roma, Odradek, 2011 pp.348 - euro 23,00 Per informazioni sul libro si vedano: Il sito internet: http://www.partigianijugoslavi.it La scheda del libro sul sito di Odradek: http://www.odradek.it/Schedelibri/partigianijugoslavi.html La pagina Facebook: http://www.facebook.com/partigianijugoslavi.it Ordina il libro: http://www.odradek.it/html/ordinazione.html === * ===




Orig. auf deutscher Sprache: 
Domino-Effekt (Troika-Eingriffe in Griechenland – GFP, 20/1/2015)
Mit massiven Eingriffen in die staatliche Souveränität Griechenlands sichern Berlin und die EU ihre politische Herrschaft über Südosteuropa. Wie Dokumente der in Athen ansässigen EU-Kontrollkommission unter Führung zweier deutscher Beamter belegen, erhält die Athener Regierung Anweisungen, wie das griechische Parlament zu umgehen sei. Den absehbaren Folgen dieser Eingriffe, die Proteste hervorrufen und das Lager der Oppositionsparteien stärken, begegnet Berlin mit Zahlungen an griechische Journalisten, Kirchenvertreter und Künstler. Die Einflussnahmen gelten der griechischen Öfferntlichkeit, sollen lauter werdende Forderungen nach Begleichung von Schulden aus NS-Verbrechen neutralisieren und sind geeignet, eine Klage der jüdischen Gemeinde von Thessaloniki gegen die Bundesrepublik Deutschland zu unterlaufen. Die Finanzierung hat das Auswärtige Amt übernommen, um die griechische "Zivilgesellschaft" mit dem deutschen Elitenmilieu zu vernetzen...
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/59035


http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/58818

Domino Effect
 

2015/01/20
BERLIN/THESSALONIKI
 
(Own report) - Berlin and the EU are massively violating Greece's sovereignty to secure their political domination over Southeastern Europe. As was revealed by documents from the Athens-based Troika, with two German functionaries in the leadership, the government in Athens has received instructions on how to bypass the Greek Parliament. To counteract the foreseeable consequences of this interference - which is provoking protests and strengthening the camp of the opposition parties - Berlin is handing out money to Greek journalists, religious representatives, and artists. This interference is targeting the Greek public to neutralize the growing demands for restitution of debts stemming from Nazi crimes. It is also aimed at undermining the lawsuit against the Federal Republic of Germany, filed by Thessaloniki's Jewish community. The German foreign ministry is in control of the payments to network the Greek "civil society" with the German elite.
In the correspondence marked "strictly confidential" between the Troika and the Greek government, comments on proposed legislation were in marginal notes, such as "to be rejected" or "insufficient."[1] When imposing mass layoffs, the parliamentary process should be circumvented, according to the document. "It would be wrong to create a commotion in parliament, when we can propose and implement other solutions, to achieve our goals," according to an email addressed to the government in Athens by the EU controllers Matthias Mors und Klaus Masuch from Germany. "These documents are evidence of an anti-democratic policy, seeking means to bypass parliament when implementing laws" wrote the Investigative magazine Hot Doc in Athens.[2]

One Hundred Billion
These revelations confirm what the electorate of the Greek left-wing parties has suspected all along. Berlin must worry that a new government may raise ultimate demands for paying the debts stemming from the Nazis' crimes and the criminal financial transfers committed in Greece. During the German occupation, nearly 520,000 people were killed, including hostages and prisoners of the Athens/Chaidari and Thessaloniki concentration camps. Greece lost 7.2 percent of its pre-war population.[3] The calculation of personal injuries and property damages - plus interests - remains inconclusive, but it far exceeds 100 billion Euros and is being assessed by Greece. (german-foreign-policy.com reported.[4])

Unilateral Measures
In 2014, German President Gauck responded to Greek President Karolos Papoulias' devout plea for restitution, with the verdict: "judicial means have been exhausted."[5] At best, "Germany is ... prepared to accept moral responsibility,"[6] Gauck said condescendingly. The German President simultaneously proposed unilateral German measures, of symbolic political initiatives and welfare measures barring legal claims, to avoid paying restitution. The foreign ministry has provided the first financial instruments.

A Hoax
Berlin's foreign ministry is allocating a million Euros under its 0502 budget heading for a "German-Greek Fund for the Future" - which happens to be German, but not Greek. The Greek government financially is not participating. When Greek President Papoulias paid an official visit to Berlin in September 2014, he was presented this fait accompli. Papoulias' presence, at the time, in the German Presidential Office was also used to announce the alleged foundation of a "German-Greek Youth Forum" - a hoax propagated by the government-financed Deutsche Welle Radio.[7] To implement their unilateral initiative for that alleged "youth forum," the German side simply presented a "statement of intention," that the Greek Ambassador was compelled to sign in the Bellevue Castle without having cleared up fundamental issues - particularly contentious is how German war debts and the German Reich's criminal finance transfers will be handled.

Enticing Offers
With the initial funding from the 0502 budget heading, the German Ministry of Foreign Affairs is casting nets in Greece, to lure Greek journalists, representatives of the Orthodox Church and critical youth to make them pliable to Berlin's wishes. Similar enticing offers are being made to those working in the arts in Athens, Thessaloniki, Ioannina, Florina and Korfu, to get them to participate in German state-financed joint "projects." This offers an alluring perspective, given the widespread social misery, with an up to 50 percent unemployment rate and an empty national budget. The objective is to influence Greek public opinion and establish ties between this influential segment of Greek society and sectors of the German elite ("create networks with like-minded in Germany").[8]

Overall Strategy
December 15, 2014, the German Ministry of Foreign Affairs pulled in its nets for the first time and held a reception in the ministry in Berlin for paid "groups of visitors from Greece" along with "representatives of the German civil society." The objective was to feed the guests' "exiting ideas" into the German lobbying concepts, to develop an "overall political strategy."[9] This is intended to absolutely avoid paying restitution of the billions in unpaid damages that Germany owes Greece.

Without Legal Claims
The German foreign ministry is "particularly" interested in "representatives of victimized communities," "especially from the Jewish community and martyred villages." The intent is to make them a "reconciliatory proposition," totally reversing the true relationship between the heirs of the culprits and the descendents of the victims.[10] According to State's Minister in the Foreign Ministry, Michael Roth (SPD), this should lay the groundwork for "a dialogue with Greek civil society" to establish a common "commemoration culture" instead of paying German debts. With this transparent appeal to an alleged common ground between the heirs of culprits and the descendents of victims, Roth offers "gestures of reconciliation" - a euphemism for cheap German acts of graciousness barring legal claims of Greek victims.

Extortion
The strategy is obviously aimed at subverting the lawsuit submitted to the European Court of Human Rights, in Strasbourg in 2014 by the Jewish Community of Thessaloniki as well as neutralizing other intended suits by tens of thousands of survivors. In 1942, the German occupation administration extorted several billion drachmas from Thessaloniki's Jewish residents, in exchange for the promised liberation of approx. 10,000 members of their community in German captivity. Once the money was paid, the captives were freed for a short period, and two months later, deported with the German Reichsbahn to Auschwitz. Fifty thousand Greek Jews never returned from the German extermination camps. For decades, the Federal Republic of Germany has refused to pay back the money it had extorted. Athens had to turn over billions more as a war loan to Berlin. This also was never repaid.

Priority
In negotiations with a new Greek government, which, following next Sunday's elections could be comprised of a majority of the current opposition parties, Berlin's priority will be to prevent all financial claims relating to Nazi crimes, as much as to finding a solution to Greece's debt crisis. The possible payment of World War II damages could ultimately far exceed the losses from bank guarantees. As was remarked in the foreign ministry, even the smallest concessions in issues of restitutions for Nazi damages in Greece could have serious consequences, particularly with Italy ("Domino Effect"). Recently, Rome's Constitutional Court explicitly admitted civil suits against the Federal Republic of Germany for massacres committed by the Wehrmacht and Nazi death squads.

[1] Wie die Troika in Athen regiert. www.zeit.de 15.01.2015.
[2] Troika verrät sich in Mails. www.n-tv.de 16.01.2015.
[3] Martin Seckendorf: Europa unterm Hakenkreuz, Band 6. Berlin/Heidelberg 1996.
[4] Deutschland soll Griechenland elf Milliarden Euro schulden. www.spiegel.de 12.01.2015. See Legacy Without a Future.
[5] Begegnung mit der Vergangenheit. www.juedische-allgemeine.de 11.03.2014.
[6] Gauck erwähnt Pläne zur Gründung eines deutsch-griechischen Jugendwerks. www.dija.de 12.03.2014.
[7] Deutsch-griechisches Jugendwerk gegründet. www.dw.de 12.09.2014.
[8] Rede von Michael Roth, Staatsminister für Europa. www.auswaertiges-amt.de 15.12.2014.
[9] Deutsche-griechische Beziehungen: Wolfgang Tiefensee fordert Gesamtstrategie. www.gegen-vergessen.de 10.06.2014.
[10] Rede von Michael Roth, Staatsminister für Europa. www.auswaertiges-amt.de 15.12.2014.



Gli squadristi del Terzo Millennio

1) Saverio Ferrari: La vera natura di Casa Pound
2) Angelo d'Orsi: Il ritorno dei fascisti


Si vedano anche:

I FALSI AMICI
Dossier del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia e di Un Ponte per... sulle infiltrazioni della destra nazionalista e fascista nelle campagne a sostegno delle vittime serbe delle guerre di secessione in Jugoslavia (2013)

Diamanti e piste nere a Roma (di Federico Rucco, 4 Luglio 2014)

Omicidio Fanella, la rete nera di Ceniti dal Trentino al Kosovo (di Andrea Palladino / Il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2014)
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/17/omicidio-fanella-la-rete-nera-di-ceniti-dal-trentino-al-kosovo/1060862/

Il video del 2009 di Ceniti come responsabile Casapound Verbania

Dossier sulle associazioni collaterali di Casapound "Dal busto del Duce alla pala nel fango"
http://issuu.com/brigatadisolidarietaattivatoscana/docs/le_associazioni_collaterali_di_cpi-

Altre info sulle attività di "solidarietà internazionale" di Casapound sul Dossier Fondazione RSI del CAAT Aretino


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La vera natura di Casa Pound

di Saverio Ferrari - su Il Manifesto del 20/1/2015

Destre. Dopo l'aggressione di Cremona, nella città che fu del ras Roberto Farinacci

Casa Pound Cremona, la sezione dell’organizzazione nell’ambito lombardo probabilmente più consistente, fin dalla sua nascita nel maggio 2013, seguendo una regola interna che aogni sede corrisponda un’intestazione propria, si è scelta il nome di «Stoccafisso». Apparen­te­mente un gioco. Nella città che fu del Ras Roberto Fari­nacci, gran orga­niz­za­tore di squa­dracce, que­sto par­ti­co­lare è tutt’altro che inno­cuo. La sto­ria rac­conta che sul finire del «bien­nio rosso», quando i fasci­sti della bassa val Padana si videro reca­pi­tare da alcune pre­fet­ture il divieto di dete­nere i man­ga­nelli, ricor­sero all’uso di pezzi di bac­calà, stec­che dure lun­ghe più di un metro e mezzo da uti­liz­zare come bastoni. Da qui la scelta del nome, indi­ca­tivo della natura di Casa Pound, che ispi­ran­dosi al primo movi­mento fasci­sta, quello degli esordi, esalta osten­ta­ta­mente l’epopea delle aggres­sioni ai diri­genti e ai mili­tanti socia­li­sti e comu­ni­sti come degli assalti alle sedi delle camere del lavoro e delle leghe con­ta­dine. L’attacco pre­or­di­nato di dome­nica sera al cen­tro sociale Dor­doni di Cre­mona, non a caso, è stato con­dotto seguendo gli anti­chi inse­gna­menti, con­cen­trando gruppi di pic­chia­tori, anche pro­ve­nienti da altre città (Parma e Bre­scia), per col­pire in forte supe­rio­rità nume­rica, senza problemi.

Più volte Casa Pound ha anche «mimato» in cor­tei per le vie di Roma le «spe­di­zioni puni­tive» del 1920–1921 sfi­lando su camion sco­perti con a bordo mili­tanti agghin­dati con tanto di Fez. Le stesse deno­mi­na­zioni con cui ha mar­chiato i pro­pri punti di ritrovo o i pro­pri siti di rife­ri­mento, dalla libre­ria La Testa di Ferro (in ricordo del gior­nale fon­dato nel 1919 da Gabriele D’annunzio al tempo dell’impresa fiu­mana) al forum inter­net Viva­ma­farka (dal romanzo-scandalo di Mari­netti del 1909, Mafarka il futu­ri­sta, sot­to­po­sto in que­gli anni a pro­cesso per oltrag­gio al pudore, in cui si decan­ta­vano le gesta imma­gi­na­rie di un re nero che amava la guerra e odiava le donne), dicono di que­sta identificazione.

Non siamo di fronte a sem­plici sug­ge­stioni cul­tu­rali. Dalle sue fila, ana­liz­zando i fatti acca­duti, solo negli ultimi tre anni, pro­ven­gono Gian­luca Cas­seri che a Firenze nel dicem­bre 2011 ha assas­si­nato a colpi di pistola due ambu­lanti sene­ga­lesi, feren­done gra­ve­mente un terzo, e Gio­vanni Ceniti, ex respon­sa­bile di Casa Pound Novara, uno dei kil­ler di Sil­vio Fanella ucciso a Roma nell’estate scorsa. Un’organizzazione che la Cas­sa­zione, il 27 set­tem­bre 2013, nell’ambito di un pro­ce­di­mento a Napoli con­tro il suoi diri­genti locali ha giu­di­cato «ideo­lo­gi­ca­mente orien­tata alla sov­ver­sione del fon­da­mento demo­cra­tico del sistema».

Prima dell’aggressione di Cre­mona, solo qual­che set­ti­mana fa, a fine dicem­bre, se ne era veri­fi­cata un’altra, con le stesse moda­lità, a Magliano Romano, dove una ven­tina di squa­dri­sti di Casa Pound con i pas­sa­mon­ta­gna, armati di spran­ghe e bastoni, ave­vano aggre­dito i tifosi dell’Ardita, un club di sup­por­ter della squa­dra romana di cal­cio del quar­tiere San Paolo. Sette i feriti, con frat­ture, esco­ria­zioni ed ecchimosi.

L’incredibile impu­nità di cui gode Casa Pound è sotto gli occhi di tutti. È tempo di porre il problema.



=== 2 ===


Il ritorno dei fascisti


di Angelo d'Orsi

Recentemente, in un articolo per Il Fatto Quotidiano, commentando la scoperta del “complotto” neofascista (24 dicembre 2014), mettevo in guardia contro la tentazione di buttare la cosa sul folclore locale. Era insorto nientemeno che l’eccelsa mente di Giampiero Mughini che sul sito Dagospia aveva sentenziato: “…solo una macchietta intellettuale dell’antifascismo duro e puro quale il professore torinese Angelo d’Orsi (…) può sostenere che quei quattro cazzoni che frequentavano il novantaquattrenne Rutilio Sermonti a bere una tazza di caffè e ad ascoltare estasiati l’apologia delle Waffen SS che si battevano fa dannati durante la Seconda guerra mondiale, siano una minaccia incombente della nostra democrazia quale lo sono stati nel Novecento Mussolini e Hitler (…)”. 

Incassato l’epiteto di “macchietta intellettuale” da un personaggio noto solo per le sue sciagurate comparsate tv, perlopiù in veste di isterico commentatore calcistico, vestito in modo macchiettistico, blaterante macchiettisticamente, mi tocca l’onere di evocare i tristi avvenimenti di Cremona, dove giovanotti neofascisti, armati di spranghe ed altri oggetti usi a ferire (al caso, uccidere), hanno compiuto un vero e proprio assalto a un Centro Sociale, il CSA Dordoni, aggredendo furiosamente i presenti. Un cinquantenne, Emilio Visigalli, è stato colpito in modo pesante, ed è finito in coma, dal quale sta forse uscendo in queste ore in cui si sta organizzando una manifestazione antifascista nella sua città. Che è, storicamente, anche la città del peggiore dei ras fascisti del passato, Roberto Farinacci. Riflettendo sui fatti accaduti domenica scorsa, sembra di assistere a un vecchio film già visto, ma nel 1921-22: la spedizione punitiva, che raccoglie squadristi dalle zone circumvicine, anche in un raggio di chilometri abbastanza esteso. Si danno appuntamento, si organizzano e via: si attacca “il nemico”. 

Quali le differenze rispetto a 90 anni fa? Che gli squadristi non indossano (non necessariamente) la camicia nera, non ostentano gagliardetti, invece del manganello “che rischiara ogni cervello”, recano spranghe (che i cervelli li spappolano), non cantano Giovinezza, giovinezza…, e non viaggiano sui camion dell’esercito o delle associazioni padronali. Ma sono squadristi a tutti gli effetti. E curiosamente, da dove provengono? Non si sa, naturalmente, ma i sospetti sono indirizzati verso una organizzazione reticolare chiamata (con indubbio senso del marketing comunicativo) “Casa Pound”, che cresce di mese in mese, e che solo qualche ingenuo o qualche sprovveduto, suggestionati dal richiamo al poeta Ezra, si ostina a considerare un innocuo net di giovani intellettuali, sia pur di destra. In realtà, trattasi di qualcosa che in passato si sarebbe chiamato “un covo di fascisti”, ma i tempi cambiano e Mughini – ipse dixit! – ci informa che fascisti non sono. Sicché gli uni preparano addirittura un golpe, cosa peraltro per nulla nuova nella storia recente d’Italia, e gli altri se ne vanno in giro a spaccar crani, in un generale clima di impunità giudiziaria da un lato, e di sottovalutazione politica dall’altro. 

L’esistenza di un pericolo fascista odierno è aggravato dal contesto internazionale, e specialmente europeo, che rivela una ripresa generalizzata del fascismo e addirittura del nazismo. Ucraina docet. E poi la Grecia, l’Olanda, l’Ungheria, i Paesi Baltici e così via… Ma anche nelle versioni “morbide” dal leghismo nostrano al lepenismo francese, assistiamo a un fortunato pullulare di movimenti di destra estrema, con tratti, anche formali ed esteriori, fascistoidi. Movimenti non solo tollerati, ma giudicati tutto sommato, sempre preferibili, alla Sinistra, o a quel poco che ne rimane. Syriza fa più paura di Alba Dorata. E l’UE e gli USA hanno sostenuto a spada tratta i neonazisti di Kiev, oscurando i massacri da loro compiuti, e tuttora in corso, compreso l’abbattimento ormai sicuro dell’aereo malese: ma pur sempre, preferiti a “quelli dell’Est”, che reclamano l’indipendenza, giudicati troppo prossimi, non solo geograficamente, alla Russia, vista ancora, in fondo, come non abbastanza disposta a farsi piallare dall’Occidente, dunque sospettabile di cripto-comunismo. 

Si aggiunga che in Italia, proprio la presenza della Lega Nord aggrava il quadro: si è ormai realizzata una sorta di fusione operativa tra questo partito, a sua volta alleato alla signora Le Pen, e Casa Pound, che dunque può godere di una rete di protezione notevole. E le affinità ideologiche sono essenzialmente concentrate su una sorta di nazionalismo sghembo, in quanto è evidente che i leghisti secessionisti non possono proporsi come alfieri della nazione italiana, ma sono uniti ai fascisti veri e propri (i cui baricentro ideologico è sempre il nazionalismo) dal ripudio dell’Europa, con annessi e connessi.

È vero che oggi esiste un altro genere di fascismo, più pericoloso di questo, fatto di arroganza, di prepotenza, e di sfregio continuo alle regole della democrazia costituzionale, di occupazione della radiotelevisione pubblica, di condizionamento pesante della stampa cosiddetta “indipendente”, di limitazione progressiva o addirittura di cancellazione di ogni diritto,e molto altro ancora. Insomma, Matteo Renzi e la sua corte miserabile di seguaci e il suo “patronato” che è il “padronato”. Certo il fascismo renziano è morbido, e sorridente (come quello berlusconiano, del resto, da cui deriva direttamente), ma non esita a ricorrere alle maniere forti appena si passa dall’Aula alla Piazza: ne sanno qualcosa operai, pensionati, pastori, dipendenti di varie aziende in crisi malmenati dalle “forze dell’ordine” un po’ dappertutto.  

Proprio questo clima di depotenziamento della democrazia, di progressivo rapido passaggio alla postdemocrazia, che sta altrettanto rapidamente aprendo la strada al definitivo superamento della forma democratica (le “riforme” in approvazione in un Parlamento dichiarato illegittimo dalla Suprema Corte, per giunta!, ne sono una agghiacciante prova), favorisce la crescita di un neofascismo organizzato secondo i modelli e le pratiche del fascismo storico, quello classico, fatto di aggressione sistematica agli avversari politici. Ma anche semplicemente a coloro che culturalmente, e antropologicamente, appaiono “diversi”: un militante di sinistra, un giovane vestito in un certo modo, un immigrato senegalese, un gay, un frequentatore di Centri sociali: sono altrettante vittime designate dei nuovi fascistelli. 

Saranno pure “cazzoni” (sempre per citare l’inclito Mughini), ma sono pericolosi. E vanno fermati. A loro monito, va pure ricordato che Roberto Farinacci, a cui guardano con tanta ammirazione, finì a Piazzale Loreto. Appeso, a testa in giù.  

(23 gennaio 2015)