Informazione

(srpskohrvatski / italiano)

Straordinaria partecipazione a Lubiana e Belgrado

1) Lubiana 27 aprile: Spettacolare concerto del Coro Partigiano Triestino! I video
2) Belgrado 4 maggio: Da ogni parte della Jugoslavia per il 33.mo anniversario della morte di Tito / Putovali cijelu noć da prvi dođu na Titov grob


Prossimo appuntamento a Kumrovec, Croazia, il 24-25 Maggio per la "Giornata della Gioventù"

Putovanje na proslavu dana mladosti u Kumrovec 2013. godine

Jugoslovenski Centar Tito organizuje odlazak u Kumrovec na proslavu dana mladosti 24. maja 2013. godine u 22 casa. Okupljanje putnika za Kumrovec je ispred glavnog ulaza u glavnu zeleznicku stanicu Beograd. Cena puta iznosi 40 evra. U cenu puta je ukljuceno: 
- Prevoz
- Prisustvovanje manifestaciji proslave Dana Mladosti u Kumrovcu 25. maja 2013. godine
- Obilazak spomen - kompleksa logora Jasenovac tokom povratka za Beograd
Osoba a kontakt i organizator puta je drug Goran Miladinovic zamenik predsednika Jugoslovenskog Centra Tito. 
Mobilni telefoni: +38164/2106952 i +38164/2940148



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Ljubljana/Lubiana 27 aprile 2013: 
CONCERTO ... per pane, pace e libertà / KONCERT... za svobodo, za kruh

Spettacolare concerto del Coro Partigiano Triestino a Lubiana, in occasione dell'anniversario della costituzione del Fronte di Liberazione sloveno

La ripresa televisiva:

Il concerto su Youtube:



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La Slovenia si veste di rosso


Il 27 aprile i vertici dello stato sloveno al completo, dal presidente della Repubblica alla neo premier, erano in prima fila al concertone di 4 ore per la celebrazione della Giornata della resistenza. Insieme con la Slovenia ufficiale oltre 10.000 persone a cantare gli inni socialisti

Se Tito fosse tornato per un attimo in vita e se lo avessero portato sabato sera al palazzetto dello sport di Lubiana avrebbe certamente gioito. Avrebbe pensato che il socialismo aveva retto anche dopo la sua morte e che i “valori” e le “conquiste” della sua rivoluzione continuano ad essere amorevolmente coltivati dal popolo e dagli esponenti politici.
Oltre 10.000 persone assiepate sugli spalti, per quattro ore di serrato concerto, all’insegna dei canti della resistenza, non evitando quelli con espliciti riferimenti alla rivoluzione comunista e nemmeno i richiami a Tito. In programma persino uno degli inni ufficiosi del precedente regime: Računajte na nas – Contate su di noi, di Đorđe Balašević, un testo che esalta l’ardore rivoluzionario e l’attaccamento delle giovani generazioni dell’allora Jugoslavia socialista. Oggi nemmeno il noto cantante serbo sembra andare troppo fiero di quel suo successo.
In prima fila i vertici dello stato: il presidente della Repubblica, Borut Pahor, il capo del governo Alenka Bratušek, il presidente della Corte costituzionale Ernest Petrič e altri esponenti di spicco della vita politica slovena. Alla fine tutti in piedi sulle note dell’Internazionale, in un tripudio di stelle rosse, berretti partigiani e di magliette con l’effige di Tito.


La Slovenia riscopre la resistenza

È stato questo l’epilogo della paradossale Giornata della Resistenza festeggiata in Slovenia senza una cerimonia ufficiale. In assenza della solita noiosa manifestazione statale la classe politica ha fatto a gara per presenziare al concerto del coro partigiano “Pinko Tomažič” di Trieste e di un ricco numero di star del panorama musicale nazionale.
I coristi triestini hanno celebrato, così, con uno spettacolo che sembrava uscito dai primi anni Settanta, i loro 40 anni d’attività. Nei mesi scorsi avevano già fatto già alcuni concerti a Lubiana, dove avevano registrato il tutto esaurito. Da lì era nata l’idea di rifare lo spettacolo nel nuovissimo palazzetto dello sport di Stožice e di farlo proprio in occasione della Giornata della Resistenza.
All’epoca Boris Kobal, un noto comico sloveno di origine triestina, aveva voluto esplicitamente ringraziare quello che aveva definito lo sponsor generale della manifestazione, l’allora capo del governo Janez Janša: “Finché c’è lui al potere abbiamo garantito il successo di simili iniziative”.
Va detto che riempire il palazzetto dello sport di Lubiana, facendo anche pagare i biglietti, non è una cosa semplice a meno che a suonare non sia qualche rock star di fama internazionale. In questi ultimi mesi, di proteste di piazza in Slovenia, però, c’è stata una vera e propria riscoperta della musica della resistenza. Il coro femminile delle Kombinat, che anch’esso è salito sul palco sabato, è stato addirittura per settimane ai vertici delle classifiche degli album più venduti in Slovenia. Proprio le loro canzoni sono diventate la colonna sonora delle proteste.


Via Janša, finite le proteste

Il concerto del coro triestino, quindi, avrebbe potuto, in qualche modo, essere l’epilogo della cosiddetta V insurrezione popolare slovena. Una manifestazione anticasta era stata infatti programmata proprio il 27 aprile a Lubiana e faceva seguito ad una serie di proteste che erano partite da Maribor e che poi avevano portato in piazza, lo scorso febbraio, ben 20.000 persone. Questa volta, però, la partecipazione popolare è stata poco significativa. Gli stessi organizzatori hanno dovuto ammettere, loro malgrado, il ruolo di catalizzatore, per la contestazione, che era riuscito a svolgere proprio Janez Janša.
L’ex premier, che gode della fiducia incondizionata dei suoi sostenitori, viene visto dalla gran parte del centrosinistra come un diabolico principe delle tenebre. Uscito di scena sembra che le ragioni per protestare siano venute meno, anche se il nuovo governo Bratušek non pare intenzionato a cambiare sostanzialmente la politica del rigore impostata dal precedente esecutivo.
I politici di centrosinistra del resto non sembrano avere molto spazio di manovra, visto quanto sta accadendo sui mercati internazionali e la speculazione finanziaria che ha colpito la Slovenia. Hanno capito, però, che se non possono cambiare i provvedimenti d’impronta neoliberista, che vengono loro imposti da Bruxelles, possono almeno cantare le canzoni care ai loro elettori.


Il primo ministro canta “Bandiera rossa”?

Il presidente Borut Pahor,  la mattinata del 27 aprile, non ha mancato di invitare nel suo palazzo il coro partigiano di Trieste, per consegnare ai coristi un’alta onorificenza. Uscito dalla cerimonia, il coro ha fatto tappa alla protesta anticasta, dove ha cantato tra le ovazioni dei presenti alcune canzoni, poi ha dato appuntamento a tutti coloro che erano in piazza al concerto in programma la sera al palazzetto dello sport.
Lì alla casta politica slovena di centrosinistra è stata riservata la prima fila e nessuno è sembrato voler mancare. Hanno dispensato larghi sorrisi ed hanno applaudito anche quando qualche artista ha lanciato loro alcune frecciate, o quando un cantante ha finito il suo pezzo sventolando la bandiera con il pugno chiuso della cosiddetta insurrezione popolare. Non si sono scomposti nemmeno davanti al fuori programma di una poco elegante benedizione impartita da un falso vescovo, che, senza alcun controllo, dopo essersi potuto sedere tra il pubblico così agghindato, non ha avuto alcun problema ad arrivare davanti al palco.
Dagli schermi del grande palazzo dello sport si è anche potuto vedere il primo ministro, Alenka Bratušek, in un elegante vestitino rosso, che pareva canticchiare “Bandiera rossa”. Lei, assieme alle altre cariche dello stato, non si è persa un solo istante del concerto.
Per il suo governo questi sono giorni difficili. L’esecutivo è alle prese con il Programma nazionale di riforme, che fa propri i suggerimenti arrivati dall’UE e dai mercati internazionali. Resta da ultimare, e da consegnare a Bruxelles entro il 9 maggio, il Programma di stabilità che prevede il piano concreto degli interventi da prendere per arginare la crisi, e tra di essi non potranno mancare i tanto spesso citati tagli alla spesa pubblica.


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Belgrado 4 maggio 2013: Da ogni parte della Jugoslavia per il 33.mo anniversario della morte di Tito



VIDEO:


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Građani na grobu Josipa Broza Tita

Sub, 04/05/2013 - Kolone građana iz svih krajeva bivše SFRJ, počele su od jutros da stižu na grob nekadašnjeg predsednika SFRJ Josipa Broza Tita, obeležavajući 33 godine od njegove smrti. Doživotni predsednik SFR Jugoslavije, preminuo je 4. maja 1980. godine, a njegovoj sahrani u Beogradu prisustvovalo je više od 200 visokih ličnosti iz čak 127 zemalja. Tito se na čelu Jugoslavije nalazio punih 35 godina i imao je izuzetan ugled u svetu. Posebno je veliki značaj, u međunarodnim odnosima, imala njegova uloga kao jednog od osnivača Pokreta nesvrstanih, što je u tadašnjim međunarodnim okolnostima imalo veliki značaj.

I cittadini alla tomba di Josip Broz Tito

Una marea di cittadini di tutte le parti  dell’ex Jugoslavia è iniziata stamane ad arrivare alla tomba del presidente della Jugoslavia, Josip Broz Tito, segnando il suo 33° anniversario di morte. Il presidente della Jugoslavia a vita,  morì il 4 maggio del 1980, e al suo funerale svoltosi a Belgrado parteciparono più di 200 alti funzionari di quasi 127 paesi. Tito fu a capo della Jugoslavia per ben 35 anni ed ebbe rispetto da tutto il mondo. Per quanto riguardo i rapporti internazionali, molto importante fu il suo ruolo nella creazione del Movimento dei non-allineati, cosa che in quei tempi fu una cosa di notevole importanza.


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OBJAVA: 04.05.2013

STOTINE U BEOGRADU POVODOM GODIŠNJICE SMRTI J. BROZA TITA


Putovali cijelu noć da prvi dođu na Titov grob


Vihore se zastave SFRJ i Saveza komunista Jugoslavije, mnogi od njih nose kape s petokrakama, bedževe, i parole na kojima je ispisano: "Živio Tito", "Tito je naš" i gotovo svi kažu da su Jugoslaveni


Piše: mf/VLM

Povodom 33. godišnjice smrti Josipa Broza Tita nekoliko stotina ljudi okupilo se jutros na njegovom grobu u Beogradu, a prva je vijenac položila Titova udovica, Jovanka Broz, javlja B92.

Izvjestitelj B932 s mjesta događaja javlja kako su neki od posjetitelja, a ima ih iz cijebivše države, putovali cijelu noć da bi bili u 8 sati među prvima koji će položiti cvijeće na Titov grob, no najviše je Slovenaca i Makedonaca.

Vihore se zastave SFRJ i Saveza komunista Jugoslavije, mnogi od njih nose kape s petokrakama, bedževe, i parole na kojima je ispisano: "Živio Tito", "Tito je naš" i gotovo svi kažu da su Jugoslaveni, javio je novinar B92 svojoj redakciji i zapaža kako je među onima koji su odali počast Titu, i oni koji su rođeni nakon njegove smrti, a "posjetitelji su još jednom pokazali kako kult ličnosti Josipa Broza Tita ne nestaje".





[ASL = Armée Syrienne "Libre"]


ISRAËL-ASL, MÊME COMBAT


Un chef rebelle syrien se réjouit de voir son pays bombardé par l'ennemi israélien

par Bahar Kimyongür, le 5 mai 2013

 
Ce dimanche, un leader de l'opposition "syrienne" dénommé Hassan Rastanaoui est apparu en direct depuis Homs sur la deuxième chaîne israélienne. 
 
Il était l'invité surprise du journaliste israélien Yaari Ehud. 
 
Rastanaoui a été présenté sur le site Internet de la chaîne israélienne comme un leader de la rébellion "syrienne" ( http://www.mako.co.il/news-world/arab/Article-bfd61e1daa57e31004.htm&sCh=3d385dd2dd5d4110&pId=1575680455 )
 
Répondant à une question du journaliste relative aux bombardements effectués ces derniers jours par l'aviation israélienne à Damas, Hassan Rastanaoui a exprimé sa joie et sa gratitude ( http://www.youtube.com/watch?v=sSszn81qiyE ).
 
D'après lui, les bombardements de l'aviation israélienne visaient des caches d'armes appartenant à l'armée arabe syrienne mais aussi aux milices du Hezbollah et à la Garde républicaine iranienne qu'il qualifie de "plus grands dangers terroristes".
 
Cette nouvelle attaque de l'ennemi israélien, dixit Rastanaoui, "emplit le coeur du peuple et des révolutionnaires syriens".
 
La complicité entre la rébellion syrienne et l'armée israélienne n'est pas un scoop. 
 
L'an dernier, la même chaîne israélienne avait interviewé le cheikh Abdallah Tamimi, un leader salafiste originaire de Homs très Israel-friendly.  
 
Usurpant l'identité sunnite et insultant des millions de Syriens sunnites patriotes, Tamimi déclarait que "pour les citoyens syriens sunnites, Israël n'est pas et n'a jamais été leur véritable ennemi (...) Nous (les sunnites) sommes dans le même camp que celui d'Israël" ( http://www.youtube.com/watch?v=9Xbu864lfwg ).
 
D'autre part, de nombreux combattants de l'ASL sont hébergés et se font soigner par l'armée israélienne (AFP, 16 février 2013 et Marc Henry, Le Figaro, 29 mars 2013)
 
Ils reçoivent des armes israéliennes ( http://www.youtube.com/watch?v=qgznlLHb-44 ), accueillent des journalistes et des agents israéliens dans leurs rangs (http://www.france24.com/fr/20121220-syrie-israel-armee-syrienne-libre-itai-anghel-amir-tibone-television-israelienne-idlib-khirbet-joz ) renseignent les services secrets israéliens sur la localisation des rampes de lancement des missiles balistiques syriens et des dépôts d'armes et promettent que la Syrie "libre" normalisera ses relations avec Israël.
 
Malgré l'abondance de preuves sur les collusions entre Israël et les rebelles syriens, dans les médias mainstream mais aussi dans certains milieux soi-disant alternatifs et propalestiniens, on trouve encore quelques conspirationnistes frustrés qui défendent la thèse selon laquelle la Syrie et Israël seraient des pays amis, arguant que depuis la guerre de Tichrine (désigné que par son nom hébreux -Yom Kippour- dans les médias occidentaux), Damas a renforcé sa frontière la séparant d'Israël ainsi que ses lignes de défense dans le Golan.
 
Cette théorie est pourtant aussi absurde que de soupçonner une complicité entre les Etats-Unis et Cuba au motif que La Havane n'a toujours pas reconquis la baie de Guantanamo, un territoire cubain sous occupation militaire étasunienne depuis 1898.
 
N'en déplaise à certains spécialistes de l'enfumage, l'insoumission du gouvernement de Damas face à Israël et à ses vassaux wahhabites, le soutien politique et militaire qu'il apporte aux résistances libanaise et palestinienne, son alliance stratégique avec l'Iran, telles sont les raisons objectives qui poussent les Etat-Unis, l'Europe et Israël à faire durer la guerre de Syrie autant que faire se peut.
 
A la veille de la guerre contre l'Iran, la mission accomplie par les djihadistes syriens arrange Israël tout comme les opérations menées par Israël contre le gouvernement syrien sont du pain béni pour les djihadistes syriens. Et ce, de l'aveu même d'un chef rebelle.




SEMPRE E COMUNQUE COLPA DEI TITINI


Sul Piccolo dell'8/2/07, nell'elenco dei premiati per il Giorno del Ricordo, spicca questo nominativo:

Giuliano Mattiassi per il padre Fortunato (residente a Pisino fu li fucilato il 4 ottobre dalle truppe tedesche per rappresaglia sulla popolazione a seguito della precedente occupazione titina)

Sempre colpa dei titini... non ci fossero stati loro, i nazifascisti non avrebbero avuto bisogno di fare rappresaglie...


(segnalato da Claudia C.)


(srpskohrvatski / italiano)

Iniziative segnalate a Belgrado-Bergamo-Trieste

1) Beograd: 9. MAJ - DAN POBEDE – KOMUNISTI JEDINI OSLOBODIOCI
(manifestazione a Belgrado nell'anniversario della Liberazione)
2) Bergamo, 9/5: LE FOIBE E IL CONFINE ORIENTALE FRA STORIA E MITO
Incontro-dibattito con Sandi Volk e Alessandra Kersevan
3) Muggia (TS), 11/5: 70° ANNIVERSARIO ASSASSINIO ALMA VIVODA
Incontro commemorativo nazionale


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9. MAJ - DAN POBEDE – KOMUNISTI JEDINI OSLOBODIOCI


NKPJ i SKOJ vas pozivaju da se i ove godine pridružite svečanom obeležavanju 9. maja – Dana pobede, u 11 časova na Groblju oslobodilaca Beograda.


9. maj, Dan pobede nad fašizmom u Drugom svetskom ratu, važan je datum za čitavo progresivno i slobodoljubivo čovečanstvo. Drugi svetski rat bio je i posledica ciklične krize kapitalizma koja izaziva najoštrije globalne konflikte, društveno-političke potrese i osvajačke ratove.

Po broju država, kao i ljudi koji su u njemu učestvovali, ali i broju ljudskih žrtava i stepenu materijalnog razaranja, Drugi svetski rat predstavlja najveći oružani sukob u istoriji čovečanstva. Tokom ratnih godina, život je izgubilo oko 50 miliona ljudi, među kojima 30 miliona civila. Da bi bila pobeđena nacistička Nemačka, Sovjetski Savez je podneo najveće ljudske žrtve izgubivši 28 miliona građana i vojnika. Najveće ljudske gubitke u odnosu na ukupan broj stanovnika pretrpela je Poljska, koja je izgubila šest miliona stanovnika, a više od 95 odsto stradalih bili su civili. Jugoslavija sa milion i 800 hiljada žrtava bila je treća zemlja po broju stradalih tokom Drugog svetskog rata u Evropi. Stravični prizori koncentracionih logora širom Evrope ostavili su neizbrisiv trag, jer je do kapitulacije Nemačke u tim fabrikama smrti ubijeno više od šest miliona Jevreja.

Rat na prostoru Jugoslavije počeo je 6. aprila 1941. godine napadoma sila Osovine na Jugoslaviju. Jugoslavija je bila rasparčana od strane okupacionih armija, dok je na značajnom delu njene teritorije uspostavljena marionetska Nezavisna država Hrvatska čije su vlasti već u aprilu 1941. godine otpočele sa organizovanim zločinima nad Srbima, Jevrejima, Romima i antifašistima. U Srbiji formirana je kvislinška vlada Milana Nedića koja je prihvatila okupaciju i opredelila se za sramnu saradnju sa Nemcima. Masovna stradanja civila u Kraljevu, Kragujevcu, Jajincima, Novom Sadu, Nišu i drugim naseljima i stratištima širom Srbije, ostala su zastrašujuća karakteristika rata na njenom tlu. Oružani otpor tada najvećoj oružanoj sili u Evropi pružili su rodoljubi svesni svih vrednosti slobode i dostojanstvenog života, koji su odbacili svaki oblik saradnje sa okupatorima i latili se oružja. Na prostoru Jugoslavije partizanski pokret predvođen KPJ, stao je na čelo antifašističke borbe, stekao naklonost saveznika i ugled kao jedan od najvećih antifašističkih pokreta u Evropi. Rat na prostoru Jugoslavije završen je 15. maja 1945. a kao pobednik iz rata izašli su partizanski odredi – NOVJ (Narodnooslobodilačka vojska Jugoslavije) predvođeni Komunističkom partijom Jugoslavije.

Zato mi i ove godine podsećamo da je važno naglasiti da drugih pobednika, i da druge domaće antifašističke snage koja se borila za pravedne ciljeve slobode, nezavisnosti i mira u Jugoslaviji nije bilo osim pripadnika Partizanskog pokreta predvođenog Komunističkom partijom Jugoslavije. Komunisti su naši jedini oslobodioci, zato je 9. maj kod nas dan kada se pre svega sećamo i odajemo počast tim velikim ljudima i rodoljubima, njihovom slavnom i herojskom delu i podvigu. To podrazumeva i dizanje glasa 9. maja protiv korenitog istorijskog revizionizma i falsifikata u službi vladajuće klase koja želi da na svaki način izbriše neospornu činjenicu da su samo komunisti narodni oslobodioci.

Važno je da 9. maja u što većem broju poručimo da dela naših partizana ima ko da slavi, da smo istrajni u borbi protiv fašizma i istorijskog revizionizma, da 9. maj predstvlja opomenu i primer kako se protiv fašizma treba boriti, kao i da se solidarišemo sa čitavim progresivnim čovečanstvom koje slavi pobedu nad najvećim zlom u istoriji ljudske civilizacije koje je porodio kapitalizam.



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http://www.diecifebbraio.info/2013/05/bergamo-952013-le-foibe-e-il-confine-orientale-fra-storia-e-mito/

Bergamo, Giovedì 9 maggio 2013

ore 20.30, presso la Sala del Mutuo Soccorso di via Zambonate


 LE FOIBE E IL CONFINE ORIENTALE FRA STORIA E MITO 

Ne parliamo con Sandi Volk e Alessandra Kersevan


Non è semplice affrontare la questione delle Foibe: stereotipi consolidati ed interessi politici contingenti invadono il terreno della ricerca storica. Negli ultimi anni in Italia si è sollevato un acceso dibattito pubblico attorno alla costruzione di una verità ufficiale che ha dato il via ad un walzer di commemorazioni, monumenti, lapidi, intitolazioni di strade. Grazie al contributo di Alessandra Kersevan e di Sandi Volk, attraverso un esercizio di rigorosa contestualizzazione storica, ci proponiamo di individuare e discutere quelli che appaiono elementi di mistificazione, falsificazione e propaganda.

Perchè dalle diverse ricerche emergono numeri tanto discordanti sul numero degli infoibati? E’ possibile parlare di “pulizia etnica” nei confronti della popolazione italiana? Che ruolo hanno giocato le politiche del fascismo in quei territori? Quali sono le effettive responsabilità dei partigiani comunisti di Tito? Queste alcune delle domande su cui ci confronteremo.

* Sandi Volk si occupa di storia contemporanea della Venezia Giulia, in particolare di Trieste e della storia degli sloveni della regione. Ha svolto ricerca sulla nascita del movimento operaio sloveno a Trieste, sul movimento nazionale sloveno nel periodo precedente alla prima guerra mondiale, sulla seconda guerra mondiale nella memoria degli sloveni di Trieste e sulla storia del lager nazista della Risiera di S. Sabba. Ha lavorato e collaborato con numerosi istituti e musei italiani e sloveni, tra cui l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia di Trieste. È inoltre membro della Commissione consultiva del Comune di Trieste per il Civico Museo della Risiera di S. Sabba – Monumento nazionale. Oltre a numerosi saggi e articoli, in italiano e sloveno, sul problema degli esuli istriani e dalmati ha già pubblicato anche due libri, sul tema dell’esodo delle popolazioni dalmate ed istriane nel dopoguerra.

* Alessandra Kersevan,storica, insegnante ed editrice, da parecchi anni si dedica allo studio della storia e della cultura della sua regione, il Friuli Venezia Giulia.

Nel 2003 ha pubblicato la prima edizione della presente ricerca sul campo di Gonars e nel 2005, per il Comune di Gonars e la Commissione Europea, ha realizzato il video documentario “The Gonarsmemorial – il simbolo della memoria italiana perduta”.

Nel 2008, per la casa editrice Nutrimenti di Roma, ha pubblicato “Lager italiani – pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943″.

Grazie al suo percorso di ricerca storica è in grado oggi di illustrare la realtà del sistema repressivo fascista, spesso allo stesso livello, in termini di brutalità, del ben più indagato sistema concentrazionario nazista. I campi di Chiesanuova, Arbe, Monigo, Gonars e Visco, i numerosi campi del centro Italia: lo stato fascista italiano si è avvalso di diversi strumenti e luoghi per imprigionare, segregare e deportare popolazioni straniere, oppositori politici, ebrei, omosessuali e rom. Dai campi di concentramento per i civili sloveni e croati, a quelli dove furono deportati migliaia di eritrei, etiopi e libici, dalle località di internamento per ebrei stranieri, fino ai luoghi di confino per oppositori politici.

Alle 20:30 presso la Sala del Mutuo Soccorso di via Zambonate, Bergamo

Ingresso libero


locadina: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2013/05/295383_306648959466214_519874028_n.jpg 

evento Facebookhttps://www.facebook.com/events/445027358916186/


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http://www.atuttascuola.it/ondina/2013/alma_vivoda.htm


http://www.atuttascuola.it/ondina/2013/Comunicato%20stampa%20%207o-¦%20Alma%20Vivoda.pdf

Comunicato stampa: celebrazione 70° anniversario assassinio Alma Vivoda, prima Martire della Resistenza

INCONTRO COMMEMORATIVO NAZIONALE
Sabato 11 maggio 2013 
ore 18.30, Teatro comunale Muggia (TS) Via S. Giovanni, 4

Quest’anno ricorre il 70° anniversario dell’assassinio di Alma Vivoda, prima Martire della Resistenza. Per onorarne la Memoria si è costituito a Trieste un comitato d’indirizzo coordinato dalla Presidenza dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia - ANPI - della provincia di Trieste che ha inteso organizzare la celebrazione pubblica nella sua città natale, a Muggia, presso il Teatro Comunale Giuseppe Verdi, sabato 11 maggio 2013, alle ore 18.30.
Con il patrocinio del Comune di Muggia e la partecipazione della Vice Sindaco Laura Marzi, si aprirà un incontro/conferenza con le storiche Anna Di Gianantonio e Marina Rossi, Adriano Sincovich, Segretario Generale della CGIL Trieste, Gianni Peteani, Presidente Comitato permanente Ondina Peteani ed Ester Pacor, storica UDI Trieste.

L’agguato ad Alma Vivoda avvenne a Trieste. La Vivoda non raggiungerà mai la Peteani che aveva fissato l’appuntamento clandestino in sommità al colle del Boschetto. Verrà infatti trucidata, colpita alla testa, dal fuoco di Antonio Di Lauro. Pierina Chinchio che l’accompagnava, ferita, si salverà, divenendo testimone dell’efferata aggressione. Per quest’azione, Di Lauro verrà insignito di medaglia di bronzo al valore militare.
Anche a risarcimento morale di questa paradossale attribuzione del 1958, emanata non sotto dittatura, bensì nella consolidata Repubblica Italiana, propriamente nata dalla Resistenza, l’evento ambisce a onorare questa giovane Donna, carismatica esponente nazionale della lotta di liberazione e dell’emancipazione femminile, attraverso visuali e testimonianze che partendo dal prestigioso pionierismo resistenziale della nostra Regione, concorreranno a farne conoscere lo straordinario profilo, lo spirito di sacrificio e l’altruismo che la distinsero. Celebreremo con passione e partecipazione la grande Alma Vivoda, spietatamente trucidata il 28 giugno 1943, agli albori della Resistenza.
L’attrice/regista Marta Cuscunà presenterà lo stralcio della sua portentosa interpretazione scenica di Alma Vivoda, tratto dal lavoro teatrale “E’ bello vivere liberi!” con cui ha esportato in tutto il Paese, in centoquaranta repliche, la vicenda umana e storica di questa meravigliosa e coraggiosa protagonista della Storia italiana.

Parteciperanno:

Stanka Hrovatin Presidente provinciale ANPI
Laura Marzi Vice Sindaco Comune Muggia 
Anna Di Gianantonio Storica 
Marina Rossi Storica
Marta Cuscunà Attrice / Regista   
Adriano Sincovich Segretario Generale CGIL Trieste 
Gianni Peteani Presidente Comitato permanente Ondina Peteani
Ester Pacor Storica UDI Trieste

Promuovono:

ANPI
Comune di Muggia
Comitato permanente Ondina Peteani
UDI
CGIL


scarica la locandina: http://www.atuttascuola.it/ondina/2013/Alma%20Vivoda%2070.pdf

Vedi anche: Alma Vivoda, la Vita per l'antifascismo: http://oknotizie.virgilio.it/go.php?us=4c050f39f3324




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Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - ONLUS
https://www.cnj.it/
http://www.facebook.com/cnj.onlus/

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("La pura verità sulle organizzazioni non governative in Russia: sono spie al servizio di paesi stranieri". Lo dice Putin, rivolgendosi alla Merkel più che esplicitamente. Su questa problematica, e le nuove strategie eversive del neocolonialismo - disinformazione e attivismo "a libro paga" - si veda anche tutta la documentazione raccolta alla nostra pagina: https://www.cnj.it/documentazione/eversione.htm 

Ovaj intervju na srpskohrvatskom: 
Prava istina o nevladinim organizacijama u Rusiji
D. Marjanović - 8. Travanj 2013 | 12:15
http://www.advance.hr/vijesti/prava-istina-o-nevladinim-organizacijama-u-rusiji/ )


http://www.beoforum.rs/en/comments-belgrade-forum-for-the-world-of-equals/300-vladimir-putin-interview-to-the-german-ard.html

Vladimir Putin - Interview to the German ARD


Ahead of the working visit to Germany, Vladimir Putin gave an interview to the German ARD.

The interview was recorded on April 2, 2013 in Novo-Ogaryovo.


JÖRG SCHÖNENBORN (retranslated): Good evening, Mr President,

Germany and Russia enjoy special relationship and, economically speaking, they are a good match. However, there exist certain difficulties from the political viewpoint. Quite a number of Germans keep track of the raids in the Russian offices of German funds with great concern. The Russian public must be frightened. Why do you act like this?

PRESIDENT OF RUSSIA VLADIMIR PUTIN: It is you who are scaring the German public instead. There is nothing like this going on here, do not scare the public, please. The media should cover the events objectively. And what does it mean, objectively? The new law adopted late last year in Russia stipulates that non-governmental organisations engaged in Russia's internal political processes and sponsored from abroad must be registered as foreign agents, that is organisations which participate in our country's political life at the expense of foreign countries. This is not an innovation in international politics. A similar law has been in force in the United States since 1938.

If you have any additional questions, I would be pleased to answer them in order to clarify the situation to you and your or, in this case, our viewers.

JÖRG SCHÖNENBORN: Mr President, I am not aware of any similar confiscations or raids carried out in the United States. In our opinion, the term ‘foreign agent’, as these organisations are to be called, sounds something like cold war.

VLADIMIR PUTIN: Then let me explain. First of all, the United States adopted a similar law, which has been in effect ever since. And our, Russian, organisations have followed the same practice that was established in that country decades ago.

I am going to show you a paper in which, not long ago, the United States Department of Justice requested a non-governmental organisation to submit documents confirming that its activities were to be financed from abroad; the list is very long.

We have adopted a similar law that prohibits nothing; let me stress it, the law does not prohibit anything, nor does it limit or close down anything. Organisations financed from abroad are not forbidden to carry out any type of activities, including internal political activity. The only thing we want to know is who receives the money and where it goes. I repeat: the law is not some sort of innovation of our own.

Why do we consider it so important today? What do you think is the number of Russia-sponsored non-governmental organisations functioning in Europe? Any ideas?

JÖRG SCHÖNENBORN: I am afraid I cannot assess the situation, Mr President.

VLADIMIR PUTIN: Let me tell you. One such organisation operates in Paris, another one – in North America, it is registered in the USA. And this is it. There are only two of them – one in the United States and another one in Europe.

There are 654 non-governmental organisations operating in the Russian Federation, which are funded, as it has turned out, from abroad. 654 organisations make quite a network nationwide, the Russian regions included.

Over the four months alone that followed the adoption of the law in question, the accounts of these organisations augmented by… How much money do you think they received? You can hardly imagine; I did not know the figure myself: 28.3 billion rubles, which is almost $1 billion. 855 million rubles via diplomatic missions.

These organisations are engaged in internal political activity. Should not our society be informed of who gets the money and for what purposes?

I would also like to stress – and I want you to know this, I want people in Europe, including Germany, to know this – that nobody bans these organisations from carrying out their activities. We only ask them to admit: “Yes, we are engaged in political activities, and we are funded from abroad.” The public has the right to know this.

There is no need to scare anyone saying that people here get rounded up, arrested, have their property confiscated, although confiscations could be a reasonable thing if those people break the law. Some administrative sanctions are envisaged in these cases, but I think all this falls under rules commonly accepted in a civilised society.

Now let us look at the documents that our organisations in the US are required to provide. Note who asks for these documents, signed at the bottom of the page. The Counterespionage Section. Not the Office of Attorney General, but the Counterespionage Section of the US Department of Justice. This is an official document that the organisation received. And note the number of questions they pose. Is this democratic?

JÖRG SCHÖNENBORN: Mr President, we will examine this document. I do not know if any such searches took place in the US.

I would like to ask you once again: we understand democracy as the coexistence of the state and opposition. Political competition is an integral part of it. Does Russia need a strong opposition?

VLADIMIR PUTIN: Certainly. We do need it to say the least. I believe that without competition no development in either economy, or in politics is possible today, and we want to ensure this development for our country and our people. Without this competition we would not be able to make effective, sound and justified decisions. Which is why we will undoubtedly strive to make the competition a cornerstone of every sphere of our society's life, including politics.

But this does not mean that opposition should be financed from abroad, don’t you think? Or do you have a different opinion?

JÖRG SCHÖNENBORN: Does this imply that the opposition can freely participate in demonstrations?

VLADIMIR PUTIN: Absolutely, as long as they abide by the law. There are certain rules that provide for various forms of political activity. Voting means publicly expressing your opinion, as does participating in demonstrations. There is law. Good or bad, it can be changed democratically, but it must be abided by. Ordnung muss sein. It is a well-known rule. It is universal and applicable in any country. There must be order, and there must be no chaos. Northern Africa is a vivid example of what chaos leads to. Does anybody want that?

As for the activities of the opposition, I would like to draw your attention to the following fact. Just recently, a political party was required to have at least 50 thousand members to be registered. We have radically reduced this number: now one only needs 500 members to register a party and engage in legal political activities. 37 parties have already been registered, and, I think, several dozen more have filed their applications. This is how it is going to be, we will encourage this political competition.

We have changed the procedure for the election of members of the upper chamber of the Russian Parliament, the Federation Council; now they are elected by secret ballot by citizens of corresponding regions. By the way, I do not think that the upper chamber of the German Parliament is elected this way: if I am not mistaken, its members are elected by their respective landtags.

In this regard, we have gone further; I refer to the election of heads of the Russian regions that I reintroduced. We have returned to direct voting by secret ballot. Germany elects heads of its regions through landtags. Many of our political actors thought that we should go back to forming the Parliament through a mixed election system with simple majority rule nominations and strict party-list nominations. We have arrived at this mixed system, so we are moving, we are looking for those forms of our society’s political organisation that would be most suitable for us at this stage and would satisfy the requirements and aspirations of our people. This, of course, concerns political parties as well. Naturally, we want competition.

JÖRG SCHÖNENBORN: You are going to Germany for a major trade fair. The economic relations between our countries are important for you, I believe. Are you worried that the issues we have just discussed may cast a shadow over your visit?

VLADIMIR PUTIN: No, on the contrary, I am very glad about it. And I am glad about our today's interview too because this gives us an opportunity to clarify the situation, to explain what is actually happening and what guides us. Now, what was your first question? About searches and arrests. What searches? What arrests? Who has been arrested? Can you give me at least one name? This is not true. Don’t make anything up.

JÖRG SCHÖNENBORN: I didn't say anything about arrests. I spoke about searches.

VLADIMIR PUTIN: It sounds alarmist: "Hey everyone! Look! Terrible things are happening here!" Well, yes, there is the Prosecutor General’s Office of the Russian Federation that is obliged to ensure that the laws adopted in the Russian Federation are respected. And all the citizens, all organisations, all individuals and legal entities operating in Russia must take this into account and have due respect for Russian law.

JÖRG SCHÖNENBORN: What are you expecting from your visit to Germany in terms of economy? I assume you are going to encourage the Germans to invest. What exactly are you expecting?

VLADIMIR PUTIN: Russia and Germany are very important partners for each other. This is really so. The EU countries and the EU itself are our major commercial partners. They account for over 50 percent of our turnover. Well, the figure can fluctuate a bit: a little over 50, a little under 50 percent due to the economic difficulties faced by the Eurozone and the EU. It is under 50 at the moment, I believe, but it is still a lot. In absolute numbers it amounts to over $430‑450 billion. We are EU's third major commercial partner after the US and China, and the difference is not very big. If our total turnover with Europe amounts to some $430-450 billion, the turnover for the US is a little over $600 billion and $550 billion for China. So as you can see, not that big of a difference.

Germany is our primary European partner. Our turnover amounts to $74 billion and it continues to grow no matter what difficulties there might be. To make it clear for both Russian and German citizens, I need to say that these are not just numbers; there are jobs behind these numbers, there are cutting edge technology behind them, moving in both directions.

By the way, as far as Germany is concerned, the trade pattern is not only in line with its economic capabilities but also in line with its interests since the emphasis in trade and economic cooperation with Germany is put on the industrial production. And behind this – let me stress this once again – there are thousands if not tens of thousands of jobs, and the incomes of Russian and German families. Besides, Russia supplies 40 percent of all natural gas and 30 percent of all oil consumption in Germany.

We are expanding our cooperation in high technology sectors, aviation, engineering, including transport engineering, nanotechnologies, and next-generation physics engineering. This is a very diverse, interesting and promising cooperation.

Germany is one of our major investors with $25 billion in accumulated investments. Last year alone their amount increased by as much as $7.2 billion. This means that Germany invests rather actively in the Russian economy. I would like to stress again that all this is important, interesting and promising.

We are going to have six pavilions [at the trade fair], large ones. They are all united by a single slogan – the industrial production, in which Germany has always been strong, and which is of interest to us. Over a hundred large Russian companies will be exhibiting in those pavilions.

I invite you and all our friends in Germany to visit the 2013 Hannover Messe and Russia’s pavilions there.

JÖRG SCHÖNENBORN: You've spoken about 27 billion of German direct investment in Russia. I would now like to touch upon the Cyprus issue. A lot of Germans realised for the first time how much Russian money is there in Cypriot banks and are now wondering why German businesses have to make investments while you pull your money out of Russia?

VLADIMIR PUTIN: Don't you see all the absurdity of your question? Just please don't get me wrong. What does Russia have to do with Russian investors in one of the EU countries? The more you "pinch" foreign investors in the financial institutions of your countries, the better for us because the affected, offended and frightened (not all of them but many) should, so we hope, come to our financial institutions and keep their money in our banks.

Why, at some point, many Russian investors moved their funds to zones such as Cyprus? Because, frankly speaking, they did not feel they could rely on the Russian financial system. And, indeed, it was not reliable. Just recall the year 1998 – an economic collapse, or the year 2000 (and that was already our common problem) – again there were widespread fears regarding the future of the financial system. But in 2008, when the new crisis hit, we not only managed to preserve the integrity of our financial system, we strengthened it without letting a single financial institution collapse. There were problems, of course, but we did not allow any of the financial institutions to abandon their customers. Of course, people went through a lot of hardships during the crisis but we arranged the work of our banking system in a way that made it possible not only to support but also to strengthen it while taking some measures to carefully restructure it, again in order to strengthen it. And I hope that people today will understand that.

Forfeiture of investors' funds, including of Russian origin, wherever it happens, in Cyprus or in other places, undermines credibility of the banking system of the entire Eurozone.

Now regarding the issue of whether to provide support or not and who is to blame. Is that fair, that people invested their funds, merely deposited their money with banks without breaking any laws, whether the laws of Cyprus or those of the European Union, just to see 60 percent of their deposits forfeited? They did not violate any rules. As to the allegations that Cyprus was, as they say in the financial community, a laundry for dirty money, they have to be supported with hard facts. One of the basic rules that we all are supposed to know and observe is the rule of the presumption of innocence. A person is presumed to be innocent until proven guilty. How can we ignore that? How can we accuse all people concerned of being crooks? Then anybody can be declared a crook.

Did we create that offshore zone? No, we didn’t. It was the European Union that created it. Or, rather, it was created by the Cyprus authorities with the connivance of the European Union. And is it the only such zone created by countries of the European Union? Are we not aware of offshore island zones in Great Britain or of other such zones? They do exist. If you consider such zones a bad thing, then close them. Why do you shift responsibility for all problems that have arisen in Cyprus to investors irrespective of their nationality (British, Russian, French or whatever else).

I have met with senior officials of the European Commission. We have very good personal relations, though we disagree on many issues. Is it Russia's fault that Cyprus is now facing problems? Indeed, incoming investors are a positive factor as they support the banking system and the entire economy of the host country with their funds and their trust.

JÖRG SCHÖNENBORN: You are angry that the European Union did not ask you for help and that many Russian nationals were affected, are you?

VLADIMIR PUTIN: Of course, not. On the contrary I am even glad, to some extent, because the events have shown how risky and insecure investments in Western financial institutions can be. By the way, our tax regime in that context is also more favourable than yours. The income tax rate for individuals in Russia is only 13 percent. What about Germany? How much do you pay?

JÖRG SCHÖNENBORN: It would be great if we paid only 13 percent. Of course, it would be great. Fight against tax increases is a hot topic during the election campaign.

VLADIMIR PUTIN: So, fight for tax cuts.

JÖRG SCHÖNENBORN: Mr President, I would like to touch upon the issue of euro. You spoke about the European financial system. Russia holds more than 40 percent of its currency reserves in euro, which makes you keenly interested in euro. Do you still trust euro?

VLADIMIR PUTIN: First, I would like to say it outright: yes, we trust euro. We also trust the economic policy of major European countries, including, in the first place, the economic policy of the government of the Federal Republic of Germany. We are fully aware of various opinions on that issue, including on aspects, such as economic development, maintenance of economic growth and ensuring monetary stability. I agree with the opinion that, before pumping liquidity, it is necessary to address the root causes of crises.

But I wouldn't like to go into detail now and discuss the issue that has no direct bearing on us as that is the prerogative of the leaders of the European countries themselves.

However, judging by what we hear and see, what our colleagues are doing in the leading economies of the Eurozone, what the European Commission itself is doing, – and I would like to repeat that we do not agree on many issues and we do argue – we believe that fundamentally they are moving in the right direction. It gives us confidence that we have made the right choice having decided to keep such a large share of our gold and currency reserves, of our reserves in general in the European currency. I am confident that if the situation continues to develop the same way, our colleagues and friends in Europe will overcome the difficulties they are facing today.

And our reserves are rather substantial: the Central Bank reserves worth $534 billion, another $89 billion representing one of the Russian Government’s reserve funds, another $87 billion (a third fund) representing the second government fund, the National Welfare Fund. So, this is a rather substantial amount of money.

JÖRG SCHÖNENBORN: Mr President, our time is almost up, but I would like to draw your attention to another crisis area that raises great concerns in Germany – that is Syria. Hundreds of people die there every day. Your stance and the stance of the West in the UN Security Council obviously differed.

I would like to ask you the following. How do you see the opportunities for stopping the bloodshed? What are the Russian authorities doing, what is the Russian Government doing to finally put an end to this bloodshed?

VLADIMIR PUTIN: I think that we should seek an immediate cessation of hostilities, of shelling from both sides, and a cessation of arms supplies.

We often hear: "Russia is supplying arms to Assad." First of all, there are no bans on arms supplies to incumbent legitimate governments. Secondly, only recently the opposition has received 3.5 tons of arms and munitions through the airports near Syria. This is the information published by the American media, I believe, by The New York Times. It has to be stopped.

However, – I would like to stress once again and I believe it is extremely important, – there is international law. There are international legal norms stating that it is inadmissible to supply arms to the armed groups that strive to destabilise the situation in a certain country with the use of arms. Such norms exist and they remain in force; nobody abolished them. So, when they say that Assad is fighting against his own people, we need to remember that this is the armed part of the opposition. What is going on is a massacre, this is a disaster, a catastrophe. It has to be stopped. It is necessary to bring all the warring parties to the negotiation table. I believe that this is the first step that has to be done, and then it is necessary to elaborate further steps during a discussion, which is important in our view.

I have already said it in public and I would like to tell you this, so that your viewers also know about our real position. We do not think that Assad should leave today, as our partners suggest. In this case, tomorrow we will have to decide what to do and where to go. We have done it in many countries. To be precise, our Western partners have. And it is unclear where Libya will go. In fact, it has already split into three parts. We do not want to have the situation of the same difficulty as we still have in Iraq. We do not want to have the situation of the same difficulty as in Yemen, and so on.

Therefore, we believe that it is necessary to bring everyone to the negotiation table so that all warring parties could reach an agreement on how their interests will be protected and in which way they will participate in the future governance of the country. And then they will work together on the implementation of this plan with due guarantees of the international community.

By the way, at the recent forum in Geneva (a few months ago) an agreement was reached on this issue, but later our Western partners unfortunately went back on these agreements. We believe that it is necessary to work hard and search for mutually acceptable solutions.

Recently, we have received Mr Hollande, President of the French Republic. I think he has some interesting ideas that can be implemented, but it requires some diplomatic work. We are ready to support these ideas. We need to try and put them into practice.

JÖRG SCHÖNENBORN: Mr President, at the end of our interview I would like to go back to the topic that we have started with. Democracy is a very controversial issue. I would like to quote your Prime Minister. Mr Medvedev said that the democratic changes in Russia can be assessed only in 100 years. In our view, this is not very ambitious.

VLADIMIR PUTIN: It may be a translation issue. Could you tell me again what he said exactly?

JÖRG SCHÖNENBORN: In essence, Russia's Prime Minister Dmitry Medvedev said that "development of democracy in Russia can be assessed no earlier than in 100 years." My question is whether there are truly no ambitions about it.

VLADIMIR PUTIN: To be honest, I have not seen or heard of Prime Minister saying that, and it is always necessary to consider the context which I am lacking now.

It is obvious that we have made a decisive choice for democracy and we cannot imagine any other way of development. It is also obvious that certain standards used in some countries are difficult to implement or apply elsewhere. I think it is quite clear. We need to develop tools based on the fundamental principles of democracy that would allow for the vast majority of people in our country to influence domestic and foreign policy. It is the majority that must have such an influence, but the majority should also respect the opinion of the minority and consider it. If our domestic policy and public institutions are fully based on such fundamental principles, then it seems to me, we will be able to talk about the success of democracy in Russia. Nevertheless, it is obviously the path that Russia has chosen, the path that it follows. Just compare the situation in the Soviet Union and in modern Russia in terms of development of economy, political sphere, and all other areas associated with democracy. There is a very significant difference. It took other countries 200, 300, 400 years to achieve this goal. Do you expect us to cover this distance within two decades? Of course, we are gradually taking all the necessary steps. We know our destination, and will not abandon this path.

JÖRG SCHÖNENBORN: In conclusion, I shall try to ask you a personal question.

You were President for eight years, and then you became Prime Minister. You will be President for the next six years. Do you have a personal plan? Do you want to be President as long as you are elected? Or may be you have some plans about your life afterwards?

VLADIMIR PUTIN: Every normal person tries to look some distance ahead. Moreover, I am far from being the longest serving politician. There are people in leading positions in European politics who have worked there much longer than me, both in Europe and in North America, Canada actually. However, I do expect that after my retirement from political life and public service I will have an opportunity to busy myself with other things and challenges. I like jurisprudence and literature, and I do hope I will have a chance to occupy myself with these without any link to my public service duties. May be, I will look into other issues. It can be social life, sports, etc.

JÖRG SCHÖNENBORN: Thank you very much for the interview, Mr President.




Da: partigiani7maggio @ tiscali.it

Oggetto: Ritagli dai periodici Panorama e Patria Indipendente, 1971-1975

Data: 27 aprile 2013 14.39.30 GMT+02.00

Rispondi a: partigiani7maggio @ tiscali.it


I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA
Storie e memorie di una vicenda ignorata

Roma, Odradek, 2011
pp.348 - euro 23,00

Per informazioni sul libro si vedano:



Giacomo Scotti ci ha gentilmente donato la sua raccolta dei ritagli dai periodici Panorama (Fiume) e Patria Indipendente (organo dell'ANPI)
Si tratta di articoli pubblicati tra il 1971 ed il 1974, tutti riguardanti le vicende e le memorie dei partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana. 


Ecco un indice degli articoli nel dettaglio (cliccando sui link gli articoli si aprono come files PDF e sono così integralmente leggibili):

Riferimento
Titolo
Autore
Serie
Parole chiave
Personaggi
Panorama, ?? nov. 1971, n.??, pp.5--8
Hanno combattuto in Umbria, si sono incontrati a Nikšić
Oscar Pilepić
--
Brigata Gramsci, raduno di Nikšić
Svetozar Laković, Giulio Mazzon, Bogdan Pešić, Vero Zagaglioni ...
Patria, 28 nov. 1971, n.6, pp.??Dopo ventisette anni un incontro di partigiani montenegrini e italiani che combatterono insieme nell'UmbriaBruno Zenoni, Remo Righetti
--
Brigata Gramsci, raduno di NikšićSvetozar Laković, Giulio Mazzon,
Patria, 12 dic. 1971, n.10, pp.??Ad Anghiari e Micciano un centinaio di tombe di deportati jugoslavi--
--
Anghiari / La Motina, elenco Micciano--
Panorama, 31 ott. 1971, n.20, pp.12-13Anghiari non dimentica gli internati
Giorgio Caputo
Combattenti jugoslavi in Italia / 1
Anghiari / La Motina, Micciano
Adamo Luzzi
Panorama, 15 nov. 1971, n.21, pp.10-11Arso il corpo del medico BulatovićGiorgio CaputoCombattenti jugoslavi in Italia / 2
Anghiari / La Motina, Cantiano
Dušan Bordon, Batrić Bulatović, Radovan Bulatović, Mario Depangher, Djuro Franisić, Juliji Kačić, Zoran Kompanjet, Nazzareno Lucchetta, Giuseppe Mari, Giuseppe Panico, Poldo Vrbovšek ...
Panorama, 30 nov. 1971, n.22, pp.12-13Da solo Milan sparò per ultimoGiorgio CaputoCombattenti jugoslavi in Italia / 3Acqualagna, Battaglione Stalingrado, Fossombrone, Dalmazia
Milan ??, Luca Carvisiglia, Giuseppe Mari, Milutin Pavličić, Marko Petrović, Osvaldo Rabascini, Poldo Vrbovšek ...
Panorama, 15 dic. 1971, n.23, pp.12-13In tre il temerario colpo di mano a CagliOscar PilepićCombattenti jugoslavi in Italia / 4Cagli, Cantiano
Poldo Vrbovšek ...
Panorama, 31 dic. 1971, n.24, pp.10-11Dieci partigiani formavano il "battaglione"Oscar PilepićCombattenti jugoslavi in Italia / 5
Battaglione Stalingrado, elenco Micciano
Matija Čujović, Poldo Vrbovšek
Panorama, 15 gen. 1972,                   n.1, pp.?? (*)
N.D.N.D.Combattenti jugoslavi in Italia / 6
N.D.N.D.
Panorama, 31 gen. 1972, n.2, pp.8-9La fraternità non è solamente un ricordoGiorgio CaputoCombattenti jugoslavi in Italia / 7Battaglione StalingradoGiuseppe Mari
Panorama, 15 feb. 1972, n.3, pp.10-11Scompare la pariglia del comandante nazistaGiorgio CaputoCombattenti jugoslavi in Italia / 8
Etiopia, Vernet, Genova, VI Zona op. ligure 
Ilio Barontini, Grga Čupić, Bruno Rolla, Krešimir Stojanović, Anton Ukmar, ...
Patria, 14 ott. 1973, n.14, pp.??Macerata e la lotta partigiana
[recensione di Pantanetti 1973]

?? (incompleto)
--
Gruppo Bande Nicolò
Augusto Pantanetti, Sandro Pertini, ...
Panorama, 15 dic. 1974, n.23, pp.16-17Quindici tedeschi uccisi
quindici fucili conquistati
Jovan DujovićIl contributo dei Montenegrini alla resistenza italiana / 1Brigata Gramsci, raduno di NikšićSvetozar Laković, Boro Mečikukić ...
Panorama, 31 dic. 1974, n.24, pp.16-17Denudato dalle raffiche di mitraJovan DujovićIl contributo dei Montenegrini alla resistenza italiana / 2
Brigata Gramsci, Monte                     Cavallo
Alfredo Filipponi, Svetozar Laković, Boro Mečikukić, ...
Panorama, 15 gen. 1975, n.1, pp.16-17Rivoltella alla gola e l'uomo si arreseJovan DujovićIl contributo dei Montenegrini alla resistenza italiana / 3
Brigata Gramsci, Battaglione Peko Dapčević, raduno di Nikšić, Camerino, offerte tedesche
Gojko Bojičić, Vasko Čokorila, Gojko Davidović, Svetozar Laković, Boro Mečikukić, ...
Panorama, 31 gen. 1975,                   n.2, pp.?? 
(*)
N.D.N.D.Il contributo dei Montenegrini alla resistenza italiana / 4N.D.N.D.
Panorama, 15 feb. 1975, n.3, pp.16-17Battaglione Tito missione finitaJovan DujovićIl contributo dei Montenegrini alla resistenza italiana / 5Brigata Gramsci, raduno di Nikšić, raduno di Terni, Norcia, Gravina
Bogdan Pešić, Ilija Radulović, Kosta Vujović
Patria, ?? ?? 1974, n.??, pp.??Sui Monti di Acquasanta dell'Ascolano un incontro internazionale di pace--
--
Pozza, Umito e Pito
Vinko Antić, Novita Lasik ??, Rajko Neradović, Milan Novaković, Djoko Pejović, Vujadin Vujović
Panorama, ?? ?? 1975, n.??, pp.??Partigiani jugoslavi nella Resistenza Teramana. Un contributo di 24 cadutiRiccardo Cerulli
--
Bosco Martese, ...
Riccardo Cerulli, Spiro, ...

(*) Saremo grati a coloro i quali potessero reperire e fornirci gli articoli mancanti delle serie:
Combattenti jugoslavi in Italia / 6, uscito su Panorama (Fiume) del 15 gen. 1972, n.1, pp.??, autore presunto: Oscar Pilepić o Giorgio Caputo
Il contributo dei Montenegrini alla resistenza italiana / 4, uscito su Panorama (Fiume) del 31 gen. 1975, n.2, pp.??, autore presunto: Jovan Dujović






(en francais: 

« Les dirigeants européens ne supportent plus la démocratie » 
Entretien avec Pierre Lévy, diseur de mésaventures européennes - par Grégoire Lalieu
http://www.michelcollon.info/Pierre-Levy-Les-dirigeants.html 

A lire aussi: 

La retraite à 80 ans ? Plongée dans l'Europe de 2022 - par Pierre Lévy
Extrait du livre "L'insurrection" gracieusement proposé par l'auteur pour les lecteurs d'Investig'Action
http://www.michelcollon.info/La-retraite-a-80-ans-Plongee-dans.html

Traditions impériales - par Pierre Lévy
Une mise au pas pour Chypre et la Syrie, un grand pas pour le droit d'ingérence.
http://www.michelcollon.info/Traditions-imperiales.html )

Pierre Lévy: “I dirigenti europei non sopportano più la democrazia”


di Grégoire Lalieu


Grégoire Lalieu è un assiduo collaboratore di Investig’Action, un gruppo di giornalisti con sede a Brussels, diretto da Michel Collon, con l’obiettivo di investigare sulle notizie in modo indipendente.


(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)


25 aprile 2013


Che cosa ci riserva l’Unione europea? Ex sindacalista in una grande azienda, oggi giornalista, Pierre Levy, in particolare, ha cercato di rispondere a questa domanda attraverso il suo ultimo libro, “L’Insurrection”. Un libro fortemente politico che spazia nei campi dell’economia, del sociale e della geopolitica.

Il sottotitolo del libro, “il favoloso destino dell’Europa all’alba dell’anno di grazia 2022”, non è un puro prodotto della fantasia di Pierre Lévy, ma ci rinvia ad una inquietante attualità e solleva una questione: bisogna restare nell’Unione europea? L’argomento è tabù, tuttavia merita un vero dibattito che viene aperto su Investig'Action.



Il suo romanzo ci fa piombare nel 2022, e dalle prime righe questo futuro non troppo lontano ci appare insieme assurdo e spaventoso. Ma, cosa ancora più spaventosa, ci si accorge subito che questo mondo non è puro frutto della sua immaginazione, ma si basa su elementi attuali decisamente realistici…

Questo è lo spirito del libro. Anche se questo è un libro molto politico, ho preferito una forma insolita per un saggio. Volevo ridere di cose che non sono affatto divertenti, portando all’assurdo ed estremizzando le logiche attuali. L’idea era quella di capire cosa sta succedendo oggi in campo economico, politico, sociale e geopolitico, andare fino in fondo. Sperando che tutto ciò faccia riflettere.

La grande paura, in ultima analisi, è che la realtà raggiunga la finzione. A Cipro, per esempio, la BCE e il FMI avevano previsto di attingere direttamente dai risparmi dei cittadini, compresi anche i più modesti. Alla fine sono stati costretti a rivedere parzialmente i loro piani. Ma abbiamo assistito a qualcosa che difficilmente si poteva immaginare solo qualche mese fa. Tutto ciò dimostra che può accadere di tutto, anche molto velocemente.


Il suo lavoro spazia efficacemente su molti temi. Dal punto di vista socio-economico, il futuro è poco divertente. Ad esempio, lei immagina un mercato del lavoro totalmente privo di regole, con situazioni a volte assurde. In buona sostanza, quali sono le dinamiche attuali che l’hanno ispirata?

A volte è difficile distinguere tra finzione e realtà. Ogni giorno, gli ultraliberisti ci spiegano che avere un impiego è un privilegio. Bisogna perfino meritarselo! D’altronde, nel linguaggio corrente, si parla di “conseguire” un lavoro. Come se fossimo in un’arena e i più meritevoli si battessero per conseguire la coda di Topolino.

Allora, nel libro spingo questa logica all’estremo. Se il lavoro è un privilegio, non è possibile pretendere di essere pagati, avendolo conseguito. Al contrario, sarebbe opportuno acquistare questo privilegio. Quindi, i posti di lavoro vengono messi all’asta e sono “conseguiti” dai migliori offerenti.


I funzionari pubblici non sono risparmiati ...

Assolutamente. Oggi, essi sono l’obiettivo privilegiato dei nostri economisti di riferimento. È ben noto, i dirigenti funzionari sono pagati per non fare nulla! Quindi immagino una sorta di gioco alla Koh- Lanta [Koh-Lanta, versione francese, ambientata in Cambogia, del “Survivor” americano, un format diffuso in tutto il mondo e approdato anche in Italia nella variante con sedicenti celebrità come protagoniste: “L'isola dei famosi”,… appunto], dove le telecamere sono disseminate in tutte le sedi del servizio pubblico. E spetterebbe agli utenti internauti monitorare di continuo i funzionari e decidere quali di costoro dovrebbero essere licenziati prioritariamente.

Deve essere chiaro che, al di là di una ironica strizzatina d’occhio, esiste una realtà terribile. Penso a paesi come la Grecia, la Spagna o il Portogallo. E in Francia e in Belgio, il rischio di andare in quella direzione, purtroppo, non si discosta molto dalla fantasia.


Nel testo si capisce che, nel 2022, il neoliberismo è re. Inoltre, lei immagina la privatizzazione delle istituzioni che avevano fino ad allora resistito.

Sì, per esempio questo è il caso della Giustizia. Nel libro, i tribunali sono direttamente sottoposti a criteri di produttività e competitività. E per i “clienti”, coloro che avranno più soldi potranno scegliersi le corti più clementi.


Lei esplora in modo largo il terreno socio-economico. Un settore che lei dovrebbe ben conoscere visti i suoi trascorsi da sindacalista?

In effetti sono stato per tanto tempo un attivista sindacale in una grande impresa metallurgica.


Un settore particolarmente in crisi in questo momento! Lei, come spiega questo tracollo?

Sì, quello che sta succedendo oggi con Mittal riguarda Belgi, Francesi, Lussemburghesi e, in generale, tutti coloro a cui era stato promesso che la creazione di un colosso europeo ci avrebbe aiutato ad “affrontare i paesi emergenti”.

[N.d.tr.: La ArcelorMittal è un colosso industriale mondiale, leader nel settore dell’acciaio, nato dalla fusione di due tra le più grandi aziende del settore, la Arcelor e la Mittal Steel Company, avvenuta nel 2006. Il quartier generale si trova nella capitale del Lussemburgo. Oltre a essere il più grande produttore d’acciaio, la ArcelorMittal è anche leader di mercato nella fornitura di acciaio per l’industria automobilistica e per i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi.]

Per creare questo gigante, l’ArcelorMittal, si sono fatte scomparire le imprese nazionali. Alcune erano anche imprese pubbliche. Poi, abbiamo visto quello che abbiamo visto!

Il “gigante europeo” è stato riacquistato dal gruppo indiano. Mittal (l’uomo chiave della compagnia è il multimiliardario indiano Lakshmi Mittal) aveva promesso di salvare il settore, ma ora attacca con brutalità insolita non solo i lavoratori e l’impresa, ma anche intere regioni. Devono svilupparsi delle resistenze per arginare questo disastro industriale!


Tuttavia, ci sono personaggi nel suo libro che non si sarebbero tanto impegnati per evitare questa catastrofe industriale. Penso ad una certa tendenza ecologista su cui lei all’occasione ironizza.

Sì, anche se io ne faccio una caricatura, non mi invento nulla, purtroppo.

Un discorso attuale denuncia fabbriche che inquinano, sporcano, ecc. Quindi, immagino un Premio Nobel della de-industrializzazione, per premiare le aziende più meritevoli per il “futuro del pianeta”.

Nel mio libro, gli impianti vengono trasformati gradualmente in musei, diventano più redditizi.

E i lavoratori vengono in qualche modo trasformati in operatori saltuari nel settore dello spettacolo. Costoro testimoniano alle giovani generazioni come si viveva, pochi anni fa, in un “terrificante passato industriale”.

Il mio obiettivo è quello di sottolineare un discorso che alcuni leader ambientalisti effettivamente ci propugnano, che in buona sostanza, la cosa importante è “non avere, ma essere”. Quindi, ci viene intimato di andare verso una maggiore “sobrietà”, cosa che potrebbe in realtà giustificare le politiche di austerità che attualmente ci vengono imposte.


Lei ci rammenta quello che Jean Bricmont ha scritto nella postfazione, vale a dire che una larga parte della “sinistra” negli ultimi anni ha abbandonato la lotta contro il capitalismo per cavalcare altri cavalli di battaglia ...

…come l’ecologia, i diritti umani, la criminalizzazione del socialismo ... In realtà, il mio romanzo è proiettato verso il futuro, laddove Jean Bricmont contestualizza tutto ciò, ricordando alcuni eventi politici di questi ultimi anni. Ed egli menziona questo fatto che merita un vero dibattito. Molte persone, che fanno appello alla sinistra, ora conducono lotte che non solo non contraddicono il capitalismo, ma per giunta lo confermano. Questo vale per l’ecologia, ma anche sul piano geopolitico, con questi leader della “sinistra” che giustificano gli interventi militari della NATO o europei.


D’altra parte, questo tipo di ingerenze non è scomparso nel 2022…

Effettivamente, ho preso come bersaglio anche questo Nuovo Ordine Mondiale, che d’altra parte era stato pensato dai dirigenti occidentali. Il libro immagina che a questo orizzonte le Nazioni Unite appartengono al passato. Il mondo “ideale” è composto da grandi regioni continentali e/o da regioni etniche, sovrastate da una sorta di direttorio globale. Naturalmente, questo esecutivo rispetta i costumi degli uni e degli altri. Ma quando si tratta di prendere importanti decisioni politiche, tutto deve “armonizzarsi” a livello mondiale.


Anche adesso, a livello europeo, questa “armonizzazione” delle decisioni politiche si applica sempre più. È questo che ha contribuito ad ispirarla?

Sì, e ritengo che l’idea riposta non sia altro che quella di fare sparire i popoli. Nel mio romanzo, i leader lo dichiarano apertamente. Ma questi argomenti sono già oggi di stretta attualità: sarebbe irragionevole permettere a popoli o governi legittimi di agire di testa loro, se ciò dovesse comportare lo scompiglio dell’equilibrio sovranazionale ...


E se questo equilibrio viene minacciato, l’uso della forza rimane necessario,… anche nel 2022?

Sicuramente. D’altro canto, questo richiama la formula usata da Hillary Clinton poche settimane dopo le prime manifestazioni di protesta in Siria: “Il Presidente siriano non è più necessario”.

È stata lei a guidare la carica del campo occidentale. Bisognava sbarazzarsi del Presidente siriano e l’obiettivo era ormai palese. Questo era stato confessato già da subito, ben prima degli eventi drammatici che conosciamo oggi.

Nel libro perseguo questa logica. Un leader africano che impieghi più di un’ora a riconoscere la vittoria del suo avversario in una elezione vede il suo paese invaso da truppe d’assalto, le “forze di stabilità globale”. Queste truppe intervengono per ripristinare i “diritti umani” su richiesta di internauti e di alcuni uomini d’affari, che non possono sopportare di vedere la democrazia calpestata. Ma nei nostri paesi, tuttavia, si stima che le elezioni siano pericolose, perché potrebbero interferire con i piani in corso e perturbare l’equilibrio mondiale. Perciò, le elezioni sono sostituite da sondaggi...


[N.d.tr.: da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Con il termine internauta si designa il navigatore della Rete. L’internauta si muove nel ciberspazio, ambiente elettronico in cui le distanze sembrano azzerarsi e il tempo pare unico in tutto il globo (si può ricorrere all’ora universale, la cosiddetta “internet time”).

Il fatto di partecipare – ognuno di fronte al proprio schermo – a un’unica realtà interconnessa ha fatto venire in mente di proporre il concetto di cittadinanza digitale.

Ciò che è chiaro è che i “cittadini” del cosiddetto “villaggio globale” (Marshall McLuhan) di un’ipotetica repubblica virtuale sono chiamati sempre più a partecipare e a diventare protagonisti.

Non a caso la rivista Time ha scelto come uomo-tipo dell’anno (fine del 2006) proprio l’internauta, ossia chi ha contribuito all’“esplosione della democrazia digitale”.

Questa sorta di rivoluzione pacifica si sta ripercuotendo anche sul modo in cui funzionano i mass media tradizionali: si tende a passare da un modello di tipo passivo (utente che guarda immagini o ascolta la radio, sulla base di palinsesti prefissati) a una modalità interattiva (scelta dei palinsesti, anche via internet), con l’esito più recente di un’informazione fatta dagli internauti stessi: è il cosiddetto citizen-journalism, ossia il giornalismo dei cittadini che inviano immagini e scrivono nei blog, oppure inseriscono le proprie opere e il proprio vissuto in siti fai-da-te, tipo MySpace o YouTube (il cui numero di contatti sta crescendo molto rapidamente).]


La democrazia e la sovranità sono due concetti che lei ha fatto sparire dal futuro. Perché?

In buona sostanza, Democrazia e Sovranità rinviano allo stesso concetto, come noi lo abbiamo ereditato in particolar modo dagli Illuministi, dopo secoli di lotte: ogni popolo è sovrano, non devono esistere potenze che lo sovrastano per intimargli ciò che deve fare. Ma questa filosofia politica avanzata è diventata estremamente fastidiosa per i sostenitori della globalizzazione e di questa governance globale, che cancellerebbe la sovranità dei popoli.

Oggi, i leader europei non supportano la democrazia.

Abbiamo avuto un esempio paradigmatico con i referendum irlandesi nel 2001 e nel 2008: la risposta non era soddisfacente per l’Unione europea, dunque i cittadini sono stati costretti a tornare alle urne. Un altro esempio è stato il referendum del 2005 in Francia. Nonostante la massiccia opposizione al Trattato costituzionale, i leader europei sono riusciti a rifilare il contenuto del testo sotto un’altra forma.

La democrazia è stata strapazzata, per esempio, anche in Portogallo, dove, nel 2011, il governo di José Socrates ha chiesto un piano di salvataggio europeo in cambio di misure drastiche. Ma questo governo è stato costretto alle dimissioni e si sono svolte elezioni anticipate. Allora, senza tante storie la Commissione europea ha avvertito i Portoghesi: “Voi avete il diritto di voto, naturalmente. Tuttavia, qualunque sia l’esito del voto, l’accordo sottoscritto tra il governo in uscita e la Troika non potrà essere oggetto di revisione!”


Questi referendum e questa elezione rasentano l’assurdo e sembrano direttamente ricavati dal suo romanzo. Eppure questa è la realtà!

La democrazia è diventata un concetto totalmente adulterato dall’Unione europea. Certo, possiamo scegliere il colore dei marciapiedi. Ma è chiaro che le decisioni più importanti devono essere messe al riparo dai “capricci popolari”. La novità è che i dirigenti europei lo dichiarano apertamente.

Dovremmo accettare tutto ciò, o varrebbe la pena di tentare di mettersi di traverso a questo processo? Questa è la domanda posta dal libro in filigrana, attraverso un umorismo nero. Comunque, mi sono divertito molto a scrivere il libro e, per i riscontri che ho ricevuto, le persone hanno cominciato a leggerlo. Ma evidentemente si ride amaro, perché si riconosce una situazione drammatica.


Se vale la pena di mettere fine a questa follia, secondo lei cosa possiamo fare?

Esistono le condizioni per mettersi insieme, per non finire triturati dalla macchina.

La principale condizione, e a questo proposito non si parte dal nulla, consiste nell’organizzare grandi dibattiti popolari sulla natura stessa delle decisioni assunte dai nostri dirigenti.

Prendiamo per esempio le pensioni. Non credo che i nostri politici siano cattivi per natura, e né che Sarkozy prima, e Hollande poi, siano diventati pazzi. Invece, possiamo constatare che le “riforme” in materia pensionistica sono in corso anche negli altri paesi dell’Unione europea, e che ad ogni vertice europeo si raccomanda la loro applicazione.

I nostri leader non sono né pazzi né malvagi. Semplicemente, hanno deciso collettivamente per una camicia di forza, e di questo ne fanno un punto irremovibile.

Inoltre, questo giogo è molto coerente. Dunque, la prima condizione è di prendere coscienza della coerenza della camicia di forza imposta dall’Europa. Ma, disgraziatamente temo che molte forze politiche, che si dicono situarsi a sinistra, e allo stesso modo alcuni sindacati, stanno imbrogliando sulla camicia di forza rappresentata dall’Unione europea.


Come funziona questa camicia di forza imposta dall’Europa?

L’Unione europea non è responsabile per tutto. Ogni governo è in grado di prendere misure anti-sociali. Ma la specificità della camicia di forza europea consiste in ciò che viene chiamato nel gergo di Bruxelles una “cultura acquisita comunitaria”.

In realtà, i “progressi europei” - vale a dire, nello specifico, i regressi sociali - sono irreversibili, secondo il meccanismo dei Trattati. In modo che, se domani, un governo progressista venisse eletto in Belgio, e il suo desiderio fosse quello di perseguire importanti riforme, verrebbe bloccato dagli impegni presi dai governi precedenti, impegni che sono incisi nel marmo dei Trattati.

Io sono redattore capo del mensile “Bastille-République-Nations”. Il nostro obiettivo è di dimostrare che i meccanismi stessi dell’Unione europea sono progettati per soggiogare i popoli. La nostra non è una dimostrazione astratta o dogmatica. Questo è ciò che verifichiamo costantemente nell’attualità. Questo viene dimostrato, per esempio, dalla “governance economica europea”, secondo cui ogni governo è tenuto a fare convalidare il suo progetto di bilancio dalla Commissione europea, prima di sottoporlo all’approvazione del Parlamento nazionale.


Bisogna lacerare la camicia di forza e uscire dall’Unione europea?

So che la questione è tabù, ma penso che questa sia la seconda condizione per non trovarci schiacciati dalla macchina.

È possibile ancora nutrire l’illusione di essere in grado di cambiare le cose dal di dentro, come alcuni pretendono di tentare da oltre 50 anni, (il famoso minuetto dell’“Europa sociale”, per esempio ...), dopo che da allora la situazione è andata sempre peggiorando? O è meglio spezzare queste catene?

Questo non verrà deciso a livello dei Ventisette membri dell’Unione, ma alcuni popoli potrebbero dare l’abbrivio per l’uscita dalla UE, in modo che ciascuno possa riprendere il controllo del potere decisionale. Ovviamente, questo va in senso contrario a tutto ciò che è sancito dai Trattati: “Sarebbe necessaria un’“unione sempre più stretta” per modellare il “destino” europeo”.

Non si parla nemmeno più di avvenire, ma di “destino”, un concetto quasi religioso che è fuori dalla portata umana!

Il lessico europeo è molto istruttivo, e anche nel libro mi diverto a giocare con questi modi di espressione. Ma è un vocabolario viziato e scorretto. Quando i nostri avversari arrivano a farci pensare con i loro stessi concetti, spossessandoci delle nostre idee, allora siamo fottuti!


Lei non pensa che un’altra Europa sia possibile?

Ogni architetto sa che un carcere non può diventare una scuola, visto che i carcerati dovrebbero essere sostituiti da studenti. L’architettura dell’edificio non è concepita per questo. Allo stesso modo, se per caso i capi della mafia venissero toccati dalla grazia, e improvvisamente decidessero di riconvertirsi per aiutare gli indigenti, la struttura della loro organizzazione impedirebbe tale conversione ...

Per l’Unione europea, non si tratta solo di una questione del perseguimento di cattive politiche. Sono gli stessi meccanismi dell’Unione che costituiscono una sorta di leva per fare in modo che l’azione collettiva della classe dominante venga potenziata e presentata come irreversibile.

Questo può essere verificato empiricamente. Già nel 1982, Mitterrand, pochi mesi dopo la sua elezione, dichiarava: “L’Europa sarà sociale, o non sarà”. Abbiamo visto cosa ne è stato.

Negli anni ‘90, i tre quarti dei governi dell’Europa dei Quindici facevano appello alla “sinistra” con diverse motivazioni. Ad un congresso dei Socialisti europei, a cui ho partecipato come giornalista, i dirigenti ribadivano di avere un’opportunità unica per costruire l’Europa sociale, e che i popoli non li avrebbero perdonati se non avessero afferrato questa opportunità.

Ancora una volta, abbiamo visto il risultato.

Si potrebbe affermare che questi dirigenti erano dei traditori. Ma il fatto è che la pressione a cui sarebbero stati sottoposti questi leader nei loro rispettivi paesi veniva controbilanciata dai meccanismi del sistema dell’Unione europea.


Quindi, questi dirigenti non hanno alcuna responsabilità?

Sì, naturalmente. Le loro responsabilità sono enormi, in quanto collettivamente possono determinare i grandi orientamenti. Ma dopo ogni vertice, dove sono passate misure antisociali, ognuno può ritornare a casa e dire ai cittadini: “Oh, mi dispiace, ma c’è l’Europa!”


Allora, i paesi europei non hanno alcun interesse ad unirsi?

Naturalmente, essi hanno tutto l’interesse a mantenere e sviluppare buoni rapporti. Ma perché dovrebbero vivere con delle istituzioni integrate che lasciano fuori i paesi di altri continenti?

Ho grande simpatia per i Lettoni o gli Sloveni, ma mi sembra che i Francesi abbiano più legami - culturali, storici, geografici, linguistici, perfino famigliari - con i Senegalesi o gli Algerini, per esempio.

Contrariamente a quanto sostenuto, l’Unione europea non ci permette di aprirci, ci contiene.

Inoltre, sicuramente deve essere costruita una solidarietà nelle lotte a livello europeo, ma non solo. La solidarietà deve stabilirsi con tutti i popoli e con tutte le lotte. Si dovrebbe, per esempio, costruire decise convergenze delle lotte con i paesi latino-americani.


Giustamente, i più progressisti fra questi paesi si sono uniti mediante ALBA…

Questi paesi plaudono ad una più stretta cooperazione, ma allo stesso tempo insistono sul fatto che ogni paese deve mantenere e rafforzare la porpria sovranità nazionale. La solidarietà e la sovranità non sono in contraddizione, la sovranità è essa stessa un prerequisito necessario per la solidarietà.


[N.d.tr.: L’Alleanza bolivariana per le Americhe (ALBA) (in spagnolo Alianza bolivariana para América Latina y el Caribe) è un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi dell’America Latina e i paesi caraibici, promossa dal Venezuela e da Cuba in alternativa all’Area di libero commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Stati Uniti. L’aggettivo “bolivariana” si riferisce al generale Simon Bolivar, l’eroe della liberazione di diversi paesi sudamericani dal colonialismo spagnolo.

Il progetto ALBA è una proposta di integrazione differente dall’ALCA. Mentre l’ALCA risponde agli interessi del capitale transnazionale e persegue la liberalizzazione assoluta del commercio dei beni e dei servizi, l’ALBA pone enfasi alla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, e pertanto esprime gli interessi dei popoli latinoamericani.

ALBA è basata sulla creazione di meccanismi finalizzati alla creazione di vantaggi cooperativi fra le nazioni che permettano di compensare le asimmetrie (sociali, tecnologiche, economiche, sanitarie, etc.) esistenti tra i paesi dell’emisfero.

Si basa sulla cooperazione tramite fondi di compensazione destinati alla correzione delle disparità che pongono in posizione di svantaggio i paesi deboli rispetto alle potenze economiche. Perciò la proposta dell’ALBA dà priorità all’integrazione latinoamericana e privilegia la negoziazione tra i blocchi sub-regionali, aprendo nuovi spazi di consultazione con l’intento di approfondire la conoscenza della posizione dei paesi membri e di identificare ambiti di interesse comune che consentano di costruire alleanze strategiche e assumere posizioni comuni nei processi di negoziazione. L’obiettivo è impedire la dispersione nella negoziazione, evitando che le nazioni aderenti si contrappongano e siano assorbite nella voragine delle pressioni per la rapida costituzione dell’ALCA.]


L’uscita dall’Unione europea non rischia di favorire i nazionalismi cari all’estrema destra?

Stiamo attenti alle parole che usiamo. Difendere il quadro nazionale e rivendicare il nazionalismo, non è la stessa cosa. In francese, il nazionalismo rinvia ad una concezione aggressiva e imperialista della nazione. Per contro, la difesa del quadro nazionale non è un’idea di estrema destra, anzi.

La giunzione tra i concetti di nazione e di sovranità dei popoli è stata effettuata dai rivoluzionari del 1789 e soprattutto del 1792. Durante la battaglia di Valmy, l’esercito rivoluzionario ha bloccato la coalizione delle aristocrazie europee che volevano riportare i Borboni sul trono. Dopo l’esito di questa battaglia, fu proclamata la Repubblica. Goethe, il celebre poeta tedesco, scriveva: “Questo giorno e questo luogo segnano una nuova era nella storia del genere umano”. Per la prima volta, un popolo affermava la propria sovranità collettiva sul proprio futuro.

Jaurès ha anche affermato: “Un po’ di internazionalismo allontana dal concetto di patria, molto lo ripristina e lo consolida.” Inoltre, sottolineava che la nazione è “l’unica risorsa dei poveri”.

La difesa del quadro nazionale resta più che mai una idea fondamentalmente progressista, in quanto rinvia alla necessità che le persone possano decidere del loro futuro. In Francia, questa difesa è stata a lungo sostenuta dalla sinistra, specialmente dal movimento comunista e dalla Resistenza, che coniugavano le lotte sociali con la difesa del quadro nazionale.

E poiché abbiamo accennato poco fa all’America Latina, bisogna ancora ricordare che la parola d’ordine della Rivoluzione cubana proclamava: “Patria o muerte, venceremos!”. Allora, il Che e Fidel, agenti dell’estrema destra?


Tuttavia, se noi ora andiamo a vedere quali sono i partiti politici che sostengono l’uscita dall’Unione europea, la maggior parte sono classificati a destra dello spettro politico.

Ma di chi è la colpa? Chi ha abbandonato incolto questo terreno, sacrificando il concetto di sovranità in nome della costruzione e dell’integrazione europea?

A questo livello si è prodotto un vuoto, tanto che altre forze, che hanno chiaramente sentito il sentimento popolare, hanno recuperato e stanno ancora recuperando questo terreno abbandonato dalla sinistra. Questa situazione richiede appunto il reinvestimento in questo campo, piuttosto che abbandonarlo all’attenzione di soggetti che non hanno assolutamente in testa la difesa dei lavoratori.


Lei non teme che una rottura dell’Unione europea possa condurre a conflitti come quelli che abbiamo già conosciuto tra i diversi paesi del continente?

In sé e per sé non sono state le nazioni, ma sono stati gli scontri tra interessi imperialisti all’origine delle due guerre mondiali.

Quando ha dovuto confrontarsi con il suo stesso popolo, la borghesia francese ha più volte tentato di fare affidamento sulla grande borghesia tedesca. Alla fine degli anni 1930, la borghesia francese proclamava “piuttosto Hitler che il Fronte Popolare!”, ben prima di sguazzare nella collaborazione con le forze di occupazione per difendere i propri interessi di classe. E non era una novità. L’aristocrazia francese aveva chiamato in suo soccorso gli aristocratici europei durante la Rivoluzione. Allo stesso modo, Adolphe Thiers invocò l’aiuto di Bismarck per schiacciare la Comune di Parigi.

È una costante. Non solo le borghesie nazionali ricercano diversivi ​​nelle guerre tra nazioni quando i movimenti popolari diventano più profondi. Ma sono anche disposte a sacrificare gli interessi della nazione a tutto vantaggio dei propri interessi di classi dominanti.


Quindi, l’Unione europea non offrirebbe alcuna garanzia di pace fra i popoli?

Basta guardare cosa succede. Laddove popoli sovrani, liberi e uguali dovrebbero essere in grado di sviluppare fra di loro la cooperazione, succede il contrario. Si cerca di imporre loro le stesse regole, gli stessi modi di comportarsi e, soprattutto, le stesse battute d’arresto sul terreno.

Per questa cosiddetta pace tra i popoli, i risultati sono disastrosi. Infatti, abbiamo potuto vedere la grande stampa tedesca rappresentare i Greci come profittatori, pigri e parassiti. D’altra parte, è tale il risentimento, che nei giornali greci non si vede altro che Angela Merkel conciata in foggia hitleriana!

Sotto l’apparenza di sviluppare stretti legami, i popoli vengono posti in opposizione gli uni contro gli altri. Questo è terribile!

Il primo ministro lussemburghese Jean-Claude Junker, che è stato fino a poco tempo fa il presidente dell’Eurogruppo, in marzo ha dichiarato a Der Spiegel: “I demoni che hanno condotto allo scoppio della Prima Guerra mondiale forse sono in sonno, ma non sono scomparsi, e penso che le tensioni che conosciamo oggi ci ricordano quelle che hanno prevalso nel 1913.”

Jean-Claude Junker, tuttavia, è uno di coloro che ci hanno raccontato che l’Europa è la pace. Costoro cominciano a preoccuparsi. Il modo in cui i dirigenti europei, in particolare i Tedeschi, hanno preso possesso di Cipro è sintomatico. Loro, nemmeno vanno tanto per il sottile, e spiegano molto chiaramente che metteranno il paese sotto il giogo. Con la speranza che, se saranno in grado di dominare in tal modo un piccolo paese, l’esempio sarà dato.


Lei stesso ha affermato che ogni governo è in grado di prendere misure antisociali al di fuori dell’Unione europea. Uscire dalla camicia di forza europea basterà a proteggerci da queste politiche? Non è meglio aggredire il problema alla radice, attaccando il capitalismo?

Sono convinto anch’io che la questione fondamentale sia la logica del capitalismo. Ciò che è nuovo, sono le armi di cui il capitalismo si è dotato per meglio sottomettere i popoli. Se domani l’Unione europea non esistesse più, per questo i problemi non scomparirebbero. Non verrebbe eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e si dovrebbe continuare a combattere il capitalismo.

Ma quando si arriva a mettere fuori uso l’arma più efficace del proprio avversario, si è già fatto un grande passo in avanti.

Dobbiamo quindi dare priorità alla battaglia di oggi, che consiste nel far saltare le catene e le camice di forza. Quando le forze progressiste rimettono in causa l’Unione europea, questo offre delle opportunità. Ma quando delle forze presumibilmente progressiste continuano a ripetere “abbiamo bisogno di un’altra Europa”, sono queste forze molto meno simpatiche che si impossessano delle lotte nazionali. Con tutti i pericoli che possiamo immaginare ...


Fonte : Investig'Action 




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Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - ONLUS
https://www.cnj.it/
http://www.facebook.com/cnj.onlus/

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(in english:
«The Nato-aggression against Yugoslavia from 1999 was a model of the new wars of conquest»
“Humanitarian interventions” as a pretext for deployment of US-troops - Interview with Živadin Jovanovic, Former Minister of Foreign Affairs of the Federal Repbulic of Yugoslavia, presently Chairman of the Belgrade Forum for a World of Equals

auf deutsch:
«Die Nato-Aggression gegen Jugoslawien von 1999 war ein Modell der neuen Eroberungskriege»
«Humanitäre Interventionen» als Vorwand für Stationierung von US-Truppen - Interview mit Živadin Jovanovic, ehemaliger Aussenminister der Bundesrepublik Jugoslawien, heute Präsident des Belgrade Forum for a World of Equals
http://www.zeit-fragen.ch/index.php?id=1403

en francais:
«L’agression de l’OTAN contre la Yougoslavie en 1999 était un modèle des nouvelles guerres de conquête»
«Interventions humanitaires» – prétexte pour le stationnement de troupes américaines - Interview de Živadin Jovanovic, ancien ministre des Affaires étrangères de la République fédérale de Yougoslavie
http://www.horizons-et-debats.ch/index.php?id=3886 )



Živadin Jovanovic: «L’aggressione NATO contro la Jugoslavia del 1999 fu un modello delle nuove guerre di conquista»

29 Aprile 2013

da www.horizons-et-debats.ch | Traduzione di Anna Migliaccio per Marx21.it

«Interventi umanitari: pretesti per lo stazionamento delle truppe americane>

Intervista a Živadin Jovanovic, già ministro degli Affari Esteri della Repubblica federale di Jugoslavia, oggi presidente di Belgrade Forum for a World of Equals.

In senso lato, si deve considerare come l’aggressione della NATO abbia segnato un cambiamento strategico nell’essenza dell’Alleanza atlantica: essa ha abbandonato la politica di difesa ed ha introdotto una politica offensiva (aggressiva), autorizzando sé stessa ad intervenire in qualunque momento ed in qualunque punto del globo. L’ONU e il suo Consiglio di sicurezza sono stati cortocircuitati, il diritto internazionale e la giustizia violate. 

Dibattiti e Orizzonti: 

Signor Jovanovic, potrebbe presentarsi brevemente ai nostri lettori e dirci qualcosa di sé stesso e della sua carriera?


Živadin Jovanovic: Nel 1961, ho terminato i miei studi alla Facoltà di Diritto dell’Università di Belgrado, dal 1961 al 1964 ero nell’Amministrazione del distretto della città di Novi Belgrade; dal 1964 al 2000 ho servito presso il servizio diplomatico della Repubblica Federale socialista di Yougoslavie (a partire dal 1992 Repubblica federale di Yugo­slavia, dal 1988 al 1993 sono stato ambasciatore a Luanda/Angola, dal 1995 al 1998 ministro degli affari esteri supplente e dal 1998 al 2000 ministro degli affari esteri). Dal 1996 al 2002 sono stato vice presidente dl Partito socialista della Serbia per gli affari esteri; nel 1996 membro del Parlamento serbo e nel 2000 del Parlamento della Repubblica federale di Yugoslavia. I libri che ho scritto sono: «The Bridges» (2002); «Abolishing the State» (2003); «The Kosovo Mirror» (2006).

Živadin Jovanovic: Nel 1961, ho terminato i miei studi alla Facoltà di Diritto dell’Università di Belgrado, dal 1961 al 1964 ero nell’Amministrazione del distretto della città di Novi Belgrade; dal 1964 al 2000 ho servito presso il servizio diplomatico della Repubblica Federale socialista di Yougoslavie (a partire dal 1992 Repubblica federale di Yugo­slavia, dal 1988 al 1993 sono stato ambasciatore a Luanda/Angola, dal 1995 al 1998 ministro degli affari esteri supplente e dal 1998 al 2000 ministro degli affari esteri). Dal 1996 al 2002 sono stato vice presidente dl Partito socialista della Serbia per gli affari esteri; nel 1996 membro del Parlamento serbo e nel 2000 del Parlamento della Repubblica federale di Yugoslavia. I libri che ho scritto sono: «The Bridges» (2002); «Abolishing the State» (2003); «The Kosovo Mirror» (2006). 

Dopo aver lasciato il Ministero degli affari esteri nel 2000, siete stato legato al «Belgrade Forum for a World of Equals». Attualmente siete il Presidente di questa associazione. Quali sono i vostri obiettivi essenziali? 

Gli obiettivi essenziali sono il contributo alla pace, alla tolleranza e la collaborazione sulla base dell’eguaglianza tra gli individui, le nazioni e gli Stati. Noi ci impegniamo per il rispetto del diritto internazionale. Dei principi alla base della relazioni internazionali e del ruolo delle Nazioni Unite. Il ricorso alla violenza o la minaccia di utilizzarla non sono affatto mezzi appropriati per la soluzione dei problemi internazionali. Siamo dell’avviso che non esistono guerre “umanitarie”. Tutte le aggressioni a cominciare da quella della NATO contro la Serbia (RFY) del 1999 furono, a prescindere dalle dichiarazioni formali ed ufficiali, delle guerre di conquista, condotte per ragioni geo -strategiche altre per profitti economici. Noi sosteniamo i diritti dell’uomo secondo la Carta dell’ONU – ivi compresi i diritti sociali economici e culturali e i diritti alla salute, al lavoro, e altri diritti umani. 

Cerchiamo di raggiungere i nostri obiettivi per mezzo di dibattiti pubblici, conferenze, e tavole rotonde, seminari su scala nazionale e internazionale. Il Forum coopera con diverse associazioni che perseguono obiettivi simili – in Serbia, nella regione e a livello mondiale. 

Abbiamo visto qualche libro molto interessante edito dal Belgrado Forum. Come fate a sostenere la vostra attività di editori? 

Il Forum ha pubblicato circa 70 libri su diversi argomenti, nazionali ed internazionali, sulla politica dello sviluppo nelle condizioni di crisi, sullo statuto di Kosovo e Métochie e sul tribunale dell’Aia concernente la politica NATO nei Balcani, sulla politica estera della Serbia, sul terrorismo internazionale e sul ruolo degli intellettuali. Alcuni nostri libri sono stati diffusi in un gran numero di paesi su tutti i continenti. C’é, per esempio: «Nato Aggression – the Twilight of the West». A causa degli scarsi mezzi finanziari purtroppo solo pochi dei nostri libri sono apparsi in altre lingue. .

Solo in quest’ultimo mese abbiamo pubblicato tre nuovi libri – uno dedicato al grande filosofo e membro dell’Accademia Mihailo Marcovic, che è stato uno dei cofondatori del Belgrade Forum; il secondo reca il titolo di «Da Norimberga a La Haye» e il terzo «Dall’aggressione alla secessione».* La presentazione dei libri nelle diverse città della Serbia ed hanno avuto notevole successo.Tutte le nostre attività di scrittura e pubblicazione poggiano su lavoro volontario. Non abbiamo mai avuto e non abbiamo nessuno che sia remunerato tra i quadri del Forum. L’auto finanziamento dei membri e le donazioni dopo la diaspora serba sono le ricette principali del Forum. 

Avete citato la promozione della pace come uno dei vostri temi principali. Ma i popoli della vostra regione sono stati vittime di guerre nell’ultimo decennio del XX secolo. 

E’ vero. I popoli dell’ex –Yugoslavia hanno sofferto enormemente, prima per le guerre civili in Bosnia e in Croazia (dal 1992 al 1995), poi seguite dall’aggressione della NATO (1999), seguita dalle sanzioni e dall’isolamento ecc. Gran parte della popolazione soffre tutt’oggi. Pensate per esempio alla vita di quasi mezzo milione di rifugiati ed espatriati che vivono solo in Serbia ai quali non è consentito tornare alle loro case in Croazia o in Kosovo e Métochie. Le conseguenze sono tutt’ora dolorose e lo saranno ancora in futuro. Che dire delle conseguenze delle bombe con proiettili all’uranio impoverito che la NATO ha utilizzato nel 1999 e mietono ancora numerose vittime e le mieteranno ancora nei secoli. La storia ci darà la prova che i popoli della ex - Yugoslavia sono stati le vittime della concezione del Nuovo ordine mondiale che poggia in realtà sul potere e l’espansione.

Pensa esistano fattori locali frammisti ad altri venuti dall’esterno responsabili della frammentazione della Yugoslavia?

L’influenza delle popolazioni locali non può essere trascurata. Queste hanno evidentemente le loro responsabilità di essersi prestate a compromessi. Ma le analisi dominanti paiono non prestare alcuna attenzione al ruolo negativo dei fattori esterni Abbiamo oggi sufficienti prove che certe potenze avevano progetti fin dal 1976 e 1977 su come i territori della Repubblica federata socialista di Yugoslavia dovevano essere riorganizzati, in altri termini smantellati e spartiti in funzione dei loro interessi. Dopo la morte di Tito hanno incoraggiato nazionalismo e separatismo tra le diverse Repubbliche Yugoslave, ma anche il separatismo e il terrorismo nella provincia serba del Kosovo e Métochie, politicamente, finanziariamente e con la logistica e la propaganda. Più tardi certe potenze sono intervenute nelle guerre civili, sostenendo una parte contro l’altra. Questi paesi hanno sostenuto apertamente la separazione della Slovenia e della Croazia e hanno armato la Croazia e la Bosnia anche durante l’embargo dell’ONU e hanno favorito l’ingresso di mercenari tra cui i Moudjahidin. D’altra parte la Serbia e il Monténégro sono stati isolati, sanzionati e stigmatizzati. Li hanno trattati come se fossero i soli responsabili della guerra civile. Ciò non è fondato sui fatti ed è stato propizio ad estendere il conflitto. 

Le conseguenze? Invece di uno Stato ne hanno sei, non certo solidi dal punto di vista economico. Degli Stati marionette ed un settimo che sarà creato a breve. 18 governatorati, sei eserciti sei servizi diplomatici etc. La spesa pubblica nel 1990 per tutta la RFSY era di 13,5 miliardi è aumentata fino al 2012 a oltre 200 miliardi di euro! Alcuni di tali stati sono divenuti totalmente dipendenti dal punto di vista finanziario. A chi giova tutto questo? Fino al 1990,non esisteva nella regione una sola base militare straniera.. Oggi ne esistono una serie, tutte degli USA delle quali Camp Bondsteel è la più grande d’Europa.2 Per che farne? A che servono? A 18 anni dagli accordi di Dayton, la Bosnia non è tutt’ora in grado di funzionare; l’antica Repubblica yugoslava di Macedonia (FYROM, Former Yugoslav Republic of Macedonia) non è in grado di funzionare, dieci anni dopo gli Accordi quadro di Ohrid e continua ad essere attraversata da divisioni e tensioni etniche profonde. 14 anni dopo la Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, lo statuto di Kosovo e Métochie è senza soluzione. Sali Berisha di Tirana e Hashim Thaci di Pristina applaudono pubblicamente alla creazione di una così detta Grande Albania. Altri problemi pressanti sono la disoccupazione tra il 30% e il 70%, la povertà di centinaia di migliaia di rifugiati e di espatriati, la criminalità organizzata internazionale, fondata sul commercio di organi umani, le droghe, le armi, gli immigrati, dando un’immagine di insicurezza della Yugoslavia. Chi dunque ha tratto profitto dalla sua frammentazione? 

Ha menzionato l’intervento della NATO. Che opinione se ne è fatta a distanza di 14 anni?

La mia opinione non è mutata. E’ stato un attacco criminale, illegale, immorale, contro uno Stato europeo sovrano. Illegale, perché ha violato tutti i principi fondamentali del diritto internazionale, tanto della Carta dell’ONU, quanto degli Accordi di Helsinki e molte altre convenzioni internazionali. E’ stata eseguita senza il mandato del Consiglio di sicurezza. Criminale perché si è abbattuto anzitutto sulle popolazioni e le infrastrutture civili e con armi vietate come quelle chimiche, le bombe caricate con sotto munizioni di proiettili di uranio impoverito. Immorale perché fondata su pretesti falsi e faziosi. I dirigenti della NATO sono responsabili della morte di 4.000 persone e 10000 feriti civili. I danni materiali ammontano a 100 miliardi di dollari. L’aggressione della NATO non ha portato soluzioni ma ha creato nuovi problemi. E’ stata una guerra di conquista e non un “intervento umanitario”. 

Potrebbe precisare?

Ho già menzionato alcune conseguenze dirette. In senso più ampio occorre considerare che l’aggressione della NATO segna un cambiamento strategico nell’essenza dell’alleanza: essa ha abbandonato la sua politica di difesa ed ha introdotto una politica offensiva (aggressiva) autorizzandosi ad intervenire in ogni momento su ogni punto del globo. L’ONU, più precisamente il Consiglio di sicurezza, è stato corto circuitato e il diritto internazionale e la giustizia violati. 3 E’ stata la prima guerra lungamente preparata sul suolo europeo dopo la Seconda Guerra mondiale. E’ stata la dimostrazione del potere degli Stati Uniti in Europa, l’espansione verso l’Est, una giustificazione per le ambizioni della NATO, anche dopo la fine del Patto di Varsavia ed un precursore di interventi futuri (Afghanistan, Iraq, Libia). E’ stata una guerra orchestrata e diretta da una potenza extra europea con la conseguenza che essa resterà a lungo sul suolo europeo. L’aggressione ha inoltre segnato un cambiamento della politica tedesca dopo la Seconda Guerra Mondiale. Partecipando attivamente all’aggressione della NATO contro la Serbia, la Germania si è allontanata dalla propria Costituzione ed ha aperto le porte per facilitare la militarizzazione e giocare un ruolo nei conflitti che si svolgono ben lontano dal suo territorio.

Oggi abbiamo sul suolo europeo un numero di basi militari molto maggiore che durante la Guerra fredda. Dopo l’aggressione della NATO contro la Serbia le basi militari sono sorte ovunque. Come si spiega l’esportazione della democrazia e nel contempo l’esportazione delle basi militari? Fino ad ora non ho trovato spiegazioni convincenti e mi pare che qualcosa non quadra.

Qual è la sua opinione sul futuro della Bosnia?

La Bosnia Herzégovina in quanto era una tra le dieci repubbliche RFSY, fu basata sull’eguaglianza costituzionale di tre popoli avendo ciascuno un diritto di veto – Musulmani , les Serbi e Croati. E’ la ragione per cui si chiamava la «Piccola Yougoslavia». Quando nel 1992 il principio costituzionale del consenso è stato violato perché musulmani e croati si sono pronunciati a favore della separazione hanno ignorato l’opzione dei serbi di restare nell’alveo della Yugoslavia, la guerra civile è scoppiata. L’accordo di pace di Dayton non è stato un successo semplicemente perché ha confermato nuovamente quel principio di eguaglianza dei tre popoli costituenti, l’uguaglianza delle due unità (la Fédérazione musulmano-croata e la Répubblica Srpska) e il principio del consenso.4 > Questi principi fondamentali sono stati inscritti nella Costituzione che rappresenta parte integrale dell’Accordo.

La fonte principale della crisi attuale è nello sforzo dei dirigenti musulmani di Sarajevo di abolire il principio del consenso e creare uno Stato unitario sotto la loro supremazia. Inoltre, essi vogliono cambiare la ripartizione ddel territorio garantita dalla’accordo di Dayton secondo il quale la Fédérazione musulmano-croata controlla il 51% e la Répubblica Srpska il 49% di tutto il territorio. Per render il problema ancora più difficile, i musulmani continuano a beneficiare per le loro esigenze, evidentemente contenute negli Accordi di Dayton, del sostegno di qualche centro decisionale, in primo luogo di Washington e Berlino. Sul perché vogliano indebolire la Répubblica Srpska e rafforzare i Musulmani, preferisco non fare commenti. Questi centri mettono del pari sotto pressione i dirigenti serbi affinché essi disciplinino I dirigenti di Banja Luka affinché essi accettino contro il proprio interesse una revisione di Dayton e della Costituzione. La Serbia, come garante degli Accordi di Dayton non ha affatto il potere di influenzare i dirigenti della Répubblica Srpska e secondariamente non è interesse della Serbia destabilizzare la Répubblica Srpska provocando così tensioni interne ed una nuova spirale etniche o anche conflitti armati nel suo vicinato. Credo si debba lasciare alla Bosnia Herzégovina il compito di trovare una soluzione politica che corrisponda agli interessi dei tre popoli costitutivi e delle due unità eguali nei diritti. L’Accordo di Dayton non è perfetto. Ma probabilmente non esiste un compromesso migliore. Bruxelles ritiene che una centralizzazione del potere a Sarajevo migliorerebbe l’efficacia dell’amministrazione statale. I sostenitori di tale opinione paiono non vedere che è il principio del consenso e della decentralizzazione che hanno condotto al ristabilirsi della pace e al mantenimento dell’integrità statale e che ha rianimato un sentimento di libertà e di democrazia. Finalmente, ritengo, l’Ufficio dell’Alta Rappresentanza dopo avere accentrato in sé per 17 anni potere legislativo, esecutivo e giudiziario è diventato un anacronismo che deve essere dissolto. La Bosnia Herzégovina è il solo membro dell’ONU (e nel contempo del Consiglio di sicurezza) de l’OSCE e di altre organizzazioni dove l’Alta Rappresentanza legifera e nomina Presidenti, Primi ministri e Ministri. La Serbia è un piccolo paese che ama la pace e non ha una storia imperiale né ambizioni imperialiste, e deve a nostro avviso restare neutrale come la Svizzera. Per quanto concerne i diritti umani, lottiamo per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU del 1948, la quale esige il rispetto di tutti i diritti incluso quello alla cooperazione. 

I miei colleghi di «Horizons et débats» hanno dichiarato un giorno che la Serbia è stata una spina nella coscienza di tutto il mondo occidentale. Che ne pensa?

Ciò che posso dire è che i dirigenti e i politici di certi paesi europei sono stati lungi dall’essere neutrali, costruttivi e moralmente corretti durante la crisi yugoslava e kosovara. Qualcuno ha partecipato attivamente all’aggressione della NATO, e ha provocato seri problemi per tutta l’Europa. Come gli Stati Uniti, conoscevano il finanziamento, il traffico d’armi dei terroristi albanesi e dei separatisti del Kosovo e Métochie da parte dei loro Stati. Documenti del Consiglio di sicurezza lo confermano.5 Nemmeno io sono imparziale, ma sono certamente sincero. A mio avviso di poche cose del loro ruolo in Europa possono andare fieri la Serbia e i serbi negli ultimi vent’anni. Sono stato sorpreso dall’ampiezza delle deformazioni, dei doppi standard e delle prese di posizione immorali da parte di certi politici europei che rappresentano i valori e la civiltà europea. Oggi sarebbe superfluo parlarne se non si potessero trarre lezioni dal passato. Sfortunatamente, i nuovi politici di questi paesi perseguono la medesima politica e con gli stessi metodi disonesti verso la Serbia. I Governi dei grandi paesi occidentali iniziano una campagna di propaganda abominevole contro la Serbia fondata su pregiudizi, invenzioni menzognere o banali menzogne. Mi riferisco per esempio all’invenzione di sana pianta del così detto «Piano a Ferro di cavallo» del ministro tedesco della difesa Rudolf Scharping.6 Il così detto massacro di civili di Raçak, che servì da giustificazione all’inizio dell’aggressione militare che si rivelò falso. Il rapporto stilato da un’equipe internazionale di esperti di medicina legale sotto la direzione del medico finlandese, Helen Ranta, la quale agiva sotto il controllo dell’UE non è mai stato pubblicato. Pare si sia smarrito da qualche parte a Bruxelles!7 

Quali lezioni può trarre, per sé, e per il mondo dall’aggressione della NATO?

L’aggressione della NATO contro la Repubblica federale di Yugoslavia del 1999 è stato un modello di nuova guerra di conquista sotto lo slogan di «intervento umanitario». E’ stata una guerra di conquista per prendere alla Serbia le sue province del Kosovo e Métochie e per stazionare, per ragioni strategiche, delle truppe degli Stati Uniti. E’ stato un precedente, cui sono seguiti altri. A mio avviso è attualmente del tutto inaccettabile esportare il sistema della società capitalista fiondato unicamente sulla dottrina di Washington, comme quella che nel corso degli anni 1960 concerneva l’esportazione del sistema socialista, fondato sulla dottrina di Mosca. La libertà di scelta dovrebbe essere sovrana in ogni paese. Non è giusto dividere i popoli, come se Dio avesse donato a qualcuno l’arbitrio di decidere ciò che è bene per tutte le nazioni del mondo. La storia ci insegna, almeno in Europa, che una simile ideologia è fonte di enormi danni. 

I problemi del Kosovo e Métochie sono vecchi come il mondo e profondamente radicati. Le province dello stato Serbo sono la culla della cultura serba così come della religione e della sua identità nazionale. Vi si trovano ancora circa 1300 conventi e chiese medievali alcune dichiarate patrimonio dellumanità dall’UNESCO. Oltre 150 sono state distrutte dai vandali e dagli estremisti. Sarebbe troppo semplice pretendere che I problemi di fondo si situassero nel dominio dei diritti umani degli albanesi. Per risolvere i problemi essenziali, che stanno a mio avviso nella volontà di espansione territoriale degli albanesi sostenuta dai paesi occidentali – in primo luogo gli Stati Uniti, la Germani e la Gran Bretagna –occorrerebbe qualche saggezza da parte degli attori politici, ma anche una visione a lungo termine e della pazienza, qualità particolarmente deficitarie. Resto persuaso che esiste una soluzione fondata su un compromesso basato sulla Risoluzione 1244 del Consigli odi sicurezza del 10 giugno 1999. Questa risoluzione, come altre precedenti, garantisce la sovranità e l’integrità della Repubblica federale yugoslava (distaccata dalla Serbia) e l’autonomia del Kosovo e Métochie in seno alla Federazione yugoslava e della Serbia. Nel tempo sono stati commessi numerosi fatti gravi, da parte di quel che chiamiamo comunità internazionale, ivi compresa l’UE, come da parte delle autorità serbe. Si possono considerare questi errori come gravi deviazioni dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Nel marzo 2008, i dirigenti albanesi a Pristina hanno dichiarato la secessione unilaterale ed illegale della provincia dalla Serbia ed hanno proclamato la pretesa Répubblica del Kosovo. Mentre la provincia si trova tutt’ora sotto il mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU, quest’ultimo non ha reagito. Gli Stati Uniti, la Germania, la Turchia, e la Gran Bretagna hanno riconosciuto immediatamente la separazione. Presenti 22 dei 27 membri dell’UE8 hanno seguito il movimento. La Serbia non ha riconosciuto la separazione del 17% del proprio territorio, e ritengo non lo farà in futuro. La gran parte dei membri dell’ONU, dei quali due dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, la Russia e la Cina, non l’hanno riconosciuta. L’anno scorso un dialogo tra rappresentanti di Belgrado e Pristina concernente qualche aspetto concreto che tocca la vita quotidiana della popolazione è stato avviato sotto l’egida dell’UE. Può essere un bene, nella misura in cui non costituisca pregiudizio negativo per il problema principale – le statuto della provincia come previsto nella Risoluzione 1244. Personalmente auspico che il dialogo verta su un calendario che assicuri il libero ritorno dei 250’000 Serbi e gli altri Non-Albanesi nelle loro terre, poiché vivono attualmente in condizioni miserevoli in diverse città di Serbia e Monténégro. Sfortunatamente tale questione non trova posto nell’ordine del giorno vuoi per l’assenza di interesse da parte di Pristina, ma anche a causa della politica dei due pesi e due misure dell’Occidente. Una soluzione imposta alla Serbia con la forza o l’inganno non è possibile. Io credo che “il mercato” di cui parlano certi paesi occidentali non abbia diritto di cambiare il territorio (Kosovo) contro l’adesione all’UE (della Serbia) a svantaggio di investimenti stranieri – che sarebbe logico, visto lo stato di degradazione dell’economia serba – si avviasse. Sarebbe disonesto, non equilibrato, inaccettabile per i serbi, conoscendone la storia e la fierezza. 

Quali sono le relazioni tra Serbia e l ’UE? 

L’UE è tradizionalmente il principale partner economico della Serbia. Le relazioni storiche sociali e culturali restano molto forti. Centinaia di migliaia di serbi e loro discendenti vivono e lavorano nei paesi membri del’UE. La Serbia è candidata per l’adesione all’UE. Questo si riflette nella politica “del bastone e della carota” nei confronti della Serbia in una lista infinita di condizioni mai poste ai candidati. L’UE esige che «la Serbia normalizzi le sue relazioni con il Kosovo». Finché Belgrado reagisce, dichiarando di non accettare di riconoscere il Kosovo, i commissari di Bruxelles pretendono che l’UE non chieda che il sistema di controllo delle frontiere integrato (Integrated Border Management IBM) ai confini del, la sigla di un accordo di buon vicinato, il cambio delle diplomazie, che la Serbia non impedisca l’adesione del Kosovo all’ONU, etc.! Rimarchiamo la portata di tale ipocrisia. Si esige attraverso note diplomatiche o altre prese di posizione scritte concernenti un riconoscimento, ma delle relazioni tali e quali tra stati sovrani! Io sostengo una stretta cooperazione tra la Serbia e l’UE in tutti i campi ove siano interessi comuni, senza ostacoli: la libera circolazione delle merci dei capitali delle persone e delle informazioni. Considerato il fatto che l’UE non tratta la Serbia come un partner sovrano, la Serbia dovrebbe adottare una politica di buon vicinato con l’UE e mettere da parte la politica attuale, che definisce adesione all’UE come unica soluzione. Non è nell’interesse della Serbia lasciare troppo per ricevere meno. Uno spirito di apertura e cooperazione senza ostacoli amministrativi, invece che relazioni di buon vicinato tra Serbia e UE sarebbero una base sensata per il futuro a medio termine. 

Come la Germania, la Svizzera e altri paesi europei potrebbero contribuire a migliorare le sorti del vostro popolo?

La via migliore per sostenere la Serbia ma insieme la mutua assistenza in Europa e addivenire ai veri valori della nostra civiltà, consiste nel dire sempre la verità, opponendosi ad ogni forma di deformazione, di mezze verità e immoralità. La Serbia e la nazione serba sono parte integrante dell’Europa, della sua cultura e del suo sviluppo e civilizzazione. E’ così e resterà così in futuro. I popoli hanno radici profonde ed una statura che non può trasformarsi dalla mattina alla sera. Dal canto mio sarei felice si smettesse di considerare la Serbia attraverso i pregiudizi e le caratterizzazioni parziali e rimpiazzarle con analisi equilibrate ed imparziali. 

Abbiamo appreso che il «Belgrado Forum» sarà parte di una importante conferenza internazionale a Belgrado nel marzo prossimo.

Questo forum ed altre associazioni indipendenti e prive di pregiudizi in Serbia organizzano una conferenza internazionale sotto il titolo «Aggressione, militarizzazione e crisi planetaria» che avrà luogo il 22 e 23 marzo 2014 à Belgrado. Questa conferenza ed altri eventi dello stesso tipo celebrano il 15° anniversario del’attacco della NATO contro la Serbia e servirà ad onorare la memoria delle vittime. Ci prefiggiamo di invitare scienziati ed intellettuali d’Europa ma anche di altri paesi che tratteranno di interventi militari aumento delle spese militari e militarizzazione delle decisioni politiche e della crisi nel mondo, che non è a nostro avviso solo una crisi finanziaria ed economica ma una crisi dell’ordine mondiale. 

Signor Jovanovic, La ringraziamo di questo incontro. 

Note 

1 Solo la Bosnia e l’Herzégovina hanno un governo centrale, due governi, uno per ciascuna entità, e 10 governi cantonali in seno alla Federazione della Bosnia-Herzégovina. 
2 «La guerra contro la Repubblica Federale di Yugoslavia fu condotta per correggere un errore strategico del generale Eisenhower durante la Seconda Guerra mondiale. Per ragioni strategiche, occorreva stabilizzare lo stazionamento delle truppe americane in quella regione.» citazione dalla lettera di Willy Wimmer, indirizzata al cancelliere tedesco Gerhard Schröder il 2 maggio 2000. 
3 «La forza deve primeggiare sul diritto. Là dove il diritto internazionale sbarra la strada, occorre

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Per compiacersi gli americani

1) Lettera al presidente Napolitano
Sulla grazia concessa al colonnello americano Joseph Romano: "Non c'era modo peggiore di chiudere la Sua presidenza" (ergo: non c'era altro modo per replicarla) - di Sergio Finardi

2) La fiducia arriva dagli Usa
Enrico Letta ha ricevuto l'unica fiducia che conta: quella del segretario di stato Usa John Kerry - di Manlio Dinucci

3) FLASHBACK: Rogo Moby Prince, la «nave fantasma» era americana
... e stava scaricando armi. Nell’incendio a Livorno 140 morti, 30 i sardi - di Piero Mannironi


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USA - mondo

Nessuna clemenza per la pratica delle rendition

Sergio Finardi

Su Il Manifesto del 9.4.2013 - www.ilmanifesto.it

Lettera al presidente Napolitano. La grazia concessa al colonnello americano Joseph Romano, condannato dalla Corte d’Appello di Milano per il rapimento di Abu Omar, è basata su presupposti non veritieri

Gentile presidente Napolitano, leggo nel comunicato del Quirinale sulla grazia concessa all'oggi colonnello Joseph L. Romano: «Il presidente Usa Barack Obama, subito dopo la sua elezione, ha posto fine a un approccio alle sfide della sicurezza nazionale, legato ad un preciso e tragico momento storico e concretatosi in pratiche ritenute dall'Italia e dalla Unione europea non compatibili con i principi fondamentali di uno stato di diritto». Nessuna delle due parti di cui è costituita la frase a lei attribuita è vera. Innanzitutto non è che l'Italia e l'Unione europea «ritengono» le «pratiche» statunitensi delle extraordinary renditions «non compatibili» con lo stato di diritto, è che ci sono due convenzioni internazionali - firmate anche dagli Stati uniti - a proibire tassativamente quelle pratiche, in qualsiasi circostanza. E quelle «pratiche», signor presidente, hanno riguardato il rapimento e la tortura di migliaia di persone. In secondo luogo - e principalmente - il presidente statunitense Obama non solo non ha mantenuto le sue promesse elettorali relative alla chiusura dell'infame Guantanamo e di molti altri luoghi (non più) segreti di detenzione indefinita e senza processo - cosa gravissima per un premio Nobel per la Pace, premio datogli anche sulla speranza che le mantenesse tali promesse - ma ha opposto ogni possibile ostacolo alla conoscenza della verità. Obama ha infatti reso ancora più difficile scoprire la verità sul programma delle renditions e sulle reali circostanze relative a migliaia di rapimenti. Ha poi esplicitamente sollevato dalle loro responsabilità sia chi ha dato ordini illegali sia chi li ha eseguiti, ordini che non avrebbero mai dovuto essere portati avanti. Obama ha inoltre nominato come suoi consiglieri o in posizioni-chiave della sua Amministrazione, uomini coinvolti fino al collo in quello che lei definisce «approccio alle sfide della sicurezza» e che è stato ed è invece una serie di politiche iniziate non dopo gli eventi del Settembre 2001, ma sotto il presidente Clinton, chiara dimostrazione del disprezzo totale che gli Stati uniti hanno del diritto internazionale e della sovranità degli altri Paesi, inclusi gli alleati, quando ritengono utile violarli entrambi. Queste nomine hanno compreso persone quali John Owen Brennan, ora direttore della Cia, la cui precedente candidatura era stata silurata dal Senato statunitense nella prima amministrazione Obama proprio perché coinvolto pienamente nel programma delle renditions . Quello stesso Brennan che si è poi distinto come il più forte sostenitore dell'uso dei droni, che in 90 attacchi hanno smembrato tremila pachistani civili (« collateral damages »), tra cui molti bambini e donne, anche recentissimamente. O come il generale Stanley Allen McChrystal, nominato nel 2009 capo della missione Isaf in Afghanistan, ma comandante nel 2003-2005 delle forze speciali conosciute con la sigla Task Force 6-26, responsabili di orrende torture di prigionieri iracheni a Camp Nema, base militare di Baghdad, torture emerse in ogni particolare nelle inchieste del New York Times e di Human Rights Watch del 2006. A questo si aggiunga che in queste settimane l'Amministrazione Obama ha ordinato l'alimentazione forzata (con un tubo diretto allo stomaco) di 128 prigionieri di Camp 6 - tra quelli ancora detenuti a Guantanamo - che hanno dichiarato lo sciopero della fame per protestare, per l'ennesima volta, 11 anni di detenzione senza processo e senza accuse. Non meno importante, il fatto che l'Fbi di Obama si sta distinguendo per la persecuzione accanita e in molti casi abnorme delle organizzazioni e degli individui che hanno guidato le proteste contro la continuazione di fatto delle guerre di Bush o hanno - come il soldato Bradley Manning - contribuito a rivelare le attività criminali perpetrate dagli Stati uniti in Iraq e in Afghanistan. Gentile presidente, voglio sperare che lei sia stato male consigliato e informato. Voglio però anche dirle che il suo gesto di clemenza virtuale per un fuggitivo, militare consapevolmente coinvolto nel rapimento di Abu Omar (e probabilmente di altri, dato il ruolo ricoperto), suona insopportabile e profondamente offensivo per chi abbia a cuore la sovranità e la magistratura italiane, per chi non abbia dimenticato come gli Stati uniti abbiano risposto alla richiesta di verità sull'uccisione di Nicola Calipari e il ferimento di Giuliana Sgrena e Andrea Carpani, infine per persone come chi le scrive. Persone di molte nazionalità diverse che si sono unite e hanno messo a disposizione le loro professionalità (e spesso le loro carriere) in anni di ricerca per svelare e far finire le orribili pratiche legate al programma delle extraordinary renditions - dalle nostre prime denunce del 2004 a quelle sul coinvolgimento dei governi europei del 2006 (compresa l'Italia, proprio su queste pagine), allo svelamento nel 2008 delle tante prigioni-tortura installate dalla Cia in vari Paesi europei. Proprio venerdì, l'alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navy Pillay, ha criticato duramente l'Amministrazione Obama, si legge nel comunicato «per la continua, indefinita incarcerazione di molti prigionieri (che è) chiaramente contraria alle leggi internazionali». «Dobbiamo essere chiari (...), gli Stati uniti sono non solo in violazione delle proprie promesse, ma anche delle leggi e standard internazionali che sono obbligati a rispettare». Di quale «por fine» da parte di Obama parla, signor presidente? Non c'era modo peggiore di chiudere la Sua presidenza.


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RUBRICA - L'ARTE DELLA GUERRA

La fiducia arriva dagli Usa

Manlio Dinucci

Su Il Manifesto del 30.4.2013 - www.ilmanifesto.it


Enrico Letta ha ricevuto la fiducia: quella del segretario di stato Usa John Kerry che, ancor prima che la votasse il parlamento italiano, si è congratulato per la nascita del nuovo governo. Fiducia ben meritata. Enrico Letta, garantisce John Kerry, è «un amico buono e fidato degli Stati uniti, che ha dimostrato in tutta la sua carriera un fermo impegno nella nostra partnership transatlantica». Il governo Letta, sottolinea Kerry, assicurerà il proseguimento della «nostra stretta cooperazione su molte pressanti questioni in tutto il mondo». È quindi il segretario di stato Usa a trattare un tema fondamentale che i partiti italiani hanno cancellato dal dibattito e dai programmi con cui si sono presentati agli elettori: la politica estera e militare dell'Italia. Il perché è chiaro: Pd, Pdl e Scelta Civica hanno su ciò la stessa posizione. Possiamo dunque essere sicuri che l'Italia continuerà ad essere base avanzata delle operazioni militari Usa/Nato in Medio Oriente e Africa: dopo la guerra alla Libia, si sta conducendo quella in Siria, mentre si prepara l'attacco all'Iran. E, in barba al Trattato di non-proliferazione, resteranno sul nostro territorio le bombe nucleari che gli Usa hanno deciso di potenziare. Allo stesso tempo l'Italia continuerà a inviare forze militari all'estero, anche in Afghanistan dove la Nato manterrà propri contingenti dopo il «ritiro» nel 2014. Aumenterà di conseguenza la spesa militare, in cui l'Italia si colloca al decimo posto mondiale con 70 milioni di euro al giorno spesi con denaro pubblico in forze armate, armi e missioni militari all'estero. A rafforzare la fiducia di John Kerry che l'Italia resterà alleato fidato sotto comando Usa è la nomina di Emma Bonino a ministro degli esteri. La Bonino, sottolineano a Washington, è una ex allieva del Dipartimento di stato, presso cui ha frequentato un corso di formazione (International Visitor Leadership Program). Brillante allieva. Ha sostenuto i bombardamenti della Nato sull'ex Jugoslavia; ha sostenuto la guerra in Afghanistan, dichiarando che «non si può parlare di occupazione: qui c'è una forza multinazionale» e che «un'occasione militare può condurre alla democrazia»; ha accusato Gino Strada di «atteggiamento ambiguo, tra l'umanitario e il politico». Ha sostenuto la guerra in Iraq, affermando che «non c'era alternativa per sconvolgere la rete terroristica» dopo l'11 settembre e ha definito «irresponsabili» i manifestanti contro la guarra. E, in veste di vice-presidente del Senato, è stata tra i più accesi sostenitori della guerra alla Libia, chiedendo nel febbraio 2011 la sospensione del trattato bilaterale perché «lega le mani all'Italia nel prestare soccorso alla popolazione civile», «soccorso» arrivato subito dopo con i cacciabombardieri. La Bonino potrà contare sui corsi di «peacekeeping» della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa (già diretta da Maria Chiara Carrozza ora ministro dell'istruzione), che vengono tenuti anche in Africa. A quando, dopo quella in Libia, la prossima operazione di «peacekeeping»?


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Rogo Moby Prince, la «nave fantasma» era americana


I figli del comandante Chessa non si sono arresi all’archiviazione: un team forense ha rivisto tutti gli atti. La nave fantasma fuggita era Usa e stava scaricando armi. Nell’incendio a Livorno 140 morti, 30 i sardi

di Piero Mannironi - 9 aprile 2013


SASSARI. Quella sentenza di archiviazione fu vissuta dai familiari delle vittime come un doloroso tradimento. L’inchiesta-bis sulla tragedia del Moby Prince, la più grave della storia della marineria civile italiana, aveva infatti creato un clima di grande speranza, la convinzione che finalmente la magistratura sarebbe riuscita a penetrare il buio groviglio dentro il quale si nascondeva la verità. E invece, nel 2010 arrivò l’archiviazione che consegnò il caso alla tremenda banalitàý di un incidente navale provocato «dall'errore umano» e da una «concatenazione casuale di eventi». I figli del comandante Ugo Chessa non si sono arresi e hanno affidato a un team di esperti di ingegneria forense di Milano coordinati da Gabriele Bardazza, la revisione di tutti gli elementi processuali, chiedendogli di rileggerli con l’aiuto di nuove e sofisticate tecnologie. Ed ecco, proprio alla vigilia del 22esimo anniversario del rogo che costò la vita a 140 persone, il colpo di scena.
Due soprattutto gli elementi nuovi che impongono una revisione della ricostruzione degli eventi. Il primo è la posizione del Moby Prince e quella della petroliera Agip Abruzzo la sera del 10 aprile ’91. Rivedendo e filtrando alcuni filmati amatoriali, il perito è riuscito a provare che il Moby speronò la petroliera non uscendo dal porto nella sua rotta verso Olbia, ma tentando di rientrare a Livorno. Il che comporterebbe un interrogativo obbligato: perché Ugo Chessa aveva ordinato l’inversione di rotta? Forse perché era successo qualcosa che poteva aver messo a rischio la sicurezza della nave? Magari una collisione con una terza nave rimasta finora fuori dalla scena?
La risposta potrebbe essere legata al secondo clamoroso elemento scoperto dal perito: la misteriosa nave Theresa II, che si allontanò a tutta velocità dopo una comunicazione criptica con una sconosciuta “Nave uno”, ha finalmente un nome. «Dalle nostre comparazioni - spiega Gabriele Bardazza - si evince che Theresa II altro non è che è Gallant 2, una delle navi militarizzate americane che quella notte erano impegnate nel trasporto di armi nella base Usa di Camp Darby. Resta da capire il motivo per cui il comandante abbia ritenuto di non utilizzare via radio il proprio identificativo, ma abbia usato un nome in codice. Come resta da spiegare il fatto che i periti del tribunale non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni per chiarire chi fosse Theresa II, nonostante nell’inchiesta di questa nave fantasma si sia parlato a lungo». Dunque, la voce misteriosa che comunicò con la “Nave uno” sarebbe quella del comandante greco Theodossiou della Gallant 2.
Forse i nuovi elementi potranno dissipare la nebbia che, dal 10 aprile 1991, avvolge la storia del traghetto partito da Livorno per Olbia e mai approdato in Sardegna. Con un carico umano di gente comune, di piccoli sogni e di quotidianità, di ritorni e di speranze. 140 vite divorate dalle fiamme, incredibilmente annientate a poche miglia dal molo dopo lacollisione con la petroliera Agip Abruzzo poco prima delle 22,30.
A far aprire l’inchiesta-bis era stata un’istanza dell’avvocato Carlo Palermo, legale dei figli del comandante del Moby Prince, Ugo Chessa. Palermo non basò il suo ricorso su fantasiose deduzioni o nuove rivelazioni, ma molto più semplicemente cucì con pignoleria e con infinita pazienza testimonianze dimenticate, atti incongruenti o addirittura documenti misteriosamente scomparsi. La sua ipotesi è che il Moby Prince sia finito in mezzo a un frenetico traffico di armi che, quella sera, animava il porto di Livorno. Un traffico «coperto», cioé segreto, probabilmente organizzato dalle autorità militari statunitensi e autorizzato da quelle italiane.
Per l’avvocato della famiglia Chessa, il punto di partenza era stato la testimonianza di un tenente della Guardia di finanza, Cesare Gentile, che la sera del 10 aprile era uscito dal porto su una motovedetta pochi minuti dopo la collisione: alle 22,35. Gentile, nella sua deposizione davanti ai giudici del tribunale di Livorno, aveva parlato con grande precisione delle operazioni di carico e scarico di armi, che erano in corso nel porto da una nave mercantile “militarizzata”. Cioè da una nave affittata dal governo statunitense per trasportare armi e munizioni. Quello era l’ultimo giorno di “Desert Storm”, la prima guerra del Golfo, e dall’Iraq tornava in Europa l’arsenale americano. Le armi erano ufficialmente destinate alla base Usa di Camp Darby, tra Livorno e Pisa. Ma le armi scaricate quella notte dalla nave americana non sono mai finite nella base di Camp Darby. Avrebbero infatti dovuto transitare su delle chiatte nel canale di Navicello, sbarrato dal ponte mobile di Calabrone. Ebbene, tra le 15,45 del 10 aprile e le 9,10 dell’11, c’è la prova che il ponte rimase abbassato. Quindi, quelle armi sono finite da qualche altra parte.



(srpskohrvatski / italiano)

Sui risultati del censimento 2011 in Croazia

1) La Nazionalità dà i numeri. I risultati del censimento del 2011 in Croazia (Luka Bogdanić)
2) SRBI PO POPISU STANOVNIŠTVA U HRVATSKOJ (Savo Štrbac)


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http://www.istitutodipolitica.it/wordpress/2013/02/04/la-nazionalita-da-i-numeri-i-risultati-del-censimento-del-2011-in-croazia/

di Luka Bogdanić

Circa un mese fa sono usciti i primi dati del censimento sulla popolazione in Croazia del 2011. Si tratta di dati parziali, relativi solo ad alcuni parametri: età, sesso, nazionalità e numero degli abitanti. Così apprendiamo che secondo il censimento del 2011, nella Repubblica di Croazia vivono 4.284.889 persone, di cui 2.066.335 sono maschi e 2.218.554 femmine, mentre l’età media della popolazione è di 41.7 anni. La città più grande è Zagabria con 790.017 abitanti, seguita da Spalato con 178.102 e Fiume con 128.624 abitanti.

Per la prima volta il numero di oltre sessantacinquenni ha superato il numero di quelli che ne hanno meno di 14 anni. In concreto, gli over 65 sono 106.205 in più. Se poi si analizza questo dato separando gli uomini dalle donne, il risultato è ancora più incisivo: ci sono 144.722 donne over 65 in più delle ragazzine sotto i 14 anni. In generale, una donna su cinque ha più di 65 anni. Insomma, la Croazia, almeno dal punto di vista dell’età, è un paese che si avvicina molto ai trend dei paesi più sviluppati dell’Unione Europea.

I serbi sono ancora la minoranza nazionale più grande del paese e rappresentano il 4,36% della popolazione, mentre nel 2001 (un anno dopo la morte di Tudjman) erano il 4,54%. In altre parole, in 10 anni il numero dei serbi è diminuito da 201.631 a 186.663, cioè del 7,4%. Si tratta di una diminuzione quasi nulla in paragone a quella che è avvenuta tra 1991-2001. Nel 1991 i serbi rappresentavano il 12,2 % della popolazione in Croazia (erano cioè 581.663), e nel 2001 erano rimasti in solo 201.631, ridotti al 4,45 %. Questo è il bilancio della politica nazionalista di Tudjman e della guerra civile.

Allora, come mai il numero dei serbi è ancora in diminuzione, anche se da anni non sono più in atto le pulizie etniche? A questa domanda si può rispondere in due modi complementari. Prima di tutto bisogna ammettere che ancora oggi essere un serbo in Croazia non è una posizione invidiabile. Ma per comprendere il calo di numero dei serbi, bisogna tenere presente il modo in cui è concepita l’identità nazionale nei Balcani, poiché la diminuzione dei serbi non indica che essi emigrano, ma semplicemente che smettono di essere serbi. Allo stesso modo in 32 anni è “scomparsa” la percentuale di 8,2% dei cittadini che 1981 si dichiaravano jugoslavi.

In realtà, il numero di serbi in Croazia, per vari motivi, fluttuava un po’ da sempre. Così nel 1981 (un anno dopo la morte di Tito) i serbi erano l’11,5%. Un lieve aumento di questi tra 1981 e 1991 (dall’11,5 % al 12,2%), è spiegabile attraverso il calo di coloro che si dichiaravano jugoslavi.

Inoltre, è interessante che il numero degli jugoslavi (e questi potevano essere croati, serbi, bosniaci, o gente nata da matrimoni misti, ma anche chiunque sia e di qualunque origine fosse) scendeva regolarmente nelle stagioni in cui fioriva il nazionalismo. Così ad esempio, nel 1971 coloro che si dichiaravano jugoslavi in Croazia erano soltanto il 1,9%, mentre nel 1981 il loro numero era cresciuto a 8,2%, il che faceva della Croazia la Repubblica con maggior numero di cittadini che si sentissero jugoslavi; essa era seguita da Bosnia ed Erzegovina, in cui gli jugoslavi erano il 7,9% della popolazione. Soltanto nella regione autonoma della Vojvodina gli jugoslavi ammontavano all’8,2%. In Serbia, senza le regioni autonome del Kosovo e della Vojvodina, la percentuale degli jugoslavi era del 4,8 %. Già nel 1991 coloro che si dichiaravano tali in Croazia non superava il 2,22 %. Com’è possibile questa fluttuazione d’identità nazionale, se si esclude la pulizia etnica degli anni Novanta?

Prima di tutto, per risponderne, bisogna tenere presente che la domanda che si poneva alla gente durante il censimento non era di natura linguistica; cioè non si chiedeva quale è la tua lingua madre, ma di quale nazionalità sei. Nei territori dell’ex Jugoslavia si appartiene ad una nazionalità non in virtù della lingua, ma in virtù del proprio sentimento d’appartenenza. Così era prima nella Jugoslava socialista e così è rimasto ancora oggi in Croazia. Inoltre è da rilevare che non è contemplato il concetto di minoranza linguistica, come lo è in Italia.

Questo in virtù del fatto che serbi e croati parlano la stessa lingua e precisamente in molti posti, città e villaggi in cui convivono da secoli, parlano anche lo stesso dialetto. La paradossalità del parametro linguistico, si evince benissimo se si tiene presente che serbo e croato si differenziano nella versione parlata dai serbi o quella parlata dai croati, meno di quanto si differenziano i dialetti italiani dal nord al sud. La principale differenza sta nel fatto che i serbi in generale, ma non sempre, usano l’alfabeto cirillico, mentre i croati usano esclusivamente l’alfabeto latino. La stessa lingua, con minime differenze, quasi dialettali-regionali, è parlata in Montenegro e Bosnia ed Erzegovina. A prescindere da questa ovvietà, dal 1991 in Croazia, ma anche in altre repubbliche, è in atto una forte propaganda a favore di una sorta di autarchia linguistica, che lavora per aumentare le diversità dei modi di parlare. Di conseguenza, la stessa denominazione serbo-croato o croato-serbo, è stata demonizzata. Tenendo a mente questo fatto, il censimento del 2011 si presenta ancora più caustico se letto sotto la luce del parametro linguistico poiché: 4.096.306 di persone hanno dichiarato come madre lingua il croato, 3.059 hanno detto di essere di madre lingua croato-serba, 16.856 di essere di madre lingua bosniaca, 876 di essere di quella montenegrina, 52.879 di essere di lingua serba e 7.822 di essere di madre lingua serbo-croata. Insomma, il censimento registra ben 6 modi di denominare la stessa lingua!

Nelle percentuali si ha la seguente situazione: il 95,60% ha dichiarato come propria madre lingua il croato, l’1,2 % serbo e lo 0,07% il croato-serbo. L’ultimo dato è abbastanza paradossale, poiché nel 2001 coloro che dichiararono il croato-serbo come madre lingua erano solo lo 0,05%. In altre parole, la gente che parla croato-serbo aumenta.

Se è da credere al censimento del 1991 (fatto con la guerra quasi in atto), quando i serbi in Croazia risultavano essere il 12,6 %, solo il 4,33% di popolazione complessiva della Croazia dichiarava come madre lingua il serbo, mentre il 6,03% dichiarava il serbo-croato e il 3,49% il croato-serbo.

La maggiore differenza tra le due popolazioni, ed a volte unica, è la religione (in particolare nei luoghi in cui da secoli convivono assieme). I serbi sono ortodossi e i croati cattolici. Dalla differenza religiosa derivano maggiori o minori diversità relative ad usi, costumi e tradizioni. Se si guarda all’ultimo censimento, diventa evidente che il numero degli ortodossi e dei serbi coincide alquanto. Gli ortodossi sono il 4,44 %, mentre i serbi sono il 4,35%. Ammesso, ma non concesso, che la religione per la maggior parte rappresenti la tradizione e la cultura (quasi nel senso Crociano, per cui “tutti siamo cristiani”) e non tanto la fede, cioè l’effettiva devozione religiosa, non si può negare l’esistenza di serbi che si dichiarano atei. Secondo il censimento del 2011, in Croazia ci sono 19.394 serbi atei e agnostici, come pure 16.647 croati ortodossi, ma anche 2.391 serbi cattolici. Per capire quanto è in fin dei conti arbitraria l’autodeterminazione nazionale nei Balcani, poiché non è fondata né sulla lingua né sull’origine etnica (almeno per gli slavi), e non é concepita neppure come cittadinanza, è istruttivo il caso degli ebrei.

Nel 2011 si sono dichiarati cittadini di nazionalità ebraica 509 persone, di cui 14 di religione cattolica, 3 ortodossa, 1 protestante, 3 appartenenti alle altre religioni cristiane, 266 hanno dichiarato di essere di religione ebraica, 2 di appartenere alle religioni orientali, 2 ad altre religioni non meglio classificate, 30 hanno dichiarato di essere agnostici, 147 di essere atei, 39 non hanno dichiarato la loro apparenza religiosa e 2 persone hanno dichiarato convinzioni che sono state classificate come sconosciute. Per avere un quadro completo bisogna, però, aggiungere alle 509 persone di nazionalità ebraica, altre 536 persone che hanno dichiarato di essere di nazionalità croata, ma di fede ebraica.

Insomma, alla domanda quanti sono gli ebrei in Croazia, si può rispondere solo se si precisa cosa s’ intenda per ebreo. In altre parole, se si volesse trarre il parametro d’ebraicità dal censimento, si cadrebbe in circolo vizioso. Paradossalmente, i fatti empirici in questo caso non aiutano.

Escludendo le minoranze nazionali d’origine non slava (italiani, ungheresi, albanesi e romeni o altri ceppi slavi come ucraini, russi e cechi) è veramente difficile capire dove passa la linea di distinzione tra la nazionalità dei serbi, dei croati e dei bosniaci.

Questa difficoltà non deriva solo dal fatto che le nazioni sono comunità immaginarie, e quelle slave del sud anche immaginate, ma anche perché le vicissitudini della storia hanno determinato nei Balcani un altro modo di concepire l’identità nazionale, diverso da quello che si è affermato nell’Europa Occidentale. In realtà, la gente, rispondendo alla domanda a quale religione appartiene, risponde sulla propria origine religiosa piuttosto che in merito alle proprie effettive convinzioni religiose. Infatti, solo se si parla di tradizione religiosa è possibile capire la vera ragione per cui in Croazia l’86,28 % della popolazioni si è dichiarata cattolica.

Le ragioni di una tale importanza del fattore religioso nell’autodeterminazione nazionale vanno cercate nel sistema amministrativo dell’Impero Ottomano. In questo non esisteva la distinzione tra leggi secolari e quelle religiose, e l’Impero suddivideva le popolazioni nei millet in base alla religione. Si trattava di comunità religiose non territoriali, che conservavano il privilegio di amministrare da sole la propria legge.

Come scrive B. Jezernik in Europa Selvaggia “I giaours (infedeli) erano soggetti a seguaci del Profeta, ma […] godevano di una relativa indipendenza e potevano conservare la nazionalità, lingua e usanze proprie. Tali eccezionali circostanze storiche spiegano perché per i cristiani il patriottismo consisteva essenzialmente nell’attaccamento alle proprie comunità religiose” [Torino, 2010, p. 239]. D’altra parte, i turchi erano una casta superiore, e per farne parte bastava abbracciare la religione musulmana. Sempre secondo Jezernik, che riporta le impressioni di viaggiatori occidentali dell’Ottocento nei Balcani, non era raro imbattersi in due fratelli che si dichiaravano di due nazionalità diverse, come pure si potevano trovare quelli che si proclamavano greci, “anche se non parlava una parola di quella lingua” [p. 241]. Gli occidentali ritenevano strano questo modo di “concepire la nazionalità, e si meravigliavano che nei Balcani fosse determinata dall’apparenza religiosa, e non da criteri etno-linguistici” [p. 239]. Per loro era come se si “considerasse irlandese un londinese di religione cattolica romana, o scozzese un presbiteriano che abita a New York, di origini tedesche” [ibidem].

Insomma nei Balcani abbiamo a che fare con un modo molto antico di concepire l’identità nazionale, il quale a priori non porta a seclusione, né è intollerante, che però difficilmente si sposa con i modi di concepire l’identità su cui si basano agli assetti istituzional-politici tipici dell’Occidente. Nella storia possiamo trovare almeno alcuni tentativi di modernizzazione-occidentalizzazione delle diversità nazionali nei Balcani occidentali. Il primo è quello della Jugoslavia regia (1918-41), nella quale si cercava d’imporre l’identità jugoslava a tutti partendo dall’elemento linguistico, a prescindere dalle reali diversità soprattutto economiche e materiali, ma anche storiche.

Il secondo è quello basato sulla pulizia etnica (ispirata al modello nazista), messa in atto dagli ustascia croati e dei cetnici serbi nel periodo 1941-45. Così ad esempio, durante lo Stato fantoccio croato, i serbi della Croazia, oltre ad essere fisicamente eliminati nei campi di sterminio assieme ai rom ed gli ebrei, sono stati pure forzatamente convertiti al cattolicesimo e il terzo rimanente della popolazione serba veniva dichiarato croato di religione ortodossa (in attesa di una assimilazione).

Il terzo tentativo di modernizzazione-risoluzione della questione nazionale era quello socialista, in cui da una parte l’identità nazionale rimaneva concepita in modo tradizionale e si cercava di garantirne lo sviluppo, ma dall’altra si volevano armonizzare le diversità attraverso la partecipazione ad una comune cultura socialista. Quest’ultima era concepita come l’universale all’interno del quale si potevano realizzare le diversità particolari, senza entrare in conflitto, poiché unite da una cultura superiore e universale, appunto dalla cultura internazionalista e socialista. Questa era il vero collante della seconda Jugoslavia.

Fallita la superiore identità comune, fallì anche questo progetto. Le pulizie etniche degli anni Novanta del Novecento in questo senso non sono altro che la brutale prova che la storia non si può cancellare, né ignorare, se non ad altissimi costi, poiché il districarsi degli interessi non avviene quasi mai pacificamente e senza vittime umane. D’altra parte, alcuni politici che erano al potere in Croazia negli anni Novanta, combinando la pulizia etnica al concetto di spostamento delle popolazioni, hanno ottenuto quello che neppure gli ustascia erano riusciti a fare, cioè una Croazia etnicamente omogenea, o quasi.


(Febbraio 2013)


=== 2 ===

http://www.veritas.org.rs/savo-strbac-19-12-2012-srbi-po-popisu-stanovnistva-u-hrvatskoj/

SRBI PO POPISU STANOVNIŠTVA U HRVATSKOJ

Savo Štrbac, 19.12.2012.

Konačno su, nakon više od godinu i po dana, objavljeni rezultati popisa stanovništva u Hrvatskojoj u 2011. godini. S obzirom na drastične razlike između predhodna dva popisa, nas krajiške Srbe najviše je interesovao broj naših sunarodnika u ukupnoj populaciji u RH.

Naime, prema podacima Državnog zavoda za statistiku RH (DSZ RH), na  popisu stanovništva u Hrvatskoj iz 1991. godine, od ukupno 4.784.265 stanovnika, Srba je bilo 581.663 (12,2 %) a Jugoslovena 106.041, među kojima je, s čime su saglasni i hrvatski demografi, bilo 60-70% Srba, tako da je broj Srba, i po hrvatskim statističkim podacima, bio veći od 600.000 hiljada. Deset godina kasnije, na popisu stanovništva u RH iz 2001. godine, takođe prema podacima DSZ RH, popisano je 201.631 Srba (4,54 %) i manje od 200 (dvijestotine) Jugoslovena.

Dakle, prema prostoj računici između ta dva popisa za više od 400.000 smanjen je broj Srba u Hrvatskoj. To je rezulatat velikog broja izbjeglih i proganinih, koji su se raspršili po cijelom svijetu, ali i rezultat stradalih u ratu i umrlih u poraću, kao i pohrvaćivanja i pokatoličavanja u toku rata i poraća.

Procjene izbjeglih/prognanih Srba okupljenih oko Veritas-a o broju Srba u novom desetogodišnjem popisu stanovništva su bile veoma pesimistične, a zasnivali smo ih na sljedećim činjenicama:

Srpsko stanovništvo u Hrvatskoj koje je poslije rata 90-tih ostalo ili se vratilo iz izbjeglištva/progonstva, bilo je pretežno staračko, koje je umiralo brže od prosjeka u okruženju, koliko zbog starosti, toliko i zbog životnih (ne)uslova;

Vanjska migracija stanovništva u RH, koju je od 2002. pratio DSZ RH, pokazivao je da se od 2002-2009. (za 2010. podaci tada još nisu bili dostupni) iz Srbije, gdje je utočište našlo više od 300.000 hiljada Srba izbjeglih/proganinih iz RH, u Hrvatsku  doselilo svega 11.218, a iz Hrvatske u Srbiju odselilo 20.683 lica. Iako se ne govori o njihovoj nacionalnosti, podrazumjeva se da su u pitanju skoro isključivo Srbi.

Obeshrabrivalo je i to što je samo u 2002. i 2003. broj doseljnih iz Srbije bio nešto veći od broja odseljenih u Srbiju, a od 2003. konstantno je rastao broj odseljenih u odnosu na broj doseljnih, što je kulminiralo u 2009.,  kada je broj odseljenih u Srbiju iznosio 4.458 u odnosu na 755 doseljenih u obratnom smjeru;

Srbima nije išla u korist ni zakonska odredba po kojoj u ukupan broj stanovništva neće biti uključena lica koja su u RH imali prebivalište, a u kritično vrijeme (31.03.2011.) su bile odsutne duže od jedne godine ili su namjeravale biti odsutne duže od jedne godine, a u RH ne dolaze nedjeljno. Ova odredba je uglavnom pogađala Srbe koji su imali prebivalište (ličnu kartu) a živjeli su van Hrvatske, rasuti po cijelom svijetu,  a nisu bili u mogućnosti da nedjeljno navraćaju u Hrvatsku.

Upravo na osnovu iznesenih podataka i činjenica i procjenjivali smo da će broj  Srba u Hrvatskoj, nakon novog popisa, dostići, ako ne i prestići, plan prvog predsejdnika RH Franje Tuđmana iz ranih 90-tih da će pitanje Srba u RH biti riješeno kada se njihov broj svede na 3%.

Dugo očekivani rezultat glasi: prema popisu stanovništva iz 2011. godine u Hrvatskoj živi 186.633 Srba ili 4,36 odsto, što je za 14.998 manje nego prije deset godina.

S obzirom da su naše procjene bile daleko pesimističnije, ovaj broj me je, iskreno rečeno, iznenadio u pozitivnom smislu i odmah sam počeo tražiti “rezervoare” za toliki broj Srba. Pošto ih očito nije bilo među novim povratnicima, a još manje u natalitetu između dva posljednja popisa, pronašao sam ih u kategoriji “ne izjašnjavaju se”, u kojoj  ih je po popisu iz 2001. bilo 130.985 (2,95 %) a po novom 93.018 (2,17 %). Računao sam da su se “pritajeni” Srbi sa predposljednjeg popisa “ohrabrili” pozivima svoje crkve i srpskih organizacija, koje su ih u prilično agresivnoj kampanji pozivale “da se slobodno i bez straha odazovu predstojećem popisu stanovništva, izjašnjavajući se na njemu kao Srbi pravoslavne vjere“.

I taman kada sam pomislio da smo pogriješili u procjenama o učešću Srba u novom popisu stanovništva u RH, pročitah u “Jutarnjem listu” izjavu neimenovanog sagovornika iz DZS RH da su i “popis i obrada podataka vođeni amaterski” i “da svaki upućeniji stručnjak ima pravo da sumnja u dobijene rezultate”. Tu sumnju mi ovih dana potkrijepi i jedan Srbin, koji sve ove godine živi među povratnicima i bavi se  humanitarnimradom, primjedbom da Srba na terenu nema toliko na koliko ukazuje objavljeni rezultat popisa.

A onda se sjetih da je Hrvatska u decembru prošle godine potpisala Pristupni sporazum sa EU i da je već određen i datum njenog prijema u tu asocijaciju za 1. jul iduće godine pod uslovom da ga do tada ratifikuju svih 27 članica. Do sada je to uradilo 20 članica dok to još nisu učinile Velika Britanija, Francuska, Njemačka, Belgija, Holandija, Danska i Slovenija. Da je Hrvatska i ovakve podatke o učešću Srba u posljednjem popisu stanovništva ranije objavila, a trebala je s obzirom da je popis obavljen u aprilu 2011. godine, možda bi ih i neka članica EU upitala šta bi sa povratkom Srba, u šta je i EU uložila mnogo para.

A da je “pravde i poštenja” trebale bi preostale članice prije ratifikacije i na osnovu objavljenih podataka, bez obzira da li odražavaju stvarno stanje,  pitati Hrvatsku  “gdje se to dedoše toliki Srbi”. Mi Krajišnici upravo to i očekujemo od vodećih evropskih demokratija i “rodonačelnika” EU  kao što su Francuska, Njemačka i Velika Britanija.

 

Beograd, 19.12. 2012.

Savo Štrbac




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Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - ONLUS
https://www.cnj.it/
http://www.facebook.com/cnj.onlus/

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Niente libro, solo moschetto

1) Vicenza 4 MAGGIO: GIORNATA DI LOTTA contro la base USA "Dal Molin - Del Din"
2) L'italiano perfetto? Niente libro, solo moschetto (Redazione Contropiano)
3) Ecco a cosa servono le larghe intese in Italia: 70 atomiche Usa custodite in Italia saranno adeguate per il lancio con gli F-35

... e con Emma Bonino Ministro degli Esteri, AUGURI! ...


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VICENZA SABATO 4 MAGGIO

MANIFESTAZIONE popolare contro USARMY

ore 10.00  presso la stazione ferroviaria (lato viale Dalmazia), dietro lo striscione che avrà la scritta:

LA CRISI E’ DEL CAPITALE. LA GUERRA ANCHE.

NO ai LICENZIAMENTI. NO alle BASI

Il 25 aprile a Vicenza si è svolta una assemblea pubblica regionale col titolo “DALLA CRISI ALLA GUERRA?”.   Hanno partecipato attivamente più di trenta rappresentanti e/o aderenti a molte realtà organizzate e no delle province di Vicenza Padova e Venezia; molti altri  hanno aderito all’appello di convocazione pur non potendo essere presenti.

Il dibattito ha verificato una  sostanziale convergenza di vedute in tutta l’area della “sinistra di classe”, pur con diverse sottolineature: sia rispetto alle cause generali dell’attuale crisi sistemica e alle relazioni fra gli aspetti economici, politici e militari della lotta epocale in corso (nonostante le “alleanze” di facciata) fra i gruppi dirigenti del capitale imperialista - in particolare quelli con base negli USA e nella UE (Italia compresa) -, sia rispetto alle tragiche conseguenze di tutto ciò per le classi lavoratrici e popolari, specie nei paesi meno “competitivi”, in termini non solo di perdita dei diritti conquistati nel passato, ma di aumento di povertà, emarginazione e imbarbarimento della vita sociale e civile - “guerre fra poveri” indotte dai ricatti padronali e dalla complicità dei partiti e sindacati “di regime” -. 

Su queste basi si sono valutate le difficoltà, ma anche la necessità e le possibilità di superare schematismi e atteggiamenti autoreferenziali per uscire dall’isolamento e costituire un fronte unico resistenziale che possa contribuire nel concreto - non solo nell’immaginario di pochi - a (ri)connettere le lotte del lavoro e sociali, indirizzandole verso la Liberazione dalla barbarie in cui ci sta portando questo modo di produzione in decadenza, il capitalismo.
Questo a partire da SABATO 4 MAGGIO, partecipando in modo organizzato alla manifestazione di VICENZA per “visitare” la nuova base di guerra USARMY AFRICOM, il mostro che occupa 700.000 mq dell’ex aeroporto Dal Molin con 800.000 mc di cemento, appena finito di costruire e pronto per ospitare altri duemila parà “pronti all’uso”, completando l’imposizione di fatto sull’intero territorio cittadino (e sugli stessi abitanti) della servitù militare - per di più verso una potenza straniera, per evidenti scopi di guerra e con danni ambientali irreversibili -. Costruita sì, ma non accettata.  Questo sarà solo l’inizio di una campagna di mobilitazione e di lotta che i vicentini non “schiavizzati” stanno preparando per i prossimi mesi.
Siete tutte/i invitati a diffondere in modo più allargato possibile questo comunicato/appello
e ovviamente a partecipare più numerosi possibile insieme e dietro lo striscione comune


evento Facebook: https://www.facebook.com/events/617379128292238

per contatti: vicenza@...


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http://www.contropiano.org/news-politica/item/15946-litaliano-perfetto?-niente-libro-solo-moschetto

Mercoledì 17 Aprile 2013 11:59

immagine: Spesa militare in % del PIL 1995-2010 (fonte: SIPRI)
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Quasi in testa nelle spese militari, ultimi in istruzione e cultura. L'identikit di un paese governato in modo infame e suicida.

Nessuna classifica è neutrale, né perfetta. Ma mettendone insieme due o tre, o anche di più, ne viene fuori un quadro abbastanza nitido di un paese e della sua classe politica. Se parliamo di spese, infatti, parliamo di “scelte politiche”. Si spende di più per quello che è considerato più importante, di meno per quel che non interessa. Una questione di “valori” politici ed etici, progettuali, che presiede alla distribuzione dello “sforzo”.

Per esempio. L'Italia è penultima in Europa per la percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura: appena l'1,1%, a fronte della media del 2,2% dei 27 Paesi dell'Ue, matematicamente il doppio. Dietro di noi c'è solo la Grecia, ma negli utlimi tre anni Atene non ha più avuto una politica economica appena appena discrezionale. I governi italiani, dunque, l'hanno ridotta per scelta quasi libera. In fondo, siamo anche l'unico paese del mondo industrializzato ad avere avuto un ministro dell'economia che dichiarava “la cultura non si mangia” (Giulio Tremonti). Lo avessero pensato i predecessori, staremmo ancora a dipingere cervi nelle grotte...

In compenso, nel 2012 l’Italia è salita al decimo posto nel mondo – quarta in Europa - tra i paesi con le più alte spese militari. Eravamo undicesimi, nel 2011; si vede che il governo “tecnico” ci ha messo del suo. 34 miliardi di dollari l'anno, ovvero 26 miliardi di euro, 70 milioni al giorno. Mentre tagliava tutto, aumentava la spesa militare (acquisto di F35, missioni all'estero, ecc). Il dato viene dal Sipri, istituto internazionale con sede a Stoccolma.

Ma l'Italia dà un grande contributo anche ai profitti finanziari. Il 17,3% della spesa pubblica se ne va infatti per il pagamento degli interessi sul debito. Peggio, ancora una volta, stanno solo Grecia (24,6%), Cipro (24,1%) e Ungheria (17,5%).

L'identikit di questo paese ne esce quindi fuori nitido: si impegna come servo militare dell'imperislismo più forte (è il più fedele esecutore europeo degli ordini Usa, dopo la Gran Bretagna), ha deciso di mantenere nell'ignoranza perenne la propria popolazione tagliando il cordone ombelicale con la propria storia culturale trimillenaria, si svena per pagare interessi su un debito che (al 130% del Pil) ognun sa che non potrà mai essere restituito.

Nessun libro, ma solo moschetto! Neanche il fascismo era arrivato a tanto...


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http://www.peacelink.it/disarmo/a/38315.html

Piano di riarmo nucleare, Obama e Napolitano a braccetto


Ecco a cosa servono le larghe intese in Italia


The Guardian: 70 atomiche Usa custodite in Italia saranno adeguate per il lancio con gli F-35
23 aprile 2013 - Alessandro Marescotti


C'era chi pensava che i poteri forti fossero scesi in campo per l'Ilva e che le larghe intese servissero a queste operazioni a metà fra la politica e l'economia.

C'era chi pensava - continuando su questa linea - che le larghe intese servissero alla TAV e alle grandi opere.

C'era chi pensava che Napolitano fosse il presidente della guerra in Afghanistan e che le larghe intese servissero a puntellare una guerra Nato che va sempre peggio.

Ma non era prevedibile che di mezzo ci fossero anche le armi atomiche.

Ora lo sappiamo: gli USA rendono compatibili le atomiche in Italia con gli F-35, lo rivela The Guardian.

«Si tratta di un aumento significativo del livello di capacità per il dispositivo nucleare degli Usa di base in Europa», ha detto Hans Kristensen, della Federation of Nuclear Scientists, scrive il Guardian, «e va in direzione opposta rispetto all'impegno preso da Obama nel 2010 di non dispiegare nuove armi nucleari».

Napolitano, Berlusconi, Monti e quello che sarà il prossimo segretario del PD serviranno a saldare il patto di ferro con il "Premio Nobel per la Pace" che rilancia le armi atomiche in Italia mentre da tempo se ne chiedeva lo smantellamento.


Vedi anche:

http://www.peacelink.it/disarmo/a/38314.html

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http://www.repubblica.it/esteri/2013/04/21/news/usa_11_miliardi_per_adeguare_le_atomiche_agli_f-35-57197605/

Guardian: 70 atomiche Usa custodite in Italia
saranno adeguate per il lancio con gli F-35


A sorpresa rispetto agli impegni di Obama sul disarmo, il Pentagono stanzia 11 miliardi di dollari per interventi di 'ammodernamento' dei 200 ordigni B61 ospitati da basi Nato europee: 50 sono ad Aviano, 20 a Ghedi. L'operazione ruota intorno al controverso caccia-bombardiere di ultima generazione


ROMA - Dagli Usa arriva un apparente voltafaccia rispetto agli impegni di Barack Obama verso il disarmo nucleare. Il Pentagono si appresta infatti a spendere 11 miliardi di dollari per ammodernare 200 ordigni nucleari tattici B61 allocati in Europa per trasformarli in "bombe atomiche intelligenti (teleguidate)" sganciabili dal controverso caccia di ultima generazione F-35, di cui si doterà anche l'Italia. E' quanto rivela il britannico Guardian.

Le B61 sono ordigni americani conservati negli arsenali Nato europei. Sono 'nascosti' in Belgio, Olanda, Germania, Turchia, ma anche in Italia sul cui territorio sono ancora presenti 90 di questi ordigni (70 secondo le ultimissime stime): 50 ad Aviano in Friuli e 40 (20) a Ghedi, in provincia di Brescia.

Si tratta di atomiche piuttosto antiquate, ma sempre armi di distruzione di massa, realizzate alla fine degli anni Sessanta: pesano fino 320 kg, sono lunghe 3,56 metri ed hanno un diametro di 33 cm. La loro potenza massima è di 340 chilotoni (oltre 30 volte la bomba di Hiroshima) ma quelle depositate in Europa, il modello B61 Mk12, si fermano a 50 chilotoni (un chilotone corrisponde alla potenza esplosiva di 1.000 tonnellate di tritolo).

Degli 11 miliardi di dollari stanziati, il Pentagono - che nel 2010 si era impegnato a ridurre il numero degli ordigni atomici e a non svilupparne di nuovi - ne spenderà 10 per prolungare la vita operativa delle B61 e uno per dotare ogni ordigno di alette di coda per trasformarle in bombe atomiche guidate. Alla fine le 200 nuove B61 saranno pronte tra il 2019 e il 2020 in tempo per essere usate dal discusso caccia-bombardiere 'invisibile' F-35.

Quello degli F-35 rappresenta il più ambizioso e costoso programma della storia militare non solo statunitense:2.443 aerei per 323 miliardi di dollari.L'Italia ha di recente confermato il proprio impegno all'acquisto, pur riducendo gli ordini a 90 esemplari.

In teoria un F-35 potrebbe penetrare indisturbato (perchè non rilevabile ai radar) lo spazio aereo di qualsiasi nazione e sganciare una di queste bombe atomiche tattiche. A quanto riferisce il Guardian, secondo l'amministrazione Obama, l'aggiunta delle alette di coda per rendere indirizzabili (Gbu) le B61 non rappresenta "un significativo cambiamento per cui non viola gli impegni del 2010".

(21 aprile 2013)




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LA FISSAZIONE DI STELIO SPADARO


Da:  Claudia Cernigoi <nuovaalabarda @ gmail.com>

Oggetto:  lettera alle Segnalazioni

Data:  29 aprile 2013 15.09.30 GMT+02.00

A:  piccolo @ ilpiccolo.it, segreteria.redazione @ ilpiccolo.it

Nel consueto (nel senso che si ripete di anno in anno) intervento di Stelio Spadaro (quest’anno assieme a Lorenzo Nuovo) relativamente all’importanza dell’insurrezione del CLN triestino il 30/4/45, leggiamo anche che “i CLN triestini (sic) erano ignorati od ostacolati dal CLN Alta Italia che dava per scontato che la Resistenza dovesse essere affidata all’esercito di Liberazione sloveno e croato” e che “del quarto CLN giuliano non facevano parte gli uomini del Partito Comunista” perché “il PCI era nella sostanza schierato dall’altra parte” (anche se il testo può dare adito al dubbio che il PCI sostenesse i nazifascisti, per “altra parte” i due autori intendono gli Alleati jugoslavi).

Vanno quindi chiarite alcune cose. La prima è che il CLNAI, in quanto organo di governo dell’Italia antifascista riconosciuto dagli Alleati, aveva (giustamente) invitato il CLN triestino a collaborare con il Fronte di liberazione facente riferimento alla Jugoslavia di Tito, governo riconosciuto dalle nazioni alleate. Ed il CLN di Trieste, se voleva avere un riconoscimento internazionale dalla compagine antinazifascista, doveva giocoforza collaborare con l’Esercito di liberazione jugoslavo e (a Trieste) con il Fronte di Liberazione – Osvobodilna Fronta sloveno.

Però questa direttiva politica non era stata raccolta dal CLN giuliano (come si può facilmente vedere negli scritti di Giovanni Paladin, don Marzari, Giuliano Gaeta ed altri), che nell’estate del 1944 fece di tutto per creare delle fratture con l’OF, il che provocò anche l’allontanamento dal CLN del Partito comunista.

E quando, un paio di mesi dopo, il delegato comunista Giuseppe (Pino) Gustincich, cercò un contatto con il CLN giuliano, ecco come lo accolse don Edoardo Marzari, presidente e tesoriere del CLN giuliano, rappresentante della Democrazia cristiana.

“… in settembre (1944, ndr) mi si presentò a Trieste un certo Pino Gustincich, dicendo di essere stato designato a rappresentare i comunisti però non solo italiani ma anche sloveni. Gli risposi che il CLN era italiano e che non era ammissibile una rappresentanza slava in seno ad esso, esistendo già per gli slavi un loro proprio organo. Egli replicò che le direttive erano state cambiate e che solo a quella condizione il PC poteva far parte del CLN. Risposi che allora il posto del PC sarebbe stato vacante e così di fatto avvenne in seguito e ogni cosa si svolse fino alla liberazione e oltre senza la partecipazione del PCI” (“I cattolici triestini nella Resistenza”, Del Bianco, Udine 1960, p. 30).

Quindi, stando alle affermazioni di don Marzari, non è stato il Partito comunista triestino a non voler entrare nel CLN giuliano, ma il CLN giuliano a rifiutare, dopo avere disatteso le direttive del CLNAI, l’adesione del Partito comunista.

Un tanto per correttezza nei confronti dei combattenti per la Liberazione di Trieste.


Claudia Cernigoi

Trieste




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