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SLOVENIA "INDIPENDENTE": TUTTO IN SVENDITA


La Slovenia in crisi vende i “gioielli di famiglia”

Decine di immobili sul mercato. Tra essi spicca Vila Bled che fu [residenza ufficiale, non proprietà personale] di Josip Broz Tito. Per acquistarla servono 3 milioni di euro ma si può affittare a 7mila euro al mese

di Mauro Manzin
da Il Piccolo del 2 agosto 2012

TRIESTE. La norma è passata praticamente inosservata all’interno del voluminoso pacchetto di restrizioni varato dal Parlamento per fronteggiare la crisi economica. I media sloveni si chiedono addirittura se i deputati si siano accorti su che cosa hanno votato. Tant’è che la “cartolarizzazione” degli immobili, anche di pregio, dello Stato è partita. Se si va a consultare la Finanziaria appena entrata in vigore si legge al capitolo beni immobili un ricavo stimato di 125 milioni, 762mila e 702 euro.
La Slovenia, dunque, mette in vendita i suoi gioielli. C’è un problema però: finora nessuno li compra. Due anni fa furono messi in vendita sei castelli ma nessun acquirente si è fin qui fatto avanti. In questa tornata il “pezzo” più pregiato è costituito senza dubbio da Vila Bled, sull’omonimo lago, ex residenza del Maresciallo Tito. Costo, 3 milioni e 34mila e 700 euro.
E se nessuno si fa avanti per l’acquisto ecco pronta dallo Stato sloveno un’altra modalità d’offerta: la villa si può affittare per 7mila euro al mese, neanche tanto se si pensa agli affitti chiesti ad alcuni commercianti triestini. E poi il posto è veramente da favola.
È in vendita anche il castello di Borl per 1 milione 934mila e 94 euro. Aggiungendo 262.406 euro si acquista anche il terreno circostante il maniero. In tutto dunque una spesa di circa 2,2 milioni di euro ben 100mila euro in meno di quanto era stato chiesto per lo stesso obiettivo due anni fa nella prima fase di vendita.
Il ministero della Difesa della Slovenia mette in vendita abitazioni per un valore complessivo di 20,3 milioni di euro. Si tratta di immobili che non servono più all’esercito o che non vengono momentaneamente utilizzati. Lo stesso ministero ha affittato numerosi terreni al prezzo di 50 euro al mese. L’evidenza dei terreni e delle abitazioni non è stata resa nota. Tra i beni in vendita c’è sempre anche l’aereo del governo, un Falcon del valore di 14 milioni 817mila e 715 euro, spesa mai digerita dall’opinione pubblica slovena.
Ma ce n’è per tutti i gusti. Come ad esempio il locale per affari di 30 metri quadrati in affitto per 90 euro al mese. Conveniente, certo, peccato che l’immobile si trovi all’interno dell’ospedale psichiatrico di Ormož. E, senza nulla togliere a Basaglia, crediamo, al lume della ragione, che un negozio stenterebbe a chiudere i bilanci in verde.
La Slovenia uno Stato in mutande che deve vendere i gioielli di famiglia per sbarcare il lunario? Non proprio. Infatti assieme ai super saldi di fine stagione di illustri immobili ecco che spuntano però anche una lista di acquisti non certo a buon prezzo. Molti riservati alla casta dei deputati. Il Parlamento, infatti, acquisterà 3270 metri quadrati di uffici per garantire un comodo lavoro agli onorevoli del Paese ai quali si aggiungeranno 1640 metri quadrati di parcheggi riservati alle automobili degli stessi nella centralissima piazza della Repubblica, sulla Erjavčeva ulica (sede di governo e presidenza della Repubblica) e in Kongresni Trg.
Quest’anno solo per pagare i parcheggi il Parlamento sloveno spenderà 250mila euro. E il contribuente ingoia e schiuma di rabbia.




L’ESODO – STRUMENTALIZZAZIONE E REALTA’

di Alessandro (Sandi) Volk


LE PARTENZE

Zara, fine marzo - inizio aprile 1941. Le autorità militari italiane, preoccupate di un attacco alla città al momento dell’aggressione delle forze dell’Asse alla Jugoslavia, decretano lo sfollamento di tutta la popolazione non indispensabile alla difesa. E’ il primo atto – ed il primo di una serie di fatti e circostanze “dimenticati” dalla storiografia più accreditata – di quel processo di ondate migratorie che coinvolsero Zara, Fiume e l’Istria e che vengono comunemente definite “l’esodo”. In questo caso, passata la paura, gli sfollati poterono tornare a Zara, anche se si trattò solo di un rinvio. L’esodo definitivo iniziò, infatti, già nel novembre del 1943, dopo il primo dei ben 54 bombardamenti alleati cui la città fu sottoposta e che spinsero il comando tedesco a emettere il 24 maggio del 1944 l’ordine di sfollamento della città. Nell’ottobre del 1944, quando Zara venne liberata dalle truppe dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo (EPLJ), se n’erano già andati quasi 12.000 dei 21.372 abitanti censiti prima della guerra, seguiti nei mesi successivi anche dalla gran parte di coloro che erano rimasti. La seconda ondata coinvolse Fiume dall’estate del 1945. Secondo alcune fonti tra il 1945 e il 1958 la città sarebbe stata abbandonata da circa 38.000 persone. Seguì l’ondata che coinvolse Pola e quella parte dell’Istria assegnata alla Jugoslavia con il Trattato di pace del 1947. Tra il dicembre del 1946 ed il marzo del 1947 lasciarono la città (che contava quasi 32.000 abitanti) tra le 25.000 e le 30.000 persone. Tra i partenti non tutti erano polesani: circa 5.000 provenivano dalle isole di Cherso, Lussino e Veglia e altri da Zara. Poco dopo, a partire dal 1948, nei territori dell'Istria assegnati alla Jugoslavia si ebbe una massiccia presentazione di domande di opzione per l'Italia, tale da sorprendere le autorità jugoslave e da far si che, su richiesta italiana, il termine per la presentazione delle opzioni, inizialmente fissato al settembre del 1948, venne spostato una prima volta fino al febbraio del 1949 e in seguito al marzo del 1951. L'ultima ondata coinvolse invece la Zona B, la parte amministrata dall'esercito jugoslavo, del mai nato staterello „Territorio libero di Trieste“ (TLT). Essa ebbe inizio nel 1953 a seguito della nota dell'8 ottobre con cui gli anglo americani annunciavano l'intenzione di abbandonare l'amministrazione della Zona A del TLT, che avrebbero consegnato all'Italia. Si trattava del preannuncio di quanto sarebbe poi effettivamente avvenuto un anno dopo con il Memorandum di Londra. La popolazione della Zona B accolse la nota come l'annuncio della soluzione definitiva del problema del confine italo-jugoslavo e, anche a causa dell'inasprimento dei rapporti tra Italia e Jugoslavia (con la chiusura delle frontiere e l'afflusso di truppe), iniziò ad emigrare. Questo flusso continuò quasi ininterrottamente anche dopo il ritorno della Zona A all'amministrazione italiana nell'ottobre del 1954. Entro il gennaio del 1956, quando scadeva il termine per potersi trasferire da un paese all'altro, le persone che avevano lasciato la Zona B sarebbero state circa 40.000.(1)

STORIA E POLITICA

L’uso politico della questione dell’esodo ha finora pesantemente condizionato la ricerca storica, arrivando a bloccare sul nascere ricerche che andassero fuori e contro il racconto stereotipato della vicenda, come nel caso del volume Storia di un esodo (Istria 1945 – 1956)(2), edito nell’ormai lontano 1980 dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli – Venezia Giulia di Trieste. Si trattava, nonostante i limiti dovuti all’inaccessibilità di numerose ed importanti fonti, del primo studio di tipo scientifico in cui venivano individuati tutti i principali aspetti e problemi della questione, nei suoi presupposti, svolgimento e protagonisti, con però una pecca imperdonabile: l’esodo era visto in un ottica non esclusivamente nazionale. Ciò metteva in discussione non solo quella che era l’interpretazione corrente (in funzione politica) dell’esodo, ma la stessa impostazione ideologica su cui la borghesia che si riconosceva come italiana ed il suo ceto politico avevano costruito la loro egemonia a Trieste, nel Goriziano e in Istria (come pure a Fiume e in Dalmazia) fin dal periodo asburgico: la trasposizione dello scontro sociale, politico ed anche nazionale su un piano esclusivamente di scontro di nazionalità.(3) Una egemonia che a Trieste e Gorizia ancora durava (e dura) e che ebbe come conseguenza che quella ricerca rimase un momento isolato senza alcun seguito. Di fatto furono così gli ambienti che oggi più si sgolano per la scarsa attenzione che storiografia ed opinione pubblica avrebbero prestato all'esodo (e più in generale alle vicende del dopoguerra in Istria, Fiume e Zara) a bloccare la ricerca che andasse al di la dell'interpretazione sostenuta dagli ambienti delle organizzazioni degli esuli. E che con l'istituzione della Giornata del ricordo è diventata l'interpretazione ufficiale dello Stato italiano. Determinante per il raggiungimento di questo risultato è stato il contributo di ambienti e personaggi della storiografia accademica, in particolare di Raoul Pupo, accreditato come il maggiore esperto dell'esodo (ma anche uno degli ultimi segretari della Democrazia cristiana triestina, in cui era egemone la componente esule)(4), che hanno semplicemente ripreso, senza alcun nuovo apporto di ricerca, le vecchie letture di tipo nazionale e, dopo averle ripulite degli aspetti più indigeribili e rivestite di una nuova terminologia, contorta quanto vuota, le hanno proposte come interpretazioni nuove, legittimandole da un punto di vista scientifico.(5)
In questo modo l'ottica nazionalista delle organizzazioni dei profughi ed i miti ad essa legati sono diventati »storia«. E così sono diventati dei dogmi il carattere forzato dell'esodo, la sua spontaneità e la sua motivazione esclusivamente nazionale. Dogmi dalle basi fragili, che solo le »trascuratezze« e »dimenticanze« di una certa storiografia italiana hanno permesso si affermassero come verità.

PROBLEMI D'INTERPRETAZIONE

Esiste però un problema preliminare, legato alla questione della quatificazione del fenomeno: chi sono le persone che vanno conteggiate tra gli esuli? Per il suo censimento dei profughi, effettuato negli anni '50, l'Opera per l'assistenza ai profughi giuliani e dalmati (OAPGD) ha dichiarato di aver posto come discriminante (non rispettata(6)) il possesso del certificato di profugo rilasciato dalle prefetture. Un criterio a prima vista oggettivo, ma che tale in realtà non è, perchè le condizioni per l'ottenimento del certificato sono variate nel corso degli anni, tanto che alla fine esso veniva rilasciato anche a persone che avevano preso la residenza nei territori ceduti addirittura dopo la fine della guerra o che avevano abbandonato la Dalmazia già subito dopo la prima guerra mondiale. Mentre dall'altra parte non lo ottenne nessuno dei quei comunisti italiani che erano rimasti in Istria fino alla rottura tra Tito e Stalin e se ne andarono a causa delle persecuzioni a cui furono sottoposti per essersi schierati con i sovietici.(7)
Il fatto che questa questione venga generalmente dimenticata non è casuale. Il motivo principale è che affrontarla seriamente significa mettere in discussione la cifra ormai canonica di 350.000 esodati. Una cifra discutibilissima. Per verificarlo basta fare una operazione semplice quanto banale, sommare i numeri più alti che vengono riportati (in genere dalle organizzazioni dei profughi e da ambienti ad esse vicini) per ogni singola ondata (Zara 21.000, Fiume 38.000, Pola 30.000, Zona B del TLT 40.000): si arriva a un totale di 129.000. A tale cifra andrebbero aggiunti coloro che se ne andarono dal resto dell'Istria, esclusa Pola, dopo il Trattato di Pace, ma per arrivare ai 350.000 dovrebbero essere stati per lo meno 221.000. Non impossibile, certo, visto che la popolazione dell'Istria all'epoca si aggirava sulle 350.000 unità, ma significherebbe che l'Istria sarebbe rimasta quasi completamente spopolata, cosa che non è mai avvenuta. Ancora più difficilmente ciò sarebbe compatibile con le motivazioni di carattere nazionale delle partenze, visto che un ricercatore non certo sospettabile di simpatie „titoiste“, Olinto Mileta Mattiuz, stima che nel 1941 in Istria ci fossero in tutto 184.860 italiani (compresi i 30.000 di Pola ed i 40.000 della Zona B, naturalmente).(8)
Ma come si arriva ai canonici 350.000? Tutto parte dal censimento portato a termine dall'OAPGD nel corso degli anni '50. I dati raccolti vennero resi pubblici nel 1958: i profughi sarebbero stati „almeno 250.000“. Criterio fondamentale (come già detto) fu il possesso del certificato rilasciato dalle prefetture. In realtà i rilevatori riuscirrono a rintracciare solo 150.627 profughi che rispondevano a tale criterio, mentre di 23.124 profughi con certificato sosteneva esistessero »notizie limitate, tuttavia inequivocabili, quanto a prova della loro esistenza« e di altri 23.136 affermava che erano emigrati dall'Italia (per una parte, non quantificata, i nominativi erano stati forniti dai famigliari rimasti in Italia, mentre per i restanti si era ricorso agli schedari dell'International Refugge Organization (Iro), che assisteva i rifugiati nell'emigrazione, senza però aver avuto la possibilità di accedere ai loro fascicoli personali perché distrutti al momento della cessazione dell'assistenza). A questo punto però l'OAPGD decise di non rispettare il criterio del possesso del certificato di profugo. Infatti inserì nel conteggio anche 10.536 persone che per esplicita ammissione “pur non avendo maturato la richiesta residenza domiciliare ai fini del riconoscimento della qualifica, non potevano essere esclusi dalla rilevazione”. Non ci è dato sapere perché costoro (e solo loro) non potevano essere esclusi dal conteggio, di fatto ciò significò (per esplicita ammissione dell'OAPGD) che vennero conteggiate tra i profughi non solo persone che non avevano ottenuto il certificato, ma anche i parenti – non Istriani, Fiumani o Dalmati - acquisiti dopo l’esodo, e che quindi con l’Istria, Fiume e la Dalmazia avevano ben poco a che fare, ed i figli nati dopo l’esodo, che si trovavano nella medesima situazione. Ad ogni modo la somma di tutti questi soggetti rilevati era di 207.423 profughi. Ma la sorpresa vera arriva ora: a questo punto infatti i „rilevatori“ dell'OAPGD affermarono che tale cifra in realtà rappresentava solo l'80% del totale (ci si chiede perché sia stato effettuato un censimento se l'OAPGD sapeva in partenza il numero totale dei profughi!), per cui aggiunsero il 20% „mancante“ (cioè circa 40.000 profughi) ed arrivavano agli „almeno 250.000“.
Fu da questa cifra che partì l'opera di padre Flaminio Rocchi, reputato negli ambienti delle organizzazioni dei profughi come una sorta di storico ufficiale dell'esodo, che ha portato a livelli eccelsi la „matematica creativa“ praticata dall'OAPGD. Padre Rocchi ha aggiunto agli „almeno 250.000“ altri 95.000 profughi, della cui esistenza l’unica conferma è la sua parola. Ma non basta, perché la vetta più alta l'ha raggiunta nell'edizione del 1990 del suo “L'Esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati”, i cui i profughi sono lievitati a oltre 450.000 (strano che nel titolo abbia lasciato la cifra più bassa). Una cifra impressionante, a cui arriva aggiungendo numeri su numeri, la cui esattezza e credibilità si basa anche qui esclusivamente sulla ...fede in padre Rocchi! Ed ecco così che ai precedenti 350.000 profughi si aggiungono 60.000 “slavi” che avrebbero abbandonato la regione perché non sopportavano il regime di Tito (10.000 di essi si sarebbero sistemati in Italia mentre gli altri 50.000 si sarebbero trasferiti altrove). Non pago di essere arrivato a 410.000 profughi, Rocchi crea addirittura una nuova categoria di profughi, i profughi potenziali: afferma infatti che bisogna conteggiare tra i profughi anche i circa 10.000 italiani (la cui esistenza e sempre certificati solo ed esclusivamente dalla sua parola) ai quali le autorità jugoslave rigettarono le domande d'opzione, ed i 90.000 anziani, donne e ammalati, che si sentivano italiani ma non ebbero la forza e il coraggio di lasciare la propria terra! L'apice lo raggiunge però quando crea la categoria dei profughi post-mortem: a suo dire, infatti tra i profughi andrebbero inclusi anche i 23.000 Giuliani (termine molto usato per designare gli
abitanti della Venezia Giulia al di là della loro nazionalità, ma proprio per questo del tutto arbitrario e senza un vero significato) caduti durante la guerra (evidentemente il suo stato sacerdotale gli consente di aver contezza delle scelte che avrebbero fatto i trapassati)!(9
Nonostante queste cose siano di dominio pubblico, gli storici italiani più »accreditati« (e ci si chiede a questo punto in base a cosa) hanno accettato senza fiatare e legittimato con il loro supposto „rigore scientifico“ la cifra di 350.000 profughi, che è diventata così »la« cifra. Altri ricercatori, forse meno accreditati, ma evidentemente più seri, hanno voluto riprendere la questione arrivando a un totale di emigrati tra i 188.000 e i 250.000.(10) Si tratta di numeri comunque considerevoli, ma che per le esigenze dello stato italiano e delle organizzazioni degli esuli andavano gonfiati quanto più possibile: per dimostrare l'attaccamento plebiscitario all'Italia della popolazione dei territori ceduti quale presupposto per una possibile revisione del tracciato dei confini e per accreditare il ceto dirigente delle organizzazioni dei profughi come rappresentante non solo dei profughi, ma della popolazione istriana, fiumana e zaratina in toto.
Ancora più »dimenticata« è la questione dell'articolazione interna della massa degli esuli. Da un lato si evita accuratamente di distinguere tra esuli originari dell'Istria e della Dalmazia e immigrati dopo la prima guerra mondiale. Eppure tale distinzione è utilizzata dagli stessi organi dello Stato italiano, come il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, che in una relazione sull’arrivo a Venezia dei profughi da Pola, rilevava che su 916 profughi sbarcati il 10 febbraio 1947 ben un terzo erano persone immigrate nella città istriana dalle vecchie province dopo il 1918(11). Alcuni ricercatori hanno tentato di quantificare in maniera più precisa la presenza di immigrati: Vladimir Žerjavić stima che su un totale di 188.000 profughi dall’Istria croata, da Fiume e dalla Dalmazia gli italiani immigrati dopo il 1918 siano stati ben 46.000(12); Nevenka Troha ha accertato che la quasi totalità delle 21.322 persone che abbandonarono i territori annessi alla Slovenia con il Trattato di Pace erano immigrate dopo il 1918(13); Olinto Mileta Mattiuz calcola che nel 1941 nella sola Istria gli italiani immigrati da altre province del regno dopo il 1918 erano 18.500 (su un totale di 184.860 italiani)(14). Quella della presenza tra i profughi di persone immigrate dopo il 1918 non è una questione di scarsa importanza. Essa infatti non solo toglie drammaticità al fenomeno (tra gli immigrati moltissimi erano impiegati e funzionari dello stato che in pratica con la fine della guerra seguirono il proprio impiego o fecero ritorno ai luoghi d’origine), ma testimonia anche della politica di vera e propria colonizzazione portata avanti dallo stato italiano nei territori redenti(15). Una politica che ebbe come risultato l’emigrazione di circa 120.000 persone (di cui circa 100.000 sloveni e croati) e l’immigrazione di circa altrettanti italiani delle vecchie province(16). Ma che naturalmente è meglio non ricordare per evitare di andare ad intaccare i miti dell’italianità delle terre annesse dopo la prima guerra mondiale e di quella guerra come completamento del Risorgimento e far emergere la sua sostanza imperialista.
In funzione della rappresentazione dell’esodo come “plebiscito d’italianità” ci si “dimentica” poi di approfondire la questione dell’appartenenza nazionale degli esuli. Va innanzitutto sottolineato che una determinazione univoca dell’identità e dell’appartenenza nazionale della popolazione era all’epoca (e forse lo è tuttora) almeno per buona parte dell’Istria una forzatura.(17) D’altra parte la possibilità di esercitare il diritto all’opzione non era subordinata né all’essere di nazionalità italiana e nemmeno di lingua materna italiana, bensì al fatto di avere quale lingua d’uso quella italiana. Considerando che l’italiano (e prima il dialetto veneto) era stato la lingua della classe dominante (e quindi si era imposto come lingua degli affari) e che con il fascismo l’uso pubblico dello sloveno e del croato venne totalmente cancellato, è chiaro che l’intera popolazione dell’Istria poteva dichiararsi di lingua d’uso italiana, anche sloveni e croati.(18) E sloveni e croati approfittarono di tale possibilità. Certamente lo fecero qualche migliaio di sloveni del Goriziano annesso alla Slovenia;(19) una volta in territorio italiano una parte di loro iscrisse però i figli alle scuole con lingua d’insegnamento slovena di Gorizia, suscitando per questo le ire delle organizzazioni degli esuli e l’intervento del Ministero della Pubblica Istruzione, che li obbligò a trasferire i figli alle scuole italiane. Va inoltre considerato che le organizzazioni dei profughi potevano determinare l’esclusione dei profughi ritenuti “non affidabili” dall’assistenza dello stato.(20) Mi sembra evidente che in queste condizioni per la gran massa dei profughi l’opzione significò fare una scelta di appartenenza nazionale univoca, definitiva e irrevocabile, perché cercare di rinnegarla poteva costare caro – dal perdere l’assistenza dello stato a vedersi revocata la cittadinanza (misura richiesta da alcune organizzazioni dei profughi per i profughi del Goriziano che avevano iscritto i figli alle scuole slovene).
A smentire la tesi della motivazione esclusivamente nazionale dell’esodo sono anche le stesso organizzazioni dei profughi. Il Gruppo esuli istriani (Gei), costituito a Trieste nell'estate/autunno del 1945, che si occupava anche di assistenza ai profughi, divise, infatti, i suoi assistiti in tre categorie, distinte in base ai motivi per cui avevano lasciato l'Istria: gli esuli, che erano coloro che avevano dovuto lasciare l'Istria per la loro attività a favore dell'Italia e non erano compromessi con il fascismo;(21) i profughi, partiti perché non volevano collaborare con gli jugoslavi; gli sfollati, che avevano abbandonato l'Istria per motivi diversi da quelli politici. E il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Istria (CLNI),(22) che del Gei fu erede e continuatore, affermò che tra i profughi della Zona B del Territorio libero di Trieste (TLT) almeno 3.000 erano sloveni.
Nonostante un gruppo di studiosi guidati dai già citati Raoul Pupo e Pio Nodari abbia avuto e abbia accesso a una fonte molto utile sulla questione, come le schede del censimento dell’OAPGD, la questione dell’appartenenza nazionale degli esodati non è stata approfondita, per cui dobbiamo accontentarci di stime: il Žerjavić ritiene che dei 188.000 profughi che abbandonarono i territori annessi alla Corazia 25.000 fossero di nazionalità croata (23), mentre il Mileta valuta che dei 224.000 profughi istriani (cifra che in realtà riguarda la popolazione mancante, che include le persone decedute durante la guerra) gli italiani fossero il 77,3% (173.100) mentre il restante 22,7% era composto da 36.950 croati (16,5%) e da 13.950 sloveni (6,2%)(24). Se è quindi vero che l'emigrazione coinvolse in misura molto maggiore la popolazione italiana (25), la tesi che individua la ragione della partenza esclusivamente nell'appartenenza nazionale delle persone risulta del tutto infondata.
Una questione centrale è sicuramente quella della forzosità del fenomeno. I sostenitori di questa tesi si aggrappano a una definizione coniata da Theodor Veiter, secondo il quale sarebbe da considerarsi espulso chiunque »rifiutandosi di optare (26) o non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa, o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine«.(27) Una definizione molto ambigua e discutibile,(28) ricorrendo alla quale non si riesce comunque a modificare la realtà dei fatti. Innanzitutto che non si trattò di un ondata unica (come ci si potrebbe attendere in caso di espulsione e come avvenne ad es. per i tedeschi dei Sudeti), ma di diverse ondate succedutesi in un periodo di ben 13-14 anni. Ma sopratutto è tutt'altro che dimostrata l'esistenza di un preciso intento persecutorio nei confronti degli italiani in quanto tali,(29) ed è anzi accertato che nel periodo dal Trattato di Pace alla rottura tra Tito e Stalin (grosso modo tra il 1946-47 ed il 1948-49) le autorità jugoslave cercarono di impedire la partenza di tutti gli optanti, anche degli italiani. Come racconta una esule (riferendosi al 1949):

»Prima del fascismo il nostro nome era Baicich poi fu italianizzato durante il regime. Al momento di dover lasciare l'Istria però, siccome mia madre aveva cognome italiano, Negri, e mio padre i miei fratelli ed io avevamo di nuovo il cognome Baicich abbiamo dovuto scegliere tra la nazionalità italiana e quella jugoslava. I miei genitori optarono per la prima essendosi da sempre ritenuti Italiani. La prima volta fummo bocciati [la domanda di opzione venne respinta dalle autorità jugoslave, nda] in pieno come del resto la seconda, mio padre infatti occupava un posto da dirigente in quella che era allora la parte elettrica dell'Arsa. La terza volta acconsentirono ma solo in parte poiché avrebbero permesso di passare la frontiera solo a mia madre che aveva cognome italiano. Poi per vie traverse mio padre riuscì a procurarsi un passaporto per farci uscire tutti insieme. Facemmo arrivare un camion da Trieste sul quale caricammo le nostre cose e sul quale saremmo dovuti finalmente andare in Italia ma, quando la milizia vide che il camion era targato Trieste si oppose nuovamente. Quella sera pregammo Santa Rita appoggiati alle poche casse che costituivano tutto quello che ci rimaneva. Alle quattro di mattina mio padre andò a piedi in paese alla caserma di Albona dove finalmente ottenne di farci espatriare.(30)

Né si può sostenere che i poteri popolari jugoslavi abbiano portato avanti una politica di interdizione totale dell'italiano e di espulsione del personale italiano dagli uffici pubblici. L'unico intervento che ci fu, fu la (ri)conversione in scuole slovene e croate di una quota delle scuole esistenti, ma si trattava del ripristino della situazione esistente prima della completa italianizzazione delle scuole operata dal fascismo. Probabilmente gli italiani iniziarono ad essere guardati con un certo sospetto, per la posizione filosovietica assunta dal Partito comunista italiano e le concrete attività »antititoiste« da esso portate avanti in territorio jugoslavo dopo la rottura tra Tito e Stalin, in seguito alla quale la parola d'ordine della fratellanza tra italiani, croati e sloveni venne sostituita da quella della difesa dell'indipendenza jugoslava. Né si può attribuire a tutte le articolazioni dell'amministrazione statale jugoslava una volontà persecutoria univoca nei confronti degli italiani. Da quanto emerge da uno documento proveniente dal fondo del Ministero degli esteri jugoslavo, parrebbe che ancora nel 1955 l'atteggiamento da assumere nei confronti degli italiani fosse argomento di discussione tra i vari livelli dell'amministrazione e che ci fossero in proposito opinioni nettamente contrastanti. Dal documento infatti risulta che le autorità locali slovene fossero favorevoli alla partenza degli italiani rimasti, mentre quelle croate erano nettamente contrarie (perché gli elementi reazionari se ne sarebbero già andati tutti) e quelle federali tenevano una posizione d'attesa (il documento infatti rimanda la soluzione della questione a una successiva riunione, sulla quale però non possediamo documentazione)(31). Va comunque detto che atteggiamenti persecutori certamente ci furono, come pure violenze ed espulsioni vere e proprie (con tanto di accompagnamento alla frontiera da parte della polizia), ma non sono generalizzabili né riguardarono solo italiani. Come va detto che un esodo in buona misura forzato ci fu, ma riguardò categorie sociali particolari (e anche in questo caso non composte esclusivamente da italiani) e nel quadro di politiche generali del nuovo potere jugoslavo. Esso riguardò la borghesia ed il ceto intellettuale. La prima se ne andò in quanto il suo permanere in quanto classe era incompatibile con il sistema socialista e per il processo di espropriazione indiretta (in quanto avvenuto senza una legislazione diretta esplicitamente al suo esproprio ma tramite misure mirate ad esempio a colpire i proprietari assenti e le propietà dei collaborazionisti e dei nemici del popolo) a cui fu sottoposta. La seconda partì per ragioni più specifiche: si trattava di ceti che avevano detenuto il monopolio nell'accesso a tutta una serie di impieghi pubblici e privati in virtù della loro nazionalità, o meglio, del loro padroneggiare la lingua italiana, unica lingua ufficiale dello stato italiano. Con il mutamento politico avvenuto con la fine della guerra questo monopolio era venuto a cadere e l'accesso a questi impieghi e ruoli era ora aperto anche a chi l'italiano non lo padroneggiava. Per il ceto medio e intellettuale italiano, educato a considerarsi appartenente ad una civiltà superiore, l'unica feconda per l'Istria e la Dalmazia, e a considerare sloveni e croati quali appartenenti a civiltà inferiori, si trattava di una evidente e spesso inaccettabile declassamento. E che spesso si trattava di persone immigrate negli anni tra le due guerre come impiegati delle varie amministrazioni dello stato.
Una questione strettamente correlata alla precedente è quella che riguarda l'atteggiamento tenuto da parte italiana rispetto all'esodo. Se da un lato le massime autorità politiche non si espressero mai apertamente ed esplicitamente a favore dell'esodo (va però rilevato che fu l'Italia a richiedere l'inclusione della possibilità dell'opzione nel Trattato di Pace), anche se non fecero nulla per evitarlo (tranne forse gestire in maniera insufficente l'aiuto ai profughi al loro arrivo in Italia, cosa che poteva avere effetti dissuasivi) e, in particolare nel caso di Pola, mise a disposizione i mezzi per attuarlo, diverso è il discorso per quanto riguarda le organizzazioni che rappresentavano lo schieramento filoitaliano in Istria e che si sarebbero poi trasformate in organizzazioni dei profughi. Il ceto dominante italiano, che in esse si organizzerà, ricorse all'argomento dell'esodo (e delle foibe, ovvero degli intenti genocidi degli slavocomunisti nei confronti delgi italiani in quanto tali) già nell'ultima fase della guerra, quando fu chiaro che all'inevitabile crollo tedesco il potere sarebbe stato assunto dal movimento di liberazione. E ciò avrebbe indubbiamente significato per questo ceto, tra l'altro pesantemente compromesso con il fascismo, la perdita del suo ruolo sociale dominante. L'unico evento che avrebbe potuto evitare tale prospettiva era la liberazione/occupazione da parte delle truppe angloamericane e la conseguente assunzione del potere da parte di un governo militare alleato che avrebbe garantito la conservazione degli equilibrii e dei rapporti sociali (e nazionali) preesistenti. Perciò vennero indirizzati al governo italiano numerosi e pressanti appelli in cui si chiedeva che le truppe alleate (e possibilmente anche quelle del regio esercito) precedessero le formazioni dell'EPLJ e ad esso legate, giustificando la richiesta con la necessità di impedire che venissero messi in atto gli intenti genocidi e persecutori che gli »slavocomunisti« avrebbero avuto nei confronti di tutti gli italiani indistintamente. E si sottolineava che di fronte a tale prospettiva nel caso il potere fosse stato assunto dai filojugoslavi la popolazione italiana tutta avrebbe abbanodnato la regione.(32) Ma queste argomentazioni non erano proprie solo degli esponenti italiani dell'Istria, ma di tutta la borghesia e dell'élite tradizionale italiana della regione, con in testa quello che è stato probabilmente il vero leader dello schieramento filoitaliano, il vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin, che nel giugno del 1945 scrisse al Papa che nel caso l'Istria fosse stata assegnata alla Jugoslavia gran parte della sua popolazione si sarebbe trasferita in Italia.(33)
Dopo la fine della guerra si passò dal preannuncio dell’esodo agli appelli all’esodo e alla sua organizzazione. Fu a Fiume che un organismo filoitaliano invitò per la prima volta apertamente la popolazione all’esodo. Nel settembre del 1945 il locale Comitato di Liberazione Nazionale (CLN, costituito dopo la fine della guerra quale rappresentante dei sostenitori del ritorno di Fiume all'Italia) diffuse un volantino in cui invitava la poplazione all'»esodo generale dalla città« e sosteneva che ciò sarebbe servito a convincere gli alleati ad assegnare la città all'Italia, e quando ciò fosse avvenuto anche la popolazione avrebbe potuto farvi ritorno (34).
L'esodo venne invece organizzato a Pola. Anche qui venne costituito, sempre dopo la fine della guerra, un CLN (e come quello fiumano privo dei rappresentanti del PCI), che in un primo momento cercò di utilizzare la minaccia dell'esodo (vennero raccolte le firme di tutti coloro che nel caso la città fosse stata assegnata alla Jugoslavia intendevano andarsene) come mezzo di pressione sulla conferenza della pace, per poi passare ad organizzare – con il sostegno dello stato italiano - il trasferimento in massa della popolazione in Italia. In ciò sostenuto anche del vescovo della città, mons. Radossi, che all'avvio dell'esodo nel gennaio del 1947 invitò dal pulpito la popolazione ad andarsene, per poi partre anch'egli.(35)
I dirigenti dello schieramento filoitaliano erano però ben consci del fatto che era molto probabile che la Conferenza della pace assegnasse buona parte dell'Istria, compresa Pola, alla Jugoslavia e iniziarono a progettare l'utilizzo dei futuri esodati almeno a partire dall’estate del 1946. Venne allora deciso che gli emigrati sarebbero stati insediati nella maniera più massiccia possibile nella Zona A del TLT, rimasto sotto l'amministrazione del Governo militare alleato (GMA) e la cui sorte definitiva non era ancora decisa, e nella parte del Goriziano che sarebbe stato assegnato all'Italia dal Trattato di Pace, al fine di rafforzarvi lo schieramento filoitaliano, allora minoritario. A Trieste e nella Zona A del TLT ciò venne fatto anche contro la volontà del GMA, che amministrava la zona e temeva che un insediamento massiccio dei profughi avrebbe aggravato le condizioni sociali vanificando la sua politica assistenziale volta al mantenimento della pace sociale e a togliere consensi ai comunisti.(36) Per Gorizia i progetti furono molto più radicali: i profughi dovevano subentrare agli filojugoslavi, che si prevedeva si sarebbero trasferiti in massa in Jugoslavia. Per aiutare concretamente l'avverarsi di questa previsione i rappresentanti istriani organizzarono squadre di profughi che dovevano convincere i filojugoslavi ad andarsene. Ma le cose andarono ben oltre e nel settembre del 1947, al momento del passaggio dei poteri dal GMA all’amministrazione italiana, a Gorizia (e in misura un po minore a Monfalcone (37)), grazie sopratutto alla fattiva collaborazione delle organizzazioni paramilitari filoitaliane locali, si verificò un vero e proprio pogrom contro sloveni e filojugoslavi, con assalti a sedi di organizzazioni slovene e/o comuniste, a pubblici esercizi e abitazioni private; si giunse alla affissione manifesti di proscrizione con nomi, cognomi e indirizzi delle persone cui si ingiungeva di andarsene.(38)
Come già detto l'insediamento massiccio dei profughi nei territori del confine orientale e nella Zona A del TLT aveva come fine la bonifica nazionale ed il rafforzamento dell’italianità in zone evidentemente considerate insicure per l’Italia, ma doveva porre anche le basi per mantenere viva e aperta la questione della revisione dei confini tracciati dal Tratato di pace, la cui revisione rimane tutt'ora l'obiettivo finale delle organizzazioni degli esuli.(39)
Sempre per quanto riguarda l’attività e l’atteggiamento dello stato italiano e delle organizzazioni dei profughi, è accertato che in Istria operavano organizzazioni clandestine filoitaliane, che si dedicarono anche ad attentati e sabotaggi.(40) Ma si tratta di un altro degli aspetti “dimenticati” (probabilmente quello meno considerato in assoluto) della vicenda dell’esodo. Dagli scarni dati disponibili emerge però come, almeno indirettamente, l’attività di queste organizzazioni un suo peso nell’influenzare la scelta di partire l’abbia avuta. Il fatto, ad esempio, che l’Ente incremento studi educativi (EISE), strettamente legato al CLNI, avesse cessato di distribuire i sussidi corrisposti clandestinamente agli insegnanti delle scuole italiane in Zona B già prima del Memorandum di Londra per utilizzare tale denaro al fine di sostenere i profughi a Trieste, non può non aver contribuito a spingere questa particolare categoria ad andarsene in massa.(41)
Per quanto riguarda questo aspetto della vicenda dell'esodo possiamo concordare con quanto affermato nel 1976 da Guido Miglia, che era stato direttore del quotidiano dello schieramento filoitaliano di Pola, L’Arena di Pola, fino al suo trasferimento a Gorizia dopo l’esodo dalla città. Egli si dichiarò convinto 

“... che il nostro esodo è stato favorito, indipendentemente dalla sensibilità di De Gasperi o di Nenni, da tutte le forze conservatrici e fasciste italiane, in funzione polemica verso le sinistre ... Il nostro esodo divenne un fatto di politica interna italiana ... e finì per ridare fiato ai fascisti risorgenti, che si servirono del nome di Trieste per fermare il corso della storia italiana, per resuscitare l’odio nazionalistico al confine orientale, per togliere credibilità e prestigio a chi auspicava un dialogo incisivo con Belgrado ...(42).

PER CERCARE DI CAPIRE 

Da quanto fin qui detto mi pare chiaro che le interpretazioni correnti dell'esodo poggiano su basi molto labili e sono funzionali più al suo uso politico che non alla comprensione di quanto avvenuto. Per liberare il campo da equivoci voglio però precisare che ritengo altrettanto fuorvianti le letture che del fenomeno diedero le autorità jugoslave e a lungo anche il Pci. Se è vero che l'esodo venne utilizzato politicamente e anche favorito dalle forze politiche italiane più conservatrici, non è assolutamente vero che se ne andarono solo fascisti e sfruttatori del popolo. E se è altrettanto vero che le organizzazioni filoitaliane operarono in determinati momenti anche per spingere la gente ad andarsene, altrettanto fuorviante è il voler presentare l'esodo come la partenza di coloro che furono abbagliati dalla propaganda e dalle promesse di queste organizzazioni e del governo italiano.
Le ragioni di un trasferimento così massiccio di popolazione, che ha contribuito in maniera determinante a modificare la composizione sociale e nazionale della popolazione ai due lati del confine italo-jugoslavo, vanno ricercate in un complesso di fattori, di breve come di lungo periodo. La vera e propria rivoluzione dei rapporti sociali e nazionali portata dalla presa di potere dei poteri popolari jugoslavi fu il detonatore che fece scoppiare contradizioni presenti da tempo e che si erano acquite nel corso degli anni. La lunga definizione delle nuove delimitazioni territoriali tra gli stati e la possibilità di emigrare legalmente e con l'assistenza dello stato italiano accelerarono, concentrandolo in un arco di tempo (relativamente) breve un fenomeno migratorio che era già presente nel periodo tra le due guerre (43) e per il quale la realtà economica e sociale dell'Istria fungeva di per se da stimolo (44). Si trattava di una realtà ulteriormente aggravata dalle distruzioni della guerra, dall'inserimento in un contesto quale quello jugoslavo, più arretrato economicamente ma anche più duramente colpito dalla guerra, dalle misure economiche (soprattutto per certe categorie come commercianti, pescatori e altri) introdotte dai poteri popolari e dalla sua esclusione dagli aiuti degli alleati occidentali (45). L'Istria venne inoltre separata da quello che per una sua buona parte era il centro urbano di riferimento economico (sia come mercato per i suoi prodotti che come luogo di occasione di impiego), Trieste, tradizionale luogo d'immigrazione per gli istriani fin dall'epoca austriaca. A tutto ciò si aggiungeva il fatto che di fronte alla dura realtà dell'Istria stava la realtà sicuramente difficile, ma certamente migliore della Zona A del TLT in cui gli aiuti occidentali affluivano in abbondanza e dove, allo scopo di mantenere la pace sociale e togliere spazio ai comunisti, il GMA praticava una politica economica di tipo assistenziale (46).
Le cause di lungo periodo riguardano invece le basi ideologiche e mentali della borghesia italiana e dello schieramento politico-nazionale in cui si riconosceva. Espressione di un patriziato che era stato dominante in Istria almeno dall'epoca veneta e dei ceti intellettuali di lingua italiana, questo schieramento fondò teoricamente fin dal suo nascere alla metà dell'800 la propria pretesa al monopolio nella gestione del potere sul fatto di essere l'erede di quelli che erano stati i dominantori del passato, romani e veneziani. Negando al contempo allo borghesia slovena e croata e allo schieramento politico-nazionale in cui si riconosceva qualsiasi leggittimità al potere in quanto espressione di popoli senza storia, che al più erano stati oggetto dell'attivita civilizzatrice di Roma e Venezia (47). Questo tipo di concezzione idologica di tipo coloniale aveva messo profonde radici nella componente italiana della popolazione istriana (48), anche tra i socialisti istriani che guardavano al movimento nazionale di sloveni e croati come a un movimento reazionario di masse contadine arretrate, sostenuto e diretto a scopi conservatori dal clero, e concepivano il socialismo solo ed esclusivamente in un contesto italiano (49). Allo scoppio della guerra e dopo l’invasione della Jugoslavia tale atteggiamento aveva portato numerosi autorevoli dirigenti comunisti italiani dell’Istria a rifiutare a lungo la collaborazione con il neonato movimento partigiano croato perché giudicato frutto del nazionalismo borghese (50). Con la fine della guerra naturalmente questa impostazione venne mantenuta e rinnovata dai dirigenti dello schieramento filoitaliano. Sintomatico di questo atteggiamento è il fatto che i rappresentanti istriani, triestini e goriziani aggregati alla rappresentanza diplomatica italiana alla conferenza della pace di Parigi utilizzassero regolarmente il termine dispregiativo sciavi (51) per indicare gli jugoslavi (52).
A tutto questo vanno aggiunti altri fattori che ebbero la loro influenza, come ad esempio l’effetto a catena provocato da quella che in alcuni casi divenne una vera e propria psicosi da esodo e che spinse molti ad andarsene perché se ne andavano gli altri. O il fatto che in molti casi venne adottata una sorta di strategia emigratoria, con una parte della famiglia che si trasferiva in Italia – spesso a brevissima distanza, a Trieste, Gorizia - mentre un'altra rimase in Istria a “presidiare” casa, terreni e quant’altro.
Solo considerando tutti questi fattori e aspetti – nonché tenendo sempre presente che dalla fine dell'800, accanto ai due schieramenti nazionali esisteva (ed era prevalente in certi ambiti), anche uno schieramento socialista e internazionalista, che uscì dalla seconda guerra mondiale come egemone - e dando il giusto peso a quelle che erano le particolarità dei diversi ambiti geografici di partenza, si può iniziare a ricostruire una storia dell’esodo che sappia superare visioni angustamente determinate da esigenze nazionali e/o politiche.
Come è necessario, per avere una visione completa e a tutto tondo del fenomeno, prendere in considerazione anche quello che è stato il destino degli esodati e l’uso che di essi è stato fatto. E che è probabilmente uno degli aspetti finora più trascurati della questione esodo.(53)

LA SISTEMAZIONE DEI PROFUGHI IN ITALIA

Della sistemazione dei profughi si occuparono organizzazioni ed uffici privati e pubblici strettamente collegati tra loro a formare un vero e proprio apparato che seppe imporre e mantenere il proprio monopolio nella gestione dell’assistenza. Esso era composto in primo luogo da uffici governativi: l’Ufficio Venezia Giulia, costituito nel gennaio 1946 presso il Ministero degli Interni a cui nel novembre dello stesso anno succedette l’Ufficio zone di confine (Uzc) presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (Pcm). L’UZC ebbe il compito di coordinare e sostenere l’attività di tutte le organizzazioni “patriottiche” nei territori di confine e in tale quadro promosse e sollecitò l’unificazione dei vari comitati profughi sorti in varie parti d’Italia in quella che è l’attuale Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd).(54) Diretta da quello che era stato il ceto dirigente in Istria, Fiume e Zara in epoca fascista non a caso l’Anvgd dichiarò immediatamente superata la pregiudiziale antifascista.(55) A Trieste venne invece costituito il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria (CLNI), fino al 1954 organismo di rappresentanza non tanto dei profughi quanto dei filoitaliani in Istria. Composto dai rappresentanti dei partiti che avevano formato i CLN in Italia durante la guerra (ad eccezione del Partito comunista italiano (PCI)) godeva perciò di particolare credito e udienza presso gli ambienti del governo italiano. Per il fatto di avere una dirigenza più giovane, non compromessa con il fascismo e anzi spesso di derivazione antifascista, il CLNI si trovò spesso in contrasto con l’Anvgd sulle prospettive da dare alla questione dei profughi. Accanto a loro venne poi costituita la già citata OAPGD. Nata come ente privato con il sostegno indiretto del governo ed esplicito (e concreto) dei massimi rappresentanti della politica (tranne quelli di sinistra) e dell’economia nel 1947, ben presto si vide riconoscere dallo stato finanziamenti ed il ruolo di gestore di tutta la politica assistenziale nei confronti dei profughi; alla fine degli anni ’50 si occupava dell’educazione e della salute dei figli dei profughi, dell’assistenza ai profughi anziani, della costruzione e assegnazione di alloggi per profughi nonché della sistemazione lavorativa dei profughi.
L’esodo da Pola, che ebbe vasta eco nell’opinione pubblica (sull’episodio venne realizzato anche un film, La città dolente), portò in Italia un’ondata di alcune decine di migliaia di profughi e pose la questione di come provvedere alla loro sistemazione definitiva. Le proposte furono diverse: da chi chiedeva venissero insediati tutti assieme in una “Nuova Pola” da costruire ex novo, a chi chiedeva venissero inseriti individualmente nel tessuto sociale dei luoghi d’insediamento, senza la creazione di insediamenti esclusivamente profughi. La scelta che prevalse fu quella di non concentrarli in uno o più mega insediamenti ma di creare tanti insediamenti più piccoli esclusivamente di profughi, i borghi. Questa scelta rispondeva all’esigenza delle organizzazioni dei profughi di avere una base quanto più possibile compatta su cui poter contare anche come forza politica ed elettorale, ma anche di creare e mantenere nei profughi un’identità da comunità particolare, fondata su patriottismo, legame alle tradizioni dei luoghi abbandonati e cattolicesimo (56). Nonostante i pubblici riconoscimenti di quello che veniva presentato come esemplare attaccamento all’Italia, la sistemazione definitiva dei profughi procedette molto lentamente, sia perché la scelta di creare nuclei compatti richiedeva tempi di realizzazione più lunghi rispetto ad una loro eventuale sistemazione individuale, ma anche perché in realtà la legislazione fu a lungo molto carente e improntata all’assistenza immediata. Fu infatti necessario attendere il 1952 per veder approvata una legge (la n. 137 del 4.3.1952) che affrontava la questione in modo relativamente organico.

BONIFICA NAZIONALE E RAFFORZAMENTO DELL’ITALIANITA’

L’insediamento più massiccio dei profughi avvenne lungo il confine orientale, e in particolare a Trieste, dove negli anni ’60 ne erano stati sistemati circa 70.000. Il fine dichiarato era la bonifica nazionale e/o il rafforzamento dell’italianità in una zona che rimase fino al 1954 ancora in ballo e che anche dopo il ritorno all'amministrazione italiana venne considerata problematica sia per ragioni etniche che politiche (57). Dopo l’iniziale contrarietà del GMA, che peraltro chiuse più di un occhio sull’insediamento clandestino dei profughi nel suo territorio, nel giugno del 1950 si arrivò ad una prima svolta. Il GMA accolse le insistenti pressioni italiane e accettò un insediamento programmato e sopratutto definitivo dei profughi. Un altro momento importante si ebbe nel 1952, quando da un lato venne ceduta all’Italia la gestione della parte civile dell’amministrazione della Zona A e dall’altro venne consentito di operare nella zona all’OAPGD, che immediatamente concentrò gran parte delle sue risorse su Trieste.(58) E nel 1954, con il ritorno della Zona A all’amministrazione italiana il progetto di insediamento mirato dei profughi poté essere ampliato e completato senza più remore.(59)
La bonifica nazionale riguardò soprattutto la fascia costiera tra Trieste e Monfalcone che alla fine della guerra era ancora abitata (e posseduta) quasi esclusivamente da sloveni. L’insediamento dei profughi (naturalmente ritenuti tutti italianissimi) doveva contribuire in maniera determinante a creare una continuità “etnica” italiana tra Trieste e Monfalcone, togliendo così alla controparte jugoslava la possibilità di rivendicare questo territorio quale naturale sbocco al mare degli sloveni che avrebbe fatto di Trieste un’enclave italiana in territorio jugoslavo. In quello che veniva denominato il corridoio accanto ad ogni villaggio sloveno sorsero così uno o più “borghi” di profughi, completamente autosufficienti per evitare indesiderate integrazioni. Particolarmente coinvolto fu il territorio del comune di Duino-Aurisina, che divideva il territorio del comune di Trieste da quello di Monfalcone. Qui il progetto venne perseguito con particolare accanimento, ricorrendo per ben due volte alla temporanea esautorazione del sindaco che si opponeva alla costruzione di nuovi alloggi dell’OAPGD non solo perché ciò avrebbe stravolto la struttura nazionale della popolazione, ma anche in considerazione del fatto che il comune non offriva sufficienti occasioni occupazionali nemmeno per la popolazione già presente. Il risultato finale fu il completo ribaltamento degli equilibri nazionali e politici: alla metà degli anni ’60 gli italiani, che ancora nel 1945 raggiungevano a stento un 10% della popolazione totale, erano ormai divenuti maggioranza.
In ambito urbano fu invece primario il rafforzamento dell’italianità. Si trattava di rafforzare numericamente (anche a livello elettorale), ma anche qualitativamente, lo schieramento filoitaliano, ampiamente minoritario fino alla rottura tra Tito e Stalin nel 1948. I borghi profughi vennero qui costruiti in rioni popolari ritenuti ostili all’Italia. L’inclusione dei profughi nelle liste elettorali fu probabilmente decisiva per portare ad un non troppo soddisfacente 60% la somma dei voti dei partiti filo italiani (compresi i neofascisti che avevano un 10% circa) alle elezioni amministrative del 1949 e del 1952. I profughi ebbero inoltre la precedenza nelle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, ma vennero inseriti anche nelle industrie, in cui ebbero (almeno inizialmente) un importante ruolo quale elemento di rottura della compattezza e delle rigidità della classe operaia triestina.(60) Esponenti delle organizzazioni degli esuli e di origine istriana in genere assunsero posizioni di punta nello schieramento filoitaliano a Trieste, nelle amministrazioni locali, nelle aziende pubbliche, ma anche a livello politico nazionale (basti citare i nomi del vescovo di Trieste mons. Santin, rovignese, del sindaco Bartoli, anch’egli di Rovigno, e del polesano Belci, deputato della Democrazia Cristiana e sottosegretario). Tutto ciò trasformò radicalmente la realtà etnica, ma anche sociale e politica di Trieste, facendo si che in una città in cui fino ad allora il cattolicesimo politico non aveva avuto che uno spazio marginale, la Democrazia cristiana diventasse il partito di maggioranza relativa (che elesse al parlamento italiano della prima repubblica solo candidati profughi).
Della politica di Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità furono peraltro indirettamente vittime anche gli stessi profughi. In attesa di fungere da bonificatori – e non tutti erano peraltro ritenuti adatti - dovettero rimanere per anni, alcuni per decenni, nei campi profughi (l’ultimo fu chiuso negli anni ’70) in condizioni igieniche tali da portare allo scoppio di epidemie (con esiti mortali). Per essere poi sistemati in borghi che avevano molto dei ghetti, spesso in località lontane dai loro posti di lavoro e dalle quali appena potevano se ne andavano. I relativi privilegi di cui godevano nell'assegnazione di alloggi pubblici e nelle assunzioni (che andavano al di là anche di quanto stabilito per legge) in un periodo in cui quello della casa e del lavoro erano problemi acuti a livello generale, ma anche una politica volta esplicitamente a questo, pr

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Il partigiano, e poi generale della RFSJ, Dragan Paić racconta le dure battaglie del 1942, accusando la Croazia "indipendente" di essere diretta continuatrice della NDH. Tra le altre cose, il monumento partigiano di Petrova Gora, che doveva ospitare anche un museo della NOB, e' stato distrutto dal regime croato. (segnalato da AD per CNJ-onlus)
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Novosti (samostalni srpski tjednik iz Zagreba)
Broj 650 - Datum objave: 02.06.2012.

“Oluja” je dovršila ono što je davno započeto


Piše: Dragan Grozdanić

Izvini što sam opširan jer nemam vremena, pisao je Goethe svom prijatelju Johannu Peteru Eckermannu. Za razliku od njega, ja imam vremena. Antifašizam je bio svjetski pokret, a ne samo naš. Mi smo se našli u velikoj antifašističkoj koaliciji, gdje su koalirali komunisti i antikomunisti. Nije većeg komunista bilo od Staljina i većeg antikomunista od Churchilla, pa su koalirali – započinje svoju priču 92-godišnji Dragan Paić, partizan s Petrove gore, vrativši se sedamdeset godina unatrag, u svibanj 1942., prisjetivši se proboja ustaškog obruča na Biljegu i oslobođenja područja na pola sata vožnje od Karlovca.

Proboj, u kojem je spašen velik broj srpskih civila iz okolnih sela, izveden je u noći sa 13. na 14. svibnja 1942., no njemu su, kaže naš sugovornik, prethodili drugi važni događaji, koji počinju potkraj 1941.

- Jedan od važnijih događaja bila je decembarska ofenziva 1941. na teritoriju između Kupe i pruge Karlovac-Vrginmost. Bila je to velika ofenziva u snijegu; nažalost, sve što je uhvaćeno od naroda, pobijeno je i poklano od strane domobrana i ustaša. Napad bi možda i uspio da nije pao snijeg, koji se smrznuo, pa se čulo dok se po njemu hodalo – priča Paić.

Pa ipak, partizani su već 12. siječnja 1942. ušli u Vojnić. Neprijateljske posade zarobljene su u Utinjskoj dolini; partizanima je u ruke palo dosta oružja, pa su formirana i dva partizanska odreda. Prvi je bio na Petrovoj gori, između Kupe i pruge Karlovac-Vrginmost, a drugi je pokrivao teren kod Slunja i Plaščanske doline. Paićev odred nazvan je po selu Jurgi kraj Vojnića.

Zemunica nije otkrivena

- Prva ofenziva na Petrovu goru bila je 23. marta 1942. Bio je to juriš na Petrovac, najviši vrh Petrove gore, koji nam nije uspio iako smo smatrali da možemo uspjeti. Kako nije bilo dovoljno oružja, napadali su nas željeznim “roguljašima”: bilo je k’o u seljačkoj buni, netko je imao na štap nasađen srp, netko komad kose… Bile su to oružane formacije NDH-a: domobrani, ustaše, oružnici i naoružani civili koji su bili na Petrovcu. U to vrijeme nije bilo Nijemaca. U toj neuspješnoj ofenzivi imali smo gubitaka, pa su oni išli u drugu ofenzivu, nazvanu “Obruč”, koja se dogodila 8. ili 9. svibnja 1942. godine – sjeća se Paić.

U toj je ustaškoj ofenzivi Petrova gora bila opkoljena te su ustaše krenuli u pohod na narod koji se uglavnom skrivao po šumama. U području do Vojnića i sela Džodani ustaše su sjekli mladu šumu i ubijali svakoga na koga bi naišli. U šumi su se našli drugi i treći bataljun Prvog odreda, koji su se dvaput, nažalost neuspješno, pokušali probiti. Ubrzo je Paić, kojem su tada bile 22 godine, ranjen.

- Ranjen sam 1. travnja, točno na izlazu iz sela Ključara blizu Biljega, oko četiri kilometra od Petrovca. Rana je bila na desnoj nadlaktici, a Jakov Kranjčević Brada, bolničar i španski borac, zaustavio mi je krvarenje i na nadlakticu stavio dvije daščice koje je privezao. Nije bilo materijala, rendgena, zavoja, šprica – govori Paić i objašnjava kako se pred proboj našao u zemunici.

- Prva partizanska bolnica, koja je izgrađena 1941., bila je na Vrletnim stranama na Petrovoj gori, malo više u šumi od kasnije Centralne bolnice, koju neprijatelj nikada nije pronašao i koja je šezdesetih rekonstruirana. Prvu je bolnicu neprijatelj pronašao 1942. u martovskoj ofenzivi, no nije pronašao zemunicu i nas nekoliko ranjenika u njoj. Bila su nas trojica unutra: Ilija Miljanović zvani Kurepa, Rade Sučević i ja. Svi smo bili ranjeni u ruku, ali nismo mogli hodati, ja sam puno krvi izgubio, bili smo potpuno nemoćni – sjeća se Paić.

Ranjeni partizani ležali su na vrećama žita, no u jednom su trenutku odlučili izaći iz zemunice. Mladi je Paić ramenom i lijevom rukom podigao daske, pa su se svi izvukli van. Kuda sad, zapitali su se. Krenuli su u neodređenom smjeru, pa naišli na bolničara Bradu; zanimljivo je da je dobrovoljac, koji je za Španjolskoga građanskog rata završio sanitetski tečaj, bio specijaliziran za izgradnju podzemnih zemunica, podignutih na još nekim mjestima Petrove gore i Korduna, a izgradio je i Centralnu bolnicu u Pišinom gaju.

Povijesna pobjeda

Nakon što ih je Kranjčević izgrdio što su pobjegli, vraćeni su u zemunicu, pa su ondje s još desetero boraca dočekali majski proboj, koji je uslijedio nakon višemjesečnog proganjanja i ubijanja žena, djece i staraca: u tzv. čišćenju terena od strane ustaško-domobranskih postrojbi 2.500 civila odvedeno je u logore, uglavnom u Jasenovac. U samo 90 proljetnih dana 1942. u selima kotareva Vojnić i Vrginmost ubijeno je 3.454 Srba.

Odlučeno je da se u proboj ide u rano jutro 14. svibnja; tada je, kaže Paić, neprijatelj dijelio municiju, doručkovao, brijao se, dok je noću dežurao, pa i pucao.

- U proboju su bila svega nekolicina Hrvata i dvojica muslimana, ostalo su činili Srbi s Korduna. Proboj je išao na dva mjesta: jedan je bio na sjeveru, na Biljegu, a drugi na Magarčevcu, potezu jug-jugoistok – pripovijeda Paić i slikovito objašnjava: – Na Magarčevcu je probijao Treći bataljon, s komandantom Jovicom Lončarom i četom komandira Dušana Vergaša i komesara Milana Markovića Like, ukupno 350 ljudi. Na Biljegu je probijala Proleterska četa, s komesarom Rafajlom Višnjićem i komandirom Miškom Breberinom te Drugi bataljon s četom od 120 ljudi, kojom je komandirao Mihajlo Savić.

Pošto nam je izdiktirao imena partizanskih junaka, prisjetio se i dvadesetpetorice drugova poginulih pri proboju.

- Računa se da je ustaša bilo oko 5.000 ili više, nasuprot 670 partizana i ljudi iz tih krajeva koji su preživjeli pokolje i bili u zbjegu – kaže Paić.

Da će proboj biti uspješan znao je kada su toga dana žedni i gladni izašli iz zemunice: sretali su ljude, tisuće koje su uspjele preživjeti opsadu.

Sedamdeset godina kasnije, Paiću proboj i dalje predstavlja povijesnu partizansku pobjedu, na koju je iznimno ponosan. Muči ga jedino što je narod stradao te 1942. dokrajčen za “Oluje”.

- Za generale kojima se sudi Hrvati u cijelom svijetu pale svijeće i žale ih. A “Oluja” i Tuđman na Petrovoj su gori dovršili ono što je Pavelić započeo. Spomenik na Petrovoj gori je devastiran, iako je kulturo dobro, i hrvatsko i europsko. U njemu je trebao biti muzej NOB-a Korduna – zaključuje Paić.

Kraj rata, s činom majora, dočekao je u Ilirskoj Bistrici, gdje je 7. svibnja 1945. razbijen 97. njemački korpus, čijih im se 16.000 vojnika predalo. Završio je dvije partizanske škole, među njima i onu u kojoj je radio s Vladimirom Bakarićem. Kasnije je na Vojnoj akademiji u Beogradu završio aplikacionu školu gađanja i dvogodišnju ratnu školu, te je u činu generala umirovljen 1975.


Sva prava pridržana © Novosti





LA BCE IL PRESIDENTE LA GEOPOLITICA TEDESCA L' ATTENZIONE VERSO RUSSIA, UCRAINA, I BALCANI E LA TURCHIA


La nuova Germania guarda a Est 

Il Sud Europa non interessa più


di Massimo Nava
sul 
Corriere della Sera del 27 luglio 2012


Nella crisi dell' euro, è opinione diffusa che la Germania sia parte del problema e grande parte della soluzione. Si sostiene che la crisi sia aggravata dalle prudenze tedesche e sarebbe risolta se la Germania cambiasse registro. Tutti cercano la chiave per convincere Frau Merkel, mentre il destino della moneta sembra appeso alle decisioni della corte costituzionale tedesca che dovrebbe pronunciarsi sulla legittimità dei recenti accordi «salva Stati». La Germania è tacciata di egoismo miope verso i Paesi in difficoltà e al tempo stesso di volontà egemonica quando si condizionano i soccorsi a un editto finanziario ispirato da Berlino, premessa di nuovo assetto istituzionale europeo che piace soprattutto ai tedeschi. Si tratta di analisi contrapposte, che rimandano a un presunto ripiegamento di un Paese virtuoso che non vuole pagare i debiti dei Paesi spreconi o - al contrario - a un presunto tratto di penna sulle lezioni della storia e sui fantasmi del passato nazista. Ma fino a che punto, o meglio fino a che prezzo, l' Europa di oggi sta davvero a cuore alla Germania? Siamo sicuri che il problema tedesco sia il rigore senza mediazione, in fin dei conti contro il proprio interesse di potenza economica continentale? Quanto pesano invece la seduzione storica dell' allargamento ad est, l' influenza culturale ed economica sulla Mitteleuropa, l' idea che il futuro del Paese, nella competitività globale, risieda nella conquista d' oriente e sempre meno nel mercato depresso del resto d' Europa, da cui la Germania può comunque continuare a drenare manodopera, cervelli e capitali? Quali possono essere le conseguenze di un asse mediterraneo (Francia, Italia, Spagna) rispetto al più esclusivo asse franco-tedesco? Probabilmente, per rispondere, bisogna rifarsi a un' altra storia, più recente, meno inquietante, altrettanto drammatica: quella cominciata all' indomani della caduta del Muro di Berlino. Nel novembre del 1989, non è nata soltanto una Germania più grande, più popolosa, capace di inglobare e risanare il suo Mezzogiorno comunista, grazie anche alla generosa (e interessata) visione del cancelliere Kohl, che decise il cambio alla pari del marco dell' ovest con quello dell' est. È nata (o meglio, rinata) una Mitteleuropa che sulle ceneri dei regimi comunisti è entrata stabilmente nella sfera d' influenza economica della Germania. Le imprese si sono installate nelle regioni dell' Est tedesco, in Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Romania, Ucraina e sono prosperate, grazie anche al differenziale di prezzi e salari. Un esempio, la Skoda-Volkswagen. I rapporti economici con i Paesi baltici si sono intensificati. La Russia post sovietica è diventata il grande mercato delle merci tedesche e il polmone energetico, grazie anche ai discreti rapporti d' affari dell' ex cancelliere Schröder. L' Europa tedesca assomiglia più all' Europa delle competizioni di calcio (che comprende anche Russia, Turchia e Bielorussia) che all' Europa dell' euro. Sull' onda del principio dell' autodeterminazione dei popoli affermato con la riunificazione del Paese, la Germania è andata anche oltre la strategia di allargamento della sfera economica, riconoscendo per prima l' indipendenza di Croazia e Slovenia (oggi porte orientali della Ue), favorendo di fatto la dissoluzione della Jugoslavia, estendendo l' area commerciale del marco alla Bosnia, alla Serbia, fino all' Albania e al Kosovo. Per la storia, molti volontari delle guerre balcaniche erano immigrati che tornavano a combattere con le loro Mercedes cariche di armi, soldi e uniformi. La penetrazione economica ha interessato la Grecia (da cui deriva anche una parte del debito greco) e si è estesa sempre più alla Turchia, che fornisce alla Germania un' emigrazione largamente affidabile e qualificata e favorisce un forte interscambio turistico e commerciale, gestito anche da una rete importante di imprese turche installate in Germania. Se si osserva in profondità questo quadro sintetico, forse si comprendono meglio le rigidità della Merkel, che peraltro ha fatto passi avanti rispetto al pensiero comune dei suoi elettori. È opportuno riflettere sulla direzione degli interessi tedeschi, sull' egoismo di Berlino rispetto all' Europa del sud, sull' indifferenza della Germania al progetto di Unione per il Mediterraneo, sull' effettiva preoccupazione per le sorti dell' Europa comunitaria rispetto al consolidamento della penetrazione verso Oriente, dalla Russia alla Cina. È vero che Francia, Italia, Spagna sono ancora i primi partner commerciali della Germania, ma è anche vero che le vendite di automobili e merci tedesche in Cina registrano aumenti annuali a doppia cifre. Fra vecchia Europa impoverita e nuovo Eldorado, la Germania da che parte guarderà? Intanto, la locomotiva è tentata di sganciare i vagoni di coda. 




Una iniziativa di giovani per la ri-fondazione di una radiotelevisione dell'area jugoslava


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Da: "Dragan Djuric" 
Data: 18 luglio 2012 03.00.56 GMT+02.00
Oggetto: [Obnovimo Jugoslaviju!] Otvoren je konkurs za (trenutno) volonterski rad...

Dragan Djuric ha pubblicato qualcosa in Obnovimo Jugoslaviju!

Dragan Djuric 18 luglio 3.00.46

Otvoren je konkurs za (trenutno) volonterski rad na JRT-u. Traže se dopisnici iz Sarajeva, Beograda, Zagreba, Ljubljane, Titograda, Skopja, Prištine i Novog Sada.
Svi zainteresovani neka se jave na e-mail: jugoslovenskaradiotelevizija@...
Mladi entuzijasti započeli reosnivanje Jugoslovenske radiotelevizije JRT


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Utorak, 17 Juli 2012 17:54

Mladi entuzijasti započeli reosnivanje Jugoslovenske radiotelevizije JRT

Jugoslavenska radiotelevizija (kratica: JRT) bio je sistem osam nacionalnih radiotelevizijskih kuća u Jugoslaviji do početka 1990-ih godina. Činilo ga je šest republičkih i dva pokrajinska RTV centra: Radiotelevizija Sarajevo (RTVSA), Radiotelevizija Ljubljana (RTLJ), Radiotelevizija Zagreb (RTZ), Radiotelevizija Beograd (RTB), Radiotelevizija Skopje (RTSK), Radiotelevizija Titograd (RTT), te Radiotelevizija Novi Sad (RTNS) i Radiotelevizija Priština (RTP). Službeni jezik JRT-a bio je srpsko-hrvatski jezik, u Makedoniji makedonski jezik, u Sloveniji slovenski jezik te djelimice na Kosovu albanski jezik. Jugoslavenska radiotelevizija bila je članica EBU-a, Evropske radiodifuzne unije, a zajedno sa ostalim članicama ovog velikog sistema nacionalnih javnih RTV kuća participirala je redovno na velikim radijskim i televizijskim spektaklima kao što su bili: muzički festivali "Eurosong", "San Remo" ili dječiji festival "Zlatni cekin", odnosno velike sportske manifestacije kao Olimpijske igre, Mediteranske igre, Univerzijada ili zabavno-revijalni programi kao "Igre bez granica".

Grupa mladih ljudi došla je na ideju otvaranja bivše Jugoslovenske radio-televizije "JRT", koja će privremeno program emitovati putem interneta, trenutno kao radio, a kasnije preći na radio i tv prijemnike. Potrebno je navesti da iza ovog projekta ne sudjeluju TV kuće koje su nekad bile u sastavu JRT-a, nego mladi entuzijasti koji žele promijeniti bar malo onoga što se na neki način može i učiniti, vratiti barem nešto od propale Jugoslavije. Angažirali su se te redizajnirali logo nekadašnje televizije. Smatraju da ono što trenutno rade može biti na najkvalitetniji način urađeno te vas dragi čitaoci pozivaju da se pridružite njhovoj facebook stranici, kako biste ih na taj način podržali i imali najnovije informacije o reosnivanju JRT-a.

Naš portal je jedan od prvih medija koji javno podržava ovu odličnu ideju, pa se iskreno nadamo da ćete i vi podržati ove mlade entuzijaste!


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Uskoro kreće Jugoslovenska radio-televizija

SUBOTA, 21 JUL 2012


Jugoslovenska radio-televizija (JRT) uskoro započinje emitovanje putem interneta, no isto tako funkcionisaće privremeno kao radio da bi kasnije krenula i kao televizija, piše Index.hr.
"Nadamo se da ste željni dobrog, starog JRT-a!", stoji u poruci pokretača ove televizije koju su ostavili na službenoj Facebook stranici.
Pokretači JRT-a nisu ostaci bivšeg televizijskog sistema, već grupa mladih entuzijasta koji žele "vratiti barem nešto od propale Jugoslavije".
Trenutno je otvoren konkurs za volonterski rad na JRT-u, a traže se dopisnici iz Sarajeva, Beograda, Zagreba, Ljubljane, Podgorice, Skoplja, Prištine i Novog Sada.
Podsjetimo kako je JRT funkcionisao sve do 1990. godine a unutar te televizije bilo je šest republičkih i dva pokrajinska RTV-a centra i to Radiotelevizija Sarajevo (RTVSA), Radiotelevizija Ljubljana (RTLj), Radiotelevizija Zagreb (RTZ), Radiotelevizija Beograd (RTB), Radiotelevizija Skopje (RTSK), Radiotelevizija Titograd (RTT), te Radiotelevizija Novi Sad (RTNS) i Radiotelevizija Priština (RTP).


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  • OBJAVA: 21.07.2012 / 17:13
  • PRIKAZA: 9135

SVIĐA VAM SE IDEJA?

Mladi pokreću JRT: Želimo vratiti nešto od propale Jugoslavije

Kažu da žele promijeniti bar malo onoga što se na neki način može i učiniti. Otvoren je i natječaj za volontiranje na JRT-u


Piše: IČ/VLM



Jugoslovenska radio-televizija uskoro će početi emitiranje na internetu. Privremeno kao radio, a kasnije i kao televizijski program. Nadam se da ste željni dobrog, starog JRT-a! , napisala je na svojoj Facebook stranici skupina entuzijasta koja je predstavila novi projekt "JRT".

Kažu da žele promijeniti bar malo onoga što se na neki način može i učiniti, "vratiti barem nešto od propale Jugoslavije."

Otvoren je i natječaj za volontiranje na JRT-u, a traže se dopisnici iz Beograda, Sarajeva, Zagreba, Podgorice, Ljubljane, Skopja, Prištine i Novog Sada.



(italiano / srpskohrvatski)

1) NKPJ: Stop antikomunizmu u Moldaviji
2) Moldavia: il governo mette al bando la falce e martello


=== 1 ===

http://www.skoj.org.rs/88.html

STOP ANTIKOMUNIZMU U MOLDAVIJI

Nova komunistička partija Jugoslavije izražava najoštriji protest protiv novog antikomunističkog zakona usvojenog u Moldaviji kojim se zabranjuje upotreba komunističkih simbola, a sovjetski period socijalističke izgradnje naziva „sovjetskom okupacijom Moldavije“.

Tendencija da se kriminalizuje svaka komunistička aktivnost ne pogađa samo Moldaviju, to je trend koji prati i druge evropske zemlje, posebno bivše socijalističke zemlje. Ovakva antikomunistička politika manifestuje se raznim zakonima i nastojanjima da se komunizam izjednači sa fašizmom,što je suprotno sa svakom istorijskom činjenicom i zdravim razumom. Potpuno je jasno, da se ovde radi o otvorenoj manipulaciji istorijom od strane vladajuće buržoaske klase, koja se boji političkih snaga koje nude realnu i ostvarljivu alternativu kapitalizmu. Nije ni malo slučajno da se kriminalizacija komunizma odvija upravo u trenutku kada je kapitalistički sistem u dubokoj krizi, a život radničke klase sve teži i teži.

Nova komunistička partija Jugoslavije zahteva ukidanje novo usvojenog antikomunističkog zakona. Apelujemo na sve da izraze protest i osude postupke skupštine Moldavije.

NKPJ izražava punu solidarnost sa svim komunističkim snagama koje su svoje vrednosti dokazali u decenijskoj borbi za radnička prava, protiv eksploatacije ljudi, protiv fašizma, kolonijalizma i imperijalizma, a sada se bore za ostvarenje jedinog realnog izlaza iz začaranog kruga kapitalističkih kriza, za život dostojan čoveka – za socijalizam.

Sekretarijat CK NKPJ
Beograd,
13. jul 2012. godine


=== 2 ===

 
Moldavia: il governo mette al bando la falce e martello
 
di Redazione Contropiano
 
18/7/12
 
Il 12 luglio il parlamento della repubblica ex sovietica ha votato la messa al bando della falce e martello. Il Partito Comunista non ci sta e annuncia il ricorso al Tribunale Costituzionale.
 
Il vento dell'anticomunismo ha ripreso a soffiare forte nell'Europa Orientale, proprio quando i paesi dell'ex blocco sovietico sono scossi da una tremenda crisi economica, politica e sociale conseguenza del ritorno al capitalismo selvaggio proprio durante una delle peggiori crisi che questo sistema abbia mai vissuto.
 
Nei giorni scorsi il parlamento della Moldavia ha votato la proibizione dell'uso della falce e martello, così come hanno fatto negli anni scorsi altri paesi dell'Europa centro-orientale, Repubblica Ceca in testa. La decisione è stata approvata lo scorso 12 luglio con il voto favorevole dei 53 deputati dell'Alleanza Europea. Dal momento in cui la legge entrerà in vigore, il Partito Comunista della Moldavia non potrà più utilizzare il suo simbolo nella propaganda pubblica, nei materiali elettorali, nei manifesti. Non solo. La legge proibisce anche di esporre le bandiere sovietiche durante le celebrazioni del 9 maggio, festa per la vittoria dell'Armata Rossa contro i nazisti tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale. Inoltre cesseranno di essere validi gli sconti e le agevolazioni concessi in epoca sovietica ai veterani di guerra e finora mantenuti dalla legislazione della piccola repubblica.
 
Il segretario generale del Partito Comunista Moldavo, Vladimir Voronin, ha denunciato la legge come discriminatoria e mirante a eliminare il suo partito dal panorama elettorale, ed ha annunciato che farà ricorso al Tribunale Costituzionale per bloccare la norma appena approvata.
 
Dei 4 partiti che hanno una rappresentanza in Parlamento nel paese, il Partito Comunista è stato il più votato, quasi eguagliando i voti presi dagli altri tre partiti messi insieme.
 
Rifondato nel 1994, il partito è riuscito a sventare l'annessione alla Romania in un referendum. Nel 1998 risulta essere il partito più votato, ma non può governare perché non ottiene la maggioranza assoluta e tutte le altre forze politiche formano una coalizione anticomunista. Nel 2001 il Partito Comunista vince di nuovo le elezioni e ottiene l'elezione di Vladimir Voronin alla presidenza. Nel 2005 Voronin è di nuovo eletto. Nel 2009 i comunisti tornano a vincere le elezioni ma l'opposizione dà vita a una sommossa sull'onda delle cosiddette ‘rivoluzioni colorate' già scatenate su pressione esterna in altri paesi dell'Asia Centrale e dell'Europa Orientale. I manifestanti attaccarono e bruciarono il Parlamento e il paese si trovò sull'orlo di un colpo di stato, alla fine sventato.
 
Alle elezioni che seguono quegli eventi Voronin non riesce a vincere le elezioni ma dal novembre del 2010 fino alla fine del 2011 la Moldavia rimane senza governo, dato che i partiti anticomunisti non riescono a mettersi d'accordo tra di loro. Solo alla fine del 2011 riescono ad accordarsi su un candidato unico ed eleggono Timofti alla presidenza del governo. A lui si deve la legge che proibisce la falce e martello.



(francais / italiano)

Chi e perché mette a ferro e fuoco la Siria

1) Bahar Kimyongür: Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali
2) Nino Orto: Le Alture del Golan tra guerra e pace
3) PsyOp imminente de l’OTAN contre la Syrie
4) Socialismo siriano
5) Thierry Meyssan: Chi combatte in Siria?


=== 1 ===

(En francais: Le terrorisme anti-syrien et ses connexions internationales


Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali


di Bahar Kimyongür

Fin dall’inizio della “primavera” siriana, il governo di Damasco ha affermato di essere in guerra contro bande di terroristi. La maggior parte dei media occidentali denunciano questa tesi come propaganda di Stato, che serve per giustificare la repressione contro i movimenti di protesta. Se è evidente che questa tesi viene calata come sacrosanta dallo Stato baathista, che ha una reputazione di poca tolleranza verso i movimenti di opposizione che sfuggono al suo controllo, va detto comunque che non è falsa. Effettivamente, molteplici elementi senza ombra di dubbio accreditano la tesi del governo siriano.
In primo luogo, esiste il fattore della laicità.
La Siria è in questo caso l’ultimo Stato arabo laico.(1) Le minoranze religiose godono dei medesimi diritti della maggioranza musulmana. Per certe frange religiose sunnite, campioni dell’idea della guerra contro l’«Altro», chiunque egli sia, la laicità araba e l’uguaglianza inter-religiosa, incompatibili con la sharia (legge islamica), costituiscono una offesa contro l’Islam e rendono lo Stato siriano più detestabile di un’Europa «atea» o «cristiana». Ora, la Siria ha almeno dieci diverse chiese cristiane, con sunniti che sono Arabi, Curdi, Circassi o Turcomanni, con cristiani non arabi come gli Armeni, gli Assiri o i Levantini, con musulmani sincretisti e quindi non classificabili, come gli Alawiti e i Drusi. Pertanto, il compito di mantenere salda questa struttura etnico-religiosa fragile e complessa si dimostra così difficile, che solo un regime laico, solido e necessariamente autoritario può assolverlo.
Poi, esiste il fattore confessionale.
In ragione dell’origine del presidente Bachar El-Assad, il regime siriano è indebitamente descritto come «alawita». Questa definizione è totalmente falsa, diffamatoria, settaria, vale a dire razzista. Innanzitutto è falsa, perché lo stato maggiore, la polizia politica, i diversi servizi di informazione, i membri del governo sono nella grande maggioranza sunniti, come pure una parte non trascurabile della borghesia. I nostri media, per fare sensazione, non mancano di sottolineare l’origine sunnita della signora Asma al-Assad, moglie del presidente, con lo scopo di demonizzarla. Ma evitano deliberatamente di citare la vice-presidente della Repubblica araba di Siria, la signora Najah Al Attar, la prima ed unica donna araba al mondo ad occupare una carica così elevata. La signora Al Attar non è soltanto di origine sunnita, ma è anche la sorella di uno dei dirigenti in esilio dei Fratelli Musulmani, esempio emblematico del paradosso siriano.
In realtà, l’apparato statale baathista è il riflesso quasi perfetto della diversità etnico-religiosa che prevale in Siria. Il mito a proposito della «dittatura alawita» è talmente grottesco, che perfino il Gran Mufti sunnita, lo sceicco Bedreddine Hassoune, ed ancora il comandante della polizia politica Ali Mamlouk, anch’egli di confessione sunnita, sono a volte classificati come alawiti dalla stampa internazionale. (2) La cosa più strabiliante è che questa stampa medesima porta acqua al mulino di certi mezzi di informazione siriani salafiti (sunniti ultra-ortodossi), che diffondono la menzogna secondo cui il paese sarebbe stato usurpato dagli alawiti, che, secondo loro, sarebbero agenti sciiti. Questi stessi salafiti accusano gli sciiti di essere negazionisti (Rawafid, Sciiti estremisti eretici che maledicono i Compagni), perché rifiutano, tra le altre cose, la legittimità del Califfato, vale a dire del governo sunnita delle origini dell’Islam.
Tuttavia, da un lato, vi sono notevoli differenze tra alawiti e sciiti, sia sul piano teologico che nelle pratiche religiose. Nello specifico, la deificazione di Ali (nipote di Maometto), la dottrina trinitaria, la credenza nella metempsicosi ed inoltre il rifiuto della sharia da parte degli alawiti sono fonti di critiche da parte dei teologi sciiti, che non mancano mai di accusarli di estremismo (ghulat). D’altro canto, se esiste una religione di stato in Siria, questa è l’Islam sunnita di rito hanafita, rappresentato fra gli altri dallo sceicco Muhammad Saïd Ramadan Al Bouti e dal Gran Mufti della Repubblica, lo sceicco Badreddine Hassoune, i cui saggi discorsi contrastano con gli appelli all’omicidio e all’odio degli sceicchi wahhabiti. Ma tutto questo non importa. Per spiegare l’alleanza contro gli Stati Uniti e contro il sionismo formata dall’asse Damasco – Teheran – Hezbollah, la stampa e i mezzi di informazione agli ordini dei sunniti ultra-conservatori ripetono in coro che la Siria è sotto il dominio degli alawiti, che costituirebbero una «setta sciita». Visto che la Siria riceve l’appoggio della Cina, della Russia, del Venezuela, di Cuba, del Nicaragua e finanche della Bolivia, logicamente bisognerebbe concludere che Hu Jintao, Putin, Chavez, Castro, Ortega e Morales sono essi stessi degli alawiti, o almeno dei cripto-sciiti!
Per terzo, esiste il fattore nazionalista.
Conviene ricordare che per i salafiti la Siria proprio non esiste. Questo nome sarebbe, come quello dell’Iraq, una fabbricazione degli atei. Nel loro gergo ispirato dal Corano, l’Iraq si chiama Bilad al Rafidaïn (la terra dei due Fiumi) e la Siria, Bilad al-Cham (la terra di Cam). Colui che adotta l’ideologia nazionalista, e si consacra alla liberazione del proprio paese, commette un peccato di associazione (shirk). Egli viola il principio deltawhid, l’unicità divina, e per questo merita la morte. Per questi fanatici, la sola lotta approvata da Allah è lajihad, la guerra definita «santa», scatenata nel nome di Allah con l’obiettivo di estendere l’Islam. In quanto corollario del nazionalismo arabo, il pan-arabismo, questa idea progressista di unità e di solidarietà inter-araba, è a fortiori un sacrilegio, in quanto mina il concetto di «Umma», la madre patria musulmana.
Come ha ricordato di recente il presidente Bachar El-Assad in un’intervista accordata al giornale Sunday Telegraph, la lotta che si sta scatenando attualmente sul suolo siriano vede opposte due correnti inconciliabili fra loro: il pan-arabismo e il pan-islamismo (3). Questo conflitto originale introduce un fattore storico, su cui si fonda la minaccia terroristica in Siria. Dal 1963, la Siria baathista conduce in realtà una vera e propria guerra contro i movimenti jihadisti. L’esercito governativo e i Fratelli Musulmani si sono affrontati in numerosi scontri che si sono tutti risolti con la vittoria del potere siriano. Queste vittorie sono state strappate al prezzo di molte vittime, l’esercito non ha esitato a seminare il terrore per raggiungere i suoi scopi. Nel 1982, l’esercito di Hafiz al-Assad ha martellato interi quartieri della città di Hama per superare la resistenza jihadista, massacrando senza distinzione militanti e civili innocenti. Ci sono stati almeno 10 mila morti causati dai bombardamenti e negli scontri per le strade. Si sono susseguite delle vere e proprie cacce all’uomo lanciate contro i Fratelli Musulmani siriani attraverso tutto il paese, costringendoli all’esilio. Comunque, la repressione non è ancora riuscita a sradicare la tradizione guerriera e nemmeno lo spirito di vendetta degli jihadisti siriani.
Ora, analizziamo paese per paese quali sono i movimenti terroristici che le truppe siriane stanno attualmente affrontando.
Il fronte libanese
Nell’aprile 2005, l’Occidente si è rallegrato nel vedere le truppe siriane abbandonare il Libano, dopo 30 anni di presenza ininterrotta. Questo evento era stato attivato dall’attentato che aveva preso di mira l’ex primo ministro libanese-saudita Rafiq Hariri noto per la sua ostilità verso la Siria, attentato immediatamente imputato dall’Europa e dagli Stati Uniti al regime di Damasco, senza la minima prova e prima dell’inizio di una qualsiasi inchiesta. Una «rivoluzione dei Cedri», sostenuta dai laboratori «per i diritti dell’uomo» della CIA, aveva costretto le truppe siriane a lasciare il Libano. Appena i carri armati siriani si erano ritirati, i gruppi salafiti sono riemersi, sguainando le loro spade e la loro predicazione settaria. Questi movimenti si sono insediati nel nord del Libano, dalle parti di Tripoli di maggioranza sunnita, e poi, via via, nei campi palestinesi del Libano, profittando delle divisioni politiche e della debolezza militare delle organizzazioni palestinesi, così come della politica di non-intervento dell’esercito libanese in questi campi.
Tra il 2005 e il 2010, i gruppi jihadisti hanno condotto la guerra contro tutti i sostenitori veri o presunti del regime di Bashar al-Assad, come le popolazioni sciite, alawite o i militanti di Hezbollah. Alcuni di questi movimenti sono arrivati a varcare il confine siro-libanese per bersagliare le truppe del potere baathista sul loro stesso territorio. L’attivismo anti-siriano dei gruppi salafiti libanesi armati ha conosciuto una recrudescenza con l’inizio della crisi siriana del 2011. Comunque, queste formazioni sono state soppiantate da movimenti salafiti non combattenti. Il 4 marzo 2012, circa duemila salafiti guidati da Ahmad Al Assir, un predicatore della città di Saïda (Sidone) divenuto la stella in ascesa del sunnismo libanese, sfilavano a Beirut per protestare contro il regime di Bashar al-Assad. Dietro un imponente cordone di sicurezza composto da poliziotti e militari, alcune centinaia di contro-manifestanti del partito Baath libanese protestavano contro la parata.
Da Aarida a Naqoura, tutto il Libano ha trattenuto il respiro. E il suo cuore si stringe ogni volta che spari risuonano dai quartieri di Tripoli di Bab Tebbaneh e Jebel Mohsen. Dal momento che in questo paese la linea di frattura politica è prevalentemente confessionale, con una maggioranza sunnita anti-Assad e una maggioranza sciita pro-Assad, ed inoltre con i cristiani divisi che si ritrovano nei due campi, l’assillo della guerra civile è onnipresente. Ma il governo di unità nazionale cerca di calmare le acque e di garantire la neutralità rispetto al conflitto siriano. Per questo, certi gruppi salafiti non perdono nemmeno un’occasione per seminare il caos in questi due paesi geograficamente inter-dipendenti e complementari. Ecco una breve descrizione di alcuni di questi movimenti settari attivi in Libano, che minacciano la Siria da molti anni.
Gruppo di Sir El-Dinniyeh
Questo movimento sunnita, diretto fra il 1995 e il 1999 da Bassam Ahmad Kanj, un veterano delle guerre in Afghanistan e in Bosnia, è apparso in seguito alle lotte fra differenti correnti islamiche tendenti a controllare le moschee di Tripoli. Nel gennaio 2000, il gruppo di Dinniyeh ha tentato di creare un mini-Stato islamico nel Nord del Libano. I miliziani hanno assunto il controllo dei villaggi del distretto di Dinniyeh, ad est di Tripoli. 13.000 soldati libanesi sono stati inviati per domare questa ribellione jihadista. I sopravvissuti all’attacco si sono trincerati nel campo palestinese di Ayn el Hilwe, nel Libano meridionale. Dopo il ritiro delle truppe siriane, nell’aprile 2005, i combattenti del gruppo di Dinniyeh sono tornati a Tripoli, dove esistevano ancora delle cellule clandestine. Lo stesso anno, il Ministro degli Interni libanese ad interim, Ahmed Fatfat, che è appunto originario di Sir El-Dinniyeh e che, per altro, ha la cittadinanza belga, si è battuto per la liberazione dei prigionieri del gruppo di Dinniyeh, e questo con lo scopo di ottenere l’appoggio politico dei gruppi sunniti e salafiti del Nord del Libano.
Fatah al Islam
Movimento sunnita radicale del Nord del Libano. Fatah al Islam ha letteralmente occupato la città di Tripoli con la complicità di Saad Hariri e del suo partito, la Corrente del Futuro. Hariri voleva servirsi di questi sunniti radicali per contrastare gli Hezbollah sciiti libanesi e il governo siriano. Tra gli alleati di Hariri, il gruppo chiamato «Fatah el Islam», dissidente del movimento nazionale palestinese, ha assunto il controllo del campo di Nahr El Bared. Questo movimento terrorista ha assassinato 137 soldati libanesi in maniera brutale, soprattutto durante riti satanici che si concludevano con decapitazioni. Il 13 febbraio 2007, Fatah el Islam ha fatto saltare in aria due autobus nel quartiere cristiano di Alaq-Bikfaya. Dal maggio al settembre 2007, l’esercito libanese poneva l’assedio al campo palestinese di Nahr el Bared, dove i combattenti jihadisti si erano rintanati, e solo dopo intensi combattimenti degni dell’operazione siriana di Baba Amro riusciva a neutralizzarli.
Non meno di 30.000 Palestinesi sono fuggiti dai combattimenti. Per quanto riguarda il campo di Nahr el Bared, venne ridotto in macerie.Pochi mesi dopo, Fatah al Islam veniva coinvolto in un attentato mortale che scuoteva Damasco. Infatti, il 27 settembre 2008, il santuario sciita di Sayda Zainab a Damasco diventava l’obiettivo di un attacco suicida che uccideva 17 pellegrini. Fatah Al Islam è spesso citato quando scoppiano combattimenti a Tripoli tra il quartiere sunnita di Bab Tabbaneh e il quartiere alawita di Djébel Mohsen.
Jounoud Al Cham (I soldati del Levante)
Movimento radicale sunnita nel sud del Libano, dalle origini diverse.Alcuni dei suoi membri sarebbero arrivati dal gruppo di Dinniyeh, mentre altri sarebbero veterani dell’Afghanistan, avendo combattuto sotto il comando di Abou Moussab Al Zarqawi. La maggior parte dei suoi combattenti sarebbero Palestinesi «takfiri», vale a dire in conflitto contro le altre religioni e i non credenti. Jounoud Al Cham sarebbe responsabile di un attentato nel 2004 a Beirut, che ha ucciso un dirigente di Hezbollah. Per diversi anni, il gruppo ha cercato di assumere il controllo del campo palestinese di Ain el Hilwe situato vicino alla città di Sidone. Nel 2005, il gruppo fa parlare di sé per le sue scaramucce quotidiane con l’esercito siriano. Jounoud al-Sham si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche pubblicata dalla Russia. Tuttavia, non si trova sulla lista delle organizzazioni terroristiche straniere del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. (4)
Ousbat Al Ansar (la Lega dei partigiani)
Presente sulla lista delle organizzazioni terroristiche, Ousbat al-Ansar si batte per «istituire in Libano uno Stato sunnita radicale». Noto per le sue spedizioni punitive contro tutti i musulmani «devianti», Ousbat al-Ansar ha fatto assassinare personalità sunnite come lo sceicco Nizar Halabi. Per lo stesso motivo, ha fatto saltare in aria strutture pubbliche giudicate empie: teatri, ristoranti, discoteche…Nel gennaio 2000, ha attaccato a colpi di razzi l’ambasciata russa a Beirut.Erede del gruppo di Dinniyeh, questa formazione si infiltra nel campo palestinese di Ain el Hilwe nel Libano meridionale. Quando, nel settembre 2002, ho visitato i campi palestinesi del Libano, l’inquietudine dei resistenti palestinesi era palpabile. Molti di loro erano stati uccisi durante i tentativi di assunzione del controllo dei campi da parte di questo gruppo, considerato essere vicino ad Al Qaeda. Nel 2003, quasi 200 membri di Ousbat Al Ansar hanno attaccato le sedi di Fatah, il movimento palestinese di Yasser Arafat, causando la morte di otto persone, di cui sei membri di Fatah.
Il mito dell’Esercito Libero Siriano (ELS)
Bisogna riconoscerlo: i cacciatori di dittatori che popolano le redazioni delle grandi testate giornalistiche sono diventati abilissimi nell’arte del camuffamento, quando si tratta di presentare i «resistenti» che servono gli interessi del loro campo. Nei panni di veri chirurghi estetici, trasformano l’Esercito Libero Siriano (ELS) in un movimento di resistenza democratica di bravi e simpatici militanti, composto da disertori umanitari disgustati dalle atrocità commesse dall’esercito regolare siriano. Non c’è dubbio alcuno che l’esercito del regime baathista non va tanto per il sottile, e commette imperdonabili abusi contro i civili, che costoro siano terroristi, manifestanti pacifisti o semplici cittadini presi fra due fuochi. A questo riguardo, gli importanti mezzi di comunicazione ci bombardano fino alla nausea dei crimini imputabili alle truppe siriane, qualche volta a ragione, ma più spesso a torto. Perché, in termini di crudeltà, l’ELS non si comporta veramente meglio. Solo qualche raro giornalista, come l’olandese Jan Eikelboom, osa mostrare il rovescio della medaglia, quello di un ELS sadico e ignominioso.
Anche la corrispondente a Beirut di Spiegel, Ulrike Putz, scalfisce la reputazione dell’ELS. In un’intervista pubblicata sul sito web del settimanale tedesco, Ulrike Putz ha evidenziato l’esistenza di una «brigata di becchini» incaricati dell’esecuzione dei nemici della loro sinistra rivoluzione a Baba Amr, il quartiere di Homs, insorto e poi ripreso dall’esercito siriano.(5) Un massacratore intervistato da Der Spiegel attribuisce alla sua brigata di beccamorti da 200 a 250 esecuzioni, quasi il 3% del bilancio complessivo delle vittime della guerra civile siriana dello scorso anno. Per quanto riguarda le agenzie umanitarie, è stato necessario attendere la data fatidica del 20 marzo 2012 perché un’eminente Organizzazione Non Governativa, vale a dire Human Rights Watch, la cui denominazione tradotta significa esattamente «Sentinella dei Diritti Umani», finalmente riconoscesse le torture, le esecuzioni e le mutilazioni commesse dai gruppi armati che si oppongono al regime siriano. Dopo 11 mesi di terrorismo degli insorti … Alla buon’ora dell’infallibile «sentinella»! «Sah Al Naum», come si dice in arabo a qualcuno che si risveglia. Passiamo ad altre informazioni, che vanno ad intaccare ancor di più la reputazione di questo Esercito libero siriano e dei suoi sostenitori atlantisti.
Secondo fonti militari e diplomatiche, l’ELS, questo esercito di cosiddetti «disertori», sarebbe carente di effettivi militari. Per ovviare a questa carenza di combattenti, l’ELS arruolerebbe dei salafiti, senza andare tanto per il sottile. Questo è il caso del battaglione dell’ELS «Al Farouq», che si è reso celebre per i suoi rapimenti di ingegneri civili e di pellegrini iraniani, per i suoi metodi di tortura e per le sue esecuzioni sommarie. La difficoltà di reclutare soldati di leva provenienti dall’esercito regolare è dopo tutto abbastanza logica, dato che un disertore è per definizione un uomo che abbandona il combattimento. Disertare significa abbandonare la guerra. Nel caso siriano, numerosi disertori abbandonano il paese e si costituiscono come rifugiati. La propaganda di guerra occidentale afferma che se costoro abbandonano l’esercito o non rispondono alla chiamata alle armi, questo avviene perché si rifiutano di uccidere manifestanti pacifici. In realtà, queste giovani reclute temono tanto di ammazzare quanto di venire ammazzate. Essi devono affrontare un nemico invisibile, rotto alle tecniche della guerriglia, che spara alla cieca indifferentemente contro i favorevoli o i contrari al regime, e che non esita a liquidare i suoi prigionieri secondo un sordido rituale di decapitazioni e smembramenti.
Il terrore che ispirano questi gruppi armati dissuade legittimamente numerosi giovani dal rischiare la loro vita circolando in uniforme. Ecco che allora fanno la scelta di abbandonare l’esercito regolare e il paese.Per esempio, i disertori Curdi siriani si rifugiano nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Soprattutto a Erbil, in un quartiere popolato da Curdi siriani, che per questo è stato soprannominato «la piccola Qamishli». [Qamishli è una città della Siria, a maggioranza curda e assira, N.d.T.] Altri raggiungono i campi di rifugiati in Iraq, Libano, Turchia o Giordania. Il termine «disertore», che serve a designare i militari che hanno fatto diserzione per raggiungere il campo avverso e sparare contro i loro vecchi camerati, risulta dunque inappropriato in questo caso. Sarebbe più corretto definire «transfughi» questi rifugiati. Ecco un’analisi di Maghreb Intelligence, un’agenzia che non può essere sospettata di collusione con il regime di Damasco, e che sostiene la tesi della smobilitazione dei giovani di leva, della debolezza dell’ELS e della presenza di salafiti armati presenti negli scontri:
«Secondo un rapporto proveniente da una ambasciata europea a Damasco e corroborato da inchieste condotte da centri ricerca francesi alla frontiera turca, l’Esercito Libero Siriano – ELS – nel suo complesso non conterebbe più di 3000 combattenti. Costoro sono per la maggior parte armati di fucili da caccia, diKalachnikov e di mortai di fabbricazione cinese provenienti dall’Iraq e dal Libano. Secondo questo documento, l’ELS non è stata in grado di arruolare la maggioranza dei ventimila militari che avrebbero disertato dall’esercito di Bachar Al Assad. D’altro canto, l’ELS è particolarmente presente nei campi di rifugiati insediatisi sul territorio della Turchia. A Hama, Deraa e Idlib, sono soprattutto gruppi armati salafiti che si contrappongono all’esercito siriano. Questi salafiti, particolarmente violenti e determinati, provengono per la maggior parte dai movimenti sunniti radicali attivi in Libano.»(6)
Oltre ad essere spietato, infiltrato da gruppi settari e in carenza di effettivi, l’Esercito Libero Siriano è disorganizzato. Non presenta una direzione centrale ed unificata.(7) Numerose indicazioni, tra cui importanti sequestri di armi condotti presso diversi posti di frontiera del paese, dimostrano che l’ELS riceve armi dall’estero e questo, sin dall’inizio della rivolta, veniva smentito dall’ELS, prima di arrivare a chiedere apertamente un intervento militare straniero sotto forma di bombardamenti, di supporto logistico, o la creazione di zone cuscinetto. Allo scoppio dell’insurrezione, il gruppo dissidente armato, ovviamente, non voleva fornire l’immagine di una quinta colonna che agisce per conto di forze straniere, nemmeno compromettere i suoi generosi mecenati, che comunque si possono indovinare. Ci si dovrà ricordare che nel documentario di propaganda anti-Bashar realizzato da Sofia Amara, dal titolo «Siria: Permesso di uccidere», e diffuso dalla catena televisiva franco-tedesca Arte nell’ottobre 2011, un soldato dell’ELS stava per rivelare i suoi rifornitori stranieri, quando un suo superiore gli intimava di tacere.
Il fronte giordano
La fedeltà della monarchia hashemita a Washington e a Tel Aviv è ormai un luogo comune.Per soddisfare i suoi alleati, la Giordania è stata anche il primo regime arabo ad invitare Bashar el-Assad ad abbandonare il potere.Il 22 febbraio 2012, il corrispondente de Le Figaro, Georges Malbrunot, rivelava che la Giordania aveva acquistato dalla Germania quattro batterie anti-missili Patriot usamericani «per proteggere Israele contro possibili attacchi aerei condotti dalla Siria.»(8) Questi missili sarebbero stati installati ad Irbid, non lontano dal confine siriano. Già nel 1981, questa Monarchia, sicura alleata degli Stati Uniti, aveva consentito all’aviazione da guerra di Israele di violare il suo spazio aereo per andare a bombardare il reattore nucleare iracheno di Osirak.
In politica interna, la Giordania non mostra un atteggiamento più progressista. Anzi, per decenni, Amman ha incoraggiato i Fratelli musulmani secondo un calcolo politico motivato dal desiderio di sradicare il nemico principale, vale a dire l’opposizione laica di sinistra (comunista, baathista e nasseriana). Secondo M.Abdel Latif Arabiyat, ex ministro ed ex portavoce del Parlamento giordano:«I Fratelli musulmani non rappresentano un’organizzazione rivoluzionaria, ma esaltano la stabilità. Con l’ascesa al potere dei partiti nazionalisti e di sinistra, noi abbiamo stipulato un’alleanza informale con le autorità»(9). Nel 1970, i Fratelli musulmani si sono schierati con la Monarchia quando il re Hussein ordinava l’annientamento dei Fédayins palestinesi. La Fratellanza musulmana non ha detto una parola di fronte al massacro del «Settembre Nero», in cui furono massacrati circa 20 mila Palestinesi. Da questa strategia di manipolazione dei Fratelli musulmani in Giordania, in ultima analisi, sono costoro a risultare i vincitori, visto che attualmente costituiscono il principale movimento di opposizione nel paese. Per il Regno hashemita, i Fratelli musulmani rappresentavano un male minore rispetto sia alla sinistra, ma anche in relazione ai movimenti jihadisti. Questo matrimonio di interesse non è durato per tanto tempo. E alla fine, la Monarchia si è vista costretta a reprimere un movimento diventato troppo potente. Nel frattempo, la Giordania ha subito diversi attentati terroristici. Nel 2005, sono alcuni alberghi della capitale Amman ad essere presi di mira da gruppi salafiti. Abou Moussab Al Zarqawi, l’ex capo di Al Qaïda in Iraq, lui stesso è originario di Zarqa, una città giordana situata a nord-est di Amman.
La rivolta contro il regime siriano è scoppiata a Deraa, una città del sud della Siria vicina al confine con la Giordania, ed ha risvegliato gli appetiti di conquista delle fazioni jihadiste di base in Giordania, che si erano ben moderate in seguito alle numerose perdite subite all’interno dei ranghi di Al Qaïda. Fra le altre, troviamo la Brigata Tawhid, una piccola formazione armata jihadista formata da parecchie decine di combattenti, in precedenza attivi all’interno di Fatah Al-Islam, che si infiltrano in Siria per attaccare l’esercito governativo. (10) Il portale giordano di informazioni liberal Al Bawaba rivela che la città di confine di Ramtha accoglie mercenari libici pagati dall’Arabia Saudita e dal Qatar. D’altronde, essendo situato tra la Siria e l’Arabia Saudita, il Regno hashemita costituisce un passaggio obbligato per tutti gli jihadisti, gli istruttori e i convogli militari inviati da Riyad.
Il fronte saudita
Sull’esempio del Regno hashemita, la lealtà della dinastia Saud allo Zio Sam non è un segreto per nessuno, e questo dal momento del Patto di Quincy firmato sull’incrociatore americano (il Quincy, da cui il nome del Patto) tra Roosevelt e Saud Bin Abdulaziz nel febbraio del 1945. Questo accordo avrebbe permesso agli Stati Uniti di garantirsi un approvvigionamento energetico senza ostacoli in cambio della protezione del suo vassallo nell’affrontare i loro comuni avversari nella regione, in modo particolare il nazionalismo arabo e l’Iran, di cui alcuni territori erano passati sotto l’influenza sovietica.Allo scoppio della crisi siriana, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita stavano festeggiando le loro «nozze di gelsomino» per i loro 66 anni di vita insieme, sigillando il più grande contratto di armamenti nella storia: 90 miliardi di dollari, che prevedono la modernizzazione della marina e dell’aviazione da guerra saudite. Come si può immaginare, lo Stato wahhabita non poteva restava immobile di fronte agli eventi che stanno scuotendo la Siria, un paese faro del nazionalismo arabo ed inoltre amico dell’Iran, nemico giurato dei Sauditi.
Riyad alimenta il terrorismo anti-siriano attraverso diverse modalità: diplomatiche, economiche, religiose, logistiche e, ben s’intende, militari. La Casa di Saud ha sponsorizzato gli jihadisti attivi in Siria, incoraggiandoli attraverso i suoi strumenti di propaganda, e accreditandoli a mettere il paese a ferro e fuoco. Ad esempio, dopo aver autorizzato la jihad in Libia, e aver invocato l’eliminazione di Mouammar Gheddhafi, lo sceicco Saleh Al Luhaydan, una delle più prestigiose autorità giuridiche e fatalmente religiose del paese, si è dichiarato favorevole allo sterminio di un terzo dei Siriani per salvarne gli altri due terzi. Sulla emittente televisiva saudita Al-Arabiya TV, il predicatore Aidh Al-Qarni ha dichiarato che «Ammazzare Bashar è più importante dell’ ammazzare Israeliani!»(11) È sempre da Riyadh, e attraverso la catena relevisiva Wessal TV, che Adnan Al Arour ha lanciato un appello per fare a pezzi gli Alawiti e dare la loro carne ai cani.
Le recenti dichiarazioni cristianofobe dello sceicco Abdul Aziz bin Abdullah, riportate da Arabian Business, sicuramente non giungono a rassicurare i Cristiani di Siria: sulla base di un hadith (narrazione secondo la tradizione orale) che riporta la dichiarazione del profeta Maometto sul letto di morte, «non dovranno esserci due religioni nella penisola arabica», lo sceicco saudita Abdullah, la massima autorità wahhabita al mondo, ne deduce che è necessario distruggere «tutte le chiese presenti nella regione». I Cristiani di Siria, prede dell’odio religioso, trovano in questa affermazione un motivo in più per sostenere Bashar al-Assad.
Molti sono i cittadini siriani ostili al regime di Bashar Assad, che tuttavia si preoccupano del padrinato del loro movimento democratico da parte di una teocrazia, che ancora decapita le donne accusate di stregoneria, che tortura i suoi oppositori politici nelle prigioni, e che non riconosce né un Parlamento né elezioni. Sotto il sole di Riyadh esiste anche Bandar, che non ha bisogno di presentazioni. Il suo ruolo torbido negli attentati di Londra, nel finanziamento di gruppi armati salafiti rivendicato dall’interessato, le sue collusioni con il Mossad, il suo odio verso Hezbollah, verso la Siria e l’Iran fanno del principe saudita Bandar bin Sultan, segretario generale del Consiglio Nazionale per la Sicurezza, un elemento fondamentale del piano per distruggere la Siria laica, multiconfessionale, sovrana e non sottomessa. Non vi è quindi alcun motivo reale per essere sorpresi quando la dittatura saudita si è impegnata ad aiutare il suo vicino e rivale Qatar nel pagare gli stipendi ai mercenari anti-Siriani, in occasione della riunione degli “Amici della Siria” ad Istanbul.
Il fronte del Qatar
Il Qatar è soprattutto una gigantesca base militare degli Stati Uniti, la più grande esistente all’esterno degli Stati Uniti. Ed inoltre, per inciso, è il regno di un piccolo emiro mediocre, falso e avido. Nel suo regno, non c’è Parlamento, nessuna Costituzione, nessun partito, tanto meno le elezioni. Nel 1995, ha organizzato un colpo di Stato contro il suo stesso padre.Appena arrivata al potere, la petromonarchia golpista si lancia in un vasto programma di partenariato economico con Israele, preconizzando in modo speciale la commercializzazione del gas del Qatar verso lo Stato sionista. Nel 2003, l’emiro del Qatar autorizza l’amministrazione Bush a servirsi del suo territorio per scatenare l’aggressione contro l’Iraq. Con il resto della sua famiglia, controlla tutta la vita economica, politica, militare e culturale del paese. La celebre catena televisiva Al Jazeera è il suo giocattolo personale. In poco tempo, ne ha fatto una potente arma di propaganda anti-siriana. Grazie alle notizie false, tendenziose e risibili di Al Jazeera, la CIA e il Mossad possono dedicarsi alle loro vacanze!
Il nome di Sua Maestà: Hamad Ben Khalifa al Thani. La «Primavera araba»? Ne è il principale procacciatore di fondi. Per lui, tutto si compra: lo sport, l’arte, la cultura, la stampa, e perfino la fede. Quindi, potete immaginare, una rivoluzione…! L’anno scorso, l’emiro Hamad ha inviato 5.000 commandos per sostenere la ribellione jihadista contro la Libia, Stato sovrano. Ora, il suo nuovo gioco del casinò è la Siria, e i ribelli di questo paese, gettoni da puntare. Quando questi ultimi hanno subito una battuta d’arresto da parte dell’esercito arabo siriano, l’emiro ha gridato al genocidio. Hamad e la sua cricca, è l’ospedale che si fa beffe della carità. E parlando della carità, egli ha appena assunto un notorio predatore della pace e della democrazia, lo sceicco Al Qardawi, tanto per islamizzare il messaggio dell’emittente televisiva. Ma, malgrado i suoi dollari e le sue campagne di mobilitazione contro la Siria, Al Jazeera è un esercito in rotta. Le colate di disinformazione che si riversano a proposito della Siria dagli studi della catena televisiva hanno determinato le dimissioni dei suoi personaggi più in vista.
Da Wadah Khanfar a Ghassan Ben Jeddo, da Louna Chebel a Eman Ayad, Al Jazeera ha dovuto subire importanti defezioni, che passano inosservate nella stampa occidentale. Nel marzo 2012, anche Ali Hachem e due suoi colleghi hanno abbandonato il bastimento della pirateria informativa del Qatar. Alcune e-mail di Ali Hashem trapelate hanno riguardato misure di censura assunte da Al Jazeera rispetto ad immagini di combattenti contro Bashar, che si infiltravano in Siria dal Libano, in data aprile 2011. Dunque, queste immagini fanno risalire la presenza di un’opposizione armata di natura terroristica agli inizi della cosiddetta «Primavera siriana». La loro pubblicazione avrebbe ridotto a brandelli l’impostura secondo la quale il movimento anti-Bashar non si sarebbe radicalizzato che alla fine dell’anno 2011, una tesi fatta propria da tutte le cancellerie occidentali.Malgrado questi scandali a ripetizione, i «nostri» media continuano a considerare Al Jazeera come una fonte affidabile, e il suo padrone, l’emiro Hamad, come un apostolo della democrazia siriana.
Il fronte iracheno
L’invasione dell’Iraq da parte delle truppe anglo-americane nel marzo 2003 ha svolto un ruolo cruciale nell’aumentare il numero dei jihadisti siriani. I posti di confine come Bou Kamal sono diventati punti di transito per i jihadisti siriani che vanno a combattere contro le forze di occupazione in Iraq. Numerosi sono stati i Siriani che sono accorsi ad ingrossare i ranghi dei battaglioni di Abu Musab al-Zarqawi. Dall’estate del 2011, il processo si è visibilmente invertito dato che ormai sono i miliziani iracheni sunniti ad attraversare la frontiera per andare a combattere contro le truppe siriane.
Al Qaeda
Il ramo iracheno di Al Qaeda denominato «Tanzim al-Jihad fi Bilad Qaidat al-Rafidayn» (Organizzazione della base della Jihad nella Terra dei Due Fiumi) conta molti reclutati provenienti dalla Siria. Si dice che il 13% dei volontari arabi presenti in Iraq erano Siriani.(12) Il terrore da loro scatenato era pari alla loro reputazione. Al Qaeda ha causato tali danni nell’ambito della resistenza sunnita irachena che i resistenti iracheni hanno dovuto rassegnarsi ad aprire un fronte anti-Al Qaeda. Nel 2006, vedeva la luce ad Anbar un Consiglio di emergenza che includeva la maggior parte dei clan e delle tribù della provincia ribelle. Il suo obiettivo era di fare pulizia dei terroristi di Al Qaida presenti nella provincia.(13) A Falloujah e a Qaim, i capi tribali, che inizialmente avevano aperto le braccia alla banda di Zarqawi, sono arrivati al punto da rovesciarle contro le armi. Per aver dichiarato guerra ad Al Qaeda, hanno ricevuto anche il sostegno da parte del governo iracheno.
Il terrore cieco di Al Qaeda ha fortemente neutralizzato la resistenza patriottica irachena. Tutti questi veterani della guerra contro gli Statunitensi, ma anche contro l’Iran, gli sciiti e i patrioti sunniti iracheni hanno trovato una nuova ancora nella guerra contro il regime di Damasco. Dal dicembre 2011 al marzo 2012, le città di Damasco, Aleppo e Deraa sono state bersaglio di numerosi attacchi suicidi o con autobombe, che hanno lasciato sul terreno decine di morti e feriti. Questi attentati sono stati rivendicati da Al Qaeda, o attribuiti all’organizzazione takfirista da parte delle autorità siriane e dagli esperti internazionali in questioni dell’anti-terrorismo, che confermano l’infiltrazione di terroristi provenienti dall’Iraq. [Al Qaeda, come organizzazione takfirista, accusa tutti gli islamici che non la appoggiano di essere apostati punibili con la morte, N.d.T.]
Jabhat Al-Nusra Li-Ahl al-Sham (Fronte di soccorso della popolazione del Levante)
Il 24 gennaio scorso, questa formazione ha annunciato la sua comparsa in vari forum islamici. Ma questa denominazione sembra essere una riduzione del titolo per esteso «Jabhat Al Nusra li Ahl Al Sham min Mujahideen al Sham fi Sahat al Jihad», ossia «Fronte di soccorso della popolazione del Levante dei Moudjahidines di Siria nei luoghi della Jihad». Secondo gli esperti del terrorismo, l’espressione «luoghi della Jihad» suggerisce che i membri di questo gruppo conducono la loro guerra santa su altri fronti come l’Iraq. Questo è anche ciò che viene rivelato dal leader del gruppo, Abu Mohammed al Julani, in un video pubblicato nella metà del mese di marzo. Al Julani significa Golanese, di provenienza dalle alture del Golan, con riferimento esplicito siriano. Come tutti i gruppi terroristici, Jabhat Al Nusra dispone di un organo di stampa: Al Manara al Bayda, il faro bianco.(14) Jabhat Al Nusra riceve l’appoggio di un prestigioso cyber-salafita, denominato Abou Moundhir al Shanqiti. Quest’ultimo ha emesso una fatwa, lanciando un appello a tutti i Musulmani a schierarsi nel campo di coloro che sollevano la bandiera della sharia in Siria.
Il fronte turco
In Turchia, paese membro della NATO da 60 anni, che presto ospiterà le strutture per lo scudo antimissilistico, è l’Esercito Libero Siriano  che detiene il primato ed esercita il sopravvento. Il suo presunto leader, Riyadh Al Assaad, è ospitato nella provincia turca di Hatay, in precedenza siriana, e beneficia della diretta protezione del ministero degli affari esteri. Come tutti sanno, la Turchia è uno dei più acerrimi nemici del regime di Damasco. Temendo di «passare per imperialiste», le forze della NATO incitano Ankara a guadare il Rubicone, meglio dire l’Oronte nella circostanza, per muovere guerra contro la Siria. Numerose sono le fonti che danno conto di un asse Tripoli-Ankara nella guerra contro Damasco. Un trafficante d’armi libico sottolinea l’acquisto di attrezzature militari leggere da parte di Siriani a Misurata (15).
L’ex-ufficiale della CIA e direttore del Consiglio per l’interesse Nazionale degli Stati Uniti Philip Giraldi parla senza mezzi termini di un trasporto aereo di armi dall’arsenale del vecchio esercito libico verso la Siria, via la base militare usamericana di Incirlik situata nel sud della Turchia a meno di 180 km dalla frontiera con la Siria. Egli afferma che la NATO è già clandestinamente impegnata nel conflitto contro la Siria sotto la direzione della Turchia. Giraldi conferma inoltre le informazioni pubblicate lo scorso novembre dal Canard enchaîné, vale a dire che forze speciali francesi e britanniche assistono i ribelli siriani, mentre la CIA e forze speciali statunitensi forniscono loro dispositivi di comunicazione e spionaggio. Un altro agente della CIA, Robert Baer, nelle sue memorie(16) che hanno inspirato il film Syriana di Stephen Gaghan, con George Clooney come protagonista principale, ha dichiarato nell’estate 2011 che armi vengono inviate ai ribelli siriani dalla Turchia.(17)
Sibel Edmonds, l’interprete dell’FBI censurata per aver denunciato abusi commessi da parte dei servizi dello spionaggio degli Stati Uniti, puntualizza che la fornitura di armi ai ribelli siriani viene assicurata dagli Stati Uniti fin dal maggio 2011. Inoltre, gli Stati Uniti avrebbero installato in Turchia una «sezione per la comunicazione», il cui incarico è quello di convincere i soldati dell’esercito siriano a raggiungere le formazioni ribelli.(18) Il coinvolgimento di mercenari libici non sarebbe unicamente di natura logistica. Secondo molti testimoni oculari, fra cui un giornalista del quotidiano spagnoloABC, jihadisti libici e membri del Gruppo Islamico Combattenti Libici (GICL) sono concentrati alle frontiere siro-turche.(19)
Nella regione di Antiochia in Turchia, prevalentemente di lingua araba, che confina con la Siria, la popolazione locale si imbatte in un numero insolitamente elevato di Libici. Occupando gli alberghi più lussuosi della regione, costoro non passano inosservati. Alcuni di questi Libici sono autori di molteplici atti di vandalismo in certe zone turistiche, come ad Antalya. Miliziani libici che stazionano in Turchia hanno più di una volta attaccato e occupato la loro ambasciata ad Istanbul reclamando la loro paga.A questo strano panorama viene ad aggiungersi l’arresto di un Libico di 33 anni all’aeroporto di Istanbul in possesso di 2,5 milioni di dollari. Il primo di aprile, questo Libico faceva scalo ad Istanbul. La sua destinazione finale: la Giordania, un paese dove viene segnalato un numero significativo di Libici mercenari ammassati sul confine siriano. Bene, bene… (20)
E gli Stati Uniti in tutto questo?
Tenuto conto delle affermazioni di alcuni agenti della CIA concernenti il coinvolgimento degli USA nella destabilizzazione della Siria, è ragionevole credere che l’amministrazione Obama sarebbe indifferente, o meglio compiacente, rispetto alla destabilizzazione di un paese che figura ancora nella lista degli «Stati canaglia», dato il suo appoggio alla resistenza palestinese e alla sua alleanza strategica con gli Hezbollah e l’Iran? A questo titolo, la Siria è citata tra i sette paesi contro i quali «l’uso dell’arma nucleare è possibile». A coloro che credono nell’inazione delle forze occidentali in Siria e alla loro buona fede nella loro difesa dei civili siriani, conviene far ricordare che già un anno fa la NATO, l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico sotto comando statunitense, giurava su tutti i santi di volere agire sotto la «responsabilità di proteggere» il popolo della Libia, e prometteva di attenersi alla Risoluzione1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al fine di «impedire al dittatore Gheddafi di bombardare la sua popolazione», e che, immediatamente, la protezione dei cittadini libici si è trasformata in impegno militare in una guerra civile, in un colpo di stato, in attentati mirati e in bombardamenti alla cieca.
Ci si ricorderà anche che dopo aver annientato la città libica di Sirte, dove il leader libico si era trincerato, le forze della NATO lo hanno consegnato a bande di criminali che lo hanno torturato a morte. Questo sordido linciaggio è stato facilitato dagli Stati Uniti e dalla NATO, visto che in precedenza avevano dato la caccia e bombardato il suo convoglio. Tuttavia, Andres Fogg Rasmussen e i suoi compari, che hanno espresso soddisfazione per la morte di Gheddafi, avrebbero ripetuto per mesi che il leader libico non era il loro obiettivo. La cinica strategia degli USA e della NATO in Libia, che consisteva nel «non dire quello che si fa e non fare quello che si dice» è manifestamente quella che è stata scelta per la Siria. Effettivamente, e in via ufficiale, la NATO non ha l’intenzione di intervenire in questo paese. Rasmussen ha anche fatto presente che la sua organizzazione non armerà i ribelli.
Tuttavia, alcune e-mail da parte di una agenzia privata statunitense di spionaggio, la Stratfor Intelligence Agency, diffuse da Wikileaks il 27 febbraio scorso, indicano la presenza di forze speciali occidentali in Siria. Il verbale di una riunione, datato 6 dicembre 2011, sottintende che forze speciali sarebbero state presenti sul terreno alla fine del 2011. A questo proposito, una e-mail del direttore di analisi della Stratfor, Reva Bhalla, è inequivocabile.(21) Si parla di un incontro fra «quattro giovanotti, grado tenente colonnello, tra cui un rappresentante francese e uno britannico». Durante un colloquio della durata di quasi due ore, avrebbero accennato al fatto che squadre di Forze speciali erano già sul terreno, impegnate in missioni di ricognizione e nell’addestramento delle formazione delle forze di opposizione.
Gli strateghi occidentali riuniti negli Stati Uniti sembrano rifiutare l’ipotesi di un’operazione aerea sul modello Libia, e preferirebbero l’opzione di una guerra di logoramento attraverso attacchi di guerriglia e campagne di assassinio, in modo da «provocare un crollo del regime dall’interno». Avrebbero giudicato la situazione siriana molto più complessa di quella della Libia, e il sistema di difesa siriano molto più efficace, soprattutto per i suoi missili terra-aria SA-17 dislocati attorno a Damasco e lungo i confini con Israele e la Turchia. In caso di attacco aereo, l’operazione dovrebbe essere condotta dalle basi della NATO a Cipro. Queste le conclusioni dell’agenzia Stratfor. Se, finora, gli Stati Uniti non hanno mandato i loro bombardieri su Damasco, questo non è perché la conservazione del regime siriano gli conviene, ma perché questo regime non è un boccone facile. Comunque, fornendo il loro supporto ai gruppi armati, gli Stati Uniti si rendono nondimeno complici dei massacri in Siria. La NATO e gli Stati Uniti arrivano quindi a completare il simpatico quadretto familiare del terrorismo anti-siriano, a fianco delle monarchie del Golfo, dei mercenari libici, dei propagandisti salafiti e di Al Qaeda.
Conclusioni
Il terrorismo anti-siriano è una realtà che salta subito agli occhi, in senso proprio come in senso figurato. Il suo esordio arriva ben prima della primavera araba. Durante gli anni ‘70 e ‘80, i Fratelli musulmani siriani ne sono stati i principali attori. Dopo aver messo il paese a ferro e fuoco, furono schiacciati dall’esercito siriano, soprattutto ad Hama nel 1982. Il regime baathista puntava sui mezzi militari per sradicare questo flagello, ma come spesso accade, la repressione ha avuto al contrario l’effetto di prorogare o addirittura amplificare la minaccia. Con il ritiro siriano dal Libano nel 2005, i movimenti jihadisti si sono stabiliti e rafforzati nella regione libanese di Tripoli, quindi nei campi palestinesi del paese dei Cedri. Hanno ritrovato una nuova giovinezza e l’opportunità di prendersi la loro rivinci

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(Sulla disputa linguistica nell'area serbocroata si vedano anche i documenti e i video alla nostra pagina dedicata:



Sul serbo-croato, sulle traduzioni e su altre cose ancora

July 22nd, 2012balkanrock



Nel corso degli anni mi è capitato di fare il traduttore, collaborando occasionalmente con delle agenzie. Si trattava per lo più di documenti di vario genere, manuali o lettere commerciali. Tornava utile per tappare i buchi o per tenersi occupati quando si è senza lavoro, anche se i soldi guadagnati erano sempre pochi. Era più stimolante quando lo facevo volontariamente come ad esempio per la trasmissione Ostavka! di Radio Onda d’Urto condotta da Michelangelo Severgnini tra 1999 e 2001 o facendo da interpretere ad Aleksandar Zograf  quando venne a presentare una sua raccolta di fumetti a Milano sempre in quegli anni. Alcune esperienze erano anche deprimenti come quando feci da interprete in un tribunale durante il processo per direttissima a due rom accusati di tentato furto. Furono condannati ad alcuni mesi di carcere senza aver rubato nulla. Sotto banco uno dei due mi fece passare un biglietto con il numero di telefono di qualche parente in Germania e una scheda telefonica. Al primo tentativo non gli riuscì perché una guardia se ne accorse, ma al secondo a udienza finita quando tutti si alzarono finalmente me lo passò. Telefonai subito dopo e mi sentì un po’ riscattato per aver collaborato con un processo che trovavo imbarazzante. Ultimamente, considerate le difficoltà economiche mi sono messo di nuovo a mandare i curriculum alle agenzie di traduzione e qualcuna ha risposto. Una di queste, Easy Languages, per una sorta di selezione chiedeva un articolo sulle lingue e sul mestiere del traduttore, per essere ammessi al team dei collaboratori. Ho scritto sull’annosa questione che riguarda una lingua che tutti parlano nelle quattro delle sei repubbliche ex jugoslave, ma nessuno riconosce, cioè il serbo-croato.

 

Serbo-croato, quando una lingua diventa scomoda

Quando sono nato, nel 1977, in Jugoslavia si parlava il serbo-croato, la lingua considerata ufficiale e tre lingue utilizzate nelle singole repubbliche federali: sloveno, macedone e albanese. A queste si possono aggiungere le minoranze linguistiche parlate nelle zone di confine come l’ungherese, l’italiano, il valacco, e le lingue parlate dalle comunità rom e goranci. Naturalmente non mancavano i dialetti locali, molto meno numerosi che in Italia ma con  differenze altrettanto marcate, che nel corso del novecento sono stati uniformati e sostituiti dalle parlate regionali che si differenziavano per lo più per l’accento e il gergo. La situazione linguistica può apparire complicata ma in fin dei conti non ha mai rappresentato un problema, anche perché la maggioranza della popolazione parlava appunto il serbo-croato. la lingua “unificante”,  mentre le altre lingue avevano comunque i loro spazi nell’ambito scolastico, mediatico ed editoriale. Successivamente all’ascesa delle correnti politiche egemoniche o disgregazioniste è venuta a mancare questa peculiare pluralità e intercomprensibilità linguistica.

Semmai è oggi che regna la confusione  dato che il serbo-croato, parlato in Serbia, Croazia, Bosnia e Montenegro è stato diviso in serbo, croato, bosniaco e montenegrino, senza un valido fondamento linguistico-filologico ma principalmente su base politica. Quindi nell’area della ex Jugoslavia le lingue si sarebbero raddoppiate anche se un abitante di Podgorica può andare a Sarajevo ed instaurare una conversazione di qualsiasi tipo incontrando tutt’al più qualche decina di termini diversi, comunque conosciuti non solo a coloro che sono nati prima degli anni Ottanta. Lo stesso accade se un abitante di Zagabria va a Belgrado, dove al massimo troverà qualche difficoltà se si reca nei quartieri periferici dove si parla un particolare slang formatosi negli ultimi decenni, ma sono le stesse difficoltà che potrebbe trovare un milanese a zonzo per le borgate di Roma. Dunque oggi si può incorrere nel paradosso di dover tradurre un testo dal serbo al montenegrino, che sono tra l’altro le due varianti più vicine di serbo-croato considerando i fattori storici e culturali che hanno intrecciato le vicende dei due paesi. Infatti l’ultima separazione riguarda proprio queste due repubbliche, per fortuna avvenuta senza esiti  tragici e sanguinolenti come quelli che hanno caratterizzato la guerra civile degli anni novanta, ma comunque con ripercussioni abbastanza pesanti a livello politico e di conseguenza anche sociale ed economico, creando parecchi problemi ai cittadini comuni, abituati a viaggiare, condurre i propri affari, intrattenere rapporti familiari e di amicizia, trovandosi all’improvviso di fronte ai nuovi confini e ostacoli burocratici. Alla luce di questa situazione, come accennavo, vediamo emergere delle speculazioni nell’ambito linguistico. Per fare un esempio banale ma significativo, se guardiamo le etichette di un prodotto qualsiasi, ci tocca leggere gli ingredienti in quattro lingue diverse dove le differenze spesso non esistono o comunque sono minime. Nel maldestro tentativo di sottolineare le diversità si usano dei sinonimi o semplicemente si cambia una preposizione. Per chiunque e in particolare per un traduttore di professione può risultare un po’ scandaloso il fatto che qualcuno venga pagato per fingere di tradurre.

Senza essere dei filologi, ma servendosi solo del buon senso, possiamo, se non concludere che si tratta della stessa identica lingua, avere quanto meno dei fortissimi dubbi che la si possa smembrare in base ai nuovi confini politico-amministrativi. Eppure oggi, il serbo-croato non è più nemmeno oggetto di discussione, si finge che non esista anche se i tentativi di trasformarlo in neo-lingue accentuandone le differenze e puntando alla sovrapproduzione dei neologismi a volte ridicoli, non stanno avendo il successo sperato. Una lingua segue il proprio corso e si adatta alle esigenze umane di natura più pratica ed è ovviamente molto più longeva di una corrente politica che la vorrebbe viva o morta.



(srpskohrvatski / italiano)


=== srpskohrvatski ===


Manipulacija, balvanizacija, integracija?

NOVOSTI, Broj 655
Datum objave: 08.07.2012. Piše: Ranko Milosavljević

Drama preostalih Srba na Kosovu ulazi u završnicu. Nekoliko decenija politički vrh iz Beograda koristio je međuetničke sukobe u ovoj pokrajini za unutrašnju upotrebu. Kosovom su se bavili bukvalno svi. Na rečima. Rezultati su bili sve gori i gori. Konačno, Kumanovskim sporazumom Milošević je Srbima čestitao pobedu nad NATO-om, a Kosovo je stavljeno pod protektorat Ujedinjenih nacija. Pre dve godine, albanska većina je proglasila nezavisnost Kosova. Srbija je to smatrala kršenjem Rezolucije 1244. Stavljanje “svete srpske zemlje” u preambulu Ustava Srbije ništa nije značilo albanskoj većini, kao što nije sprečilo SAD i ogromnu većinu članica EU-a da priznaju nezavisnost Kosova.

Čak i prema izveštajima međunarodnih organizacija, stanje na Kosovu tokom mandata Ujedinjenih nacija nije se bitno popravilo. Srbima je i dalje onemogućeno slobodno kretanje, ugrožen im je goli život. Oteta imovina, u najboljem slučaju, mogla je da se preko stranih posrednika proda, za bagatelu. Nekadašnje društvene firme privatizovane su odlukom Kosovske poverilačke agencije, prema kriterijumima koje osporava Beograd; u bescenje su prodate fabrike u koje je Srbija decenijama ulagala, pomažući razvoj “nerazvijenog Kosova”. Tipičan primer je kragujevačka Zastava, koja je ostala bez Zastave Ramiz Sadiku u Peći, pošto ju je na aukciji kupio bivši liferant oružja Oslobodilačkoj vojsci Kosova (OVK). Pobednici se uvek naplaćuju!

“Maksimalno od mogućeg”

Prošlogodišnji nemiri Srba na severu Kosova zbog odluke Prištine da na graničnim prelazima (srpska strana uvek govori “administrativnim”) Jarinje (prema Leposaviću) i Brnjak (prema Novom Pazaru) postavi kosovsku carinu i policiju, uslovili su teške pregovore između Beograda i Prištine. Svaka strana dala je svoju verziju dogovora, a svoje je viđenje imao i Robert Kuper, evropski izaslanik u pregovorima timova koje su predvodili Borislav Stefanović i Edita Tahiri.

Prema onome što je saopštavala srpska strana, postignuto je “maksimalno od mogućeg”. Priština je pristala da na dva od 31 prelaza, koliko ima Kosovo, neće stajati kosovski carinici nego međunarodni predstavnici, uz prisustvo policije EULEKS-a, koji je preuzeo ovlašćenja UNMIK-a (civilne administracije Ujedinjenih nacija, ustanovljene 1999). Doduše, na ta dva prelaza nije moguć protok komercijalne robe, nego se kamioni iz Srbije koji ulaze na Kosovo usmeravaju na prelaz Merdare kod Podujeva ili na neki od preostalih 29 graničnih prelaza. Srbi sa severa Kosova na ovu su, kako su ocenili, izolaciju prištinskih vlasti i KFOR-a odgovorili probijanjem šumskih puteva prema centralnoj Srbiji. Dok ovaj tekst ide u štampu, u toku su nemiri na granici između Zubinog Potoka i Novog Pazara, jer je KFOR razrušio i postavio betonske zapreke preko puta kod sela Banje, kojim su lokalni Srbi (ali i brojni šverceri) zaobilazili granični prelaz u Brnjaku. Nekoliko dana pre nego što će italijanski pripadnici KFOR-a blokirati taj divlji prelaz, za sada još nepoznati počinici (svi ukazuju na lokalne Srbe) bacili su dve ručne granate na pripadnike KFOR na prelazu Brnjak, kada je lakše povređen jedan vojnik iz KFOR-ova kontingenta.

Od prvog juna, na osnovu dogovora Beograda i Prištine, kosovska policija počela je da oduzima automobilske tablice sa oznakama kosovskih gradova, koje izdaje MUP Srbije u nekoliko policijskih stanica u centralnoj Srbiji; ukazivanje da mogu da imaju samo tablice RKS-a (Republike Kosovo) ili stare tablice KS-a, koje su važile dok su na Kosovu bile privremene institucije i nadležnost UNMIK-a nad policijom, izazvalo je novo uznemirenje među Srbima.

- Mi smo se više od deset godina borili protiv registracija KS, koje su značile priznavanje suvereniteta Kosova, a sada nam Beograd nameće baš takve tablice – poručivalo se sa više protestnih skupova.

- Sporazum koji smo postigli je manjkav, ali je jedino moguć – odgovara Stefanović na optužbe da je beogradski tim izdao interese Srba na Kosovu i da u sporazumu postoje tajni sporazumi, čiji se delovi otkrivaju ovih dana.

- Sve što smo dogovorili dostavili smo Narodnoj skupštini. Problem sprovođenja sporazuma o slobodi kretanja na severu Kosova je u realnom stanju na terenu, gde živi srpska većina – kaže.

Ivica Dačić, lider Socijalističke partije Srbije (SPS) i ključni čovek u formiranju nove vlade, ovih dana bez uvijanja govori da pregovarači treba da kažu šta su još obaveze Beograda prema Brislu; naglašava da se od Beograda traži da u Prištini otvori kancelariju za saradnju sa kosovskom Vladom, kao i da to učini Priština u Beogradu.

- Otvaranje kancelarije nije uopšte bilo na dnevnom redu pregovora – kategoričan je Stefanović.

Lokalni izbori

Dok traje nadmudrivanje ključnih političkih aktera, zanetih kalkulacijama oko sakupljanja parlamentarne većine, iz Brisla stiže vest da je novoizabrani predsednik Srbije Tomislav Nikolić evropskim zvaničnicima izjavio da je spreman na razgovor sa svima iz Prištine osim sa Hašimom Tačijem, predsednikom Vlade koga srpsko tužilaštvo tereti za ratne zločine. Jelko Kacin, evropski izvestilac za Srbiju, u toj izjavi optimistički vidi spremnost srpskog predsednika da razgovara sa Atifetom Jahjaga, predsednicom Kosova.

Najveći nemir među Srbima na severu Kosova izazvala je nedvosmislena poruka Vlade Srbije, pred majske izbore, da ne podržava održavanje lokalnih izbora. Kosovska Vlada saglasila se, doduše posle pritiska međunarodnih faktora, da se republički izbori za predsednika Srbije i Narodnu skupštinu održe i na Kosovu, u organizaciji OEBS-a i uz nadgledanje EULEKS-a, ali uz uslov da se glasovi prebrojavaju van teritorije Kosova. Rukovodstva opština Zvečan i Zubin Potok, međutim, organizovala su lokalne izbore i tokom juna konstituisali opštinske organe, pravdajući to željom i pravom srpske većine, koja se prošle godine izjasnila protiv kosovskih institucija.

Doduše, srpski lokalni lideri, suočeni sa sve jačim pritiskom Prištine, sukobima sa međunarodnim predstavnicima i sve slabijom podrškom Beograda, naročito posle prošlogodišnjeg zahteva Angele Merkel Borisu Tadiću, tadašnjem srpskom predsedniku, da Beograd mora neodložno da prekine finansiranje “paralelnih srpskih institucija na Kosovu”, daju pomirljive izjave.

- Nastavićemo da sarađujemo sa UNMIK-om, OEBS-om, KFOR-om i EULEKS-om, ukoliko budu poštovali Rezoluciju 1244 Saveta bezbednosti UN-a i ukoliko budu statusno neutralni – kaže Dragiša Milović, predsednik Opštine Zvečan. – Održavanjem lokalnih izbora samo su ispoštovani Ustav, Zakon o lokalnoj samoupravi i volja građana.

Sa druge strane, lider Samoopredeljenja Albin Kurti okrivljuje “nesposobnu Vladu Kosova” da je “prodala interese albanskog naroda”. Kurti smatra da kabinet Hašima Tačija, kao i oni pre njega, vode politiku koji se ukapa u “kolonijalistički koncept” međunarodnih faktora, koji Kosovo žele da drže u stanju ni rata ni mira, kao siromašnu regiju, čijoj (albanskoj) većini ne dozvoljavaju da ima suverenitet na celoj teritoriji.

Suočen sa kritikama opozicije, ali i sa neusaglašenim izjavama svog ministra unutrašnjih poslova Bajrama Redžepija (“Na svakom graničnom prelazu biće kosovska policija”), premijer Kosova Tači poručuje da se Kosovo ne odriče suvereniteta, optužuje Beograd za destabilizaciju kroz finansiranje “paralelnih institucija”, u kojima vidi glavnog uzročnika krize.

- U dogovoru sa međunarodnom zajednicom, nećemo vući ishitrene poteze, a probleme ćemo rešavati strpljivo, uz puno uverenje da se ne odričemo celovitosti Kosova – kaže Tači.

Situacija je napeta

Srbi sa severa Kosova ovih su dana uputili pismo komandantu KFOR-a, generalu Erhardu Drevsu i šefu Misije EULEKS-a Gzavijeu de Marnjaku, u kome ih optužuju da su prekršili međunarodne standarde i ljudska prava. Podsećaju na obavezu poštovanja statusne neutralnosti. Kršenjem ljudskih prava smatraju nepoštovanje činjenice da Srbi sa severa Kosova ne priznaju kosovske institucije; smatraju da priznavanje kosovskih institucija vodi u asimilaciju i prinudnu integraciju ovog dela Kosova sa srpskom većinom. Srbi od EULEKS-a i KFOR-a traže da obezbede mir i sigurnost za sve građane Kosova i Metohije, “bez obzira na versku i nacionalnu pripadnost”, da se uzdrže od “jednostranih poteza, stvaranja dodatnih pritisaka i tenzija” te da probleme rešavaju mirnim putem i političkim sredstvima.

Radenko Nedeljković, načelnik Kosovskomitrovačkog okruga, ističe da u KFOR-u i EULEKS-u srpski narod na Kosovu vidi svoje partnere.

- Ali, ne možemo da prihvatimo da srpsku zajednicu stavljaju u geto, da nam KFOR zatvara puteve – dodaje Nedeljković.

Da će kosovsko leto biti vrelo, a jesen puna neizvesnosti, svedoči i Oliver Ivanović, državni sekretar u Ministarstvu za Kosovo i Metohiju, koji predviđa još “sporadičnih incidenata”.

- Dijalogom držimo pod kontrolom situaciju koja je napeta i može svakog momenta da eskalira i da se pretvori u nekakav incident, što nikome nije u interesu – kaže Ivanović.

Dok se javnosti serviraju manje ili više pesimistička predviđanja budućnosti severnog Kosova, prištinski zvaničnici ističu da je oko 37.000 Srba uzelo nove, kosovske lične karte i da je za 55 radnih mesta u novoj kancelariji u Kosovskoj Mitrovici, koja će obavljati poslove opštine, konkurisalo preko hiljadu mladih, među kojima je više od 70 posto iz srpske zajednice.

Srba kao na prvom turskom popisu 1455.

Crnohumorno zvuči da je današnji broj Srba na Kosovu gotovo ravan onome iz prvog turskog popisa 1455: precizni osmalijski popisivači zabeležili su na teritoriji današnjeg Kosova i Metohije 480 naseljenih mesta sa 13.057 srpskih domova, 75 vlaških, 17 bugarskih, jednim grčkim i 46 arbanaških (oko procenat stanovništva). Godine 1871. bilo je 64 procenta Srba i 32 odsto Albanaca, 1899. Albanaca je 48, a Srba 44 procenta. Prema popisu iz 1921. na Kosovu je živelo 439.000 stanovnika, od kojih je bilo 280.000 Albanaca (64 procenta), a prema onome iz 1931. bilo je 562.000 stanovnika (62 procenta su Albanci). Posle Drugog svetskog rata, Srba je svake decenije manje za sedam do osam procenata. Poslednji popis koji Albanci nisu bojkotovali, iz 1981, pokazao je da na Kosovu živi 1.956.196 stanovnika, od toga 1.596.072 Albanaca (81,6 procenata) i 214.555 Srba (11 procenata).

Popis iz aprila 2011. iznenadio je mnoge “procenitelje” demografskog buma, posebno one koji su govorili da u Prištini živi “čak 600.000 stanovnika”; registrovano je 1.733.872 stanovnika ili oko 700.000 manje od procena. Srbi su popis bojkotovali, pa Priština, koja je 1981. imala oko 250.000 stanovnika, ima 198.000 stanovnika. Doduše, u međuvremenu su se od nje odvojili Kosovo Polje i Gračanica, ali se 1999. iselilo i više od 40.000 Srba. Danas u Prištini živi samo 40 Srba!

Na Kosovu sada živi oko 130.000 Srba: u četiri opštine na severu (deo Kosovske Mitrovice, Zvečan, Zubin Potok i Leposavić) 60.000 (uključujući i one izbegle iz gradova i sela južno od Ibra i iz predela Metohije). U Kosovskom pomoravlju (Novo Brdo, Gnjilane, Kosovska Kamenica i Kosovska Vitina) u 73 naselja živi 35.000 Srba. U predelu oko Prištine živi oko 20.000 Srba, u Štrpcu 11.000, a u nekoliko enklava u Metohiji 4.000. U opštinama Kačanik, Mališevo, Dečane, Glogovac, Suva Reka i Štimlje ne živi nijedan Srbin ili Srpkinja! U Đakovici žive četiri srpske starice, Prizrenu 28, Peći 25, Klini 50, Uroševcu četiri, a u južnom delu Kosovske Mitrovice samo jedan (!) stanovnik srpske nacionalnosti.

Iako su i međunarodna zajednica i prištinske institucije obećavali da će pospešiti povratak izbeglih Srba, efekti su zanemarljivi. Broj iseljenih sa Kosova premašuje 220.000 Srba. Pred ovim podacima šuplje zvuči svaka priča o naporima koji se čine da Kosovo bude “multietnička sredina ravnopravnih građana koji, poštujući visoke standarde tolerancije, streme ka zajedničkom domu, Evropskoj uniji”.



=== italiano ===

Manipolazione, ostruzionismo, integrazione?

pubblicato da: Novosti – Samostalni srpski tjednik

http://www.novossti.com/2012/07/manipulacija-balvanizacija-integracija/

Numero 655

Data di pubblicazione 08/07/2012. Giornalista: Ranko Milosavljevic

 

 

 

Il dramma dei serbi rimasti nel Kosovo sta volgendo al termine. Per decenni la classe politica a Belgrado ha strumentalizzato gli scontri etnici di questa regione per i propri scopi e per il Kosovo si sono impegnati un po' tutti. A parole si intende, visto che nella realtà la situazione è andata via via peggiorando. Alla fine, con l'accordo di Kumanovo, l'ex presidente Slobodan Milosevic si è congratulato con i serbi per la loro vittoria sulla Nato e il Kosovo è rimasto sotto protettorato delle Nazioni Unite finché due anni fa la maggioranza albanese ne ha proclamata l'indipendenza del Kosovo. Un fatto considerato dalla Serbia una violazione della risoluzione 1244. Il fatto che l'espressione ”Terra santa serba” fosse stata inserita nel preambolo della Costituzione della Serbia, non ha avuto alcun significato per la maggioranza albanese, né ha potuto impedire agli Usa e a gran parte dei paesi dell'Unione Europea di riconoscere l'indipendenza del Kosovo.

 

Perfino secondo i rapporti delle organizzazioni internazionali, la situazione in Kosovo durante il mandato dell'Onu non è sostanzialmente migliorata. Ai serbi è ancora impedito di circolare liberamente e le loro vite sono costantemente minacciate. Nella migliore delle ipotesi i loro beni personali vengono venduti attraverso intermediari stranieri a prezzi stracciati. Inoltre le ex imprese sociali sono state privatizzate per decisione dell'Agenzia kosovara dei creditori (“Kosovo Trust Agency“ Kta) secondo criteri che Belgrado contesta;  le fabbriche in cui la Serbia ha investito per decenni per aiutare lo sviluppo del “Kosovo sottosviluppato”, sono state vendute a prezzi irrisori. L’esempio tipico è la Zastava di Kragujevac, privata della sua società “Zastava Ramiz Sadiku” a Pec, comprata all'asta dall'ex fornitore di armi dell'Esercito di liberazione del Kosovo (KLA). I vincitori si fanno pagare per le loro vittorie!

 

“Il massimo possibile”

 

Le agitazioni dei serbi lo scorso anno nel Kosovo settentrionale provocate dalla decisione delle autorità locali di stabilire dogane kosovare ai valichi di frontiera (la parte serba la definisce sempre  “amministrativa”) di Jarinje e Brnjak, avevano condizionato i difficili negoziati tra Belgrado e Pristina. Ognuna delle due parti ha dato la sua versione del trattato siglato, mentre ancora diversa era la visione di Robert Cooper, rappresentante UE al tavolo delle trattative dei team guidati da Borislav Stefanovic e Edita Tahiri.

 

Secondo quanto riportato sul fronte serbo, è stato raggiunto ”il massimo possibile”. Pristina ha accettato che in due dei 31 valichi  in Kosovo, non saranno messi funzionari kosovari, ma rappresentanti internazionali, in presenza della polizia Eulex che ha preso il posto dell'Unmik (amministrazione civile dell'Onu dal 1999). A dire il vero, su questi due valichi non è possibile il flusso di merci, quindi i camion che arrivano in Kosovo dalla Serbia, deviano al valico di Merdare vicino Podujevo, o verso uno degli altri 29 valichi. I Serbi del Kosovo settentrionale a questo arroccamento da parte delle autorità di Pristina e della Kfor, hanno risposto aprendosi le strade boschive verso la Serbia centrale. Mentre questo articolo va in stampa, sono in corso scontri al confine tra Zubin Potok e Novi Pazar, dopo che la Kfor ha distrutto e posizionato barriere di cemento lungo la strada nei pressi del villaggio di Banja, che i serbi locali e molti contrabbandieri utilizzano per oltrepassare il confine a Brnjak. Qualche giorno fa prima che il contingente italiano della Kfor interrompesse questo passaggio incontrollato, certe persone ancora non identificate, hanno lanciato due bombe a mano contro la Kfor a Brnjak ferendo un soldato.

 

Dal 1 giugno, in base a un accordo tra Belgrado e Pristina, in Kosovo la polizia ha iniziato a confiscare le targhe automobilistiche riportanti i nomi delle località in Kosovo, rilasciate dal Ministero dell'interno serbo in diversi commissariati di polizia nella Serbia centrale. Infatti, secondo la nuova normativa, sono ammesse solo targhe della Repubblica del Kosovo KSA, oppure le vecchie targhe kosovare KS in vigore fino a che sono rimaste in piedi le istituzioni provvisorie e l'autorità della Unmik sulla polizia. Un fatto che ha scatenato nuove preoccupazioni tra i serbi.

 

- Per più di dieci anni ci siamo battuti contro le immatricolazioni KS che significavano il riconoscimento ufficiale delle autorità kosovare, ovvero contro il riconoscimento della sovranità del Kosovo. Ora Belgrado ci impone proprio queste targhe - questo il messaggio delle varie proteste.

 

- L'accordo che abbiamo raggiunto è imperfetto, ma è l'unico possibile, ha risposto Stefanovic di fronte all'accusa di tradimento degli interessi dei serbi del Kosovo da parte del team belgradese, e dell'esistenza di clausole segrete, alcune delle quali stanno venendo alla luce in questi giorni.

 

- Tutto ciò che abbiamo sottoscritto lo abbiamo trasmesso al parlamento serbo. Il problema dell'attuazione degli accordi sulla libera circolazione nel Kosovo settentrionale, dipende dalla situazione effettiva in loco dove la maggioranza degli abitanti è serba, ha aggiunto.

 

Ivica Dacic, capo del Partito socialista serbo (Sps) e personaggio chiave della nuova compagine governativa, ha detto recentemente senza mezzi termini che chi ha partecipato ai negoziati, deve esporre apertamente quali siano gli obblighi di Belgrado nei confronti di Bruxelles, sottolineando che a Belgrado si chiede di  aprire una sua rappresentanza a Pristina e di collaborare con il governo del Kosovo, e che a Pristina si chiede di fare lo stesso.

 

- Tuttavia, secondo Stefanovic, l’apertura dell’ufficio non è mai stata all'ordine del giorno.

 

Elezioni locali

 

Mentre è in corso la farsa di astuzia dei principali attori politici, impegnati nei loro calcoli sulla creazione di una maggioranza parlamentare per il nuovo governo serbo, da Bruxelles arriva la notizia che il neo-eletto presidente serbo Tomislav Nikolic si è dichiarato pronto al dialogo con tutte le forze politiche di Pristina, tranne che con Hashim Taci, presidente del governo locale accusato di crimini di guerra dalla magistratura serba. Jelko Kacin, relatore europeo per la Serbia, nella dichiarazione di Nikolic, ottimisticamente scorge la volontà del presidente di parlare con Atifet Jahjaga, presidente del Kosovo.

 

La principale preoccupazione tra i serbi del Kosovo settentrionale è stata provocata dal chiaro messaggio del Governo della Serbia, di non dare il sostegno per l’organizzazione delle elezioni locali in Kosovo. Il governo kosovaro ha accettato, anche se a seguito di pressioni internazionali, che anche in Kosovo si potessero svolgere le elezioni presidenziali e parlamentari per il governo serbo. Organizzate dall'Osce e monitorate da Eulex, e a condizione che lo spoglio delle schede avvenisse in Kosovo. Le giunte comunali di Zvecan e Zubin Potok, intanto hanno organizzato le elezioni locali e a giugno hanno messo in piedi le autorità comunali, giustificando la mossa con il desiderio e il diritto della maggioranza serba locale, che lo scorso anno aveva votato contro le istituzioni kosovare.

 

Nondimeno i politici serbi locali hanno rilasciato dichiarazioni concilianti, messi alle strette dalle pressioni di Pristina, dai conflitti con la comunità internazionale e dal calo di sostegno per Belgrado, soprattutto dopo la richiesta dell'anno scorso di Angela Merkel all'ex presidente Boris Tadic di interrompere il finanziamento di ”istituzioni serbe parallele in Kosovo”.

 

- Continueremo a collaborare con Unmik, Osce, Kfor ed Eulex se rispetteranno la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e se saranno neutrali, ha detto Dragisa Milovic, sindaco di Zvecan. - Le elezioni locali rappresentano esclusivamente il rispetto per la Costituzione,la legge sull'autonomia locale e la volontà dei cittadini.

 

D'altra parte il capo del partito Autodeterminazione Albin Kurti, accusa il “governo incompetente del Kosovo” di aver “venduto gli interessi del popolo albanese”. Secondo lui, gli uomini di Hashim Taci, come chi li ha preceduti, adottano una linea politica pervasa dal “concetto colonialista” dei fattori internazionali, che vogliono tenere il Kosovo in uno stato di né pace né guerra, come una regione povera in cui alla maggioranza (albanese) non permettono di avere sovranità sul suo intero territorio.

 

Di fronte alle critiche dell'opposizione e dopo le dichiarazioni ambigue del suo ministro degli interni Bajram Rexhepi (“a ogni valico di frontiera ci sarà la polizia kosovara“), il primo ministro Taci ha detto che il Kosovo non rinuncerà alla sovranità, accusando Belgrado di destabilizzare il nuovo stato attraverso il finanziamento di ”istituzioni parallele”, per lui la principale causa della crisi.

 

- Nelle consultazioni con la comunità internazionale, non condurremo mosse avventate e risolveremo i problemi con la pazienza, nella piena determinazione a non cedere sull'integrità del Kosovo, ha detto.

 

Situazione tesa

 

In questi giorni i serbi del Kosovo settentrionale hanno inviato una lettera al comandante della Kfor, il generale Erhard Drevsu e al capo della missione Eulex Xavier de Marnhac, accusandoli di aver violato le leggi internazionali e i diritti umani e ricordando l'obbligo di rispettare lo status di forze neutrali. Tra le violazioni dei diritti umani annoverano la mancanza di considerazione per la posizione dei serbi del Kosovo settentrionale, che non riconoscono le istituzioni kosovare dal momento che riconoscerle, porterebbe all'assimilazione forzata di questa parte del Kosovo a maggioranza serba. I serbi chiedono a Eulex e Kfor di garantire la pace e la sicurezza di tutti gli abitanti del Kosovo e Metohija “a prescindere dall'appartenenza etnica o religiosa”, di astenersi da “azioni unilaterali che aggravano l’attuale pressione e tensione” e di risolvere i problemi con mezzi pacifici e politici.

 

Radenko Nedeljkovic, capo della municipalità di Kosovska Mitrovica, ha dichiarato che il popolo serbo considera Kfor ed Eulex suoi alleati.

 

- Ma non possiamo accettare che la comunità serba sia ghettizzata, che la Kfor ci blocchi le strade -  ha aggiunto.

 

L'estate in Kosovo sarà calda e l'autunno pieno di incertezze, osserva Oliver Ivanovic, Segretario di Stato nel Ministero per il Kosovo e Metohija, e prevede ancora incidenti sporadici.

 

- Teniamo la situazione sotto controllo con il dialogo, una situazione che di per sé è tesa e può degenerare in ogni momento trasformandosi in un incidente, il che non è nell'interesse di nessuno -  ha precisato.

 

Mentre all'opinione pubblica si formulano previsioni più o meno pessimistiche sul futuro del Kosovo settentrionale, i funzionari di Pristina fanno notare che circa 37.000 serbi hanno ottenuto nuove carte di identità kosovare, e che per l'assegnazione di 55 posti nel nuovo ufficio di Kosovska Mitrovica che avrà la funzione di giunta comunale, hanno partecipato più di mille giovani di cui più del 70% appartiene alla comunità serba.

 

 

Il numero dei serbi come nel primo censimento turco del 1455

 

Suona come umorismo nero che oggi il numero dei serbi in Kosovo, sia quasi uguale a quella del primo censimento turco 1455: i precisi registratori ottomani nel territorio del Kosovo e Metohija, avevano registrato 480 insediamenti con 13.057 case serbe, 75 dei vlasi, 17 dei bulgari, una grecs e 46 abitazioni degli albanesi (circa 1 percento della popolazione). Nel 1871 c’era 64 percento dei serbi e il 32 percento degli albanesi. N nel 1899, 48% degli albanesi e  44% dei serbi. Secondo il censimento del 1921, in Kosovo vivevano 439.000 abitanti, di cui 280.000 erano albanesi (64 percento) e secondo quello del 1931. ci sono stati 562.000 abitanti (62 percento degli albanesi). Dopo la seconda guerra mondiale, ogni dieci anni o meno, si registrava  7-8 percento in meno dei serbi. L'ultimo censimento che gli albanesi non avevano boicottato, quello del 1981, ha dimostrato che in Kosovo vivevano 1.956.196 abitanti, di cui 1.596.072 albanesi (81,6 percento) e 214.555 serbi (11 percento).

 

Il censimento dell’aprile 2011. ha sorpreso molti “stimatori” del boom demografico, in particolare quelli che dicevano che a Pristina, "vivono perfino 600.000 persone"; il censimento ha registrate 1.733.872 abitanti, ovvero circa 700.000 meno di stima. I serbi hanno boicottato il censimento. Pristina che nel 1981 contava circa 250.000 abitanti, ne aveva 198.000. Tuttavia, nel frattempo, dal comune di Pristina si erano separati i municipi di Gracanica e Kosovo Polje, ma nel 1999 da Pristina se ne sono andati più di 40.000 serbi. Oggi a Pristina vivono soltanto 40 serbi!

 

In Kosovo oggi vivono circa 130.000 serbi: in quattro comuni del nord (parte di Kosovska Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok e Leposavic) 60.000 (compresi quelli che sono fuggiti dalla città e villaggi a sud del fiume Ibar e dalle parti di Metohija). Nel Kosovsko Pomoravlje (Novo Brdo, Gnjilane, Kosovska Vitina e Kamenica) in 73 villaggi vivono 35.000 serbi. Nella zona di Pristina vivono circa 20.000 serbi: in Strpce 11.000, e in alcuni enclave in Metohija, loro 4000. Nei comuni di Kacanik, Malisevo, Decani, Glogovac, Suva Reka e Stimlje non c’è nessun serbo o serba! In Djakovica vivono quattro anziane donne serbe, a Prizren 28, a Pec 25, a Klina 50, a Urosevac quattro, mentre nella parte meridionale di Kosovska Mitrovica, un solo (!) abitante di nazionalità serba.

 

Sebbene la comunità internazionale e le istituzioni di Pristina promettessero di favorire il ritorno dei profughi serbi, gli effetti ne sono trascurabili. Il numero di rifugiati provenienti dal Kosovo supera i 220.000 serbi. Prima di questi dati, suona vuota ogni storia circa gli sforzi in corso per rendere il Kosovo un "ambiente multietnico di cittadini eguali, che  osservando elevati standard di tolleranza, si adoperano per la casa comune, l'Unione europea".


(segnalazione di Andrea D., traduzione di Carlotta C., revisione di Dragomir K. per CNJ-onlus)




Escalation militare italiana in Afghanistan: ma chi ne parla?


16 Luglio 2012

di Fausto Sorini, segreteria nazionale, responsabile esteri PdCI

“Dunque la guerra non va in vacanza, nemmeno per gli italiani – scrive Tommaso Di Francesco sul Manifesto di domenica 15 luglio. Ora è ufficiale: i nostri quattro cacciabombardieri Amx del 51esimo stormo dispiegati a Herat stanno bombardando a tappeto il nemico talebano”. 

La conferma ufficiale dell'escalation militare italiana in Afghanistan viene dalle dichiarazioni del generale Luigi Chiapperini, comandante del nostro contingente.

“Chi ha autorizzato l’entrata nella guerra aerea dell’Italia in Afghanistan? È stato il governo «tecnico», sostenuto da Pdl, Udc e Pd. E in particolare il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, il ministro che più tecnico non si può: è ammiraglio ed è stato comandante delle forze Nato. Lo stesso che in questi giorni muove lobby militar-industriali e schieramenti politici connessi per ottenere l’approvazione di ben 90 cacciabombardieri F-35, che ci costeranno 10 miliardi, nella finanziaria rivisitata dalla spending review, che taglia spese sociali, welfare e pensioni. Altro che conflitto d’interessi. È stato lui il 28 gennaio scorso, nel silenzio generale, a informare la Commissione difesa del parlamento della decisione di usare sul campo afghano «ogni possibilità degli assetti presenti in teatro, senza limitazione» armando gli Amx che fino a quel momento volavano senza bombe”.

Così dal 27 giugno i tremila soldati italiani impegnati a terra sono supportati dal cielo anche dagli Amx con armamento micidiale e sistemi sofisticati di precisione.

Ancora una volta è chiaro che l’Italia è in guerra, ma chi ne parla? Il Parlamento tace, non una sola voce critica si è levata. E all'Ammiraglio Di Paola è riuscito oggi, nel silenzio-assenso pressochè generale, quello che ieri non era riuscito al ministro Ignazio La Russa: che nel novembre del 2010 aveva proposto di armare gli aerei italiani in Afganistan, suscitando – all'epoca – una levata di scudi generale. Adesso nulla.

“I pantani di guerra in corso e quelli nuovi che si annunciano – scrive ancora De Francesco - aiutano le leadership occidentali a sostenere il «percorso di guerra» – parola di Monti – dentro la crisi del capitalismo globale, del loro modello di sviluppo. Perché sostengono la spesa militare e le caste collegate, stabiliscono gerarchie e irrobustiscono alleanze militari come la Nato, rendendole l’unico vero strumento attivo, criminale e «democratico», di intervento nella realtà”. 

Ora dal conflitto afghano tutti dichiarano di voler uscire (mentre si prepara la guerra alla Siria..), ma intanto l’obiettivo immediato delle forze NATO, Italia compresa, resta quello di vincere militarmente sul campo. Qualcuno dica che è ora di farla finita, qualcuno prenda la parola per le migliaia di civili straziati dalle bombe dei raid aerei ora anche «nostri».

Il PdCI denuncia l'escalation del coinvolgimento militare italiano nella guerra afghana, chiede il ritiro delle nostre truppe, invita tutte le forze di pace e fedeli al dettato costituzionale, dentro e fuori il Parlamento, a fare la loro parte e a non rendersi complici di questa ennesima barbarie ad utilizzare le risorse risparmiate per fronteggiare i problemi sociali più acuti, provocati dalla crisi capitalistica e da una politica governativa e dell'Unione europea che scarica il peso della crisi sulle spalle dei ceti popolari.




CON IL CUORE ERAVAMO TUTTI LI'


16 LUGLIO 2012

Egitto, Clinton contestata al grido di ''Monica, Monica''

Contestata ad Alessandria d'Egitto da manifestanti egiziani, il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, è stata accolta al grido di "Monica, Monica", con evidente allusione alla "stagista" Monica Lewinsky, e da un lancio di pomodori e scarpe sull'auto che la trasportava. La Clinton era stata contestata dagli attivisti anche al Cairo, che accusano gli Usa di "ingerenza" negli affari interni egiziani e di aver sostenuto i Fratelli musulmani




(english / italiano)

Chi fomenta i neonazisti in Europa

1) Neo-Nazi murders in Germany: What role did the intelligence agencies play?
2) Cosa c’è dietro le dimissioni di Heinz Fromm, capo dei servizi segreti tedeschi


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Neo-Nazi murders in Germany: What role did the intelligence agencies play?


By Dietmar Henning 
16 July 2012


Every passing day brings new revelations confirming that the murder rampage carried out by the neo-Nazi organization “National Socialist underground” (NSU) would have been impossible without the active support of the German secret services.

The three members of the NSU, Uwe Mundlos, Uwe Böhnhardt and Beate Zschäpe, went underground in 1998 and were able to live undisturbed in East Germany until November last year. Between 2000 and 2007 they killed nine foreign workers and a police officer, carried out three bomb attacks and raided 14 banks—apparently under the noses of, or with the assistance of, the various federal and state secret service agencies.

The question is increasingly more sharply posed: What political and organizational role was played by the intelligence community, especially the Thuringia State Office for the Protection of the Constitution (LfV), as the state secret service is called?

This issue was notably not raised at the parliamentary committee of inquiry held in the East German state of Thuringia earlier this week. The inquiry heard testimony from several key figures, including the former Thuringia LfV president Helmut Roewer, but the conclusion drawn by the media and in political circles was merely that “chaos reigned” (Süddeutsche Zeitung).

In fact, what appeared as chaotic and eccentric behaviour by intelligence agents had a definite political content. Under Roewer’s presidency from 1994 to 2000, the LfV made available considerable sums of money to assist the organization of the neo-Nazi scene and the NSU in the state.

Nobody at the enquiry the question was posed how it was possible for Roewer, a former army tank commander, to take over the Thuringia LfV in 1994. At the enquiry, Roewer even claimed he had received his certificate of appointment from a stranger in a bar when he was drunk.

The state of Thuringia had been governed since 1992 by a coalition of social democrats and conservatives led by Bernhard Vogel (Christian Democratic Union, CDU). Previously, Vogel had been the long-time premier of the West German state of Rhineland-Palatinate. His interior minister was initially Franz Schuster (CDU), followed by Richard Dewes (Social Democratic Party, SPD) towards the end of 1994.

Roewer came as an undersecretary from the Interior Ministry run by Manfred Kanther (CDU). Kanther had grown up in Thuringia, and in 1957 fled to Hesse in West Germany. He was associated with the right wing of the CDU. In the state of Hesse, the CDU has traditionally distinguished itself by its anti-communism and extreme right-wing positions.

Roewer, who at the time was a member of the free-market Free Democratic Party (FDP), writes today for the extreme right-wing Austrian publishers Ares-Verlag. But even in the early 1990s he made no secret of his right-wing inclinations. A photo has been circulated in the German press showing the reigning domestic intelligence chief in 1999 at a Weimar cultural festival dressed in the costume of General Ludendorff, who participated in the Munich coup in 1923 alongside Adolf Hitler.

In the anti-communist euphoria that followed the collapse of Stalinist East Germany, even the most right-wing elements could apparently assume the highest state offices. A man such as Roewer, accordingly, was given control of the Thuringia intelligence service, where he operated without oversight and—contrary to the rules—undertook as department head to personally direct undercover agents active in building up the neo-fascist milieu in the state.

Roewer was forced to quit office in 2000 following irregularities in connection with the payment of his undercover agents, his creation of phony cover companies and the unmasking of one of his spies within the extreme right-wing milieu.

Roewer owed his six-year career at the top of the Thuringia intelligence agency to state premier Vogel, who personally signed his certificate of appointment; state Interior Minister Schuster, who proposed him; Secretary of State Michael Lippert, who protected him; and the social democratic state Interior Minister Dewes, who gave him a free hand and still stresses their close collaboration.

Dewes told the parliamentary committee of investigation that he had only heard the names Zschäpe, Mundlos and Böhnhardt “after the action in Eisenach”, i.e., on November 4, 2011. And he had not engaged with intelligence sources.

Dirk Adams, who represents the Green Party in the NSU-committee, told theSüddeutsche Zeitung: “There has been virtually no control. Roewer shut it down because he was very close to the then interior minister [Schuster].”

Under Roewer, vast sums of money flowed to the neo-Nazis. With Tino Brandt and Dienel, the intelligence agencies had the two most important neo-Nazis in Thuringia on their payroll.

Tino Brandt was an undercover agent of the Thuringia LfV from 1994 to 2004. During this period he received $200,000 from the secret service, which he claims was used to build up the right-wing organization “Thuringia Homeland Security”, in which the Zwickau killer trio Mundlos, Zschäpe and Böhnhardt were involved. The head at the time of the Thuringia section of the Nazi music network “Blood and Honour”, Marcel Dienel, received 25,000 deutsche marks, with which he financed the right-wing extremist scene. “Blood and Honour” supported the three terrorists in hiding to the end.

There were other informers in the environs of the later neo-NSU. From 1996 to 2003, as part of “Operation Rennsteig”, the secret service had recruited at least eight informants in the Thuringia neo-Nazi scene.

The Frankfurter Rundschau recently reported that the federal and state secret service agencies have recruited at least another two informants in the Thuringia neo-Nazi scene, under the operational name “Saphira”. This increases the number of right-wing undercover informants controlled by the federal secret service in Thuringia to 10 between 1997-2005. The state secret service agencies in Thuringia and Saxony, and the Military Counterintelligence MAD, also had their own spies in the right-wing scene.

The Bundestag (federal parliament) committee of investigation received a note from the federal secret service from the second half of 1998, reporting a conversation with the Thuringia neo-Nazi “N” from Jena. N was regarded as the link between the NSU trio and the Jena scene. N was cooperative and offered to provide information about the neo-Nazis Mundlos, Zschäpe and Böhnhardt in hiding. Whether his offer was accepted remains unclear.

According to a report by a commission appointed by the Thuringia Interior Ministry, headed by former federal judge Gerhard Schäfer, the leader of “Blood and Honour” in Saxony, Jan W., was apparently in telephone contact with the Saxony Interior Ministry in 1998. About half a year after the three NSU terrorists went underground, Jan W. sent his contact in the Saxony Interior Ministry a text message reading, “Hello, what about the bangs [Bums]”. Schäfer regards this as referring to weapons that W. had probably requested for the Zwickau trio.

The claim that the intelligence agencies and police authorities were unaware of the extreme right-wing series of murders—which the media parrot and explain away with references to “incompetence”, “breakdowns”, “sloppy working” and “chaos”—is absurd. All the evidence and warnings were ignored by the intelligence services, deliberately suppressed and brushed aside.

This also applies to the case of the Hesse state secret service agent Andreas T., who was at the scene of the Kassel Internet cafe where Halit Yozgat was murdered in April 2006, the ninth victim of the NSU. According to the official version, the presence of the intelligence operative, whose right-wing views earned him the nickname “Little Adolf” in his hometown, was “a coincidence”. Meanwhile, it is also known that he was in telephone contact with his undercover informant from the “Blood and Honour” network at the time of two other NSU murders in 2005: a Turk in Munich and a Greek retailer in Nuremberg.

It is likely that further evidence will surface of close cooperation between the secret services and the neo-Nazis and the Zwickau trio. Last week Reinhard Boos, the president of the Saxony LfV, resigned. Following Heinz Fromm, president of the federal secret service, and Thomas Sippel, chief of Thuringia LfV, Boos is the third domestic intelligence chief to step down because of the NSU murders.

The grounds for Boos’ resignation are wiretap transcripts of the extreme right in 1998, which the Saxony secret service held back for months. According to Spiegel Online, these involved intercepted telephone calls by Saxony “Blood & Honour” leader Jan W., from which it is apparent that he was in touch with Mirko H., an undercover agent of the federal secret service. Spiegel Onlinealso reported rumours that the resignation was related to files that have already been shredded by the Federal Office.

The resignation of Boos suggests that the contents of the files are relevant. Perhaps the records relate to André E., one of the three men in closest contact with the NSU murderers. Investigators found rail cards in the names of André E. and his wife Susann, which had been used by Zschäpe and Böhnhardt in the burned-out mobile home in which Böhnhardt and Mundlos were found dead last November.

The Frankfurter Rundschau had reported in February that the secret service had tried three times to recruit André E. as an undercover agent. At that time, Boos vehemently denied that these attempts were successful.

It is clear that the authorities have something to hide in the case of André E. Upon his arrest on November 24, 2011, his cell phone was seized and sent to a special department of the federal police by the Federal Criminal Police (BKA). After the data on the mobile phone had been downloaded and sent to the BKA, the BKA instructed the federal police by email to delete the data from the mobile phone held on their computers.

André E. was the first person Zschäpe rang on November 4, 2011, after she had set her apartment in Zwickau on fire and fled the scene. An evaluation of André E’s mobile phone could have provided clues about who he then called, including perhaps the secret service or police authorities.

What is certain is that Zschäpe had contact with the authorities. According to the Schäfer report, evaluation of the connection data of Zschäpe’s mobile phone on November 4 last year showed 15 attempted telephone calls originating from the Saxony Interior Ministry and the Southwest Saxony Police Department.

Just recently, Hartfrid Wolff, the FDP member in the Bundestag committee of inquiry, presented a secret file describing over several pages an attempt to recruit a young unemployed woman from Thuringia in the 1990s who owned a cat and had a close bond with her grandmother—a description that fits Beate Zschäpe.

On the same evening, after a review of the files, the committee chair Sebastian Edathy (SPD) said on behalf of all its members that the few women in the neo-Nazi scene at that time apparently included a second woman with the same characteristics as Zschäpe. Speculation about Zschäpe lacked “any foundation”, he said, but gave no reason for this assertion.

All of the political parties, with the media in their wake, are trying to play down the close relationship between the neo-Nazi scene and the secret services. It is increasingly evident that the secret services, or at least significant sections thereof, have participated actively in the development of right-wing organisations with the support or acquiescence of the very same political parties.



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Protezione della Costituzione o dei neonazisti?

03 Luglio 2012 15:28 Internazionale Europa
di Giuseppe Zambon

Cosa c’è dietro le dimissioni di Heinz Fromm, capo dei servizi segreti tedeschi 

Mentre la corte berlusconiana celebrava le sue ultime e ributtanti cerimonie da tardo impero, la “severa e incorruttibile” Germania ci dava un’altra istruttiva lezione di quali siano i veri metodi di governo di un paese “democratico”. Sebbene il termine democrazia stia sempre più assumendo un significato negativo, mi attardo ad usare ancora le virgolette anche se oramai troppe rapine, colpi di stato, torture, esecuzioni mirate, massacri e stermini di massa sono stati compiuti nel suo nome. Siamo tutti ancora sgomenti di fronte alla notizia secondo cui, nel corso dell’ultimo decennio, un pugno di estremisti nazisti, ben noti alle autorità (vedremo poi i particolari) hanno scelto le proprie vittime e le hanno poi tranquillamente e impunemente assassinate. 

Quale colpa avevano ai loro occhi queste persone? 

Erano degli innocui “dannati della terra” che, per sfuggire alla fame ed alla miseria, avevano scelto di emigrare da qualche misero villaggio anatolico verso la Germania. In Germania erano riusciti a costruirsi un’effimera sicurezza economica vendendo Döner e bibite nei loro baracchini agli angoli delle strade.

Mentre tutti i partiti della borghesia parlano di voler limitare il numero degli immigrati, ecco che i nazisti si trasformano in esecutori della “volontà popolare” ed operano concretamente per combattere il fenomeno dell’immigrazione e dare un terribile e convincente monito a chi perseverasse nel “delitto” di voler restare in Germania.

Gli ispettori di polizia operano nel buio, e come hanno imparato alle loro scuole professionali, indagano solertemente negli ambienti dell’emigrazione, che –come tutti sanno- hanno importato in Germania mafia, droga, vendette d’onore e –orrore degli orrori- il “terrorismo islamico”.

Fu così che le famiglie delle vittime, ancora scosse e incredule di fronte ad un lutto tanto improvviso e crudele, furono sottoposte a stringenti interrogatori tendenti a vincere la loro “omertà” e costringerle così a rivelare i nomi dei responsabili. 

A nessuno venne il sospetto che potesse esistere una motivazione di tipo razzistico alla base dei crimini. E come avrebbero potuto? La Bild Zeitung non aveva mai pubblicato nulla che li potesse indirizzare sulla pista giusta…

Poi però qualcuno ha puntato il dito sugli informatori, cioè sugli agenti segreti infiltrati dal Verfassungsschutz nei movimenti estremisti.

È possibile –veniva chiesto- che questi informatori non fossero al corrente, o almeno non avessero avuto sentore che qualcosa stesse bollendo in pentola e non avessero passato l’informazione ai loro superiori?

Prima di affrontare l’argomento, bisogna spiegare chi sono questi informatori e come vengono scelti. Si potrebbe pensare che essi vengano allevati in serra in un ambiente asettico, apolitico e garantiscano quindi una imparzialità ed attendibilità a prova di bomba nel loro compito di “difendere la costituzione”, la libertà e l’incolumità dei cittadini.

Ma non è così: ogni persona –sotto sotto- ha effettuato nel suo intimo una scelta politica. Non si può quindi ritenere realistico che possano esistere degli individui “allevati in serra”.

Se così stanno le cose, bisogna allora presupporre che a spiare le organizzazioni sinistra vengano incaricati agenti con simpatie di estrema destra, e che il contrario succeda con chi viene incaricato di spiare le organizzazioni di destra.

Ma nemmeno questa ipotesi regge il confronto con la realtà: il Verfassungsschutz sceglie dei filonazisti per spiare le organizzazioni di destra!

Il caso del piccolo Adolfo. (Riportiamo un riassunto dalle notizie apparse sui quotidiani tedeschi)

“Durante una seduta del comitato di controllo parlamentare sono emerse gravi responsabilità a carico di un agente dell’antiterrorismo. Si tratta di un estremista di destra, meglio conosciuto nel suo paese col nomignolo “der kleine Adolf”. Sembra che egli, lungi dal controllare quei nazisti che era stato incaricato di spiare, li abbia invece sostenuti economicamente…

Dunque le cose stanno così: il Verfassungsschtz usa gli informatori per aiutare le organizzazioni di destra a sopravvivere economicamente!
Potrebbero esistere queste organizzazioni senza i contributi statali?
In realtà la destra eversiva costituisce l’ultimo baluardo in difesa del sistema capitalistico e bisogna quindi sostenerla in un modo o nell’altro.

Ma c’è di più!
Lo stesso personaggio era addirittura presente durante l’esecuzione di un cittadino turco (proprietario di un internet-café) avvenuta a Kassel nel 2006. 
La sua presenza in luogo venne denunciata da un testimone oculare.
Secondo altre informazioni non si tratta di un caso isolato. Pare che anche altri informatori abbiano assistito ad alcune delle esecuzioni avvenute ai danni di “extracomunitari”

“Gli informatori devono informare, non possono esporsi per tentare di impedire i crimini”, viene addirittura argomentato da qualche sciagurato.
E di rimando noi chiediamo:
quale uso hanno fatto i capoccia del Verfassungsschutz di queste informazioni?
Oppure gli informatori avevano solo il compito di assicurasi che tutto filasse liscio e senza intoppi?

(*) Polizia Segreta di Stato in Difesa della Costituzione