Informazione



MARTIRI DI BASOVIZZA, 6 SETTEMBRE 1930

Il 6 settembre cade l’anniversario della fucilazione dei quattro antifascisti sloveni (Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Alojz Valenčič e Zvonimir Miloš) condannati a morte dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato nel 1930 nel corso di quello che è passato alla storia come il “primo processo di Trieste”.

Una delle affermazioni che spesso si sentono fare a proposito di questi martiri, attivisti del TIGR (acronimo di Trst, Istra, Gorica, Rijeka) è che in fin dei conti erano “terroristi” riconosciuti colpevoli e condannati a morte da un tribunale e quindi non avrebbero diritto ad onoranze ufficiali.
Il ragionamento potrebbe non essere del tutto peregrino, se non fosse per un paio di particolari di non poco conto. Innanzitutto che dare per oro colato una sentenza di un Tribunale che non era espressione di uno Stato democratico, ma che era stato creato a scopo repressivo per gli oppositori alla dittatura instaurata da Mussolini, non ci sembra un segnale di avere compreso cosa sia la democrazia.
Infatti il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato non era un tribunale imparziale ed al di sopra delle parti, ma uno dei tanti tentacoli di oppressione del regime fascista. Prova ne sia che tutte le sentenze da esso emanate sono state dichiarate illegittime dal decreto legislativo luogotenenziale n. 159, emesso il 27/7/44 ed operativo dal 29/7/44 (data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale). Recita infatti l’art. 1: “sono abrogate tutte le disposizioni penali emanate a tutela delle istituzioni e degli organi politici creati dal fascismo; le sentenze già pronunciate in base a tali disposizioni sono annullate”.
Per processare gli antifascisti del TIGR nel settembre del 1930 il Tribunale si spostò in trasferta a Trieste; il presidente del Tribunale era il console generale della milizia fascista Cristini, mentre il pubblico ministero era il magistrato, già avvocato, Massimo Dessy, la cui carriera nel Tribunale speciale era iniziato un paio d’anni prima, quando era stato nominato pubblico ministero nel corso di un processo, svoltosi nell’ottobre del 1928, a carico dell’operaio comunista Michele Della Maggiora di Ponte Buggianese (PT). Questi era rientrato al proprio paese dopo anni passati all’estero come emigrato, ed era stato sottoposto a pesanti vessazioni da parte dei fascisti locali, gli era persino stato impedito di trovare un lavoro. All’ennesima aggressione aveva reagito sparando contro tre fascisti, uccidendone due. Nel corso del processo il pubblico ministero in carica, Carlo Baratelli, si era rifiutato di chiedere la condanna a morte per il delitto di strage, ed ebbe perciò un duro scontro con il presidente Cristini, che decise di sostituirlo con l’avvocato Dessy. Il nuovo PM chiese la condanna a morte per l’imputato, che fu comminata: questa è la prima sentenza capitale eseguita in seguito ad una decisione del Tribunale speciale.
Per conoscere la storia del Tribunale speciale vi consigliamo la lettura del testo “Aula IV” (edito da La Pietra nel 1976 e curato da Adriano Da Pont, Alfonso Leonetti, Pasquale Maiello e Lino Zocchi), nel quale si trovano i dispositivi di tutte le sentenze da esso emanate e gli elenchi degli imputati e le condanne ad essi comminate ed anche una tabella riassuntiva dell’attività di questo tribunale, che dal 1927 al 1943 giudicò 5.619 persone, condannandone 4.596, comminando un totale di 27.752 anni di prigione, 3 ergastoli e 42 condanne a morte, di cui 31 eseguite (10 nella nostra sola regione: prima dei quattro martiri di Basovizza fu condannato a morte a Pola Vladimir Gortan il 16/10/29 e fucilato il giorno dopo, mentre il 14/12/41 fu emessa la sentenza del “secondo processo di Trieste”, quando furono condannati a morte Pinko Tomažič, Ivan Ivančič, Simon Kos, Ivan Vadnal e Viktor Bobek): le altre furono commutate in ergastoli che vanno aggiunti ai 3 prima citati.

Presso l’Archivio di Stato di Trieste (fondo Prefettura, busta 270/Gab) si trova il seguente carteggio a proposito del magistrato Massimo Dessy. La lettura di questi documenti (dei quali riportiamo la trascrizione) è significativa per la comprensione della qualità della “giustizia” amministrata dal Tribunale speciale. Ringraziamo Primož Sancin che li ha rintracciati e ce ne ha cortesemente dato copia.

Telegramma di Mussolini al prefetto di Trieste Fornaciari (12/4/28).
N.R. 11231 Personale decifri da se stop mi dia precisa notizia sul magistrato Dessy sostituto procuratore et precisamente sulla sua fede fascista et dedizione al regime perché suo nome stato avanzato per tribunale speciale.
Firmato: Mussolini.

Risposta del prefetto Fornaciari (17/4/28).
Radio tel. 123 al N.R. 11231 pers. Dessi (sic) com. uff. Massimo sostituto procuratore applicato Procura generale questa Corte appello risulta ottimo magistrato sotto ogni punto di vista di sicura fede fascista in piena sintonia regime (illeggibile) completo affidamento per funzioni presso Tribunale speciale.
Firmato: Prefetto Fornaciari

Tornando alla querelle sulle cerimonie riteniamo che tale presa di posizione sia del tutto strumentale, infatti in tutti questi anni nessuno di coloro che si sono recati a rendere omaggio alla cosiddetta “foiba” di Basovizza si sono posti il problema di chi sia stato effettivamente ucciso lì dentro. Infatti l’unica persona che risulta (da atti ufficiali) “infoibata” nel Pozzo della Miniera, è un certo Mario Fabian che aveva lasciato il suo posto di tranviere per arruolarsi nell’Ispettorato Speciale di Collotti, ed era stato riconosciuto come uno dei protagonisti del rastrellamento di Boršt del 10.1.45, che causò la morte immediata di tre partigiani, più uno ucciso nella Risiera, senza contare le ruberie e le violenze inflitte alla popolazione del paese. Fabian fu indicato come uno dei torturatori con “l’apparecchio elettrico” e si era pure accanito contro il parroco che aveva cercato di intercedere per gli arrestati. In seguito a ciò Fabian era stato inserito in un elenco di “collaboratori” di Collotti che erano stati condannati a morte dai tribunali partigiani ed era stato quindi emanata una sentenza contro di lui, che alcuni partigiani eseguirono (tutto questo, almeno, è quanto risulta dal processo che fu celebrato a carico di coloro che ammisero di avere ucciso Fabian). Però, come si diceva, nessuno si pone il problema di chi va ad onorare quando si reca alla foiba di Basovizza, “stranamente” certi scrupoli escono fuori solo quando si parla di antifascisti, soprattutto se non erano d’etnia italiana.
Ma torniamo ai quattro martiri di Basovizza. Essi furono condannati dal Tribunale Speciale perché avevano fatto parte di un’organizzazione antifascista. Che questa organizzazione fosse considerata eversiva dallo stato fascista non dovrebbe fare specie a chi si identifica nell’attuale stato democratico antifascista. Che questa organizzazione abbia anche compiuto attentati, non dovrebbe altrettanto fare specie a chi riconosce il diritto alla lotta di liberazione da una dittatura. Tra l’altro bisogna anche ricordare che degli attentati attribuiti ai quattro, solo in uno morì una persona. Ed a questo punto bisogna aprire una parentesi sulla questione dell’attentato al “Popolo di Trieste”, organo del partito fascista, in seguito al quale morì Guido Neri, perché le cose non sono tanto chiare quanto vorrebbero fare credere i nostri nostalgici.
Nella documentazione processuale conservata presso l’Archivio di Stato di Roma, ed a noi trasmessa ancora da Sancin, leggiamo che a Fran Marušič furono sequestrati alcuni articoli di giornale, tra i quali vengono riportati i seguenti:
“La Libertà”, del 15/3/30, titolo “Dopo l’attentato al giornale”. Leggiamo: “Le indagini sull’attentato al Popolo di Trieste non hanno approdato a nulla. La polizia sta perdendo la testa ed arresta a casaccio, poi rilascia gli arrestati per tornare ad arrestarli il giorno dopo. Il noto squadrista Mario Forti, oggi dissidente, era stato arrestato come sospetto dell’attentato e come schiaffeggiatore del console argentino. Ora egli è di nuovo in libertà. È stato invece fermato il Direttore del popolo di Trieste, conte Cardini Saladini, sembra in seguito a verifiche amministrative. Il giornale infatti ha un passivo enorme. Da due anni l’amministrazione non è in grado di pagare l’affitto. Il fascista Guido Neri, rimasto ucciso in seguito all’attentato, era stato in quei giorni licenziato dal giornale, in seguito a dissidio con il direttore.
A proposito degli arresti eseguiti a Trieste per la bomba al Popolo di Trieste, riceviamo conferma che l’attentato è dovuto ad elementi fascisti. Sul luogo dello scoppio sono stati trovati manifestini che si sono dimostrati stampati nella tipografia del giornale. Sono state fatte perquisizioni in case di tutti i tipografi. Pare che il giornale dovesse licenziare una parte dei 25 impiegati e redattori. Certo ora è in stato fallimentare, ridotto com’è a meno di ventimila copie giornaliere.
La conferma di quanto sopra è data dalla scarcerazione di tutti i comunisti e slavi. Rimangono in prigione solo i fascisti. Tra di essi vi è uno dei tipografi. Si tratta di un ex repubblicano passato al fascismo. Fu arrestato, rilasciato e riarrestato… ”
Ed ancora dal numero del 22/3/30. Titolo: “L’attentato di Trieste. Gerarchi fascisti arrestati e accusati di aver collocata la bomba”. Testo. “Perché mai i giornali fascisti non parlano più dell’attentato di Trieste? La ragione è semplice: perché ormai è provato che l’attentato parte dagli stessi fascisti dissidenti. A complemento delle notizie già pubblicate siamo oggi in grado di assicurarvi che a seguito dell’attentato sono stati arrestati l’ex segretario federale fascista Cobolli-Gigli e l’ing. Menesini ex redattore al Popolo di Trieste. È risultato che lo scoppio è dovuto non ad una granata ma a un tubo di gelatina. Pare che la vittima, il giornalista Neri, sia rimasto mortalmente ferito mentre metteva il tubo”.
Siamo d’accordo che questo è quanto scriveva la stampa “di parte”, cioè antifascista (la “Libertà” era l’organo degli antifascisti socialisti esuli in Francia e vi collaboravano anche i fratelli Rosselli), però non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta che i fascisti facevano un attentato e poi ne attribuivano la colpa ad altri. Tenendo inoltre conto della situazione finanziaria disastrosa del giornale, quale modo migliore per sistemare il tutto che farsi un auto-attentato per poi non dover pagare i debiti e licenziare in pace la gente? Capita ancora oggi che qualcuno truffi le assicurazioni con questo sistema.
In sintesi riteniamo che, oltre a chiedere l’annullamento della sentenza in quanto emessa da un Tribunale dichiarato illegittimo, sarebbe anche opportuno riaprire le indagini su questo attentato (intendiamo dal punto di vista storico, ovviamente), per ristabilire la verità storica oltre che giuridica.
Concludiamo riportando quanto Vincenzo Cerceo ha trascritto dai “Diari” del professor Diego de Henriquez, che fornisce una testimonianza diretta ed inequivocabile anche della fucilazione dei quattro antifascisti di Basovizza nel 1930. Ne parla esattamente nel Diario n. 254, pagine 36.720 e seguenti. All’epoca egli era ufficiale della riserva della Milizia fascista in Trieste e per l’occasione fu incaricato di assistere all’esecuzione. Di quell’evento dunque, dà una descrizione dettagliata, integrata anche da uno schizzo topografico del poligono, indicante la dislocazione del plotone di esecuzione e quella dei condannati. Egli era ad una certa distanza dal luogo esatto dell’esecuzione, ma era perfettamente in grado di vedere e sentire tutto. Al momento in cui l’ufficiale della Milizia comandante del plotone d’esecuzione ordinò di caricare e presentare i moschetti, si udirono delle grida non forti ma chiaramente distinguibili, provenienti dal gruppo dei condannati. De Henriquez udì chiaramente queste parole: “Živjo”, oppure “Živeli”, “Viva” e “Jugoslavia”. Si ha, dunque, conferma del fatto che i condannati morirono inneggiando alla Jugoslavia. Di tutto questo de Henriquez afferma di avere riferito al Comando della Milizia con dettagliata relazione.

Claudia Cernigoi

Settembre 2012





Table ronde du Groupe des 77 et la Chine : « Quel avenir et quels défis pour l’Unesco ? »

Jean Bricmont
18 juin 2012

L'acte constitutif de l'Unesco parle de deux concepts, « le maintien de la paix et de la sécurité... en resserrant la collaboration entre nations » et le « respect universel des droits de l'homme », concepts que certains opposent depuis quelque dizaines d'années en Occident en invoquant le « droit d'ingérence humanitaire », unilatéral et militaire, ou la « responsabilité de protéger ». Ils s'opposent, au nom des droits de l'homme, au maintien de la paix et à la collaboration entre nations.



Leur cible principale est la notion d’égale souveraineté entre les États, sur laquelle est fondé le droit international contemporain. Les partisans de l'ingérence humanitaire, dont l'un des plus célèbres prétend être à la fois cinéaste, guerrier en chambre et philosophe, stigmatisent ce droit en l'accusant d'autoriser les dictateurs « à tuer leur propre peuple » comme bon leur semble.

Une des principales justifications du principe d’égale souveraineté est qu'il fournit une certaine protection aux faibles contre les forts. On ne peut pas contraindre les États-Unis à modifier leur politique énergétique ou leur politique monétaire quelles qu'en soient les conséquences sur des pays tiers. Dans la notion d'égale souveraineté, le mot « égale » est aussi important que « souveraineté ». Un monde où la souveraineté est bafouée est nécessairement un monde dont l'inégalité est à la mesure des rapports de forces entre les États.

Or, le but fondateur des Nations unies était de préserver l'humanité du « fléau de la guerre ». Cela passait par un strict respect de la souveraineté nationale, de façon à éviter que des grandes puissances n'interviennent militairement dans les affaires intérieures des pays plus faibles, sous un prétexte ou un autre, comme l'avait fait l'Allemagne, en invoquant la défense des « minorités opprimées » en Tchécoslovaquie et en Pologne, entraînant le reste du monde dans la guerre.

La décolonisation vint renforcer l'importance de ce concept d'égale souveraineté. La dernière chose que souhaitaient les pays qui s’étaient affranchis du joug colonial après la Deuxième Guerre mondiale était de subir à nouveau l’ingérence des anciens maîtres dans leurs affaires intérieures. Cette crainte explique le rejet universel du « droit » d'intervention humanitaire par les pays du Sud.

Réuni à Kuala Lumpur, en Malaisie, en février 2003, le mouvement des non-alignés déclarait, peu de temps avant l'attaque américaine contre l'Irak : « Les chefs d’États ou de gouvernements réaffirment l’engagement du mouvement des non-alignés pour renforcer la coopération internationale afin de résoudre les problèmes internationaux ayant un caractère humanitaire en respectant pleinement la Charte des Nations Unies, et, à cet égard, ils réitèrent le rejet par le mouvement des non alignés du soi-disant droit d’intervention humanitaire qui n’a aucune base dans la Charte des Nations unies ou dans le droit international »[1].

Le principal échec des Nations unies n'est pas de ne pas avoir pu empêcher « les dictateurs de tuer leur propre peuple », mais bien de n’avoir pas pu préserver l'humanité du « fléau de la guerre », en empêchant la violation répétée par des États puissants du droit international : les États-Unis en Indochine et en Irak, l'Afrique du Sud en Angola et au Mozambique, Israël chez ses voisins du Proche-Orient et dans les territoires occupés, sans parler de tous les coups d'État organisés par l'étranger, des menaces, des embargos, des sanctions unilatérales, des élections achetées, etc. Des millions de gens sont morts, victimes de ces violations répétées du droit international et du principe de la souveraineté nationale.

Nous ne devrions jamais oublier ces morts, mais les partisans de l'ingérence les oublient toujours.

Les ingérences états-uniennes dans les affaires intérieures d’autres États prennent des formes multiples, mais elle sont constantes et ont souvent des conséquences désastreuses : pensons simplement à l’espoir tué dans l’œuf pour les peuples qui auraient pu bénéficier des politiques sociales progressistes initiées par des dirigeants tels que Jacobo Arbenz Guzmán au Guatemala, João Goulart au Brésil, Salvador Allende au Chili, Patrice Lumumba au Congo, Mohammad Mossadegh en Iran, les Sandinistes au Nicaragua, etc., qui, tous ont été victimes de coups d’État ou d’assassinats soutenus par les États-Unis[2].

Mais les effets désastreux de la politique d'ingérence ne se limitent pas à cela : chaque action agressive des États-Unis provoque une réaction. Le déploiement d'un bouclier antimissile produit plus de missiles, pas moins. Le bombardement de civils, délibéré ou dû à des « dommages collatéraux » produit plus de résistance armée, pas moins. Les tentatives de renversement ou de subversion de gouvernements étrangers produisent plus de répression, pas moins. Encercler un pays par des bases militaires entraîne plus de dépenses militaires de la part de ce pays, pas moins. Et la possession d'un armement nucléaire par Israël encourage les autres pays du Moyen-Orient à se doter de telles armes.

Les partisans de l'ingérence humanitaire n'expliquent d’ailleurs jamais par quoi ils souhaitent remplacer le droit international classique : on peut ériger l'égale souveraineté en principe, mais comment formuler un principe d'ingérence humanitaire ?

Quand l'OTAN a exercé son droit d'ingérence autoproclamé pour intervenir au Kosovo, les médias occidentaux ont applaudi. Mais quand la Russie a exercé ce qu'elle considérait être son droit de protéger les populations en Ossétie du Sud, les mêmes médias occidentaux l'ont universellement condamnée.

On se trouve face à un dilemme : soit tout pays qui en a les moyens se voit reconnaître le droit d'intervenir partout où un argument humanitaire peut être invoqué pour justifier cette intervention, et c’est la guerre de tous contre tous ; soit une telle action est réservée à certains États qui en ont la capacité et s'en arrogent le droit, et on en arrive à une dictature de fait dans les affaires internationales.

A cela, les partisans de l'ingérence répondent en général que de telles interventions militaires ne doivent pas être le fait d’un seul État, mais de la « communauté internationale ». Malheureusement, il n'existe pas véritablement de « communauté internationale ». Ce concept sert aux États-Unis pour désigner toute coalition momentanée dont ils prennent la tête. L'abus unilatéral par l'OTAN des résolutions de l'ONU concernant la Libye a rendu impossible la construction d'une véritable communauté internationale qui pourrait, en principe, mettre enœuvre une responsabilité de protéger impartiale et valable pour tous, y compris, par exemple, pour les Palestiniens.

L'aventure libyenne récente a également illustré une réalité que les défenseurs de l'ingérence passent sous silence : vu que des guerres coûteuses en vie humaines sont politiquement difficiles à faire accepter par les populations occidentales, toute intervention « à zéro mort » (de leur côté) ne peut se réaliser que grâce à des bombardements massifs qui nécessitent un appareil militaire sophistiqué. Ceux qui défendent de telles interventions soutiennent aussi nécessairement, même si c'est souvent inconsciemment, les colossaux budgets militaires américains.

Il est donc paradoxal que ce soient souvent les sociaux-démocrates et les Verts européens qui réclament le plus des « interventions humanitaires », alors qu'ils seraient les premiers à protester si l’on imposait en Europe les réductions drastiques des dépenses sociales qui seraient nécessaires pour mettre en place un appareil militaire comparable à celui des États-Unis.

Il est vrai que le XXIe siècle a besoin d'une nouvelle forme d’Organisation des nations Unies. Mais non pas d'une ONU qui légitimerait l'interventionnisme par des arguments nouveaux, comme la « responsabilité de protéger », mais d'une Organisation qui apporterait un soutien au moins moral à ceux qui cherchent à bâtir un monde non dominé par une unique puissance militaire.

Une alternative aux politiques d'ingérence devrait mobiliser l'opinion publique pour imposer un strict respect du droit international de la part des puissances occidentales, la mise en œuvre des résolutions de l'ONU concernant Israël, le démantèlement de l'empire des bases états-uniennes, la fin de l'OTAN et la fin de toutes les usages ou menaces d’usages unilatéraux de la force, ainsi que des opérations de promotion de la démocratie, des révolutions colorées et de l'exploitation politique du problème des minorités.

Puisque les guerres « naissent dans l'esprit des hommes », l'UNESCO devrait considérer comme une de ses tâches prioritaires « d'éducation populaire » l'éducation à la paix. Celle-ci requiert avant tout le développement d'un esprit critique face à la propagande de guerre : Timisoara, les couveuses au Koweit lors de la première guerre du Golfe, les armes de destructions massives lors de la seconde, le massacre de Racak et les « négociations » de Rambouillet menant à la guerre du Kosovo[3], et quantités d'autres événements sont présentés par les médias occidentaux de façon unilatérale, afin de conditionner la population à accepter la guerre comme inévitable contre le « mal absolu » ou le « nouvel Hitler ». Il est sans doute trop tôt pour se prononcer avec certitude sur les événements récents et tragiques en Syrie, mais on peut remarquer que, pour la presse occidentale, il n'est jamais trop tôt pour condamner un camp et un seul. Tout ceux qui, en Occident, tentent d'apporter des nuances ou d'émettre des doutes sur la version officielle sont immédiatement taxés de négationnistes, de conspirationnistes ou d'antisémites. Un monde de paix a besoin de sources d'informations moins biaisées que celles fournies par les médias occidentaux, d'un nouvel ordre mondial de l'information à la création duquel l'UNESCO devrait travailler, en s'appuyant sur le Groupe des 77 et la Chine.

On objectera qu'une politique de respect de la souveraineté nationale permettrait à des dictateurs de « tuer leur propre peuple », ce qui est vrai. Mais une politique réellement alternative à la politique d'ingérence, une politique de paix, aurait aussi d’autres effets. Si on arrêtait la politique d'ingérence, les diverses oppositions dans les pays visés par cette politique cesseraient d'être perçues et réprimées comme autant de cinquièmes colonnes de l'étranger. Un climat de confiance et de coopération internationale pourrait s'instaurer, climat indispensable à la gestion des problèmes globaux, écologiques entre autres. Et un désarmement progressif permettrait de libérer d'immenses ressources financières, mais aussi scientifiques, pour le développement.

L'idéologie de l’ingérence humanitaire fait partie de la longue histoire des prédations occidentales à l’égard du reste du monde. Lorsque les colonialistes sont arrivés sur les rives des Amériques, de l'Afrique et de l'Asie, ils furent choqués par ce que nous appellerions aujourd'hui des « violations des droits de l'homme » et qu'ils nommaient à l’époque des « mœurs barbares » : les sacrifices humains, le cannibalisme, les pieds bandés des femmes… De façon répétée, l'indignation face a ces pratiques, sincère ou feinte, a été utilisée pour justifier les crimes occidentaux : le commerce des esclaves, l'extermination des peuples indigènes et le vol systématique des terres et des ressources. Cette indignation vertueuse se perpétue jusqu’à ce jour. Elle est à la racine du droit d'intervention humanitaire et de la responsabilité de protéger, eux-mêmes accompagnés d’une grande complaisance envers les régimes oppressifs considérés comme amis, de la militarisation indéfinie et de l'exploitation massive du travail et des ressources du reste du monde. Après plusieurs siècles d'hypocrisie, il faudrait peut-être que les Occidentaux pensent à remplacer l'ingérence par la coopération.

Loin d'être utopique, une politique de non-ingérence s'inscrit en fait dans le sens de l'histoire : au début du siècle passé, la majeure partie du monde était sous contrôle européen. La plus grande transformation sociale et politique du XXe siècle fut la décolonisation et cette transformation se poursuit aujourd'hui à travers la montée en puissance des pays émergents. Le problème qui se pose à l'Occident n'est pas d'essayer de contrôler à nouveau le monde à travers l'ingérence humanitaire, mais de s'adapter à son propre déclin inévitable, adaptation qui risque fort de n'être ni facile ni agréable.

Ceux qui promeuvent le droit d'ingérence le présentent comme le début d'une nouvelle ère, alors qu'il s’agit en réalité de la fin d'une histoire ancienne. D'un point de vue interventionniste, cette doctrine opère un retrait par rapport aux droits invoqués par le colonialisme classique. De plus, des millions de gens, y compris aux États-Unis, rejettent de plus en plus la guerre comme moyen de résoudre les problèmes internationaux et adhèrent, de fait, à la position des pays non alignés, visant à « renforcer la coopération internationale afin de résoudre les problèmes internationaux ayant un caractère humanitaire, en respectant pleinement la Charte des Nations unies ». Ils sont souvent dénoncés dans leurs propres médias comme « anti-occidentaux ». Mais ce sont eux qui, en s'ouvrant aux aspirations de la majeure partie du genre humain, perpétuent ce qu'il y a de valable dans la tradition humaniste occidentale. Ils visent à créer un monde réellement démocratique, un monde où le soleil se sera définitivement couché sur l'empire américain, comme il l'a fait sur les vieux empires européens.


Jean Bricmont (juin 2012)




[1] Final document of the Thirteenth Conference of Heads of State and of Governments of the Movement of Non-aligned Countries, Kuala Lumpur, February 24-25, 2003, Article 354. (disponible sur http://www.bernama.com/events/newna...).
[2] Voir William Blum, Les guerres scélérates, Parangon, Lyon, 2004, pour une histoire détaillée des ingérences états-uniennes.
[3] L'annexe B des accords proposés aux Serbes comme à prendre ou à laisser prévoyait entre autres : article 8. Les personnels de l'OTAN bénéficieront, tout comme leurs véhicules, navires, avions et équipement d'un passage libre et sans restriction et d'un accès sans ambages dans toute la RFY (=République fédérale Yougoslave, c'est-à-dire la Serbie et le Monténégro à l'époque), y compris l'espace aérien et les eaux territoriales associées. Ceci comprendra, sans y être limité, le droit de bivouaquer, manœuvrer, de cantonner et d'utiliser toute zone ou installation, telles que l'exigent le soutien, l'entraînement et les opérations. Article 9. L'OTAN sera exemptée des droits, taxes et autres frais et inspections et règlements douaniers, y compris la fourniture d'inventaires ou de documents douaniers routiniers, pour les personnels, véhicules, navires, avions, équipements, fournitures et livraisons qui entrent, sortent ou transitent par le territoire de la RFY en soutien à l'Opération. Voir http://www.csotan.org/textes/doc.php?type=documents&amp ;art_id=61 pour le texte complet.


(english / italiano)

"Racist hate speech", Joint submission by network of Italian associations
Observations submitted to the CERD for the thematic discussion - 28 August 2012, Palais des Nations - Genève

1 PRESENTATION OF THE WORK .......................................................................................... 3 
2 RACIST HATE SPEECH AND FREEDOM OF OPINION AND EXPRESSION ................4
2.1 
RACIST HATE SPEECH IN POLITICAL LIFE: STATEMENTS AND BEST PRACTICES ................................ 4
2.2 RACIST HATE SPEECH IN THE MEDIA: STATEMENTS AND BEST PRACTICES .....................................10
2.3 RACIST HATE SPEECH IN INTERNET AND SOCIAL NETWORKS.......................................15
3 RACIST HATE SPEECH TOWARD ROMA AND SINTI ..................................................... 19
4 CONCLUSIONS AND RECOMMENDATIONS ................................................................... 23 
5 ANNEX...................................................................................................................................... 26 
5.1 THE AUTHORS...............................................................................................................................................26
6 APPENDIX................................................................................................... 28



Razzismo. "In Italia politica, media e web incitano all’odio"

giovedì 30 agosto 2012

Il rapporto di otto associazioni al Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale delle Nazioni Unite. Dalle "zingaropoli islamiche" della campagne elettorali ai gruppi anti immigrati su facebook


Roma – 30 agosto 2012 - Preoccupa la diffusione in Italia dell’incitamento all’odio razziale nel discorso pubblico politico e mediatico, specialmente nei confronti di rom e sinti, così come l’incremento del razzismo diffuso attraverso internet e i social network.
È l’allarme lanciato da un network di otto associazioni italiane in un rapportopresentato martedì a Ginevra davanti al Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale delle Nazioni Unite (CERD). Si tratta di un contributo alla discussione tematica sull’incitamento all’odio razziale , il cosiddetto “racist hate speech”.
L’Italia, spiegano le associazioni, “può essere considerato un caso esemplare dell’uso strumentale di migranti, rom e rifugiati da parte di movimenti e partiti nazionalisti e xenofobi per guadagnare il favore dell’opinione pubblica”. E anche se con l’attuale governo “sembra iniziata una nuova fase”, la prossima campagna elettorale “potrebbe esacerbare nuovamente il dibattito su immigrazione e rom con il ritorno di una retorica xenofoba, antirom e anti immigrati”.
Il rapporto cita ad esempio la campagna per le amministrative del 2011 a Milano, quando Lega Nord e Popolo delle Libertà parlarono del rischio della trasformazione di Milano in un  “zingaropoli islamica” se avesse vinto il centrosinistra. Così come il movimento di estrema destra Forza Nuova, che nel suo programma presenta l’immigrazione come una “dolorosa ferita nella armoniosa convivenza dei popoli” e ha diffuso manifesti con un appello ad espellere i rom stampato sull’ immagine di uno stupro.
Le associazioni puntano il dito contro “le pene minime”,  i “dubbi interpretativi” e soprattutto “la scarsa applicazione” della norme penali italiane contro l’incitamento all’odio razziale, sebbene più organismi internazionali, a partire dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, hanno ribadito che questo non può essere giustificato con la libertà di espressione. Rari i casi di condanna (il rapporto cita i leghisti Gentilini e Tosi), mentre ci sono “diversi esempi di discorsi contro i quali non è iniziato alcun procedimento penale”.
I media hanno colpe gravi e non solo perchè raramente danno voce alle minoranza. Se i bersagli principali della rappresentazione razzista degli “altri” sembrano essere i Rom e i Sinti, l’insistente specificazione dei paesi d’origine di chi commette reati, la cosiddetta ”etnicizzazione del crimine”, crea nel lettore “la convinzione che un certo tipo di crimine è sistematicamente imputabile a una certa minoranza, creando una sorta di responsabilità criminale collettiva”.
Altro capitolo preoccupante è quello dell’incitamento all’odio razziale su internet e sui social network. “Se la penna è più potente della spada, le tastiere dei computer oggi possono essere più potenti di carri armati e mitragliatrici e ugualmente distruttivi”. Il web “offre una cappa di anonimato che spinge spesso le persone a digitare cose che non direbbero mai in faccia a qualcuno” e così diventa un “potente veicolo di odio”.
L’Italia ha firmato ma non ancora ratificato il protocollo addizionale alla convenzione europea sul cyber crime, che prevede un giro di vite contro atti di razzismo e xenofobia compiuti sulla rete. Intanto, crescono su Facebook gruppi come “Rispediamo indietro gli immigrati”,  “3 ragioni per cui E.T. è meglio degli immigrati” o “Se loro protestano con i bastoni, noi replicheremo con i cannoni”.
Le associazioni, spiega una nota, “hanno richiesto ai membri del Comitato dell’ ONU di formulare una general recommendation per rafforzare gli strumenti internazionali esistenti in tema di lotta contro le discriminazioni razziali”. Il rapporto è frutto della collaborazione: Archivio delle Memorie Migranti, Articolo 3 – Osservatorio sulle discriminazioni, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, Associazione 21 Luglio, Associazione Carta di Roma, Borderline Sicilia Onlus, Lunaria, Unione forense per la tutela dei diritti umani. 

EP


Scarica il rapporto:

Observations submitted to the CERD for the thematic discussion "Racist hate speech", Joint submission by network of Italian associations
http://www.asgi.it/public/parser_download/save/osservazioni_cerd_28082012.pdf


Vedi anche:

Cresce l’incitamento all’odio razziale in Italia
Paola Totaro, 31/8/2012


*** SEGNALAZIONE DA TRIESTE: Razzismo su "Il Piccolo"***

Il giornale di domenica 26 agosto 2012 ha dedicato 2 pagine intere (pagg. 22 e 23) al 'caso Lignano', con un richiamo in prima: 'Il massacro della villetta - Svolta a Lignano: prelievo del Dna su decine di persone'. Le indagini sono a tutto campo, brancolano nel buio, ma "Il Piccolo" presume che i colpevoli siano stranieri, anzi balcanici... In apertura d'articolo a pag. 23 (firmato C.S.):

'Dalla rapina sfociata in tragedia al raptus d'ira, fino alla vendetta orchestrata scientificamente. Con il passare dei giorni, gli inquirenti hanno preso e abbandonato diverse piste investigative, precisando sempre di non voler tralasciare alcuna ipotesi.' 

L'articolo prosegue elencando tutte le incertezze dell'inchiesta, a cominciare dal movente. Buio completo. Nonostante questo, l'articolista nelle ultime righe riesce a scrivere gratuitamente:

'L'autopsia ha confermato che (le due vittime) prima di essere sgozzate sono state picchiate. Più che un omicidio causato da uno scatto d'ira, insomma, la loro è sembrata un'esecuzione. Con modalità che hanno ricordato [? sic] quelle di alcune bande dell'Est.'

In apertura di pag. 22 si va molto oltre la gratuità dell'accusa razzista. L'articolo è firmato da Laura Borsani. Dopo una cinquantina di righe l'autrice si sbizzarrisce in ipotesi senza alcun fondamento:

'Gli inquirenti lavorano alacremente, ampliando il raggio d'azione anche nel vicino Veneto, per individuare gli autori del duplice omicidio. Si sonda nel giro delle bande di ladri e di rapinatori che, provenienti dall'Est, fanno base nella regione veneta, da dove poi si spostano per compiere reati in zone limitrofe e tornare in regione. Una delle ipotesi, la matrice balcanica, tenuta già in considerazione, valutando le modalità e l'estrema violenza del duplice fatto di sangue, facendo pensare alla totale mancanza di scrupoli e del benché minimo rispetto per la vita umana.

Mercoledì 29 "Il Piccolo" ritorna sulla vicenda: gli inquirenti non hanno dato alcuna indicazione sulla pista da seguire, ma i giornalisti rincarano la dose usando una pseudoantropologia razzista. Il pezzo, alla pag. 17 della edizione di Trieste, si intitola 'Dai soldi all'arma, tutte le tessere del puzzle'. Al capitolo 'Pista balcanica', senza che alcuna motivazione o indicazione sia giunta dagli inquirenti in questo senso, l'articolista scrive: 

'I cognugi Burgato sono stati massacrati dai fendenti, entrambi sgozzati. Una violenza e una modalità che hanno fatto pensare a una 'matrice balcanica' per il duplice delitto, opera di chi non ha scrupoli'.

(segnalato da J.E., che ringraziamo)




Fonte: quotidiano "Il Manifesto" - http://www.ilmanifesto.it/

Sull'esproprio della Zastava Auto da parte della FIAT, a seguito ed in virtù dei bombardamenti dei paesi NATO sulla fabbrica, si veda la documentazione raccolta alla nostra pagina: https://www.cnj.it/amicizia/sindacale.htm

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28/08/2012 - Autore: R. Eco.

Melfi, Termini e la Serbia ossessionano la Fiat

Il rinvio della Punto e dei fondi per Kragujevac. E a Palermo solo incognite. Intanto a Modena brucia il container della Fiom. La Cgil: «Attacco alla democrazia»

Non c’è pace per il rientro degli operai Fiat (quando non hanno la cassa integrazione) dalle vacanze estive. Se venerdì notte era stato incendiato un container della Fiom davanti allo stabilimento Maserati di Modena, se nei giorni precedenti si è riacceso l’allarme Termini Imerese e un nuovo «giallo» sul futuro della Punto a Melfi, ieri si è saputo che anche i colleghi serbi non navigano in buone acque. Il vicepresidente della Fiat, Alfredo Altavilla, sarà infatti domani a Belgrado, dove incontrerà gli esponenti del nuovo governo serbo, che però gli parleranno di un rallentamento del programma di finanziamento alla fabbrica di Kragujevac. 
Venerdì scorso il ministro dell’economia Mladjan Dinkic aveva anticipato che a causa della precarie condizioni del bilancio statale, una parte degli obblighi contrattuali previsti per quest’anno dovranno essere rinviati al 2013.
Secondo le prime indiscrezioni di stampa, l’esecutivo belgradese non sarà in grado di garantire quest’anno 60 milioni di euro al sito di Kragujevac, dove da luglio è partita la produzione in serie della nuova 500L. Il ministro ha chiesto comprensione alla Fiat, scaricando le colpe sul governo precedente. 
Tornando in Italia, ieri i segretari della Cgil e della Fiom di Modena, Donato Pivanti e Cesare Pizzolla, hanno lamentato il «silenzio preoccupante della Fiat» sull’incendio del container. Il fatto è «grave», per i due dirigenti sindacali, in quanto la Fiat «ha escluso la Fiom dalla rappresentanza in fabbrica, creando un vulnus pericoloso per la democrazia». Per l’incendio si è parlato di «matrice fascista e di criminalità organizzata», ma finora si sa ben poco. 
Intanto a Melfi non si è spento l’allarme per il rischio del rinvio al 2015 della nuova Punto. «I dati allarmanti relativi al calo di vendite rischiano di produrre il secondo rinvio dell’atteso nuovo modello di Fiat – hanno avvertito i segretari lucani di Uil e Uilm, Carmine Vaccaro e Vincenzo Tortorelli. Secondo i due sindacalisti, «è indispensabile correre ai ripari nonostante il no comment della Fiat che intende rinviare qualsiasi decisione alla presentazione dei risultati del prossimo trimestre, in agenda per la fine di ottobre». 
A fine ottobre, il Lingotto dovrebbe presentare il nuovo piano industriale sul futuro di stabilimenti e prodotti in Italia. Il progetto della nuova Punto previsto a Melfi dal 2013, aveva già indicato l’ad di Fiat Sergio Marchionne lo scorso giugno, è tra quelli che la Fiat sta «riconsiderando». È un obiettivo vitale per la Sata di Melfi, sottolineano i vertici regionali di Uil e Uilm: l’arrivo della nuova Punto «è fondamentale a garantire la produzione dopo il 2013». 
Infine, per il futuro di Termini Imerese, l’attenzione è puntata al 15 settembre, quando ci sarà un nuovo round di incontri al ministero dello Sviluppo. Nell’ultimo incontro, a luglio, sul tavolo c’era l’ipotesi del colosso cinese Chery, che consentirebbe all’imprenditore molisano Massimo Di Risio, patron della Dr Motor, di rientrare in gioco. «Se i cinesi hanno le risorse – dice Roberto Mastrosimone, segretario della Fiom di Palermo – ben vengano. Il nostro auspicio è che abbiano modelli concorrenziali sul mercato europeo, per non doverci trovare tra qualche anno di nuovo nelle stesse condizioni». Anzi dai sindacati arriva una proposta: «Un vincolo per le aziende che ottengono risorse pubbliche e acquisiscono professionalità già formate a restare in loco per almeno 10-15 anni», spiega Mastrosimone. Dall’ultimo incontro al ministero, un primo risultato era comunque già arrivato: la tutela per tutti i 640 esodati. Ora i lavoratori attendono le garanzie sugli ammortizzatori sociali e il secondo anno di cig anche per l’indotto.

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17/07/2012 - Autore: Astrit Dakli

Una scia di sangue agli albori della Fiat

Non meraviglia più di tanto che un appassionato di cavalli, trincerato nella sua tenuta della Maremma etrusca, scriva un libro per sparare sull'industria dell'auto italiana, demolitrice di quel mondo, forse più civile del nostro, che all'automobile preesisteva. Una sorta di «operazione nostalgia» in nome del cavallo: impensabile ancora pochi anni fa ma che acquista oggi un valore nuovo di fronte al collasso ambientale e all'insostenibilità del modello centrato sull'auto - che ormai, nell'era Marchionne, ha perduto anche qualsiasi residuo appeal come portatore di progresso e benessere attraverso il lavoro. 
Ci voleva però un gentleman torinese, con tutta la tigna che i torinesi sanno riservare ai loro concittadini quando li detestano, per dare pepe a questa operazione e mettere nero su bianco senza complimenti quel che tanti hanno sempre pensato: che l'industria dell'auto italiana per eccellenza, la Fiat di Giovanni Agnelli primo, agli albori del Novecento, forse non è nata da un ardito sogno imprenditoriale ma da un oscuro brodo di coltura fatto di intrighi, truffe, intrecci con lo Stato e persino un paio di omicidi eccellenti - in perfetta sintonia con il clima di sangue e violenza instaurato nel Paese dai Savoia per tenerne lontano il contagio socialista. 
Giorgio Caponetti, classe 1945, è un distinto professionista torinese appassionato di cavalli, trasferitosi tanti anni fa a vivere in una fattoria nella valle del fiume Marta, con armi, bagagli, famiglia, un po' di soldi e alcuni sogni da realizzare - in primis, un modello di vita migliore da costruire per sé e da offrire agli altri con generosità non sempre apprezzata o ricambiata. Tra i sogni, però, ce n'era anche uno molto particolare: scrivere la storia che fin da ragazzo lo intrigava, quella - svoltasi nel ventennio intorno al 1900 - del celebre cavallerizzo Federigo Caprilli, del suo amico nobile, il conte Emanuele Cacherano da Bricherasio, e della morte violenta che li colse a poca distanza di tempo, neanche quarantenni: per entrambi una morte inspiegabile, avvolta di silenzi e misteri e oscuramente legata alla folgorante ascesa nel mondo dell'industria, della finanza e della politica del cavalier, poi senatore, Giovanni Agnelli. 
Non era una storia semplice, sono passati cent'anni e passa, molti documenti sono scomparsi (forse non casualmente), non c'è più modo di trovare testimoni che possano presentarsi in un tribunale. No, un giudice che alla fine chiarisca le cose, stabilisca la verità e faccia giustizia non c'è e non ci sarà, e per questo Caponetti insiste a dire che il suo Quando l'automobile uccise la cavalleria (Marcos y Marcos, pp. 489, euro 18) è «un romanzo storico, opera di pura fantasia» e non un libro di storia. Eppure...
Eppure i fatti sono più o meno quelli e un testimone esiste, sia pur solo nella memoria dell'autore: il nonno Benedetto, ex ufficiale dei carabinieri, negli anni cruciali in cui si svolgono le vicende narrate era in «servizio speciale» fra Roma e Torino e, da vecchio, al giovane nipote ha raccontato molte cose circa il proprio ruolo diretto nelle fasi più drammatiche di quei lontani intrighi. È mettendo insieme quei racconti con il poco che si sa delle vicende di quell'epoca che prende vita questo strano romanzo, dove i fatti sembrano assai meno fantasiosi di quanto dichiarato.
Alla fine sono quattro i protagonisti, raccontati attraverso vite parallele ma fin troppo intersecate: al brillante e geniale capitano Caprilli, eroe dei concorsi ippici di tutta Europa e delle alcove di nobildonne troppo altolocate, si affianca l'amico Emanuele da Bricherasio, come Caprilli ufficiale di cavalleria, ingenuo ed entusiasta fondatore dell'Automobile Club d'Italia nonché, nel 1899, della prima «Fabbrica Italiana Automobili di Torino», di cui è vicepresidente; e a loro si uniscono Giovanni Agnelli, a sua volta ufficiale di cavalleria ma di tutt'altra pasta e con tutt'altri progetti in testa, e infine nonno Benedetto, ufficiale anche lui ma dei carabinieri: «uso a ubbidir tacendo» ma che in vecchiaia, fuggiti nell'infamia i Savoia e dunque senza più un re cui ubbidire fino all'estremo, di «tacendo morir» non ha più tanta voglia. 
La vita di Caprilli e Bricherasio raccontata da Caponetti si snoda con varie vicende interessanti ma in fondo ordinarie e tranquille: la loro storia inizia ad accelerare in parallelo col crescere delle tensioni sociali in Italia e col traballare della dinastia Savoia, umiliata dal disastro di Adua e capace di tenersi in sella solo facendo sparare sugli operai e sui contadini. Arriva Bava Beccaris, ci sono le stragi di lavoratori, a Milano e un po' dappertutto, e arrivano anche le prime morti avvolte nel mistero, come quella del figlio di Edmondo De Amicis, che si «suicida» proprio alla vigilia del previsto (e temutissimo dai Savoia) outing pro-socialista del padre, allora al culmine della sua popolarità e che da quel momento non si interesserà più di politica. È l'autunno 1898. Pochi mesi dopo, a casa del conte di Bricherasio, nasce la F.I.A.T., con Agnelli che è solo un socio tra gli altri ma grazie ad amicizie e alleanze riesce a prendere in mano la gestione commerciale dell'impresa, quella da cui passano i soldi. 
La scalata di Agnelli è rapida e senza scrupoli, passando anche - forse soprattutto - attraverso disinvolti rapporti di do ut des con i Savoia. Sotto gli occhi di Bricherasio gli affari sporchi - traffici azionari, intrighi bancari ecc. - si moltiplicano e cresce il potere di Agnelli e dei suoi amici: finché nell'ottobre 1904, alla vigilia di un Consiglio di amministrazione in cui Bricherasio aveva annunciato di voler «vedere tutte le carte» e denunciare i pasticci che erano stati compiuti, il conte viene misteriosamente convocato a casa del duca Tommaso di Savoia-Genova (cugino del re) dove, secondo la versione ufficiale, si uccide con un colpo di pistola in testa. 
Nessuna autopsia, nessuna inchiesta, nessuna spiegazione. Caprilli, l'unico tra amici e familiari che ne può vedere il corpo prima del funerale, riferisce che il viso e le tempie del conte sono intatti. La sorella del conte, inquisita da misteriosi «alti funzionari», affida a Caprilli le carte del fratello morto, perché le custodisca: un cattivo viatico, perché tre anni dopo anche il celebre cavaliere muore senza testimoni, il cranio sfondato da una assai improbabile caduta da cavallo, di notte, in una strada innevata di Torino. E proprio alla vigilia, guarda caso, delle sue annunciate dimissioni dall'esercito che lo avrebbero liberato dai vincoli di fedeltà e gli avrebbero permesso di rivelare quel che aveva appreso sulla morte dell'amico, sugli imbrogli della Fiat (nel frattempo passata interamente nelle mani di Agnelli), sul ruolo dei Savoia in tutto ciò. Anche per Caprilli niente autopsie, niente inchieste, nessuna spiegazione: solo una frettolosa sepoltura. 
La verità? Non si saprà mai: i sanguinosi misteri d'Italia non sono iniziati con Piazza Fontana ma molto prima. Per Giovanni Agnelli, i cui maneggi erano intanto diventati troppo palesi, si aprirà poi anche un processo: tirato per le lunghe, si concluderà con l'assoluzione dopo che la guerra di Libia (1911-12) sarà stata portata a termine vittoriosamente, «vendicando» Adua. Senza cavalleria ma con un largo uso dei nuovi camion prodotti dalla Fiat.





Le bombe di Monti sull'Afghanistan

la Redazione - Domenica 15 Luglio 2012 13:14

La Jugoslavia l'aveva già dimostrato: i «democratici», americani o italiani che siano, amano i bombardamenti a tappeto

Il Manifesto di oggi, 15 luglio, dedica giustamente un grande spazio alle notizie provenienti dall'Afghanistan. Cosa ci dicono queste notizie? Che gli aerei italiani schierati ad Herat stanno prendendo parte a veri e propri bombardamenti a tappeto del suolo afghano. La notizia può stupire solo i pacifinti alla Flavio Lotti (Tavola della pace), specializzati nel credere alle menzogne di politici e generali. In realtà l'Italia ha sempre partecipato a pieno alla guerra di occupazione dell'Afghanistan. Tuttavia le notizie odierne meritano qualche commento.

Ricordate i cosiddetti «caveat» che avrebbero dovuto limitare l'uso dei militari e delle armi italiane in azioni di guerra? Questi limiti altro non erano che un trucchetto per far accettare la partecipazione del nostro paese al conflitto, cercando (peraltro inutilmente) di salvare la faccia degli allora parlamentari (2006-2008) di Prc, Pdci e Verdi impegnati nei vari voti di rifinanziamento della «missione».

Che quei limiti non vi fossero è stata sempre cosa nota, ed oltretutto confermata dalle tante testimonianze sul campo. Ora, però, siamo all'ufficializzazione. Il perché è presto detto. Il 28 gennaio scorso, il ministro Di Paola - un ammiraglio alla Difesa, come si conviene ad un governo golpista -, così si esprime in parlamento: «Intendo far sì che i nostri militari e tutti i loro mezzi schierati in teatro siano forniti delle dotazioni e capacità necessarie a garantire la massima sicurezza possibile del nostro personale e dei nostri amici afgani e alleati». Ovviamente nessun cenno ai caveat, visto che questo governo non ne ha bisogno.

Questo passaggio viene silenziato dai media e accettato dal Pd. Eppure non si può dire che Di Paola sia stato reticente, vista la seguente precisazione: «Tutti i mezzi che abbiamo verranno utilizzati sulla base di tutte le loro capacità». Dunque, se si schierano dei bombardieri sarà ovviamente per bombardare. Più chiaro di così. Eppure, in questo strano paese la cosa non ha destato alcuna reazione degna di nota. Interessante, in particolare, il silenzio-assenso del Pd.

Questi «democratici», al pari dei loro omonimi a stelle e strisce (ieri Clinton, oggi il nobel Obama), amano i bombardamenti, meglio se a tappeto. Fu così anche per la Jugoslavia, quando l'ex comunista, allora diessino, oggi «democratico» D'Alema invio i caccia italiani a bombardare il paese balcanico, dicendo che i suoi aerei non sganciavano bombe, ma partecipavano semplicemente a non meglio precisate operazioni di «difesa integrata». Una presa in giro pari solo alla faccia tosta dell'allora primo ministro. Alla fine delle operazioni aeree saranno gli stessi alleati a riconoscere che l'Italia era stata solo seconda - dopo gli Usa, ma prima della Francia e della Gran Bretagna - per numero di raid sulla Jugoslavia.

Una situazione analoga si è determinata anche nel 2011 con l'aggressione alla Libia, con una partecipazione italiana alla  guerra voluta in primo luogo da Napolitano, cioè da un altro esponente «democratico», oggi non casualmente insediato dalle oligarchie euro-atlantiche al Quirinale, in barba all'art. 11 della Costituzione e a tutto ciò che dovrebbe conseguirne.

La partecipazione degli Amx italiani ai ripetuti bombardamenti nella provincia di Farah, nell'Afghanistan sud-occidentale, di cui ha già parlato il Sole 24 Ore nei giorni scorsi, non può dunque stupire. Solo gli ipocriti amano le ipocrisie. Ce lo ricorda il generale Mini: «Bombardiamo con gli Amx? Se è per quello, gli elicotteri Mangusta possono fare ancora più male. Hanno fatto almeno 300 missioni. Proprio qualche settimana fa un collega mi ha parlato di un'operazione con 60 insorti uccisi. Non erano Amx ma elicotteri». (il manifesto, 15 luglio 2012)

La realtà della criminale guerra d'occupazione dell'Afghanistan è davanti a noi. Così pure il pieno coinvolgimento in essa dell'Italia. E' una guerra che non domerà la coraggiosa resistenza afghana, alla quale va tutto il nostro sostegno. Ma questa occupazione, che dura da 11 anni, è anche qualcosa di più, specie per un paese come l'Italia: è il segno dell'accettazione della «normalità» della guerra. Un altro segnale di un imbarbarimento crescente. Se così non fosse non potremmo avere i Monti, le Fornero, i Di Paola al governo.


Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Coord. Naz. per la Jugoslavia" 
Data: 16 luglio 2012 22.14.16 GMT+02.00
Oggetto: [JUGOINFO] Gli italiani bombardano anche in piena estate

 



Escalation militare italiana in Afghanistan: ma chi ne parla?


16 Luglio 2012

di Fausto Sorini, segreteria nazionale, responsabile esteri PdCI

“Dunque la guerra non va in vacanza, nemmeno per gli italiani – scrive Tommaso Di Francesco sul Manifesto di domenica 15 luglio. Ora è ufficiale: i nostri quattro cacciabombardieri Amx del 51esimo stormo dispiegati a Herat stanno bombardando a tappeto il nemico talebano”. 

La conferma ufficiale dell'escalation militare italiana in Afghanistan viene dalle dichiarazioni del generale Luigi Chiapperini, comandante del nostro contingente.

“Chi ha autorizzato l’entrata nella guerra aerea dell’Italia in Afghanistan? È stato il governo «tecnico», sostenuto da Pdl, Udc e Pd. E in particolare il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, il ministro che più tecnico non si può: è ammiraglio ed è stato comandante delle forze Nato. Lo stesso che in questi giorni muove lobby militar-industriali e schieramenti politici connessi per ottenere l’approvazione di ben 90 cacciabombardieri F-35, che ci costeranno 10 miliardi, nella finanziaria rivisitata dalla spending review, che taglia spese sociali, welfare e pensioni. Altro che conflitto d’interessi. È stato lui il 28 gennaio scorso, nel silenzio generale, a informare la Commissione difesa del parlamento della decisione di usare sul campo afghano «ogni possibilità degli assetti presenti in teatro, senza limitazione» armando gli Amx che fino a quel momento volavano senza bombe”.

Così dal 27 giugno i tremila soldati italiani impegnati a terra sono supportati dal cielo anche dagli Amx con armamento micidiale e sistemi sofisticati di precisione.

Ancora una volta è chiaro che l’Italia è in guerra, ma chi ne parla? Il Parlamento tace, non una sola voce critica si è levata. E all'Ammiraglio Di Paola è riuscito oggi, nel silenzio-assenso pressochè generale, quello che ieri non era riuscito al ministro Ignazio La Russa: che nel novembre del 2010 aveva proposto di armare gli aerei italiani in Afganistan, suscitando – all'epoca – una levata di scudi generale. Adesso nulla.

“I pantani di guerra in corso e quelli nuovi che si annunciano – scrive ancora De Francesco - aiutano le leadership occidentali a sostenere il «percorso di guerra» – parola di Monti – dentro la crisi del capitalismo globale, del loro modello di sviluppo. Perché sostengono la spesa militare e le caste collegate, stabiliscono gerarchie e irrobustiscono alleanze militari come la Nato, rendendole l’unico vero strumento attivo, criminale e «democratico», di intervento nella realtà”. 

Ora dal conflitto afghano tutti dichiarano di voler uscire (mentre si prepara la guerra alla Siria..), ma intanto l’obiettivo immediato delle forze NATO, Italia compresa, resta quello di vincere militarmente sul campo. Qualcuno dica che è ora di farla finita, qualcuno prenda la parola per le migliaia di civili straziati dalle bombe dei raid aerei ora anche «nostri».

Il PdCI denuncia l'escalation del coinvolgimento militare italiano nella guerra afghana, chiede il ritiro delle nostre truppe, invita tutte le forze di pace e fedeli al dettato costituzionale, dentro e fuori il Parlamento, a fare la loro parte e a non rendersi complici di questa ennesima barbarie ad utilizzare le risorse risparmiate per fronteggiare i problemi sociali più acuti, provocati dalla crisi capitalistica e da una politica governativa e dell'Unione europea che scarica il peso della crisi sulle spalle dei ceti popolari.





29 AGOSTO 2012

La Serbia oggi: intervista a Marko Knežević del Movimento dei Socialisti serbi

a cura di Francesco Delledonne e Alessio Arena

L’aggressione NATO contro la Serbia nel 1999 ha segnato profondamente la storia recente. Ha dato origine a un precedente da allora ampiamente sfruttato per perpetrare aggressioni imperialiste, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria. Condotta fuori da qualunque parvenza di legalità internazionale, quell’aggressione ha anche rappresentato uno dei momenti più drammatici dello smembramento della Jugoslavia da parte delle potenze atlantiche.

L’Italia ha svolto nell’intero processo di frantumazione dei Balcani e nella guerra del 1999 in particolare un ruolo di primo piano, partecipando all’occupazione del Kosovo e Metohija seguita alla fine dei bombardamenti e spalleggiando la proclamazione unilaterale d’indipendenza della provincia da parte albanese.

Per approfondire la situazione attuale e per contribuire a sviluppare una maggiore consapevolezza da parte degli italiani riguardo alle politiche imperialiste portate avanti dal nostro paese, abbiamo intervistato Marko Knežević, responsabile giovanile del Movimento dei Socialisti serbi (Pokret Socijalista) e dirigente del Comitato Centrale del Partito.

L’intervista, per la quale ringraziamo il compagno Knežević, vuole essere anche una manifestazione concreta di solidarietà nei confronti di un popolo che ha pagato a caro prezzo la sua fierezza e la resistenza all’imperialismo atlantico.

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Puoi descriverci a grandi linee la situazione socio-economica della Serbia in questo momento? Che impatto ha la crisi economica sulla popolazione? Quali tracce ha lasciato l’aggressione militare subita nel 1999 da parte della NATO? Qual è l’umore del popolo? Ci sono stati movimenti di massa di recente?

La situazione è difficile. Per dodici anni la Serbia è stata saccheggiata da politici corrotti e magnati, ma il nuovo governo di cui fa parte il Movimento dei Socialisti ha iniziato una lotta accanita contro il crimine organizzato e la corruzione. In Serbia ci sono molti disoccupati, i nostri giovani non hanno speranza e molti emigrano in cerca della felicità e di una vita migliore. Il compito del nostro Partito è di dare lavoro e di riportare in Patria i nostri giovani.

La Serbia è in crisi economica da ormai vent’anni: i primi dieci a causa delle sanzioni e gli ultimi a causa dei politici corrotti. Come ho detto prima, ci sono molti disoccupati e molte persone che vanno via, ma credo che il nuovo governo abbia avuto troppo poco tempo per cambiare le cose. La Serbia non è un Paese povero, abbiamo terra coltivabile e miniere, la ripresa del mio Paese è possibile.

La NATO ha distrutto il mio Paese, ha distrutto la nostra economia, le nostre infrastrutture e ha massacrato migliaia di civili innocenti, tra cui molti bambini. Le tracce dell’aggressione sono ancora grandi e profonde, la Serbia non si è ancora ripresa da quell’attacco barbaro. La NATO continua ancora oggi a uccidere il nostro popolo, a causa dell’uranio lasciato dalle bombe che ancora avvelena il Paese. C’è un numero rilevante di malati di cancro, causato direttamente dai bombardamenti. La Serbia non farà mai parte della NATO.

C’è stato un grande movimento di massa e una coalizione di partiti si è unita per vincere le elezioni. Ora la coalizione è al governo della Serbia e il nostro partito è orgoglioso di aver contribuito alla cacciata dei politicanti corrotti.

Quali elementi di novità e quali questioni si presentano con il ritorno del Partito Socialista alla guida del governo? Come si è evoluto quel partito dopo la caduta di Milosevic?

Il Partito Socialista Serbo è al governo dal 2008 quando era alleato con il Partito Democratico ed è sopravvissuto rinnegando pubblicamente Slobodan Milosevic. Il nostro partito non è in un’alleanza con i socialisti, ma attualmente siamo al governo insieme.

Quali sono i rapporti tra il Movimento Socialista e la coalizione di governo? Quali sono le responsabilità affidate al vostro partito in questo momento?

Noi prima delle elezioni abbiamo firmato un accordo di coalizione, di cui fa parte il Partito Progressista Serbo [del presidente Nikolić, N.d.R.].

Il Movimento dei Socialisti è responsabile per il Kosovo e Metohija. I serbi che vivono in quell’area hanno chiesto di essere rappresentati da Aleksandar Vulin, che è il presidente del nostro Partito. Non potevamo rifiutare la richiesta dei serbi del Kosovo e Metohija: il Movimento dei Socialisti è presente e radicato da anni nel Kosovo e Metohija ed è nostro dovere difendere e proteggere il popolo di questo territorio, che da secoli è abitato dai serbi.

Come si presenta la situazione in Kosovo in questo momento e qual è la posizione del partito su questa questione? Perché il Kosovo è cruciale nei piani della NATO per sottomettere la Serbia?

Un’informazione: quando si parla della provincia meridionale della Serbia, il termine Kosovo non è corretto, solo i terroristi la
chiamano così. Si dice Kosovo e Metohija. La situazione in Kosovo e Metohija è difficile: i serbi vengono quotidianamente picchiati e uccisi dagli albanesi, non hanno libertà di movimento e vivono costantemente nel terrore.

Ci si preoccupa molto del comportamento della cosiddetta “comunità internazionale”, che altro non è se non i responsabili del massacro a danno dei Serbi. Chiediamo che i negoziati tra Belgrado e Pristina siano garantiti dall’ONU e basati sulla risoluzione n.1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Su questa questione ci basiamo sulla Costituzione della Repubblica di Serbia e sulla risoluzione n.1244: la situazione è molto chiara, la Serbia non riconoscerà mai la formazione terrorista chiamata “Repubblica del Kosovo”. Possiamo negoziare su ogni tipo di problema, ma quello dell’indipendenza è fuori questione.

Il sistema schiavistico è attualmente molto in voga, dal sistema bancario fino allo sfruttamento dei lavoratori. In Kosovo e Metohija è avvenuta una vera e propria rapina: politici e generali della NATO hanno privatizzato aziende e miniere serbe, naturalmente senza chiedere nulla ai serbi stessi. C’è inoltre l’aspetto militare della collocazione geografica del Kosovo e Metohija da non dimenticare, e ogni sorta di altri elementi. Ma oggi, finalmente, la Serbia ha un governo che lavora per gli interessi dei suoi cittadini e non per la NATO.

In che modo operano le forze militari italiane presenti nel Kosovo? In quali altri modi agisce l’Italia in quel contesto?

È difficile per me rispondere a questa domanda, perché rispetto il popolo italiano, ma non si può nascondere la verità. Il popolo italiano è buono e pacifico, ma le azioni dell’ignobile governo italiano, con i soldati italiani che in Kosovo e Metohija partecipano con i terroristi albanesi negli abusi verso i serbi, porta dolore e paura al mio popolo.

Recente è anche la separazione tra Serbia e Montenegro. L’Italia ha beneficiato fortemente della secessione, mettendo le mani su gran parte dell’economia montenegrina. Sai dirci qualcosa in proposito?

La Serbia e il Montenegro si sono separati pacificamente. L’unica cosa essenziale è che non vengano violati i diritti umani della comunità serba in Montenegro e che si sviluppino dei buoni rapporti.

Per finire, alcune domande sul vostro partito. Quando è stato fondato? Quali sono i suoi principi ispiratori e i suoi obiettivi?

Il Movimento dei Socialisti (Pokret socijalista, PS) è stato fondato nel 2008, come un tentativo di mostrare responsabilità nei confronti delle prossime generazioni. La nostra esistenza è basata sul marxismo. Siamo contro la globalizzazione, vediamo il futuro del mondo come un’unione di nazioni libere. L’obiettivo finale del nostro Partito è di creare felicità e libertà individuale e collettiva per il nostro popolo. È il fine della nostra azione politica. Il partito è stato fondato da Aleksandar Vulin e da Mihailo Marković. Potete trovare più informazioni sul nostro sito [http://www.pokretsocijalista.org/], la nostra pagina facebook e sul nostro profilo Youtube.

Come si pone il vostro partito riguardo alla prospettiva dell’adesione della Serbia all’UE?

Prendere impegni con l’Unione Europea non è necessariamente un’azione contro la Serbia, ma prima di tutto l’UE deve iniziare a rispettare la Repubblica di Serbia. I negoziati devono avvenire in entrambe le direzioni. Ora non avviene più come durante il governo precedente, in cui venivano accettate tutte le pretese dell’UE. Bisogna discutere sulle questioni concrete e l’integrità territoriale della Serbia deve essere rispettata. Il popolo serbo non ha fiducia dell’Unione Europea, e con buone ragioni. Non siamo contro il dialogo, ma esso deve basarsi sul rispetto reciproco.

Come valuta il vostro partito l’esperienza storica del socialismo jugoslavo? Che giudizio date del ruolo di Milosevic nella difesa della Serbia e della sua economia pianificata dall’imperialismo? Quali sono stati i suoi errori?

Il socialismo jugoslavo è stato positivo per il popolo, ma ha ceduto di fronte agli attacchi delle attitudini nazionaliste. Come conseguenza di ciò, è scoppiata la guerra.

Il mio Partito non ha a che fare con Slobodan Milosevic, ma lo rispetto come un vero combattente contro la globalizzazione e l’imperialismo. Il suo unico errore è stato di difendere i serbi. Quello che ho detto verrà capito solo dai serbi, non mi aspetto che voi capiate.

In che modo dovrebbero muoversi gli italiani progressisti, a tuo avviso, per sanare la ferita inferta all’amicizia tra i nostri popoli dall’aggressione del 1999 e da quanto ne è seguito?

Sì, l’Italia ha giocato un ruolo cruciale nel bombardamento del mio Paese. I serbi vengono ancora oggi discriminati pesantemente, derubati della loro tradizione culturale in Kosovo e Metohija. Siamo una nazione che sembra non abbia il diritto di vivere. Ma, come ho già detto, i serbi non odiano l’Italia. Dovete trasmettere questo messaggio a tutti in Italia: il governo italiano deve ritirare le truppe dal Kosovo e Metohija e smettere di recare danno al nostro popolo. Basterà dire al vostro popolo la verità riguardo a quanto successo in Serbia. Vi ringrazio a nome del mio popolo per questa intervista.





ONORANZE USA-E-GETTA


LACOTA (UNIONE ISTRIANI): "REVOCARE ONORIFICENZA A TITO"

IL MARESCIALLO ERA STATO NOMINATO CAV. GRAN CROCE NEL 1969 (ANSA) - TRIESTE, 27 AGO - Dopo la decisione del governo di chiedere al Quirinale la revoca, per indegnita', dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce conferita nel 2011 da Giorgio Napolitano al presidente siriano Bashar al-Assad, l'Unione degli Istriani scrive al Governo Monti chiedendo che ''la stessa onorificenza venga tolta al maresciallo Tito, i cui crimini contro centinaia di migliaia di italiani, tedeschi, ungheresi, e di varie nazionalita' jugoslave, sono stati definitivamente acclarati e condannati''. L'onorificenza era stata concessa al maresciallo Tito nel 1969 dall'allora presidente della repubblica Giuseppe Saragat. ''Non e' accettabile, non puo' esserlo per nessun motivo - afferma in una nota il presidente Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota - che lo Stato onori contemporaneamente le vittime di una bestiale pulizia etnica, come quella subita dai giuliano-dalmati, e il persecutore che la mise in pratica: un simile atteggiamento tradisce la moralita' dello Stato''. Il Presidente dell'Unione degli Istriani chiedera' un incontro con il sottosegretario Staffan De Mistura, affinche' ''non si debba trascorrere un altro 10 Febbraio, Giorno del Ricordo, con ancora in piedi una simile, disumana situazione''. (ANSA). 27-AGO-12 17:11 


LACOTA (UNIONE ISTRIANI): "SONO L'UNICO ITALIANO CHE HAIDER HA INVITATO A PRANZO"


Stralcio da Ansa del 12 ottobre 2008: "Non solo la Carinzia e l'Austria, ma l'intera Europa perde un leader politico di grande intuito e carisma, certamente populista ma in senso positivo": lo ha affermato il presidente dell'Unione degli Istriani, Massimiliano Lacota, a proposito della morte di Joerg Haider. Lacota - informa una nota - aveva pranzato ieri a Klagenfurt con Haider." 
 
Stralcio da "Il Piccolo" del 13 ottobre 2008: «Sono l’unico italiano che Haider ha salutato dal palco, venerdì mattina, nella piazza gremita di Klagenfurt. E l’unico che ha invitato a pranzo» ricorda Lacota. E spiega: «Il governatore mi aveva ufficialmente invitato a partecipare ai festeggiamenti nella piazza del Landhof in occasione della ricorrenza del 10 ottobre, assai sentita in Carinzia». Detto, fatto: «C’era un sacco di gente e Haider era molto soddisfatto. Si è presentato in abiti tradizionali con la madre a braccetto, arrivata in Carinzia dall’Alta Austria, nonostante camminasse un po’ a fatica, con l’aiuto dei bastoni».
L’occasione, del resto, era speciale: la madre Dorothea compiva novant’anni e Haider voleva festeggiarla, insieme a tutta la famiglia, nella tenuta del Baerental. Venerdì notte, quando si è schiantato con la sua auto, stava tornando a casa proprio in vista del «raduno» del giorno dopo, cui non sarebbe mancata la figlia Ulriche che vive a Roma ed è sposata con un italiano. «Haider, quando ci siamo visti in piazza, mi ha presentato la madre che non avevo mai conosciuto prima» continua, intanto, Lacota. Poi, si sono rivisti tutti a pranzo e il presidente dell’Unione degli istriani racconta di un governatore come sempre iperattivo. Impegnato in un valzer frenetico di saluti e telefonate. «Ci siamo lasciati attorno alle 15 dopo aver messo insieme una serie di iniziative comuni. La prima - continua Lacota - doveva tenersi già il 18 ottobre, a Klagenfurt, quando ci saremmo rivisti in occasione della firma di un protocollo di collaborazione tra l’Unione degli istriani e le associazioni patriottiche di Carinzia». 





LADRI DI LAMPADE



Il presidente della Lega nazionale di Trieste, avvocato Paolo Sardos Albertini, ha denunciato che nella notte tra il 19 e il 20 agosto sarebbe stata asportata la “lampada votiva” collocata sul cippo realizzato da Tristano Alberti che riproduce lo spaccato della “foiba” di Basovizza, nell’area del monumento nazionale.
Non è la prima volta che questa lampada viene rubata. Fu donata nel 1961 da una non meglio identificata Opera Mondiale delle Lampade della Fraternità (cui aderirebbero, stando a quanto scritto in un opuscolo diffuso nel 1959, “le 32 maggiori Associazioni combattentistiche e d’Arma italiane, nonché le Associazioni Combattentistiche qualificate di 19 nazioni”; nel 1957 San Benedetto fu nominato da papa Pio XII patrono degli speleologi e protettore della pace, ed ogni anno si trovano sulla sua tomba, al monastero di Montecassino, “vincitori e vinti dell’ultima guerra” per accendere assieme una “lampada della fraternità”) sotto il patrocinio della quale si svolse il 2/11/59 la prima cerimonia a Basovizza, dove era stata da poco chiusa l’imboccatura dell’ex pozzo minerario.
La lampada fu posta assieme al cippo con lo spaccato della “foiba” e benedetta da padre Flaminio Rocchi.

Quanto segue è ricostruito attraverso la stampa dell’epoca e la cronologia di “Nazionalismo e neofascismo al confine orientale” pubblicato a Trieste dall’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel 1975.
Il 7/1/62 la lampada votiva fu “asportata con il favore delle tenebre”; le indagini dei Carabinieri portarono qualche mese (8 aprile) dopo al ritrovamento di essa, assieme ad alcune lettere bronzee asportate anch’esse dal cippo di Basovizza nelle abitazioni di Armando Turco e di un certo P. N., di cui non si hanno altri dati (forse era minorenne all’epoca dei fatti).
I due non erano però nostalgici “slavo comunisti”, anzi: facevano parte di un gruppo speleologico legato all’estrema destra, il GEST (Gruppo Escursionisti Speleologi Triestini), e furono scoperti in seguito alle indagini per un attentato incendiario ai danni dell’abitazione del professor Carlo Schiffrer (socialista, già esponente del CLN giuliano), nel corso del quale era rimasta ferita la suocera novantenne.
L’attentato era stato rivendicato dal MIN (Movimento Italiano Nazionale) ed i responsabili identificati in un altro speleologo del GEST, Ugo Fabbri ed i futuri attivisti di Avanguardia nazionale e Ordine nuovo Manlio Portolan e Claudio Bressan, che poi saliranno agli “onori” delle cronache per le indagini in cui furono coinvolti relativamente alla “strategia della tensione”.
Il MIN era comparso a Trieste all’inizio del 1959 con alcuni volantini incitanti alla difesa contro “l’avanzata delle orde slave” a “qualsiasi costo e qualsiasi mezzo”; tra le loro azioni ricordiamo oltre all’attentato a Schiffrer, lanci di bombe contro una sede del PCI e contro una torretta confinaria jugoslava, un attentato al consolato austriaco di Trieste (11/4/59), ed un lancio di volantini contro il bilinguismo corredati da una bomba carta all’interno dell’aula del consiglio comunale di Trieste, bomba che ustionò, ironia della sorte, la consigliera missina Ida De Vecchi (tanto per restare in tema, Fabbri asserì che sarebbe stato incaricato proprio da lei, che negli anni ’60 presiedeva l’Associazione caduti e dispersi della RSI, di partecipare al “recupero delle salme degli infoibati”).
Per questo lancio furono identificati Fabbri e Giuseppe Baldo, ma Fabbri avrebbe poi addossato a Turco, dopo il suicidio del giovane avvenuto il 14 aprile, “le maggiori responsabilità” relativamente agli attentati sopra descritti.
Ciò che colpisce come coincidenza nell’attività del MIN e del GEST è che siano stati proprio loro attivisti (tra l’altro due speleologi del GEST avrebbero compiuto un’esplorazione nel Pozzo della miniera di Basovizza proprio poco prima che venisse chiuso con la lapide) ad asportare la lampada votiva dalla “foiba” di Basovizza, a lanciare una bomba carta contro Ida De Vecchi, che era una delle persone ad affermare di essere state “testimoni oculari” degli “infoibamenti” di Basovizza (la signora De Vecchi in quei giorni si trovava prigioniera a Gorizia, quindi non è attendibile) ed a compiere un attentato a Schiffrer, che fu uno dei membri del CLN che avevano smentito di avere firmato un documento riguardante i presunti massacri di Basovizza. Tutto legato a quella foiba, dunque?

Chiuse le indagini, la lampada votiva fu ricollocata al suo posto nel cippo di Alberti, ed a distanza di 50 anni (quasi un anniversario…) è stata nuovamente rubata.
Da chi, stavolta? Dagli stessi che hanno anche imbrattato il cippo della foiba 149 di Monrupino, con una scritta in sloveno? Strana scritta, fatta con una mascherina ed uno spray; “prontamente” cancellata da anonimi ma segnalata con una foto in alcuni comunicati del Comitato 10 febbraio e del Movimento Irredentista Italiano (MII), che hanno poi fatto una commemorazione assieme ad un’associazione di Alpini il 21 agosto.
Nel comunicato diffuso il giorno successivo, il Comitato 10 febbraio parlò di un nuovo imbrattamento avvenuto subito dopo la pulizia del cippo, inviando una foto nella quale si vede il cippo imbrattato di vernice nera con la scritta Ozna, e così descritto:
“A distanza di poche ore dall’esser ripulita dalle scritte rosse in sloveno trovate il giorno 15 agosto, viene nuovamente imbrattata, completamente, di nero e con esplicita sigla di ben noto apparato repressivo titino, evidentemente ancora esistente”.
(in http://www.triesteprima.it/trieste/44-cronaca/5608-comitato-10-febbraio-qsui-danneggiamenti-dei-monumenti-ai-martiri-delle-foibe-non-bisogna-stare-in-silenzioq.html)
Che l’Ozna sia ancora esistente è un’affermazione talmente grottesca da non meritare altri commenti, ma dobbiamo osservare che la foto è una vecchia foto del 2006, che si riferisce ad un altro imbrattamento. Che non si sia trattato di un errore di invio di foto ma di una bufala vera e propria (per non parlare di diffusione di notizie false atte a turbare la pacifica convivenza) appare chiaramente dal comunicato diffuso dal MII il 23 agosto, nel quale si legge anche:
“Vogliamo inoltre smentire le notizie circolate in questi giorni di un nuovo danneggiamento al monumento alla foiba di Monrupino. In rete e sui giornali sono state diffuse le foto del vilipendio del 2003 (sic), quando con della vernice nera venne imbrattato il monumento con falce, martello, stella di rito e la scritta OZNA. Gli organi di stampa si sono confusi, dando modo ai soliti ignoti di strumentalizzare le denunce precedenti”.
(in http://movimentoirredentistaitaliano.wordpress.com/2012/08/23/il-monumento-di-monrupino-torna-a-brillare/)
Ma qui non si sono confusi gli organi di stampa, è stato il Comitato 10 febbraio ad inviare la notizia e la foto sbagliate.
Perché tutta questa confusione? O dovremmo definirlo un “gioco sporco”?
Aggiungiamo una curiosa coincidenza: il MII parla anche di alcune “lettere della scritta situata alla base della croce, divelte in gran numero” che non si è potuto ancora ripristinare. Ricordate che anche nel 1962 erano state trovate in casa dei membri del MIN alcune “lettere” divelte dal cippo di Basovizza?

Torniamo all’imbrattamento dell’ottobre 2006, intorno al quale pure fu fatta confusione, dato che i primi comunicati dicevano che era stata imbrattata la “foiba” di Basovizza, e di essa aveva parlato in consiglio comunale l’allora assessore Paris Lippi (di antica storia missina); mentre in realtà l’imbrattamento era avvenuto alla 149, ed interrogato in merito Lippi aveva serenamente risposto “erroneamente è stata riportata la foiba di Basovizza come monumento lordato dai barbari incivili inneggianti al comunismo, al posto della foiba 149. Il succo non cambia”.
Nel frattempo, però, per diversi giorni sulla stampa locale e regionale erano apparsi svariati interventi e prese di posizione dal tenore revanscista e razzista, come se per un imbrattamento, per quanto possa essere considerato un atto deprecabile, fosse giusto criminalizzare un’intera classe politica ed un intero popolo (nella fattispecie gli antifascisti e gli sloveni, accusati in toto di essere i responsabili di tale azione).
Quindi, come al solito di fronte a certi eventi, non possiamo fare a meno di ricordare quei vecchi adagi di saggezza popolare, dal cui prodest? al la prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo…

Claudia Cernigoi

Agosto 2012





In merito alla inveterata leggenda dei rom che rapiscono i bambini, e sui pogrom che dal 2008 si susseguono in Italia contro i campi rom, si vedano tutti i link da noi raccolti:


In particolare sulla montatura razzista e camorrista contro Angelika, del campo rom di Ponticelli successivamente devastato da un'orda di italiani razzisti, ricordiamo:

Italia, i media fomentano pogrom contro i rom. Opera nomadi: i rom rubano i bambini? Non esistono prove

Il caso di Angelica, ragazza Rom accusata del tentato rapimento di una bambina di sei mesi avvenuto a Napoli, nel quartiere Ponticelli, è una montatura
http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o11920http://www.everyonegroup.com/it/EveryOne/MainPage/Entries/2008/5/18_Follia_antizigana_in_Italia._EveryOne_sul_rapimento_di_Napoli.html

La documentazione video raccolta dalla equipe di Riccardo Iacona per il programma Presa Diretta:
Caccia agli zingari (in onda domenica 22 febbraio 2009 alle 21.30, Durata: 01h 35' 16'') 
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-4a7c8533-7b4a-43c1-882e-b430d6cabfe1.html?p=0

Una lettera-appello di Elisabetta Vivaldi (pubblicata su http://www.sivola.net/
contro la persecuzione giudiziaria di Angelika, ingiustamente accusata del falso rapimento della bimba di Ponticelli (NA), corredata da ottime fonti

La vincita al lotto che bruciò i campi rom di Ponticelli

Su altri pogrom a Ponticelli, di matrice camorristica, si veda la notizia recente (10 luglio 2012):

Clan Casella-Circone bruciò un campo rom per odio razziale [nel 2012]: 18 arresti

Video: Napoli, rogo al campo nomadi: arrestati 18 presunti camorristi


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14/08/2012 
Fonte: il mattino 
Autore: leandro del gaudio

"Sono Rom, ma non ladra di bambini la mia verità sui roghi di Ponticelli". Angelica libera 4 anni dopo


Il suo nome è entrato negli annali come esempio - più unico che raro - di cittadina rom condannata per sequestro di persona. Si chiama Angelica Varga, sta per compiere venti anni, gli ultimi quattro trascorsi in cella: una vicenda personale legata a un pezzo di storia di Napoli, con tanto di attenzione mediatica nazionale.
Ricordate? Metà maggio del 2008, sabato mattina, una stradina di Ponticelli. Poi: la ragazzina arrestata per sequestro di persona, la rabbia popolare, l’espulsione di oltre ottocento rom dal quartiere orientale. E ancora: un giudice che non scarcera Angelica, perché di «etnia rom», quindi incline a compiere delitti analoghi», la sentenza definitiva e il suo caso diventa un primato da giurisprudenza: una ladra di bambini, l’incubo metropolitano messo su carta bollata, con tanto di firma di un giudice.

Un caso chiuso. Quattro anni e mezzo dopo, Angelica si racconta. È stata scarcerata da poco, proprio negli stessi giorni in cui a Ponticelli venivano arrestati alcuni presunti camorristi che «con odio razziale» incendiavano i campi rom (storia del 2010) per impedire che i piccoli zingari frequentassero le scuole del quartiere. Storie simili, anche secondo Angelica Varga, che su una panchina del centro di Napoli si racconta: «Desidero cose elementari: la verità, poi un lavoro qui a Napoli, una famiglia, l’integrazione. Ma anche una cultura dell’integrazione a Napoli, che - come la mia storia insegna - non esiste ancora».

C’è una sentenza, una verità giudiziaria, lei ha rapito una bambina in fasce, punto. Qual è la sua versione?
«Ero a Napoli da un mese e mezzo, ero da poco arrivata da Bistrita (Transilvania, Romania), la mia città natale. La mattina uscivo con una mia amica di poco più grande, che faceva piccoli sbagli. Mi portò con lei in una casa, voleva rubare qualche oggetto di valore. Facemmo appena in tempo a salire una rampa di scale, che venimmo bloccati da un uomo. La mia compagna riuscì a scappare, io finii in cella. Non parlavo italiano, ma ero tranquilla, mi dicevo: non ho portato via niente, ora mi rilasciano. Invece, quindici giorni di cella e ho capito: sequestro di persona, rapimento, stavo impazzendo».

Eppure, lei in quella stanza ci è entrata. Ha accarezzato quella bimba nel carrozzino, l’ha abbracciata?
«Mai. Non l’ho neppure vista quella bambina. Non siamo entrate in casa, non ci riuscimmo. Facemmo appena in tempo a salire una rampa di scale che fummo bloccate, la mia compagna scappò via, io rimasi lì senza immaginare cosa mi sarebbe toccato vivere».

Poi, mentre lei era in cella, a Ponticelli è scoppiato il finimondo: un quartiere in fiamme, raid incendiari, un popolo in fuga. Venne a sapere cosa stava accadendo?
«Lo seppi in cella, me lo dissero le altre ragazze, che provavano a sostenermi. È stato orribile e assurdo. Sono stati espulsi tutti, in una notte è stato spezzato il progetto di integrazione che tante famiglie avevano intrapreso. Non c’erano solo ladri in quegli accampamenti, ma anche ragazzi che andavano a scuola, c’era mio fratello, i miei parenti: via tutti, dalla notte al giorno. Hanno trovato una scusa orribile per cacciarci, per allontanarci. E io sono stata quattro anni e mezzo in cella».

Un mese fa sono stati arrestati alcuni presunti camorristi di Ponticelli: per «odio razziale» hanno scatenato incendi nel 2010, non volevano gli zingari a scuola dei loro figli.
«Conosco questa storia. Credo sia molto simile alla mia, perché al di là dell’episodio che mi ha visto condannata, credo che qualcuno abbia soffiato sul fuoco, credo che qualcuno aspettasse un pretesto - come il rapimento di un bambino - per scatenare la guerriglia contro di noi».

Ripetiamo: per i giudici lei è responsabile di quel rapimento, la sentenza è definitiva, se potesse incontrare la mamma della bimba rapita per pochi minuti, cosa le direbbe?
«Nutro ancora troppa rabbia per quello che mi è successo, voglio guardare avanti, niente polveroni polemici».

Cosa fa da quando è libera?
«Voglio ringraziare i miei legali, gli avvocati Liana Nesta e Cristian Valle che hanno creduto in me e hanno provato a difendermi anche contro i pregiudizi. Ho trovato attorno a me tanta solidarietà, ora provo a ripartire. Ho vent’anni, vorrei un lavoro (so fare la parrucchiera), una vita normale da cittadina napoletana. Nel frattempo, quando posso, faccio anche un po’ di volontariato».

In che senso?
«Parlo bene italiano, spesso mi reco in alcuni campi rom dell’hinterland assieme ad altri volontari, dove cerco di svolgere un ruolo in un più ampio progetto di integrazione».

È andata anche a Ponticelli?
«No, lì non sono mai tornata. Mi fa troppo male rivedere quei posti, per anni ho rivissuto dentro di me quella scena, quel cancello che si apre, gli scalini, l’uomo che mi afferra il braccio, qualcuno che mi chiede di firmare carte che ho fatto bene a non firmare: perché io quella piccola nel carrozzino, non l’ho neppure vista una volta in vita mia».


Fonti: 





A Teheran i Non Allineati, a Washington il progetto di scudo missilistico anti-cinese

24 Agosto 2012 - di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it


Contrariamente a quanto si pensi non esiste una sola “comunità internazionale” limitata alla voce della Nato e dei suoi alleati d'occasione. C'è n'è un'altra che non appartiene a blocchi e che ha posizioni diverse e anche critiche nei confronti dell'Occidente. Quest'ultima, comunque composita e varia negli orientamenti, si è data appuntamento a Teheran dal 26 al 31 agosto per il 16° vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati (NAM).

L'organizzazione internazionale, che ha come scopo originario quello di riunire i Paesi che non si riconoscono all'interno dei blocchi militari, è sorta in pieno processo di decolonizzazione in Africa e Asia per iniziativa di Tito, Nasser e Nehru e tenne il suo primo vertice a Belgrado nel 1961 ribadendo i principi alla base della storica conferenza di Bandung del 1955: lotta al colonialismo e al neocolonialismo, rispetto della sovranità nazionale e delle autonome vie di sviluppo.
Allora ad incontrarsi furono i rappresentanti di 25 Paesi, mentre nei prossimi giorni nella capitale iraniana dovrebbero arrivarne in rappresentanza di 120 (ma restano ancora dubbi sulla presenta di alcune delegazioni) provenienti da Asia, Africa e America Latina. Su un totale di 193 Stati rappresentati all'Onu, quello che si riunisce a Teheran è certo un blocco consistente di comunità internazionale e che rappresenta la maggioranza, o poco meno, della popolazione mondiale.

L'attesa è, però, per l'arrivo dell'egiziano Morsi, per la prima visita di un presidente egiziano in Iran dal 1979 dopo la proclamazione della repubblica islamica, e del segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon

L'Egitto lascerà, come da rotazione prevista, proprio all'Iran la presidenza triennale del Nam per i prossimi tre anni. L'incarico era in precedenza passato dalle mani di Hosni Mubarak, spodestato dalle rivolte popolari e dal pronunciamento dell'esercito egiziano, a quelle del feldmaresciallo Tantawi, recentemente accantonato proprio da Morsi.

Preoccupazioni e inviti al dietro-front per la partecipazione di Ban Ki-moon sono arrivati da Washington e da Tel Aviv. Per il Washington Post il vertice sarà pure un “baccanale di sciocchezze”, ma nelle due capitali è vivo il timore che questa presenza serva solo a forgiare una vittoria diplomatica della repubblica islamica.

La presidenza iraniana potrebbe coincidere con una svolta più radicale e attiva dell'organizzazione anche perché avviene in piena esplosione della crisi siriana con Teheran, tradizionale e solida alleata di Damasco, impegnata su più fronti nella critica all'intervento straniero.

Da Washington, per bocca del portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, viene proprio l'allarme sull'intenzione iraniana di “manipolare” a suo beneficio il vertice, soprattutto per quanto riguarda la sua agenda nucleare e l'embargo petrolifero ai suoi danni. Nel vertice dell'Avana del 2006 fu, infatti, approvata una mozione a sostegno del diritto di ogni Stato allo sviluppo pacifico dell'energia nucleare. E' comunque da escludersi che si formi un consenso unanime, mentre è più probabile che, proprio in riferimento ai fatti siriani, si formi un generico consenso sulla necessità del dialogo tra governo e opposizione in linea con la filosofia originaria del movimento. Resta la certezza che il vertice rappresenta per l'Iran una straordinaria opportunità di uscire dall'isolamento e allentare una pressione che si fa sempre più forte.

Per Farideh Farhi, studioso iraniano dell'Università delle Hawaii, lo sforzo messo in campo da Teheran per il vertice ha lo scopo “di presentare il ruolo globale dell'Iran e mostrare con prove concrete che la politica di isolamento degli Usa nei confronti dell'Iran ha fallito” e di dimostrate come “non sia la comunità internazionale che ha problemi con l'Iran, ma solo una coalizione messa sotto pressione degli Stati Uniti" [1].

E' già allo studio un documento composto da 688 dichiarazioni e 166 pagine, mentre durante il consesso saranno al lavoro il Comitato politico, diretto da Cuba, il Comitato economico, diretto dall'Egitto e il Comitato per la Palestina diretto da rappresentanti palestinesi.

Dal fronte caldo mediorientale, passiamo a quelle sempre più ribollente dell'Asia Orientale. Nell'attesa che il vertice Nam prenda il via, Washington prosegue a passo spedito nel suo riposizionamento strategico intorno alla Cina. Secondo le rivelazioni del Wall Strett Journal, sarebbe iniziata la pianificazione di uno scudo missilistico asiatico ufficialmente in funzione anti-Corea del Nord, ma che ha indubbi fini di contenimento della crescente forza militare cinese, testimoniata –sempre agli occhi del Pentagono – da una crescente assertività nelle dispute marittime con i vicini.

Il progetto prevede la messa in azione di un radar nel sud del Giappone – ma non a Okinawa dove sono forti le tensioni con la popolazione locale – e un secondo in un Paese del sud est del Pacifico e un terzo nelle Filippine. Inoltre, secondo i progetti della Marina, la flotta di navi da guerra con missili balistici dovrebbe passare dalle 26 di oggi alle 36 nel 2018. Secondo un alto funzionario statunitense “le nuove installazioni di difesa missilistica sarebbero in grado di monitorare e respingere almeno un primo colpo limitato proveniente dalla Cina, e sarebbe potenzialmente sufficiente a scoraggiare Pechino dal tentare un attacco" [2]. E' chiaro che oggetto dell'eventuale attacco cinese sarebbe l'isola di Taiwan.

I timori di Pechino per un prossimo inizio di guerra fredda prendono sempre più corpo.

Diego Bertozzi

NOTE

Rick Gladstone, “UN visits will set back a push to isolate Iran”, New York Times, 22 agosto 2012.
Wall Street Journal, “US plans new Asia Missile Defenses”, 23 agosto 2012.




Italian right wing honours fascist war criminal


By Marianne Arens 
22 August 2012


On August 11, an ominous ceremony was held with great pomp in the small town of Affile, east of Rome. The ceremony commemorated the erection of a mausoleum for fascist war criminal Field Marshal Rodolfo Graziani (1882-1955) in the town’s Radimonte Park.

About 100 participants took part, led by the priest Don Ennio Innocenti Sakrarium, who consecrated the mausoleum. Alongside giant Italian tricolours hung flags from Giovine Italia, the youth organisation of the People of Freedom (PDL) of former Italian premier Silvio Berlusconi.

The mayor of Affile, Ercole Viri (PDL), declared that the monument, engraved with the words “fatherland” and “honour”, was “of national importance”. The regional transport minister, Francesco Lollobridgida (also PDL), praised Graziani: “We have always loved him.”

The construction of the mausoleum and the expansion of the park cost no less than 180 million euros—the monument alone cost €127 million—monies paid by the taxpayers of a region marked by unemployment and poverty.

Who is Rodolfo Graziani?

Graziani is a legally convicted war criminal. On behalf of the fascist dictator Benito Mussolini, he commanded Italy’s wars of conquest in North and East Africa, in which nearly half a million people were killed.

Fascist Italy sought to brutally subjugate the African colonies of Cyrenaica and Tripolitania (now Libya), as well as Abyssinia (now Ethiopia) and Somaliland. Libya had already been conquered by Italy in the Italian-Turkish War of 1911.

Mussolini gave the generals a free hand for crimes of genocidal proportions. The Italian air force bombed the civilian population, dropped poison gas over oases and vital water supplies, and shot columns of refugees from the air. Italian ground forces launched raids, massacres and executions to force the surrender of Libyan resistance fighters and their leader, Omar al-Mukhtar. Graziani was the commander of the Italian troops and governor of Cyrenaica.

In the summer of 1930, Graziani resettled hundreds of thousands of inhabitants of Cyrenaica to the desert where they were exposed to the scorching sun, thirst, starvation, exhaustion and disease. Half of these people died within three years. In Fezzan, a desert region in southern Libya, he personally ordered the murder of Omar al-Mukhtar by hanging, earning the nickname “the Butcher of Fezzan”.

His crimes were compounded in Abyssinia, now Ethiopia. Italian troops invaded the country on October 3, 1935. Graziani led the invasion along with Marshal Pietro Badoglio, and in May 1936 was appointed viceroy of Italian East Africa. For the first time in modern history, Italian troops systematically employed weapons of mass destruction, including bombs and chemical weapons, against civilians.

Following persistent resistance and an assassination attempt against him, Graziani personally gave the order on February 19, 1937, for a wave of bloody repression that went down in history as “Yekatit 12,” based on the date in the Ethiopian calendar. During the pogroms, Italian troops massacred up to 30,000 civilian residents of Addis Ababa. Graziani laid waste to entire villages and dispatched large numbers of victims to concentration camps. His notorious dictum from this period was “The Duce will get Ethiopia, with or without the Ethiopians.”

During World War II, the Italian army under Graziani was defeated in North Africa by British troops, and Graziani was relieved of his duties. As the end of the war neared, he took over command of forces of the fascist “Social Republic of Salò”, Mussolini’s last territory in northern Italy. Together with the German general Kesselring, Graziani led the fascist “final battle” until forced to capitulate in 1945.

In 1948, he was convicted of war crimes and sentenced to 19 years in prison. He was released after just 2 years. Although fascism was officially banned in post-war Italy, the neo-fascist Movimento Sociale Italiano (MSI) named him its honorary chairman. He died in Rome in 1955.

This latest, macabre ceremony by prominent leaders of the PDL in Affile left many political observers dumbstruck. David Willey, Italian correspondent of the BBC, expressed his surprise to find “that the cult surrounding Fascist heroes has been kept alive in some parts of Italy, even though the fascist party was banned by the country’s post war constitution.”

In fact, the ceremony in honour of Graziani is by no means unique. Just a few months ago, the same local community erected a bronze bust of Giorgio Almirante, founder and leader of the neo-fascist post-war MSI. Almirante was editor in fascist Italy of the racist, anti-Semitic paper Difesa della Razza(Defense of the Breed).

In his 2010 book “Viva Mussolini!”—the rise of fascism in Berlusconi’s Italy, author Aram Mattioli cites numerous examples of the “trivialisation of fascism by centre-right circles”.

In 1994, media mogul Silvio Berlusconi became prime minister, following a wave of corruption scandals (“Tangentopoli”) involving all the republic’s major post-war parties. One of his first acts was to appoint former MSI leader Gianfranco Fini as minister. For the first time since the end of World War II, a neo-fascist minister sat in the cabinet of a European government.

Since then, the Italian right has systematically worked to rehabilitate “good fascists”, arguing that their activities in the war were on a par with those of members of the Resistance.

At the same time, research into Italy’s fascist past is systematically boycotted. The film Omar Mukhtar—Lion of the Desert (1979), starring Anthony Quinn in the title role and Rod Steiger as Mussolini, was denied a distribution licence until the visit to Italy of former Libyan leader Gaddafi in 2009. The BBC documentary “Fascist Legacy” (1989) by Ken Kirby has still not been shown on television in Italy, although an Italian version has existeed since 1992.

In his book, Mattioli concludes: “In less than twenty years, Silvio Berlusconi changed Italy so drastically that the founding fathers of the post-war republic would have hardly recognised the country.” He warns of the “political and ideological abuse of history” which “is a threat to civilised coexistence.”

How is it possible for fascist thugs in Italy to be honoured with impunity in such a way? Two factors should be mentioned in this context.

First, fascism in Italy has never been really overcome, not even at the end of World War II. A thorough coming to grips with fascist crimes, both legally and ideologically, was stymied by Stalinism, embodied in the former Italian Communist Party (CPI).

The PCI played a leading role in the guerrilla war against fascism and had a mass following among workers. Workers assumed that the collapse of fascism would be accompanied by the overthrow of capitalism and socialist revolution. At the end of the war, the PCI rapidly betrayed these expectations.

According to the Stalinist maxim of “peaceful coexistence with capitalism,” the PCI in late 1944 entered the “national unity government” led by Marshal Pietro Badoglio, who had led the Italian campaign in Ethiopia alongside Graziani. He had changed sides after the victory of the Allies in southern Italy in 1943.

PCI leader Palmiro Togliatti was made minister of justice in the civil war government and in this function headed off the revolutionary struggles of Fiat workers in Turin and saved the capitalist state. In June 1946, he personally organised a general amnesty for fascist crimes, thereby preventing any political settlement before it had begun.

After it had somewhat stabilised its rule, the Italian bourgeoisie lined up with the Western powers and tossed the PCI out of government in May 1947. Today, the successor parties to the PCI—the Democratic Party (PD) and the successor organisations of Rifondazione Comunista (PRC) led by Nichi Vendola and Paolo Ferrero—are fully integrated into the Italian state.

The second reason is the global economic crisis and the massive programmes of cuts introduced by the Italian government aimed at destroying all the post-war social gains of working people.

Such a social counter-revolution cannot be imposed with democratic methods. Mario Monti, the unelected prime minister and former Goldman Sachs consultant, recently declared in a Spiegel interview that European governments had “a duty to educate parliament”. He was admitting that maintaining the euro and the European Union is incompatible with democracy.

Against this background, the public acknowledgment of Graziani, a man implicated in the worst war crimes of the Mussolini dictatorship, is a clear warning to the working class.

Some of Berlusconi’s political rivals have expressed their criticism over the incident. Esterino Montini, head of the Democratic Party in Lazio, asked: “Is it possible that in 2012 one simply allows, tolerates or accepts that we commemorate the fascist General and Minister Rodolfo Graziani with a park and a museum”.

And Luigi Nieri, SEL leader in Latium, wrote: “It is inconceivable for a democratic country to celebrate such persons. Even worse is the fact that this is done with the money of citizens.” The SEL (Sinistra, Ecologia e Libertà) is a successor party of the PRC, led by the governor of Puglia, Nichi Vendola.

Such remarks are both hypocritical and misleading. The same parties recently supported Italian participation in the war against Libya, which once again has reduced the country to the status of a colony of the Western powers.



Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Coord. Naz. per la Jugoslavia" 
Data: 19 agosto 2012 11.01.59 GMT+02.00
A: JUGOINFO
Oggetto: [JUGOINFO] Visnjica broj 896

 


ITALIANI BRAVA GENTE


AFFILE, GRANDE FESTA PER IL "MARESCIALLO D'ITALIA"... ORA AFFILE COME PREDAPPIO

Una gran bella festa come quelle che si vivono nei piccoli paesi come e' Affile, che con le sue 1.500 anime ha attirato tutta l'attenzione della politica dell'intero Lazio su di se' per il fatto che si e' dedicato un sacrario al generale Rodolfo Graziani, cittadino di Affile, militare, "maresciallo d'Italia" e ministro della Guerra della Repubblica di Salo'. Un fiume di gente in cammino verso il sacrario, il sindaco Pdl Ercole Viri e' in testa alla coda di istituzioni e cittadini. C'e' anche l'assessore regionale ai Trasporti Francesco Lollobrigida, l'assessore regionale Teodoro Buontempo, il senatore Oreste Tofani e molti sindaci della provincia romana: da Tivoli, a Morlupo, a Vallepietra a diversi Comuni non lontani da Affile. Il sacrario e' pronto ad attendere il bagno di folla, ci sono persone che sorreggono bandiere d'Italia all'ingresso. In piazza San Sebastiano, nel paese della Valle Aniene, è comparsa anche qualche bandiera della Giovane Italia, organizzazione giovanile del Pdl. C'e' un tricolore che sventola in cima alla struttura che separa le parole "Patria" e "Onore".  Poi arriva la benedizione di don Ennio Innocenti, autore del libro "disputa sulla conversione del Duce". E' un momento solenne per i concittadini del generale Graziani. Per il monumento alla memoria e la riqualificazione del parco di Radimonte e' stato speso un finanziamento regionale, stanziato dalla giunta Marrazzo, di 130 mila euro, "in realta' - dice l'assessore Lollobrigida - il finanziamento era di 230 mila euro ma si e' riusciti a risparmiare e il sindaco ne ha restituiti 100 mila". Tra l'altro, come spiega Lollobrigida, si e' inteso riqualificare un Parco divenuto pubblico oltre che ricordare  un illustre cittadino che ha dato la vita per l'esercito e ha pagato le sue scelte in termini personali. Non e' stato un criminale di guerra ma un soldato italiano pluridecorato". Questo voler rimarcare da parte di Lollobrigida il ricordo di Graziani come valoroso militare e illustre concittadino affiliano e' probabilmente voluto per mettere a tacere una volta per tutte "le sterili polemiche", cosi' le ha definite l'assessore,, sollevate da esponenti di sinistra, "gli stessi - dice l'assessore alla Mobilita' della Regione - che il 15 gennaio del 2007 erano ad Affile a commemorare i 50 anni dalla morte di Graziani con un sindaco Ds e oggi strumentalizzano un evento promosso da un primo cittadino democraticamente eletto". Mette a tacere le "chiacchiere" anche il sindaco di Affile, orgoglioso e sereno in un giorno atteso dai suoi cittadini: “Il progetto che abbiamo realizzato - ha detto Viri - ha suscitato vane chiacchiere. L'opera era attesa non solo qui ma anche dall'Italia intera”.  Dopo la conferenza e' stata deposta una corona sulla tomba di Graziani, sepolto nel vecchio cimitero affiliano.

autore: Chiara Rai


GRAZIANI Rodolfo.

Governatore della Libia dal 1930 al 1934, dove “pacificò” la Cirenaica mediante deportazione di circa 100.000 persone, bombardamenti all’iprite, esecuzioni sommarie e torture anche di vecchi donne e bambini; il comandante della resistenza libica, il settantatreenne Omar el-Muktar, il “leone del deserto”, fu impiccato dopo un processo sommario il 16/9/31.
Tra il 1935 ed il 1936 comandò le operazioni militari contro l’Abissinia, utilizzando anche le bombe all’iprite. Nominato viceré d’Etiopia nel 1937, sfuggito ad un attentato il 19/2/37, ordinò una repressione che provocò 3.000 morti secondo le fonti britanniche e 30.000 secondo quelle etiopiche. Si ricorda in particolare il massacro del monastero di Debre Libanos, dove furono uccisi più di 1.500 monaci, molti dei quali giovanissimi diaconi.
Rientrato in Italia, nel 1938 firmò il Manifesto per la difesa della razza e dal settembre 1943 ricoprì la carica di ministro delle Forze armate della RSI.
Fu denunciato alle Nazioni unite come criminale di guerra. Processato nel 1948, fu condannato a 19 anni di reclusione di cui 17 condonati. Aderì al MSI fin dal momento della sua fondazione.
Padre di Clemente Graziani, il dirigente di Ordine Nuovo che in un’intervista pubblicata su “Panorama” del 19/12/74 dichiarò “Siamo i veri eredi della Repubblica sociale italiana e del nazismo. Vogliamo distruggere la democrazia e duellare politicamente gli ebrei e l’ebraismo, abolire il voto, affidare la guida dello Stato a pochi aristocratici dell’intelligenza”.

a cura della redazione de La Nuova Alabarda (Trieste)



(english / francais / italiano)

La loro Kosova senza Rom e senza Metohija

0) Abbecedario per la Grande Albania

1) Kosovo : Pristina veut interdire l’usage du terme de « Metohija »(B92 - 10 juillet 2012)
2) Prospects Bleak For Kosovo’s Roma Refugees (Balkan Insight - July 11, 2012)
3) Nascoste all'opinione pubblica parti dell'accordo con Pristina (Beta / Vecernje Novosti 18 luglio 2012)
4) Ostacolate le ricerche delle vittime dell'UCK (Il Piccolo, 18 luglio 2012)
5) Western Europe Sends Kosovo Roma To Serbia (Balkan Insight - July 20, 2012)
6) In Kosovo, dangers in returning home (Southeast European Times - July 20, 2012)
7) Monténégro : le camp de réfugiés roms [du Kosovo] de Podgorica dévasté par les flammes (Vijesti 24 juillet 2012)
8) Kosovo : Eulex confirme les assassinats politiques de « dizaines d’opposants à l’UÇK »(CdB 28 juillet 2012)
9) "International" Missions Patronize Apartheid in Kosovo (Strategic Culture Foundation - August 21, 2012)


LINK: VIDEO, Poverty in Kosovo under UNSC res. 1244 [1999]

Street life in the capital of Kosovo under UNSC res. 1244 is as lively as it is in any other European city. 
And like any other European city, there is another, bleaker side to life. Its out at the city limits, hard up against the decaying remnants of its Yugoslav industrial past. Here live Pristinas most impoverished inhabitants an ethnic ghetto of people who describe themselves as Roma, Ashkali and Egyptian - amongst whom unemployment is said to be nudging 100 percent. (c) UNICEF 2009 / Peter George



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A Prizren è stato promosso l’abbeccedario albanese

18. 05. 2012. -

A Prizren, nella Serbia meridionale, è stato promosso il primo abbeccedario dell’Albania e il Kosovo. Alla promozione hanno presenziato il presidente e il premier del Kosovo Atifete Jagjaga e Hasim Taci e il premier albanese Salji Berisa. Berisa ha dichiarato che gli albanesi sono oggi più che mai disposti a realizzare il progetto dell’unione nazionale. Taci ha detto che la presentazione dell’abbeccedario comune è un grande avvenimento storico per la cultura nazionale degli albanesi. L’abbeccedario che è stato scritto da due autori albanesi e kosovari sarà introdotto nel programma scolastico l’anno prossimo. Durante la storia i Paesi limitrofi si opponvano con tutti i mezzi alla sola idea della creazione della cosiddetta Grande Albania, perché le pretese territoriali degli albanesi minacciavano di destabilizzare l’intera regione.

da www.glassrbije.org


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Kosovo : Pristina veut interdire l’usage du terme de « Metohija »


B92 - Traduit par Jacqueline Dérens
Mise en ligne : mardi 10 juillet 2012

Les autorités du Kosovo considèrent que l’usage du terme de « Metohija » serait anticonstitutionnel. C’est ainsi que les Serbes appellent la région qui s’étend de Peć/Peja à Prizren, d’un nom qui rappelle l’importance des possessions monastiques dans la région. Rada Trajković, députée serbe au Parlement du Kosovo, dénonce une logique de « génocide culturel ».

Rada Trajković, députée serbe au Parlement du Kosovo, a informé par lettre les ambassades étrangères à Pristina que les autorités ont qualifié « d’anticonstitutionnel » le terme de « Metohija », qui désigne une région spécifique et qui fait partie de l’appellation complète du territoire selon la Constitution serbe.

Dans sa lettre, Rada Trajković explique que l’utilisation de ce mot ne peut pas soulever de controverse politique puisqu’il ne comporte aucune connotation négative envers la population albanaise du Kosovo et Metohija. Ce terme « Metohija » n’a jamais été utilisé à des fins de propagande politique ou d’incitation à des conflits interethniques, mais la députée rappelle que ce terme a une connotation historique et religieuse très importante.

Pour elle, ce mot exprime le rapport identitaire des Serbes du Kosovo à leur mère patrie. Le terme de Metohija est d’origine grecque et désigne « la terre administrée par les monastères », en référence à la multitude de lieux sacrés orthodoxes dans la région.

Selon Rada Trajković, « il est évident que les autorités albanaises du Kosovo ont bien conscience de la minceur de leur lien culturel et historique avec ce territoire, aussi ont-elles recours à des méthodes qui relèvent du du génocide culturel pour masquer cette réalité ».

Dans une déclaration à l’agence de presse Tanjug, Rada Trajković a expliqué qu’elle demandait au nom du parti de la Liste serbe unifiée que « cette tentative de supprimer les droits et les libertés des Serbes soit abandonnée ». Elle a ajouté que des ambassades l’avaient informée qu’elles prenaient sa lettre en considération et qu’elles adopteraient une position sur cette question.

Rada Trajković a aussi indiqué qu’au cours d’une séance au Parlement, on l’avait empêchée de parler parce qu’elle utilisait le nom complet serbe de la province : Kosovo et Metohija. Après avoir informé l’ambassade des États-Unis de cet incident, elle a été de nouveau autorisée à utiliser ce terme « controversé ».

La réaction de Radmila Trajković fait suite à l’annonce par les autorités de Pristina que les partis politiques qui utiliseraient des termes « anticonstitutionnels » dans leur appellation ne seraient plus enregistrés légalement au Kosovo.



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Prospects Bleak For Kosovo’s Roma Refugees



By: Balkan Insight

July 11, 2012


Thousands of Kosovo Roma are still living as refugees in neighboring Serbia, Macedonia and Montenegro, where they face the prospect of permanent statelessness, poverty and social exclusion.

Whilst the 1999 war in Kosovo is ancient history for many people, this is not the case for thousands of Kosovo’s displaced Roma. Unable to return to Kosovo, or scared to do so, and mostly refused asylum status in neighbouring Macedonia, Montenegro and Serbia, where they have sought refuge, they live in dire poverty and face the risk of permanent statelessness. Estimates put the number of Roma, Askhali and Egyptian refugees from Kosovo in Serbia at 22,000 to 40,000; whilst there are some 3,000 in Montenegro and 1,200 in Macedonia. Life in refugee camps, illegal settlements or in rented accommodation is difficult, jobs and money are scarce, and the help they get from state governments and humanitarian organizations is scant.

Redza Pajazitaj, 41, a former resident of the Kosovo municipality of Istok, has lived in the Konik refugee camp near Podgorica, Montenegro, for 13 years; a camp he shares with some 1,500 of his compatriots. “We manage somehow here. Even if there is no job, if you go to the dumpsters you will find some piece of bread,” he said. “People here do not throw old food in the dumpsters but leave it beside them, because they know that our Roma use this bread to feed their children,” Pajazitaj remarked. Life may be grim in the camps, but many are too scared to return to Kosovo.

During the Kosovo conflict, Roma were seen as allies of the former Serbian regime by Kosovo’s ethnic Albanian majority. After the Serbian authorities withdrew from Kosovo, many Roma fled, and they fear reprisals if they return. “My son was three months old when we fled from Kosovo. Now he is 13. If I took him back to Kosovo, he wouldn’t know where he was, and all my other children were born here,” Pajazitaj explained. He says he is better off in Montenegro, where he takes pride in watching his seven children go to school, thanks to the Red Cross. He provides for his family by unloading trucks when needed – a paid, unsteady job, he says. “But at least there is some work here. In Kosovo there is nothing for me,” he added.

Although the authorities in Serbia, Montenegro and Macedonia would like the Roma to return to Kosovo, they are bound by the Geneva Convention on refugees and cannot expel them. In the meantime, they remain without proper papers, regulating their status in the countries where they have taken refuge. They also lack access to education and healthcare services as well as proper accommodation. Redza is one of them. Left to the mercy of local humanitarian organizations and some state help, he is trying to obtain asylum status in Montenegro so that he can continue building a new life there.

Mohammad Arif, from the UN Agency for Refugees, UNHCR, in Macedonia, explains that after 13 years, either the return home of these people – or their integration into the countries where they now live – is complicated.
“Their problems are not easy to solve. Some serious security issues need to be solved first, so these remaining cases are always tough,” he says.

Least Bad In Montenegro

“Konik camp presents apoor image of Montenegro, and representatives of the international institutions are well aware of that,” says Zeljko Sofranac, director of the Montenegrin Bureau for the Care of Refugees.

At a donor conference held in April in Sarajevo, Bosnia, international donors pledged to find €300m for a programme to provide homes for some 74,000 people displaced during the wars in the Balkans. “All their activities, which are conducted with our cooperation, primarily focus on this area.”

Montenegro’s plan is to attract some of that money to its own proposed national housing programme for Roma refugees. The idea is to build more than 1,000 housing units, either by providing prefabricated houses or by providing construction materials to those who have bought land. The total cost of the project is estimated at over €27m, to which Montenegro would contribute approximately €4m.

Sofranac says that the proposed voluntary return of around 500 refugees to Kosovo remains highly problematic, so most of them will probably have to be integrated into Montenegro. “Voluntary return is the best way of solving refugees’ problems. But the only cooperation we receive in Kosovo on this is with local authorities,” he says. “Kosovo’s government, probably with the support of some powerful higher echelons, doesn’t want to fulfill its international obligations in this regard.

Musa Demiri, from Kosovo’s Labour Ministry, says his country is ready to help returnees. “When it engages in the accession process with the EU, it will have to meet those obligations, but that’s not satisfactory for us because we have to act now.” But Demiri admits that with a very high unemployment rate in Kosovo, they cannot guarantee that returnees will find any work or a sustainable livelihood there. “All Kosovo citizens have to be treated equally, and as a ministry we have no special programmes for refugees and returnees,” Demiri says.

Segregated In Serbia

While some Roma refugees in Montenegro at least feel hopeful, NGOs and Serbia’s own Commissariat for Refugees admit that many Roma refugees in Serbia are in a worse position. Serbia treats Roma from Kosovo as internally displaced persons (IDPs), but a problem is that many Roma cannot prove that they are from Kosovo and hence cannot access welfare services. “Since most of the Roma who fled from Kosovo did not have IDs while they were in Kosovo, when they came to Serbia they could not gain the documents that other internally displaced people from Kosovo have got,” Jadranka Jelincic, head of the Open Society Foundation – Serbia, explains.

Regular IDPs from Kosovo receive different levels of state aid, including monthly allowances of around €80. However, this kind of help is blocked to these Roma because of lack of proof that they actually come from Kosovo. Although there are no official statistics, the Commissariat for Refugees estimates that about 22,500 Roma from Kosovo have taken refuge in Serbia. NGOs say the real number is much higher, at about 40,000. Most are situated in and around Belgrade. Usually having no documents and living in informal settlements, they are frequent victims of forced evictions and have to move to other informal settlements, collective centres, or return to Kosovo. They are also often hindered from obtaining legal counsel.

One such eviction recently took place in Belgrade, when the city authorities decided to bulldoze ‘Belville’, an informal Roma settlement located in the heart of the city. Nenad Djurdjevic, head of the Directorate for Human and Minority Rights, maintains that the eviction was “an example of good practice.”

Djurdjevic and other Serbian officials insist that some Roma are “abusing” the fact that the city provides accommodation to Roma who possess documents proving that they have resided in the capital for more than five years. “We’ve helped many of them to find accommodation, and those who refused what we offered left their settlements voluntarily,” he maintains. The Commissariat for Refugees also believes it would be “unfair” to local Serbian Roma, who also face housing problems, if those from Kosovo obtained permanent housing in the capital.

Facing Statelessness In Macedonia

According to the Macedonian Ministry of Labour, Macedonia has some 1,200 Kosovo Roma on its territory.

Human rights activists say that only some of the refugees receive proper treatment in Macedonia, as laid down in the 1951 Geneva Convention. A recent report by the international human rights watchdog Amnesty International says that Macedonia’s Ministry of Labour and Social Welfare has “failed to provide them with the financial assistance and housing required under the 2010 local integration agreement”. That year, Macedonia took over responsibility for the Kosovo Roma from the UNHCR, promising to provide a path to local integration for those who wished to stay.

Davor Politov, spokesperson for the ministry, admits that they are helping only a portion of those people, who have obtained refugee or asylum status. “We are providing social welfare, paying health and social insurance contributions and paying [housing] rent for some 780 people from Kosovo who wish to stay here,” Politov says, adding that the country is also trying to find them jobs. Macedonia gives 2,150 denar, (some €35) a month in welfare to each Kosovan refugee, he adds.

The Luxembourg-based non-profit organization, Chachipe, which tackles the human rights situation of Kosovo Roma across the Balkans, says that the situation of some 260 Roma refugees in Macedonia remains a concern. “The situation of refugees in Macedonia has deteriorated considerably following the transfer of responsibility from the UNHCR to the Ministry of Labour,” says Karin Waringo, from Chachipe. After being rejected for asylum, they are now left without any status, stateless, and in dire need of assistance. “Based on our calculations, more than 20% of the refugees have left Macedonia under financial pressures. Some went to Western Europe, where their chances of getting asylum on the basis of the persecution they experienced in Kosovo are slim,” Karin asserted.

The local branch of UNHCR says it has limited resources to help this group of people, but they insist they at least provide them with legal help. UNHCR financial aid for these people stopped in 2010 due to a lack of funds, they say. “Some of them wish to return to Kosovo and we are considering ways to provide them with housing there,” explains Tihomir Nikolovski, Legal Officer at UNHCR Macedonia. “We are also helping some to get Macedonian citizenship, as they have meanwhile established ties with the local population through marriages and are thus eligible,” he adds.

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Balkan Insight

The Balkan Insight (fornerkt the Balkin Investigative Reporting Network, BIRN) is a close group of editors and trainers that enables journalists in the region to produce in-depth analytical and investigative journalism on complex political, economic and social themes. BIRN emerged from the Balkan programme of the Institute for War & Peace Reporting, IWPR, in 2005. The original IWPR Balkans team was mandated to localise that programme and make it sustainable, in light of changing realities in the region and the maturity of the IWPR intervention. Since then, its work in publishing, media training and public debate activities has become synonymous with quality, reliability and impartiality. A fully-independent and local network, it is now developing as an efficient and self-sustainable regional institution to enhance the capacity for journalism that pushes for public debate on European-oriented political and economic reform.


=== 3 ===

Fonte: agenzia BETA.
La intervista completa è stata data per Vecernje Novosti, qui: 
Giovedi, 07.19.2012.
 
Nascoste all'opinione pubblica parti dell'accordo con Pristina

BELGRADO, 18 Luglio 2012. (Beta) - Il presidente serbo Tomislav Nikolic ha detto che è stata nascosta al pubblico una parte dell'accordo con Pristina stipulato a Bruxelles [dal precedente governo serbo] e che "con questa apparentemente innocua soluzione" la stessa Belgrado "sta realizzando una effettiva indipendenza del Kosovo".
"E' stato nascosto, per esempio, che negli incontri, davanti alle delegazioni albanesi può stare soltanto la dicitura Kosovo con un asterisco, senza nota [*]. L'inganno è che i serbi del Kosovo settentrionale non devono prendere le targhe automobilistiche kosovare, ma la condizione per questa operazione è che si devono iscrivere come cittadini del Kosovo. Ci sono anche dei dubbi circa la gestione integrata dei valichi," ha detto Nikolic all'intervista per Vecernje Novosti di questo giovedì.
"Quando terremo dei negoziati sullo status e ci dovremo confrontare con un'enormità di documenti, da cui risulta che ormai praticamente si tratta di uno Stato, cosa faremo? Non so con quale serietà sono stati condotti dei negoziati fino ad ora né a chi, in verità, stia bene il principale negoziatore attuale... Mi sembra che molto sia stato fatto in fretta, quando si doveva ottenere lo status di candidato [alla UE]. E tutto ciò perché un partito si potesse guadagnare la propria favorevole posizione per le elezioni. Si è passato troppo facilmente sopra quello che loro credevano fosse buono per la Serbia, in realtà - non era neanche stato messo su carta."
Nikolic ha annunciato che non appena si formerà il governo, radunerà tutti i personaggi di una certa valenza per la Serbia perché sia creata una piattaforma di dialogo sul Kosovo, e che lui insisterà che nelle successive trattative politiche sula provincia, oltre all'UE, sia inclusa anche l'ONU.


[*] Dopo un accordo raggiunto tra Belgrado e Pristina nel febbraio 2012, con la mediazione dell'UE, il Kosovo potrà essere rappresentato nei summit regionali e potrà siglare accordi commerciali con Paesi terzi. Ad una condizione però: il nome dovrà essere seguito da un asterisco che rimanda ad una nota a piè pagina dove si fa riferimento sia alla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che garantisce l'integrità territoriale della Serbia, sia alla decisione con cui la Corte internazionale di giustizia ha sancito che la dichiarazione di indipendenza di Pristina non è contraria al diritto internazionale.


=== 4 ===

Ostacolate le ricerche delle vittime dell'UCK

da Il Piccolo del 18 luglio 2012

Fumo nero, vampate alte 10 metri, pompieri impegnati per un’intera giornata ad estinguere le fiamme. Non è stato un incendio estivo causato dall’ondata di calore che sta investendo i Balcani quello che ha interessato un’area nei pressi del paesino di Zilivoda, in Kosovo. Ma un rogo enorme, forse doloso, che ha provocato «danni estesi» in un sito dove la missione di polizia europea, Eulex, sta effettuando scavi per riportare alla luce una fossa comune. Nella fossa - secondo Eulex «uno dei più vasti siti di inumazione scoperti in Kosovo negli ultimi anni» - sarebbero sepolti i resti di almeno venti cittadini serbi del Kosovo, rapiti nel 1998 e durante il conflitto del 1999 e ancora “desaparecidos”. Fra questi ci sarebbero anche i corpi di nove minatori di Belacevac, miniera di carbone conquistata dai guerriglieri dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uck) nel giugno del 1998, dopo una dura battaglia contro i soldati di Belgrado.
 
Dopo la presa dell’impianto, presso Obilic, non lontano dalla sospetta fossa comune, dieci operai serbi sparirono nel nulla. L’unico che riuscì a fuggire affermò che i suoi colleghi erano stati liquidati dall’Uck. «I lavori di scavo sono stati interrotti, Eulex valuterà la sicurezza dell’area ed è troppo presto per fare previsioni», ha spiegato uno dei responsabili degli scavi, Alan Robinson. Eulex che ha confermato di aver iniziato a indagare sulle cause del rogo, per ora «non ancora identificate». Le associazioni dei familiari dei rapiti e degli scomparsi serbi del Kosovo hanno invece puntato il dito sull’inazione di Pristina. L’incendio sarebbe scoppiato addirittura sabato, hanno accusato le famiglie dei desaparecidos serbi, ma solo ieri mattina i vigili del fuoco si sarebbero attivati seriamente per spegnere le fiamme. Il tutto per occultare le prove dei massacri, lo “j’accuse” dei serbi. Anche il ministro serbo per il Kosovo, Goran Bogdanovic, ha espresso dubbi sulla natura dell’incendio e ha chiesto a Eulex di dissiparli «per evitare confusione» sul delicato caso. «Completeremo gli scavi e le esumazioni molto presto, ultimando questo progetto», ha assicurato in risposta il governo kosovaro. Nell’ex provincia serba, a 13 anni dalla guerra, si contano ancora 1800 desaparecidos, di cui un terzo serbi.


=== 5 ===


20 Jul 12

Western Europe Sends Kosovo Roma To Serbia


Due to loopholes in their readmission procedures, countries that recognise Kosovo as an independent state are returning Kosovo Roma asylum seekers to Serbia, instead of Kosovo.

According to the head of the Belgrade office of the Fund for Open Society, Jadranka Jelincic, the Western European countries that recognise Kosovo as an independent state are misusing the rights that protect refugees and internally displaced people by returning them to Serbia, and not to their country of origin - Kosovo.

Following the war in Kosovo in 1999, around 200,000 people fled to Serbia where they were given the status of the internally displaced people, IDPs. How many subsequently went on to seek asylum in other countries remains unknown.

“People rarely speak about this problem. I understand when Spain returns Kosovo Roma to Serbia, since it does not recognise the independence of Kosovo, but I cannot understand it when the countries that recognize Kosovo, such as Sweden or Finland, do that,” says Jelincic.

The Swedish Agency for Migration says that they are not guided by political, but legal reasons. 

“The documents that Roma IDPs have are either from Serbia or from the former Yugoslavia, and since Serbia is a successor of the former country, we are obliged to send them to Belgrade,” the Swedish Agency for Migration told BIRN.

The Belgrade lawyer Nikola Lazic says that in this situation political conditions cannot be ignored. 

“Bearing in mind the complexity of the situation, until this is legally settled between the countries, the process should be either stopped or resolved differently. For example, people should be asked whether they want to go back to Serbia as IDPs or to Kosovo as returnees, “ explains Lazic.

In 2010 the Council of Europe and Amnesty International called on countries to stop deporting Roma to Kosovo “until it is proven that they could live safely there”.

In its report Amnesty wrote: “Following Kosovo’s unilateral declaration of independence, the Kosovo authorities have come under increasing pressure from Germany and other EU member states to accept returnees. However, the authorities in Kosovo lack the resources and political will to provide forced returnees with assistance.” 

As a condition of a visa free regime, Serbia signed a readmission agreement with the European Union in January 2008, while Kosovo started signing individual agreements with  EU member states in 2004.

It is not clear how many people should be returned to Serbia on the basis of the readmission agreement. In 2003, the Council of Europe estimated that the figure could be between 50,000 and 100,000 but over the last few years, figures as high as 150,000 have also been cited.

The majority of returnees to Serbia, around 70 per cent, are returning from Western European countries, mainly Germany, followed by Scandinavian countries, Switzerland and The Netherlands.Between 60 and 70 per cent were Roma, according to estimates.

Kosovo declared its independence from Serbia in 2008, but Serbia still regards it as its southern province and opposes its independence.


=== 6 ===


In Kosovo, dangers in returning home


20/07/2012

One of the challenges for the returnees is their safety and the security.

By Linda Karadaku for Southeast European Times in Pristina -- 20/7/12


More than 330,000 of the 3 million people displaced during the Balkan conflict in the 1990s remain separated from their homes, with as many as 200,000 Kosovars still living in surrounding countries.

Since 2000, more than 23,000 from minority communities have voluntarily returned to Kosovo. But experts say the return and reintegration, especially for the Serb community, can often be difficult.

"The challenges affect not only returnees, but Kosovo society as a whole; weak rule of law, struggling economy, lack of infrastructure, inadequate delivery of basic services, including access to health, education, social protection," Dejan Radivojevic, manager at the Inclusive Local Development, UNDP Kosovo, told SETimes.

Since 2010, Bosnia and Herzegovina (BiH), Croatia, Montenegro, and Serbia renewed their efforts to find permanent solution for some 73,000 refugees from the Yugoslav conflict.

Some 2,200 people, mainly Serbs, remain displaced within Croatia. Montenegro hosts more than 16,000 displaced persons from BiH, Croatia and Kosovo. Macedonia hosts some 1,600 refugees, mostly Roma, from Kosovo.

Jo Hagenauer, the head of Kosovo UNCHR, told SETimes that the return is slow, with many obstacles.

"One of the challenges is that the overall security situation for minorities in Kosovo is relatively stable but fragile. Incidents targeting property of minorities and the quality of response from the law enforcement negatively impacted the perception of Kosovo security among the minority communities," Hagenauer said.

Radivojevic agreed. "Although overall security in Kosovo remains relatively stable, some incidents targeting individual returnees and recent clashes in northern Kosovo continue to pose challenges to the actual and perceived safety of returnees from minority communities, and their freedom of movement in Kosovo," she said.

Hagenauer said that the number of reported security incidents, potentially ethnically motivated, is steadily declining, "However, tensions continue to exist between communities and interactions are still very limited, especially in Kosovo north."

In early July, a Serb couple, Milovan and Liljana Jevtic, returned to Kosovo, but were killed in their house in the Talinoc village, near Ferizaj. Kosovo and international representatives condemned the murders, asking for the perpetrators to face justice, but they are still at large.

"Despite regular co-operation with Kosovo police, the perpetrators remain unidentified and unpunished, therefore, we are for an enlargement of institutional co-operation on all levels, so that security, which is already fragile, does not get more complicated," Radojica Tomic, Kosovo minister for returns and communities, told SETimes.

Tomic said the returns process faces many security challenges for returnees in areas of Albanian majority population.

"We still consider necessary the inter-ethnic dialogue between the local community and the returnees," Tomic told SETimes.

UNHCR confirmed that in the last two years, a total of 159 houses were handed over to returnee families, but in 2012 there has been a slowdown in returns, mainly due to the absence of housing assistance projects and finding a more lasting solution elsewhere.


Economic conditions for both majority and minority communities remain poor in Kosovo. Poverty and unemployment prevail. Some 1,250 internally displaced persons and refugees continue to live in collective centres in Gjilan, Mitrovica and Pristina, UNHCR confirms.

Tomic told the media that 425 people returned in 2011, most of them elderly.

Momcilo Jovanovic, 50, decided to return to Kosovo from Serbia, to the village of Brusince, in Kamenica municipality. He said the main problem is unemployment and his only in

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