Piše: Ljubodrag Simonović Duci
Informazione
L'organizzazione internazionale, che ha come scopo originario quello di riunire i Paesi che non si riconoscono all'interno dei blocchi militari, è sorta in pieno processo di decolonizzazione in Africa e Asia per iniziativa di Tito, Nasser e Nehru e tenne il suo primo vertice a Belgrado nel 1961 ribadendo i principi alla base della storica conferenza di Bandung del 1955: lotta al colonialismo e al neocolonialismo, rispetto della sovranità nazionale e delle autonome vie di sviluppo.
L'attesa è, però, per l'arrivo dell'egiziano Morsi, per la prima visita di un presidente egiziano in Iran dal 1979 dopo la proclamazione della repubblica islamica, e del segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon
L'Egitto lascerà, come da rotazione prevista, proprio all'Iran la presidenza triennale del Nam per i prossimi tre anni. L'incarico era in precedenza passato dalle mani di Hosni Mubarak, spodestato dalle rivolte popolari e dal pronunciamento dell'esercito egiziano, a quelle del feldmaresciallo Tantawi, recentemente accantonato proprio da Morsi.
Preoccupazioni e inviti al dietro-front per la partecipazione di Ban Ki-moon sono arrivati da Washington e da Tel Aviv. Per il Washington Post il vertice sarà pure un “baccanale di sciocchezze”, ma nelle due capitali è vivo il timore che questa presenza serva solo a forgiare una vittoria diplomatica della repubblica islamica.
La presidenza iraniana potrebbe coincidere con una svolta più radicale e attiva dell'organizzazione anche perché avviene in piena esplosione della crisi siriana con Teheran, tradizionale e solida alleata di Damasco, impegnata su più fronti nella critica all'intervento straniero.
Da Washington, per bocca del portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, viene proprio l'allarme sull'intenzione iraniana di “manipolare” a suo beneficio il vertice, soprattutto per quanto riguarda la sua agenda nucleare e l'embargo petrolifero ai suoi danni. Nel vertice dell'Avana del 2006 fu, infatti, approvata una mozione a sostegno del diritto di ogni Stato allo sviluppo pacifico dell'energia nucleare. E' comunque da escludersi che si formi un consenso unanime, mentre è più probabile che, proprio in riferimento ai fatti siriani, si formi un generico consenso sulla necessità del dialogo tra governo e opposizione in linea con la filosofia originaria del movimento. Resta la certezza che il vertice rappresenta per l'Iran una straordinaria opportunità di uscire dall'isolamento e allentare una pressione che si fa sempre più forte.
Per Farideh Farhi, studioso iraniano dell'Università delle Hawaii, lo sforzo messo in campo da Teheran per il vertice ha lo scopo “di presentare il ruolo globale dell'Iran e mostrare con prove concrete che la politica di isolamento degli Usa nei confronti dell'Iran ha fallito” e di dimostrate come “non sia la comunità internazionale che ha problemi con l'Iran, ma solo una coalizione messa sotto pressione degli Stati Uniti" [1].
E' già allo studio un documento composto da 688 dichiarazioni e 166 pagine, mentre durante il consesso saranno al lavoro il Comitato politico, diretto da Cuba, il Comitato economico, diretto dall'Egitto e il Comitato per la Palestina diretto da rappresentanti palestinesi.
Dal fronte caldo mediorientale, passiamo a quelle sempre più ribollente dell'Asia Orientale. Nell'attesa che il vertice Nam prenda il via, Washington prosegue a passo spedito nel suo riposizionamento strategico intorno alla Cina. Secondo le rivelazioni del Wall Strett Journal, sarebbe iniziata la pianificazione di uno scudo missilistico asiatico ufficialmente in funzione anti-Corea del Nord, ma che ha indubbi fini di contenimento della crescente forza militare cinese, testimoniata –sempre agli occhi del Pentagono – da una crescente assertività nelle dispute marittime con i vicini.
Il progetto prevede la messa in azione di un radar nel sud del Giappone – ma non a Okinawa dove sono forti le tensioni con la popolazione locale – e un secondo in un Paese del sud est del Pacifico e un terzo nelle Filippine. Inoltre, secondo i progetti della Marina, la flotta di navi da guerra con missili balistici dovrebbe passare dalle 26 di oggi alle 36 nel 2018. Secondo un alto funzionario statunitense “le nuove installazioni di difesa missilistica sarebbero in grado di monitorare e respingere almeno un primo colpo limitato proveniente dalla Cina, e sarebbe potenzialmente sufficiente a scoraggiare Pechino dal tentare un attacco" [2]. E' chiaro che oggetto dell'eventuale attacco cinese sarebbe l'isola di Taiwan.
I timori di Pechino per un prossimo inizio di guerra fredda prendono sempre più corpo.
Diego Bertozzi
NOTE
1 Rick Gladstone, “UN visits will set back a push to isolate Iran”, New York Times, 22 agosto 2012.
2 Wall Street Journal, “US plans new Asia Missile Defenses”, 23 agosto 2012.
Italian right wing honours fascist war criminal
By Marianne Arens
22 August 2012
On August 11, an ominous ceremony was held with great pomp in the small town of Affile, east of Rome. The ceremony commemorated the erection of a mausoleum for fascist war criminal Field Marshal Rodolfo Graziani (1882-1955) in the town’s Radimonte Park.
About 100 participants took part, led by the priest Don Ennio Innocenti Sakrarium, who consecrated the mausoleum. Alongside giant Italian tricolours hung flags from Giovine Italia, the youth organisation of the People of Freedom (PDL) of former Italian premier Silvio Berlusconi.
The mayor of Affile, Ercole Viri (PDL), declared that the monument, engraved with the words “fatherland” and “honour”, was “of national importance”. The regional transport minister, Francesco Lollobridgida (also PDL), praised Graziani: “We have always loved him.”
The construction of the mausoleum and the expansion of the park cost no less than 180 million euros—the monument alone cost €127 million—monies paid by the taxpayers of a region marked by unemployment and poverty.
Who is Rodolfo Graziani?
Graziani is a legally convicted war criminal. On behalf of the fascist dictator Benito Mussolini, he commanded Italy’s wars of conquest in North and East Africa, in which nearly half a million people were killed.
Fascist Italy sought to brutally subjugate the African colonies of Cyrenaica and Tripolitania (now Libya), as well as Abyssinia (now Ethiopia) and Somaliland. Libya had already been conquered by Italy in the Italian-Turkish War of 1911.
Mussolini gave the generals a free hand for crimes of genocidal proportions. The Italian air force bombed the civilian population, dropped poison gas over oases and vital water supplies, and shot columns of refugees from the air. Italian ground forces launched raids, massacres and executions to force the surrender of Libyan resistance fighters and their leader, Omar al-Mukhtar. Graziani was the commander of the Italian troops and governor of Cyrenaica.
In the summer of 1930, Graziani resettled hundreds of thousands of inhabitants of Cyrenaica to the desert where they were exposed to the scorching sun, thirst, starvation, exhaustion and disease. Half of these people died within three years. In Fezzan, a desert region in southern Libya, he personally ordered the murder of Omar al-Mukhtar by hanging, earning the nickname “the Butcher of Fezzan”.
His crimes were compounded in Abyssinia, now Ethiopia. Italian troops invaded the country on October 3, 1935. Graziani led the invasion along with Marshal Pietro Badoglio, and in May 1936 was appointed viceroy of Italian East Africa. For the first time in modern history, Italian troops systematically employed weapons of mass destruction, including bombs and chemical weapons, against civilians.
Following persistent resistance and an assassination attempt against him, Graziani personally gave the order on February 19, 1937, for a wave of bloody repression that went down in history as “Yekatit 12,” based on the date in the Ethiopian calendar. During the pogroms, Italian troops massacred up to 30,000 civilian residents of Addis Ababa. Graziani laid waste to entire villages and dispatched large numbers of victims to concentration camps. His notorious dictum from this period was “The Duce will get Ethiopia, with or without the Ethiopians.”
During World War II, the Italian army under Graziani was defeated in North Africa by British troops, and Graziani was relieved of his duties. As the end of the war neared, he took over command of forces of the fascist “Social Republic of Salò”, Mussolini’s last territory in northern Italy. Together with the German general Kesselring, Graziani led the fascist “final battle” until forced to capitulate in 1945.
In 1948, he was convicted of war crimes and sentenced to 19 years in prison. He was released after just 2 years. Although fascism was officially banned in post-war Italy, the neo-fascist Movimento Sociale Italiano (MSI) named him its honorary chairman. He died in Rome in 1955.
This latest, macabre ceremony by prominent leaders of the PDL in Affile left many political observers dumbstruck. David Willey, Italian correspondent of the BBC, expressed his surprise to find “that the cult surrounding Fascist heroes has been kept alive in some parts of Italy, even though the fascist party was banned by the country’s post war constitution.”
In fact, the ceremony in honour of Graziani is by no means unique. Just a few months ago, the same local community erected a bronze bust of Giorgio Almirante, founder and leader of the neo-fascist post-war MSI. Almirante was editor in fascist Italy of the racist, anti-Semitic paper Difesa della Razza(Defense of the Breed).
In his 2010 book “Viva Mussolini!”—the rise of fascism in Berlusconi’s Italy, author Aram Mattioli cites numerous examples of the “trivialisation of fascism by centre-right circles”.
In 1994, media mogul Silvio Berlusconi became prime minister, following a wave of corruption scandals (“Tangentopoli”) involving all the republic’s major post-war parties. One of his first acts was to appoint former MSI leader Gianfranco Fini as minister. For the first time since the end of World War II, a neo-fascist minister sat in the cabinet of a European government.
Since then, the Italian right has systematically worked to rehabilitate “good fascists”, arguing that their activities in the war were on a par with those of members of the Resistance.
At the same time, research into Italy’s fascist past is systematically boycotted. The film Omar Mukhtar—Lion of the Desert (1979), starring Anthony Quinn in the title role and Rod Steiger as Mussolini, was denied a distribution licence until the visit to Italy of former Libyan leader Gaddafi in 2009. The BBC documentary “Fascist Legacy” (1989) by Ken Kirby has still not been shown on television in Italy, although an Italian version has existeed since 1992.
In his book, Mattioli concludes: “In less than twenty years, Silvio Berlusconi changed Italy so drastically that the founding fathers of the post-war republic would have hardly recognised the country.” He warns of the “political and ideological abuse of history” which “is a threat to civilised coexistence.”
How is it possible for fascist thugs in Italy to be honoured with impunity in such a way? Two factors should be mentioned in this context.
First, fascism in Italy has never been really overcome, not even at the end of World War II. A thorough coming to grips with fascist crimes, both legally and ideologically, was stymied by Stalinism, embodied in the former Italian Communist Party (CPI).
The PCI played a leading role in the guerrilla war against fascism and had a mass following among workers. Workers assumed that the collapse of fascism would be accompanied by the overthrow of capitalism and socialist revolution. At the end of the war, the PCI rapidly betrayed these expectations.
According to the Stalinist maxim of “peaceful coexistence with capitalism,” the PCI in late 1944 entered the “national unity government” led by Marshal Pietro Badoglio, who had led the Italian campaign in Ethiopia alongside Graziani. He had changed sides after the victory of the Allies in southern Italy in 1943.
PCI leader Palmiro Togliatti was made minister of justice in the civil war government and in this function headed off the revolutionary struggles of Fiat workers in Turin and saved the capitalist state. In June 1946, he personally organised a general amnesty for fascist crimes, thereby preventing any political settlement before it had begun.
After it had somewhat stabilised its rule, the Italian bourgeoisie lined up with the Western powers and tossed the PCI out of government in May 1947. Today, the successor parties to the PCI—the Democratic Party (PD) and the successor organisations of Rifondazione Comunista (PRC) led by Nichi Vendola and Paolo Ferrero—are fully integrated into the Italian state.
The second reason is the global economic crisis and the massive programmes of cuts introduced by the Italian government aimed at destroying all the post-war social gains of working people.
Such a social counter-revolution cannot be imposed with democratic methods. Mario Monti, the unelected prime minister and former Goldman Sachs consultant, recently declared in a Spiegel interview that European governments had “a duty to educate parliament”. He was admitting that maintaining the euro and the European Union is incompatible with democracy.
Against this background, the public acknowledgment of Graziani, a man implicated in the worst war crimes of the Mussolini dictatorship, is a clear warning to the working class.
Some of Berlusconi’s political rivals have expressed their criticism over the incident. Esterino Montini, head of the Democratic Party in Lazio, asked: “Is it possible that in 2012 one simply allows, tolerates or accepts that we commemorate the fascist General and Minister Rodolfo Graziani with a park and a museum”.
And Luigi Nieri, SEL leader in Latium, wrote: “It is inconceivable for a democratic country to celebrate such persons. Even worse is the fact that this is done with the money of citizens.” The SEL (Sinistra, Ecologia e Libertà) is a successor party of the PRC, led by the governor of Puglia, Nichi Vendola.
Such remarks are both hypocritical and misleading. The same parties recently supported Italian participation in the war against Libya, which once again has reduced the country to the status of a colony of the Western powers.
Da: "Coord. Naz. per la Jugoslavia"Data: 19 agosto 2012 11.01.59 GMT+02.00A: JUGOINFOOggetto: [JUGOINFO] Visnjica broj 896ITALIANI BRAVA GENTEAFFILE, GRANDE FESTA PER IL "MARESCIALLO D'ITALIA"... ORA AFFILE COME PREDAPPIOUna gran bella festa come quelle che si vivono nei piccoli paesi come e' Affile, che con le sue 1.500 anime ha attirato tutta l'attenzione della politica dell'intero Lazio su di se' per il fatto che si e' dedicato un sacrario al generale Rodolfo Graziani, cittadino di Affile, militare, "maresciallo d'Italia" e ministro della Guerra della Repubblica di Salo'. Un fiume di gente in cammino verso il sacrario, il sindaco Pdl Ercole Viri e' in testa alla coda di istituzioni e cittadini. C'e' anche l'assessore regionale ai Trasporti Francesco Lollobrigida, l'assessore regionale Teodoro Buontempo, il senatore Oreste Tofani e molti sindaci della provincia romana: da Tivoli, a Morlupo, a Vallepietra a diversi Comuni non lontani da Affile. Il sacrario e' pronto ad attendere il bagno di folla, ci sono persone che sorreggono bandiere d'Italia all'ingresso. In piazza San Sebastiano, nel paese della Valle Aniene, è comparsa anche qualche bandiera della Giovane Italia, organizzazione giovanile del Pdl. C'e' un tricolore che sventola in cima alla struttura che separa le parole "Patria" e "Onore". Poi arriva la benedizione di don Ennio Innocenti, autore del libro "disputa sulla conversione del Duce". E' un momento solenne per i concittadini del generale Graziani. Per il monumento alla memoria e la riqualificazione del parco di Radimonte e' stato speso un finanziamento regionale, stanziato dalla giunta Marrazzo, di 130 mila euro, "in realta' - dice l'assessore Lollobrigida - il finanziamento era di 230 mila euro ma si e' riusciti a risparmiare e il sindaco ne ha restituiti 100 mila". Tra l'altro, come spiega Lollobrigida, si e' inteso riqualificare un Parco divenuto pubblico oltre che ricordare un illustre cittadino che ha dato la vita per l'esercito e ha pagato le sue scelte in termini personali. Non e' stato un criminale di guerra ma un soldato italiano pluridecorato". Questo voler rimarcare da parte di Lollobrigida il ricordo di Graziani come valoroso militare e illustre concittadino affiliano e' probabilmente voluto per mettere a tacere una volta per tutte "le sterili polemiche", cosi' le ha definite l'assessore,, sollevate da esponenti di sinistra, "gli stessi - dice l'assessore alla Mobilita' della Regione - che il 15 gennaio del 2007 erano ad Affile a commemorare i 50 anni dalla morte di Graziani con un sindaco Ds e oggi strumentalizzano un evento promosso da un primo cittadino democraticamente eletto". Mette a tacere le "chiacchiere" anche il sindaco di Affile, orgoglioso e sereno in un giorno atteso dai suoi cittadini: “Il progetto che abbiamo realizzato - ha detto Viri - ha suscitato vane chiacchiere. L'opera era attesa non solo qui ma anche dall'Italia intera”. Dopo la conferenza e' stata deposta una corona sulla tomba di Graziani, sepolto nel vecchio cimitero affiliano.autore: Chiara RaiGRAZIANI Rodolfo.Governatore della Libia dal 1930 al 1934, dove “pacificò” la Cirenaica mediante deportazione di circa 100.000 persone, bombardamenti all’iprite, esecuzioni sommarie e torture anche di vecchi donne e bambini; il comandante della resistenza libica, il settantatreenne Omar el-Muktar, il “leone del deserto”, fu impiccato dopo un processo sommario il 16/9/31.Tra il 1935 ed il 1936 comandò le operazioni militari contro l’Abissinia, utilizzando anche le bombe all’iprite. Nominato viceré d’Etiopia nel 1937, sfuggito ad un attentato il 19/2/37, ordinò una repressione che provocò 3.000 morti secondo le fonti britanniche e 30.000 secondo quelle etiopiche. Si ricorda in particolare il massacro del monastero di Debre Libanos, dove furono uccisi più di 1.500 monaci, molti dei quali giovanissimi diaconi.Rientrato in Italia, nel 1938 firmò il Manifesto per la difesa della razza e dal settembre 1943 ricoprì la carica di ministro delle Forze armate della RSI.Fu denunciato alle Nazioni unite come criminale di guerra. Processato nel 1948, fu condannato a 19 anni di reclusione di cui 17 condonati. Aderì al MSI fin dal momento della sua fondazione.Padre di Clemente Graziani, il dirigente di Ordine Nuovo che in un’intervista pubblicata su “Panorama” del 19/12/74 dichiarò “Siamo i veri eredi della Repubblica sociale italiana e del nazismo. Vogliamo distruggere la democrazia e duellare politicamente gli ebrei e l’ebraismo, abolire il voto, affidare la guida dello Stato a pochi aristocratici dell’intelligenza”.a cura della redazione de La Nuova Alabarda (Trieste)
18. 05. 2012. -
A Prizren, nella Serbia meridionale, è stato promosso il primo abbeccedario dell’Albania e il Kosovo. Alla promozione hanno presenziato il presidente e il premier del Kosovo Atifete Jagjaga e Hasim Taci e il premier albanese Salji Berisa. Berisa ha dichiarato che gli albanesi sono oggi più che mai disposti a realizzare il progetto dell’unione nazionale. Taci ha detto che la presentazione dell’abbeccedario comune è un grande avvenimento storico per la cultura nazionale degli albanesi. L’abbeccedario che è stato scritto da due autori albanesi e kosovari sarà introdotto nel programma scolastico l’anno prossimo. Durante la storia i Paesi limitrofi si opponvano con tutti i mezzi alla sola idea della creazione della cosiddetta Grande Albania, perché le pretese territoriali degli albanesi minacciavano di destabilizzare l’intera regione.
da www.glassrbije.org
Kosovo : Pristina veut interdire l’usage du terme de « Metohija »
B92 - Traduit par Jacqueline DérensMise en ligne : mardi 10 juillet 2012Les autorités du Kosovo considèrent que l’usage du terme de « Metohija » serait anticonstitutionnel. C’est ainsi que les Serbes appellent la région qui s’étend de Peć/Peja à Prizren, d’un nom qui rappelle l’importance des possessions monastiques dans la région. Rada Trajković, députée serbe au Parlement du Kosovo, dénonce une logique de « génocide culturel ».Rada Trajković, députée serbe au Parlement du Kosovo, a informé par lettre les ambassades étrangères à Pristina que les autorités ont qualifié « d’anticonstitutionnel » le terme de « Metohija », qui désigne une région spécifique et qui fait partie de l’appellation complète du territoire selon la Constitution serbe.
Dans sa lettre, Rada Trajković explique que l’utilisation de ce mot ne peut pas soulever de controverse politique puisqu’il ne comporte aucune connotation négative envers la population albanaise du Kosovo et Metohija. Ce terme « Metohija » n’a jamais été utilisé à des fins de propagande politique ou d’incitation à des conflits interethniques, mais la députée rappelle que ce terme a une connotation historique et religieuse très importante.
Pour elle, ce mot exprime le rapport identitaire des Serbes du Kosovo à leur mère patrie. Le terme de Metohija est d’origine grecque et désigne « la terre administrée par les monastères », en référence à la multitude de lieux sacrés orthodoxes dans la région.
Selon Rada Trajković, « il est évident que les autorités albanaises du Kosovo ont bien conscience de la minceur de leur lien culturel et historique avec ce territoire, aussi ont-elles recours à des méthodes qui relèvent du du génocide culturel pour masquer cette réalité ».
Dans une déclaration à l’agence de presse Tanjug, Rada Trajković a expliqué qu’elle demandait au nom du parti de la Liste serbe unifiée que « cette tentative de supprimer les droits et les libertés des Serbes soit abandonnée ». Elle a ajouté que des ambassades l’avaient informée qu’elles prenaient sa lettre en considération et qu’elles adopteraient une position sur cette question.
Rada Trajković a aussi indiqué qu’au cours d’une séance au Parlement, on l’avait empêchée de parler parce qu’elle utilisait le nom complet serbe de la province : Kosovo et Metohija. Après avoir informé l’ambassade des États-Unis de cet incident, elle a été de nouveau autorisée à utiliser ce terme « controversé ».
La réaction de Radmila Trajković fait suite à l’annonce par les autorités de Pristina que les partis politiques qui utiliseraient des termes « anticonstitutionnels » dans leur appellation ne seraient plus enregistrés légalement au Kosovo.
Thousands of Kosovo Roma are still living as refugees in neighboring Serbia, Macedonia and Montenegro, where they face the prospect of permanent statelessness, poverty and social exclusion.
Whilst the 1999 war in Kosovo is ancient history for many people, this is not the case for thousands of Kosovo’s displaced Roma. Unable to return to Kosovo, or scared to do so, and mostly refused asylum status in neighbouring Macedonia, Montenegro and Serbia, where they have sought refuge, they live in dire poverty and face the risk of permanent statelessness. Estimates put the number of Roma, Askhali and Egyptian refugees from Kosovo in Serbia at 22,000 to 40,000; whilst there are some 3,000 in Montenegro and 1,200 in Macedonia. Life in refugee camps, illegal settlements or in rented accommodation is difficult, jobs and money are scarce, and the help they get from state governments and humanitarian organizations is scant.
Redza Pajazitaj, 41, a former resident of the Kosovo municipality of Istok, has lived in the Konik refugee camp near Podgorica, Montenegro, for 13 years; a camp he shares with some 1,500 of his compatriots. “We manage somehow here. Even if there is no job, if you go to the dumpsters you will find some piece of bread,” he said. “People here do not throw old food in the dumpsters but leave it beside them, because they know that our Roma use this bread to feed their children,” Pajazitaj remarked. Life may be grim in the camps, but many are too scared to return to Kosovo.
During the Kosovo conflict, Roma were seen as allies of the former Serbian regime by Kosovo’s ethnic Albanian majority. After the Serbian authorities withdrew from Kosovo, many Roma fled, and they fear reprisals if they return. “My son was three months old when we fled from Kosovo. Now he is 13. If I took him back to Kosovo, he wouldn’t know where he was, and all my other children were born here,” Pajazitaj explained. He says he is better off in Montenegro, where he takes pride in watching his seven children go to school, thanks to the Red Cross. He provides for his family by unloading trucks when needed – a paid, unsteady job, he says. “But at least there is some work here. In Kosovo there is nothing for me,” he added.
Although the authorities in Serbia, Montenegro and Macedonia would like the Roma to return to Kosovo, they are bound by the Geneva Convention on refugees and cannot expel them. In the meantime, they remain without proper papers, regulating their status in the countries where they have taken refuge. They also lack access to education and healthcare services as well as proper accommodation. Redza is one of them. Left to the mercy of local humanitarian organizations and some state help, he is trying to obtain asylum status in Montenegro so that he can continue building a new life there.
Mohammad Arif, from the UN Agency for Refugees, UNHCR, in Macedonia, explains that after 13 years, either the return home of these people – or their integration into the countries where they now live – is complicated.
“Their problems are not easy to solve. Some serious security issues need to be solved first, so these remaining cases are always tough,” he says.
Least Bad In Montenegro
“Konik camp presents apoor image of Montenegro, and representatives of the international institutions are well aware of that,” says Zeljko Sofranac, director of the Montenegrin Bureau for the Care of Refugees.
At a donor conference held in April in Sarajevo, Bosnia, international donors pledged to find €300m for a programme to provide homes for some 74,000 people displaced during the wars in the Balkans. “All their activities, which are conducted with our cooperation, primarily focus on this area.”
Montenegro’s plan is to attract some of that money to its own proposed national housing programme for Roma refugees. The idea is to build more than 1,000 housing units, either by providing prefabricated houses or by providing construction materials to those who have bought land. The total cost of the project is estimated at over €27m, to which Montenegro would contribute approximately €4m.
Sofranac says that the proposed voluntary return of around 500 refugees to Kosovo remains highly problematic, so most of them will probably have to be integrated into Montenegro. “Voluntary return is the best way of solving refugees’ problems. But the only cooperation we receive in Kosovo on this is with local authorities,” he says. “Kosovo’s government, probably with the support of some powerful higher echelons, doesn’t want to fulfill its international obligations in this regard.
Musa Demiri, from Kosovo’s Labour Ministry, says his country is ready to help returnees. “When it engages in the accession process with the EU, it will have to meet those obligations, but that’s not satisfactory for us because we have to act now.” But Demiri admits that with a very high unemployment rate in Kosovo, they cannot guarantee that returnees will find any work or a sustainable livelihood there. “All Kosovo citizens have to be treated equally, and as a ministry we have no special programmes for refugees and returnees,” Demiri says.
Segregated In Serbia
While some Roma refugees in Montenegro at least feel hopeful, NGOs and Serbia’s own Commissariat for Refugees admit that many Roma refugees in Serbia are in a worse position. Serbia treats Roma from Kosovo as internally displaced persons (IDPs), but a problem is that many Roma cannot prove that they are from Kosovo and hence cannot access welfare services. “Since most of the Roma who fled from Kosovo did not have IDs while they were in Kosovo, when they came to Serbia they could not gain the documents that other internally displaced people from Kosovo have got,” Jadranka Jelincic, head of the Open Society Foundation – Serbia, explains.
Regular IDPs from Kosovo receive different levels of state aid, including monthly allowances of around €80. However, this kind of help is blocked to these Roma because of lack of proof that they actually come from Kosovo. Although there are no official statistics, the Commissariat for Refugees estimates that about 22,500 Roma from Kosovo have taken refuge in Serbia. NGOs say the real number is much higher, at about 40,000. Most are situated in and around Belgrade. Usually having no documents and living in informal settlements, they are frequent victims of forced evictions and have to move to other informal settlements, collective centres, or return to Kosovo. They are also often hindered from obtaining legal counsel.
One such eviction recently took place in Belgrade, when the city authorities decided to bulldoze ‘Belville’, an informal Roma settlement located in the heart of the city. Nenad Djurdjevic, head of the Directorate for Human and Minority Rights, maintains that the eviction was “an example of good practice.”
Djurdjevic and other Serbian officials insist that some Roma are “abusing” the fact that the city provides accommodation to Roma who possess documents proving that they have resided in the capital for more than five years. “We’ve helped many of them to find accommodation, and those who refused what we offered left their settlements voluntarily,” he maintains. The Commissariat for Refugees also believes it would be “unfair” to local Serbian Roma, who also face housing problems, if those from Kosovo obtained permanent housing in the capital.
Facing Statelessness In Macedonia
According to the Macedonian Ministry of Labour, Macedonia has some 1,200 Kosovo Roma on its territory.
Human rights activists say that only some of the refugees receive proper treatment in Macedonia, as laid down in the 1951 Geneva Convention. A recent report by the international human rights watchdog Amnesty International says that Macedonia’s Ministry of Labour and Social Welfare has “failed to provide them with the financial assistance and housing required under the 2010 local integration agreement”. That year, Macedonia took over responsibility for the Kosovo Roma from the UNHCR, promising to provide a path to local integration for those who wished to stay.
Davor Politov, spokesperson for the ministry, admits that they are helping only a portion of those people, who have obtained refugee or asylum status. “We are providing social welfare, paying health and social insurance contributions and paying [housing] rent for some 780 people from Kosovo who wish to stay here,” Politov says, adding that the country is also trying to find them jobs. Macedonia gives 2,150 denar, (some €35) a month in welfare to each Kosovan refugee, he adds.
The Luxembourg-based non-profit organization, Chachipe, which tackles the human rights situation of Kosovo Roma across the Balkans, says that the situation of some 260 Roma refugees in Macedonia remains a concern. “The situation of refugees in Macedonia has deteriorated considerably following the transfer of responsibility from the UNHCR to the Ministry of Labour,” says Karin Waringo, from Chachipe. After being rejected for asylum, they are now left without any status, stateless, and in dire need of assistance. “Based on our calculations, more than 20% of the refugees have left Macedonia under financial pressures. Some went to Western Europe, where their chances of getting asylum on the basis of the persecution they experienced in Kosovo are slim,” Karin asserted.
The local branch of UNHCR says it has limited resources to help this group of people, but they insist they at least provide them with legal help. UNHCR financial aid for these people stopped in 2010 due to a lack of funds, they say. “Some of them wish to return to Kosovo and we are considering ways to provide them with housing there,” explains Tihomir Nikolovski, Legal Officer at UNHCR Macedonia. “We are also helping some to get Macedonian citizenship, as they have meanwhile established ties with the local population through marriages and are thus eligible,” he adds.
Nascoste all'opinione pubblica parti dell'accordo con Pristina
"E' stato nascosto, per esempio, che negli incontri, davanti alle delegazioni albanesi può stare soltanto la dicitura Kosovo con un asterisco, senza nota [*]. L'inganno è che i serbi del Kosovo settentrionale non devono prendere le targhe automobilistiche kosovare, ma la condizione per questa operazione è che si devono iscrivere come cittadini del Kosovo. Ci sono anche dei dubbi circa la gestione integrata dei valichi," ha detto Nikolic all'intervista per Vecernje Novosti di questo giovedì.
"Quando terremo dei negoziati sullo status e ci dovremo confrontare con un'enormità di documenti, da cui risulta che ormai praticamente si tratta di uno Stato, cosa faremo? Non so con quale serietà sono stati condotti dei negoziati fino ad ora né a chi, in verità, stia bene il principale negoziatore attuale... Mi sembra che molto sia stato fatto in fretta, quando si doveva ottenere lo status di candidato [alla UE]. E tutto ciò perché un partito si potesse guadagnare la propria favorevole posizione per le elezioni. Si è passato troppo facilmente sopra quello che loro credevano fosse buono per la Serbia, in realtà - non era neanche stato messo su carta."
Nikolic ha annunciato che non appena si formerà il governo, radunerà tutti i personaggi di una certa valenza per la Serbia perché sia creata una piattaforma di dialogo sul Kosovo, e che lui insisterà che nelle successive trattative politiche sula provincia, oltre all'UE, sia inclusa anche l'ONU.
Dopo la presa dell’impianto, presso Obilic, non lontano dalla sospetta fossa comune, dieci operai serbi sparirono nel nulla. L’unico che riuscì a fuggire affermò che i suoi colleghi erano stati liquidati dall’Uck. «I lavori di scavo sono stati interrotti, Eulex valuterà la sicurezza dell’area ed è troppo presto per fare previsioni», ha spiegato uno dei responsabili degli scavi, Alan Robinson. Eulex che ha confermato di aver iniziato a indagare sulle cause del rogo, per ora «non ancora identificate». Le associazioni dei familiari dei rapiti e degli scomparsi serbi del Kosovo hanno invece puntato il dito sull’inazione di Pristina. L’incendio sarebbe scoppiato addirittura sabato, hanno accusato le famiglie dei desaparecidos serbi, ma solo ieri mattina i vigili del fuoco si sarebbero attivati seriamente per spegnere le fiamme. Il tutto per occultare le prove dei massacri, lo “j’accuse” dei serbi. Anche il ministro serbo per il Kosovo, Goran Bogdanovic, ha espresso dubbi sulla natura dell’incendio e ha chiesto a Eulex di dissiparli «per evitare confusione» sul delicato caso. «Completeremo gli scavi e le esumazioni molto presto, ultimando questo progetto», ha assicurato in risposta il governo kosovaro. Nell’ex provincia serba, a 13 anni dalla guerra, si contano ancora 1800 desaparecidos, di cui un terzo serbi.
Western Europe Sends Kosovo Roma To Serbia
According to the head of the Belgrade office of the Fund for Open Society, Jadranka Jelincic, the Western European countries that recognise Kosovo as an independent state are misusing the rights that protect refugees and internally displaced people by returning them to Serbia, and not to their country of origin - Kosovo.
Following the war in Kosovo in 1999, around 200,000 people fled to Serbia where they were given the status of the internally displaced people, IDPs. How many subsequently went on to seek asylum in other countries remains unknown.
“People rarely speak about this problem. I understand when Spain returns Kosovo Roma to Serbia, since it does not recognise the independence of Kosovo, but I cannot understand it when the countries that recognize Kosovo, such as Sweden or Finland, do that,” says Jelincic.
The Swedish Agency for Migration says that they are not guided by political, but legal reasons.
“The documents that Roma IDPs have are either from Serbia or from the former Yugoslavia, and since Serbia is a successor of the former country, we are obliged to send them to Belgrade,” the Swedish Agency for Migration told BIRN.
The Belgrade lawyer Nikola Lazic says that in this situation political conditions cannot be ignored.
“Bearing in mind the complexity of the situation, until this is legally settled between the countries, the process should be either stopped or resolved differently. For example, people should be asked whether they want to go back to Serbia as IDPs or to Kosovo as returnees, “ explains Lazic.
In 2010 the Council of Europe and Amnesty International called on countries to stop deporting Roma to Kosovo “until it is proven that they could live safely there”.
In its report Amnesty wrote: “Following Kosovo’s unilateral declaration of independence, the Kosovo authorities have come under increasing pressure from Germany and other EU member states to accept returnees. However, the authorities in Kosovo lack the resources and political will to provide forced returnees with assistance.”
As a condition of a visa free regime, Serbia signed a readmission agreement with the European Union in January 2008, while Kosovo started signing individual agreements with EU member states in 2004.
It is not clear how many people should be returned to Serbia on the basis of the readmission agreement. In 2003, the Council of Europe estimated that the figure could be between 50,000 and 100,000 but over the last few years, figures as high as 150,000 have also been cited.
The majority of returnees to Serbia, around 70 per cent, are returning from Western European countries, mainly Germany, followed by Scandinavian countries, Switzerland and The Netherlands.Between 60 and 70 per cent were Roma, according to estimates.
Kosovo declared its independence from Serbia in 2008, but Serbia still regards it as its southern province and opposes its independence.
In Kosovo, dangers in returning home
20/07/2012
One of the challenges for the returnees is their safety and the security.By Linda Karadaku for Southeast European Times in Pristina -- 20/7/12
More than 330,000 of the 3 million people displaced during the Balkan conflict in the 1990s remain separated from their homes, with as many as 200,000 Kosovars still living in surrounding countries.
Since 2000, more than 23,000 from minority communities have voluntarily returned to Kosovo. But experts say the return and reintegration, especially for the Serb community, can often be difficult.
"The challenges affect not only returnees, but Kosovo society as a whole; weak rule of law, struggling economy, lack of infrastructure, inadequate delivery of basic services, including access to health, education, social protection," Dejan Radivojevic, manager at the Inclusive Local Development, UNDP Kosovo, told SETimes.
Since 2010, Bosnia and Herzegovina (BiH), Croatia, Montenegro, and Serbia renewed their efforts to find permanent solution for some 73,000 refugees from the Yugoslav conflict.
Some 2,200 people, mainly Serbs, remain displaced within Croatia. Montenegro hosts more than 16,000 displaced persons from BiH, Croatia and Kosovo. Macedonia hosts some 1,600 refugees, mostly Roma, from Kosovo.
Jo Hagenauer, the head of Kosovo UNCHR, told SETimes that the return is slow, with many obstacles.
"One of the challenges is that the overall security situation for minorities in Kosovo is relatively stable but fragile. Incidents targeting property of minorities and the quality of response from the law enforcement negatively impacted the perception of Kosovo security among the minority communities," Hagenauer said.
Radivojevic agreed. "Although overall security in Kosovo remains relatively stable, some incidents targeting individual returnees and recent clashes in northern Kosovo continue to pose challenges to the actual and perceived safety of returnees from minority communities, and their freedom of movement in Kosovo," she said.
Hagenauer said that the number of reported security incidents, potentially ethnically motivated, is steadily declining, "However, tensions continue to exist between communities and interactions are still very limited, especially in Kosovo north."
In early July, a Serb couple, Milovan and Liljana Jevtic, returned to Kosovo, but were killed in their house in the Talinoc village, near Ferizaj. Kosovo and international representatives condemned the murders, asking for the perpetrators to face justice, but they are still at large.
"Despite regular co-operation with Kosovo police, the perpetrators remain unidentified and unpunished, therefore, we are for an enlargement of institutional co-operation on all levels, so that security, which is already fragile, does not get more complicated," Radojica Tomic, Kosovo minister for returns and communities, told SETimes.
Tomic said the returns process faces many security challenges for returnees in areas of Albanian majority population.
"We still consider necessary the inter-ethnic dialogue between the local community and the returnees," Tomic told SETimes.
UNHCR confirmed that in the last two years, a total of 159 houses were handed over to returnee families, but in 2012 there has been a slowdown in returns, mainly due to the absence of housing assistance projects and finding a more lasting solution elsewhere.
Economic conditions for both majority and minority communities remain poor in Kosovo. Poverty and unemployment prevail. Some 1,250 internally displaced persons and refugees continue to live in collective centres in Gjilan, Mitrovica and Pristina, UNHCR confirms.
Tomic told the media that 425 people returned in 2011, most of them elderly.
Momcilo Jovanovic, 50, decided to return to Kosovo from Serbia, to the village of Brusince, in Kamenica municipality. He said the main problem is unemployment and his only in
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Ljubodrag Duci Simonović - јун 10, 2012 · by nedjeljnilistborba
Par Daniel Salvatore Schiffer - 26 Juillet 2012
JUGOINFO 3 settembre 2004
JUGOINFO 28 agosto 2008
(42) Serbia 1 1 2 4
( 14 ) Parigi 1924 2 0 0 2
( 21 ) Amsterdam 1928 1 1 3 5
( 25 ) Berlino 1936 0 1 0 1
( 24 ) Londra 1948 0 2 0 2
( 21 ) Helsinki 1952 1 2 0 3
( 26 ) Melbourne 1956 0 3 0 3
( 18 ) Roma 1960 1 1 0 2
( 19 ) Tokyo 1964 2 1 2 5
( 16 ) Città del Messico 1968 3 3 2 8
( 20 ) Monaco 1972 2 1 2 5
( 16 ) Montreal 1976 2 3 3 8
( 14 ) Mosca 1980 2 3 4 9
( 9 ) Los Angeles 1984 7 4 7 18
( 16 ) Seul 1988 3 4 5 12
Slovenia
( 52 ) Barcellona 1992 0 0 2 2
( 55 ) Atlanta 1996 0 2 0 2
( 35 ) Sydney 2000 2 0 0 2
( 64 ) Atene 2004 0 1 3 4
Croazia
( 44 ) Barcellona 1992 0 1 2 3
( 45 ) Atlanta 1996 1 1 0 2
( 48 ) Sydney 2000 1 0 1 2
( 44 ) Atene 2004 1 2 2 5
( 57 ) Pechino 2008 0 2 3 5
Bosnia-Erzegovina
( - ) Atlanta 1996 0 0 0 0
( - ) Sydney 2000 0 0 0 0
( - ) Atene 2004 0 0 0 0
( - ) Pechino 2008 0 0 0 0
Repubblica ex-jugoslava di Macedonia - FYROM
( 70 ) Sydney 2000 0 0 1 1
( - ) Atene 2004 0 0 0 0
( - ) Pechino 2008 0 0 0 0
Repubblica Federale di Jugoslavia,
dal 2004: Unione di Serbia-Montenegro
( 41 ) Atlanta 1996 1 1 2 4
( 42 ) Sydney 2000 1 1 1 3
( 62 ) Atene 2004 0 2 0 2
Doping politicoFonte: il manifesto, 7.08.2012
Autore: Manlio Dinucci
Tra le squadre alle Olimpiadi di Londra ce n’è una multinazionale, formata da giornalisti che, allenati da coach politici, eccellono in tutte le discipline della falsificazione. La medaglia d’oro va ai britannici, primi nello screditare gli atleti cinesi, descritti come «imbroglioni, scherzi di natura, robot». Un secondo dopo che la nuotatrice Ye Shiwen ha vinto, la Bbc ha insinuato il dubbio del doping. Il Mirror parla di «brutali fabbriche di addestramento», in cui gli atleti cinesi vengono «costruiti come automi» con tecniche «ai limiti della tortura», e di «atleti geneticamente modificati».
La medaglia d’argento va al Sole 24 Ore che, tramite l’inviata Colledani, descrive così gli atleti cinesi: «La stessa faccia squadrata, la stessa concentrazione militaresca, fotocopia l’uno dell’altro, macchine senza sorriso, automi senza eroismo», creati da una catena di montaggio che «sforna ragazzini come bulloni», costringendoli alla scelta «piuttosto che fame e povertà, meglio disciplina e sport». C’è nostalgia a Londra dei bei tempi andati, quando nell’Ottocento i cinesi venivano «scientificamente» descritti come «pazienti, ma pigri e furfanti»; quando gli imperialisti britannici inondavano la Cina col loro oppio, dissanguandola e asservendola; quando, dopo che le autorità cinesi ne proibirono l’uso, la Cina fu costretta con la guerra a cedere alle potenze straniere (tra cui l’Italia) parti del proprio territorio, definite «concessioni»; quando all’entrata del parco Huangpu, nella «concessione» britannica a Shanghai, c’era il cartello «Vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi». Liberatasi nel 1949, la nuova Cina, non essendo riconosciuta dagli Usa e dai loro alleati, venne di fatto esclusa dalle Olimpiadi, alle quali poté partecipare solo nel 1984. Da allora è stato un crescendo di successi sportivi. Non è però questo a preoccupare le potenze occidentali, ma il fatto che la Cina sta emergendo come potenza in grado di sfidare il predominio dell’Occidente su scala globale. Emblematico che perfino le uniformi della squadra Usa alle Olimpiadi siano made in China. Dal 2014 saranno usate solo quelle made in America, ha promesso il Comitato olimpico Usa, organizzazione «non profit» finanziata dalle multinazionali.
Che, con le briciole di quanto ricavano dallo sfruttamento delle risorse umane e materiali di Asia, Africa e America latina, finanziano il reclutamento di atleti da queste regioni per farli gareggiare sotto la bandiera a stelle e strisce. La Cina invece considera «lo sport come una guerra senza uso di armi», accusa il Mirror. Ignorando che la bandiera olimpica è stata issata da militari britannici, che hanno usato le armi nelle guerre di aggressione. La Cina è l’ultima ad avere «atleti di stato», accusa Il Sole 24 Ore. Ignorando che, dei 290 olimpionici italiani, ben 183 sono dipendenti statali in veste di membri delle forze armate, poiché solo queste (per una precisa scelta politica) gli permettono di dedicarsi a tempo pieno allo sport. Una militarizzazione dello sport, che il ministro Di Paola chiama «binomio sport-vita militare, fondato su un’etica condivisa, caratteristica dell’appartenenza ad un corpo militare così come ad un gruppo sportivo». Allora quella contro la Libia non è stata una guerra, ma l’allenamento per le Olimpiadi.
Da: Fabio MuzzolonData: 13 agosto 2012 20.05.45 GMT+02.00in margine alle Olimpiadi (e alle vacanze), un fatto sfuggito sul croato bilingue che ha battuto la nostra medaglia d'argento Massimo Fabbrizi nel tiro a volo...
SULLA MINORANZA ITALIANA IN CROAZIA.
Mi trovavo da quelle parti quando il tiratore croato, medaglia d'oro olimpica, Giovanni Cernogoraz, professione cameriere di famiglia, veniva festeggiato nella sua Città Nova, in slavo Novi Grad, sulla costa istriana. Il cronista della RAI era un po' imbarazzato davanti a questo nome un po' ibrido ed esotico. Un cognome forse strano per un atleta della minoranza italiana che in casa parla dialetto veneto-istriano, cognome scritto in grafia italiana ma che in serbo-croato significa "montenegrino" o di qualche altro Monte Nero nei paraggi, a conferma che le identità non sono mai del tutto separate e definitive.
Qualcuno avrà pensato: ma come può esserci un italiano in Croazia, ex Tito-slavia, non erano stati tutti cacciati o "infoibati"? Eppure da fonti croate si sa che gli italiani dichiarati (senza timori o pigrizie di dichiararsi!) sono almeno 20.000 nella sola Croazia, ma il rappresentante della Comunità Italiana (Talijanska Zajednica) di Dignano-Vodnjan dice che potrebbero aggirarsi sui 35.000, ma la presenza di moltissimi "misti" -tipica eredità jugoslava- rende il conto molto difficile. Tanto più arduo contare gli Istriani e Dalmati che usano l'italiano o il croato in modo bilingue nonostante il crescente centralismo croato. Intanto sempre di più da noi si sente dire "Vado a Porec in Croazia" quando in italiano sarebbe preferibile "Vado in Istria, a Parenzo".
Olimpiadi: il sogno infranto degli atleti kosovari
Il veto di Divac
Non solo le olimpiadi
Arrivederci a Rio
http://nedjeljnilistborba.wordpress.com/2012/07/09/olimpijske-igre-mit-i-stvarnost/
LJUBODRAG SIMONOVIĆ: OLIMPIJSKI PLAMEN
LONDONSKE OLIMPIJSKE IGRE. IGRE SMRTI.
Olimpijske igre.
Najznačajnija svetkovina kapitalističkog sveta.
„Plava loža“ je puna.
Dželati čovečanstva su na okupu.
Tu je i kraljica.
Britanska kraljevska kuća…
Najkrvavija zločinačka organizacija za koju istorija zna.
London slavi!
Bojni brodovi, avioni, rakete, policajci, komandosi…
Pravi olimpijski ambijent.
Fanfare, olimpijska koračnica…
Roboti marširaju.
Ave cæsar! Morituri te salutant!
Kraljica maše.
Kraljica se smeje.
Kraljica zeva.
„Golubi mira“ nestaju u tami otrovanog neba.
To su Olimpijske igre, budalo!
Smej se!
Svi moraju biti srećni!
„Sport je najjeftinija duhovna hrana za radne mase -
koja ih drži pod kontrolom.“
Stari, dobri Kuberten.
Znao je kako treba vladati.
Olimpijske igre.
Bile su „festival mladosti“.
Sada su festival smrti.
Kraljica je zadremala.
Neka je.
Neka utone u večni san.
Kao i Bler, Buš, Klinton, Sarkozi, Obama…
Kao i svi kapitalistički zlikovci.
Spavajte! – olimpijski anđeli.
Spavajte! – olimpijski gadovi.
I nikada se nemojte probuditi.
X X X
C’est la première fois dans l’histoire de l’Organisation que le Conseil de sécurité refuse de condamner une action terroriste visant ses propres observateurs.
Da: "Miriam" <gamadilavoce @ aliceposta.it>Data: 14 agosto 2012 21.18.08 GMT+02.00Oggetto: [vocedelgamadi] Lutto assai dolorosoIl Partigiano, il comunista, il combattente contro tutte le ingiustizie in ogni parte del mondo: Spartaco Ferri non é più con noi.Aveva la tessera del partito comunista nel 1943, quando aveva solo 19 anni. Diffondeva l' Unità (un solo fogio clandestino) cosa che avrebbe potuto costargli la vita.e imparò a sparare al nemico dal suo comandante che era un valido jugoslavo, quando partì per essere partigiano nelle montagne umbre Aveva creduto e sperato nel Partito comunista di Gramsci. Ma quando nel 1968 i burocrati del partito chiamavano la polizia contro gli studenti in lotta, anzichè ascoltarli, capirli e indirizzarli alle teorie scientifiche della classe, Spartaco non esitò a lasciare il Partito. Lavorò per l' amicizia con la Cina di Mao, con l' Albania di Hoxha, con la Jugoslavia di Tito,con la Corea di Kim Il Sung, con Cuba. Accolse con grande entusiamo la proposta della sua compagna di vita e di lotta, Miriam, madre dei suoi figli, che ideò di fondare il G.A.MA.DI. per la diffusione della cultura scientifica della nostra classe.Nel suo lavoro di Perito industriale specialista in cemento precompresso, é stato premiato con medaglia dal ministero dei Lavori Pubblici per aver collaborato alla costruzione del Ponte in Tor di Quinto in Roma. Il tentativo più volte fallito di costruire l' autocamionale della CISA, che unisce il parmense a La Spezia, é stato realizzata con la direzione di Spartaco e a tutt'oggi (dopo più di trent' anni) é funzionante.Spartaco é stato un uomo nel senso più pieno del termine per la sua intelligenza per la sua onestà, per la sua lealtà e per l' impegno politico e sociale per il quale é stato sempre protagonista. Insieme alla sua compagna, Egli ha scritto una delle pagine d' amore più belle e più intense vissute nel corso della loro unione durata oltre sessant' anni.Addio Spartaco!!! Non ti dimenticheremo e continueremo a lottare!!!
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notiziario del Gruppo Atei Materialisti Dialettici (GAMADI).
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telefono e fax: 06-7915200;
indirizzo: Piazza L. Da Vinci, 27 - 00043 Ciampino (Roma)
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NATO war against Yugoslavia based on lies
Germany joined the war against Yugoslavia under the pretense of fabricated facts. Sensational confession of German policeman Henning Hentz [wr. Hensch] who served in the OSCE in Kosovo in the 90s confirmed that.
The reason here is that photographs taken by Hentz [wr. Hensch] in late January 1999 were used by then German Defence Minister Rudolf Scharping to justify the immediate interference of NATO in the Kosovo conflict. He presented the photographs of the militants killed in Rugovo as photos of innocent Albanian victims.
What did really happen in Kosovo in late January of 1999, several months before NATO launched its operation against Yugoslavia? According to Serbian sources, more than two dozens of Kosovo Liberation Army terrorists were killed in Rugovo, while the Western mass media insisted that at least nine of them were civilians. Particularly, the daily New York Times wrote with the reference to a local field commander that there were only four KLA militants in the village and he knew nothing about other people. January 29, on that day OSCE mission representative Henning Hentz [wr. Hensch] was in Rugovo. He shared his impression of the visit with the Voice of Russia correspondent Iovanna Vukotic which gives a real picture of what happened. He said that this had nothing to do with the killing of Albanian civilians.
“We discovered 25 bodies, including 11 in a bus and some others near the vehicle. Several other bodies were laying in a barn which was used as a garage. The territory around the barn was covered with snow but there were no traces. I thought that the bodies were brought there from another location, and most likely, a day before the clash between Serb police and KLA militants,” Henning Hentz [wr. Hensch] said.
At the time, German Defence Minister Rudolf Scharping showed only some of the photos taken by Henning Hentz [wr. Hensch] and for some reason said those were taken by a German officer. He deliberately ignored the photos that clearly showed the dead bodies of KLA militants. So, Scharping managed to convince the public that “bad guys” or Serbs were again killing innocent Albanians and provoked a wave of refugees, says Hentz [wr. Hensch].
“For Germans, this meant that they would be involved in a military operation for the first time after the Second World War. My impression is that the situation in Kosovo at the time was exaggerated. When I visited Kosovo, there was no necessity for Albanians to leave their homes en mass. A real exodus started with the beginning of bombing. A major part of the report on the Kosovo situation was exaggerated and was always against Serbs,” Henning Hentz [wr. Hensch] added.
Ethnic cleansing in Kosovo was used as a pretext for bombing Yugoslavia. And the incident in the village of Rugovo shows once again that the PR campaign against Belgrade was organized using obvious forgeries. Reportedly, NATO started thinking about an invasion after the killing of 40 civilian Albanians in Rachak. However, experts who studied the forensic reports concluded that there was no evidence proving that the killed were civilians, and that they were killed by Serbian servicemen.
This technology is being used even now. For example, the photos taken in Iraq in 2003 are used in news broadcasts to show the deaths of Syrian civilians. The dramatic effect is achieves by using photo editing programmes. For example, a Syrian family walking in the streets of an ordinary city, photo is shown on a background of ruined buildings. Ultimately, they achieve the necessary effect. In the 19th century, a prominent Russian gnomic poet Kozma Prutkov said: If you read the world buffalo on a cell of an elephant, please, do not believe it. Truly, in the 19th century, there was no high-tech to make a fly from an elephant as well as genocide from contract killing.
Massaker in Rugovo: Nato-Aggression unter einem Vorwand
8.08.2012
Deutschland ist in den Nato-Krieg gegen Jugoslawien unter einem Vorwand eingetreten. Davon zeugen sensationelle Aussagen des deutschen Polizisten Henning Hensch, der Ende der 1990er bei der OSZE im Kosovo arbeitete. Ende Januar 1999 machte Hensch einige Aufnahmen, mit denen der damalige deutsche Verteidigungsminister Rudolf Scharping für einen dringlichen Nato-Eingriff in den Konflikt plädierte. Dabei gab er die Bilder der im Dorf Rugovo vernichteten kosovarischen Militanten für Fotos von harmlosen albanischen Opfern aus.
Was ist tatsächlich im Januar 1999, also wenige Monate vor dem Beginn der Nato-Operation gegen Jugoslawien, in Rugovo geschehen. In Serbien spricht von der Vernichtung von über 20 Terroristen aus der Befreiungsarmee des Kosovo. In den westlichen Medien wird dagegen behauptet, dass mindestens 9 Opfer Zivillisten waren. So schrieb die Zeitung „New York Times“ unter Berufung auf einen Kommandeur der UÇK, dass in Rugovo nur vier bewaffnete Kämpfer umgebracht worden seien. Dabei habe der Mann nicht gewusst, wer die anderen waren.
An jenem Tag, den 29. Januar 1999 war der OSZE-Beobachter Henning Hensch in Rugovo. Seine Erinnerungen, die er mit Jovana Vukotic, Korrespondentin der Stimme Russlands, teilte, werfen ein Schlaglicht auf die Geschehnisse im Dorf. Dass es ein Mord an Zivilisten war, schließt Hensch mit Sicherheit aus:
„Dort fanden wir insgesamt 25 Leichen. Alle Menschen waren auf unterschiedliche Weise ums Leben gekommen. Es war mir als Polizist sofort klar, dass das so nicht gewesen sein konnte. Es lagen elf Leichen in einem roten Transporter und um das Fahrzeug herum lagen fünf weitere Tote. Die Fläche dahinter war frei von Spuren auf dem Schnee. Also von dort aus konnte es nicht gekommen sein. Ich hatte gleich den Eindruck, dass dort die Leichen abgelegt worden waren. Die Menschen müssen an einer anderen Stelle getötet worden sein. Außerdem gab es schon vor zwei Tagen – am 27. oder 28. – Scharmützel zwischen serbischen Sicherheitstruppen und der albanischen UÇK.“
Der deutsche Verteidigungsminister Rudolf Scharping präsentierte seinerzeit nur einen Teil von den Aufnahmen, die Hensch in Rugovo gemacht hatte. Scharping zufolge stammten die Bilder von einem deutschen Offizier. Dabei wurde der OSZE-Beobachter Hensch nicht einmal erwähnt. Die Fotos, auf denen sich die Umgebrachten als UÇK-Terroristen erkennen ließen, wurden vom Minister bei der Präsentation ausgelassen. So konnte Scharping die Weltgemeinschaft davon überzeugen, dass böse Serben wehrlose Albaner ermordeten und somit neue Fluchtwellen auslösten. Henning Hersch fährt fort:
„Für die Deutschen bedeutete das, dass sie das erste Mal nach dem Zweiten Weltkrieg an einem militärischen Einsatz beteiligt werden sollten. Und ich behaupte – so war es zumindest mein Eindruck – dass man damals die Situation im Kosovo überzogen dargestellt hat. Erstens hatten die Albaner zu dem Zeitpunkt, als ich im Kosovo war, keine Gelegenheit in dieser großen Zahl zu fliehen. Dieses passierte erst nach den Bombenangriffen, weil sie möglicherweise vor serbischen Zugriffen oder auch vor den Bomben Angst hatten. Das war also mein Eindruck und ich weiß, dass es so war. Es war also maßlos übertrieben dargestellt worden – und nach meiner Auffassung auch einseitig zulasten der Serben. Tatsächlich wurden die UÇK und ihre Führung nie verfolgt. Vor dem Internationalen Strafgerichtshof habe ich bisher mit einer Ausnahme (Haradinay wurde freigelassen) noch keinen albanischen Führer gesehen.“
Als Grund für Luftangriffe auf Jugoslawien dienten die sogenannten massenhaften ethnischen Reinigungen im Kosovo. Die bekannt gemachten Informationen über den Massenmord in Rugovo zeigen deutlich, dass die PR-Kampagne gegen Belgrad auf offensichtlichen Fälschungen beruhte. Die Nato startete bekanntlich ihre Mission nach dem Massaker an 40 Albanern im kosovarischen Dorf Racak. Doch eine forensische Untersuchung konnte nicht bestätigen, dass es bei den Ermordeten um zivile Personen ging. Mehr noch: Es gab auch keinen Beweis dafür, dass für das Massaker serbische Soldaten verantwortlich waren. Diese Ergebnisse wurden aber erst nach der Katastrophe in Jugoslawien bekannt, zu der „Barmherzige Engel“ der Allianz das Land verdammte.
Die jugoslawischen Erfahrungen bleiben auch heute aktuell. Die Aufnahmen, die 2003 im Irak gemacht wurden, werden für die Darstellung der Zerstörungen in Syrien benutzt. So wurde ein Foto einer Familie mit dem Hintergrund zerstörter Fassaden kombiniert. Henning Hensch befürchtet, dass sich in Syrien das kosovarische Szenario abspielen wird:
„Es ist alles hilflos: Die UNO tagt, der Sicherheitsrat tagt, doch die Entscheidungen kommen nie. In Syrien passiert auch nichts. Man ist hilflos, das war auch so im Kosovo der Fall, so war es in Libyen gewesen. Es muss irgendetwas gemacht werden, damit das Töten und Vernichten aufhören. Es bringt ja auch nichts, im Kosovo und im Irak ist alles niedergebombt worden. Jetzt wird in Syrien niedergebombt. Was soll darauf folgen? Wiederaufbau?“
B92 - February 28, 2012
"NATO bombed Serbia because of lies"
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=sy9JZk8GBlw
BELGRADE: NATO launched its 1999 war against Serbia "because of German Defense Minister Rudolf Scharping's lies", claims a former member of an OSCE mission in Kosovo.
Belgrade-based Blic newspaper writes, quoting the Vestionline website, that ahead of the start of the war, Scharping falsely presented members of the ethnic Albanian KLA "rebels" as civilian victims.
The Serbian authorities considered the KLA to be a terrorist group.
Scharping was accused by former German police official Henning Hensch, an OSCE observer in Kosovo before the war, who spoke for Germany's NDR television.
This OSCE observer was personally present during the investigation of the scene in Rugovo in Kosovo in January 1999, where Serbian police units fought against KLA members.
The German television program featuring an interview with Hensch also showed Scharping in a news conference in early 1999, where he presented photographs from Rugovo of KLA members killed in battle, claiming they depicted massacred civilians.
Furthermore, the German minister told reporters that the OSCE photos of the scene were made "secretly by a German officer", and that he would have "gladly presented him (to reporters)", but that the officer is question was "receiving medical treatment because of the traumatic experiences" that he underwent in Kosovo.
13 years later, NDR journalists asked the German Defense Ministry to confirm that "a German officer" was in the area at the time secretly taking photoraphs, to after several weeks receive a reply that this was not the case.
Scharping himself, said the television, could not be reached for comment.
NATO's aerial war lasted for 78 days in the spring of 1999, and ended with the signing of the Kumanovo Agreement, and the adoption of Resolution 1244 at the UN Security Council.
U ovom prilogu ćete videte svedočenje gospodina Heninga koji je tada na Kosovu bio posmatrač OEBS-a i lično je prisustvovao uviđaju u Rugovu, gde se desila borba između srpskih policijskih jedinica i UČK pobunjenika.
Tadašnji ministar Rudolf Šarping je zloupotrebio čitavu situaciju i predstavio UČK pobunjenike kao civilne žrtve, što je dovelo i opravdavalo vojni napad na Srbiju.
All’ombra di Hiroshima
Fonte: www.znetitaly.org | Autore: Noam Chomsky
Il 6 agosto, anniversario di Hiroshima, dovrebbe essere un giorno di sobria riflessione, non solo sugli eventi terribili di quel giorno del 1945, ma anche su ciò che essi hanno rivelato: che gli esseri umani, nella loro appassionata ricerca di ampliare le proprie capacità di distruzione, avevano alla fine trovato un modo per avvicinarsi al limite estremo.
Quest’anno le commemorazioni del 6 agosto hanno un significato speciale. Hanno luogo poco prima del cinquantesimo anniversario del “momento più pericoloso della storia umana”, nelle parole dello storico e consigliere di John F. Kennedy, Arthur M. Schlesinger Jr., con riferimento alla crisi dei missili cubani.
Graham Allison scrive sull’ultimo numero di Foreign Affairs che Kennedy “ordinò azioni che sapeva avrebbero aumentato il rischio non solo di una guerra convenzionale ma anche di una guerra nucleare”, con una probabilità forse del 50%, riteneva, una stima che Allison considera realistica.
Kennedy dichiarò uno stato di allerta nucleare di alto livello che autorizzava “velivoli della NATO con piloti turchi … (o altri) … a decollare, volare fino a Mosca e sganciare una bomba.”
Nessuno fu più sconvolto dalla scoperta dei missili a Cuba degli uomini che avevano la responsabilità di missili simili che gli Stati Uniti avevano segretamente dislocato a Okinawa sei mesi prima, certamente puntati sulla Cina, in un momento di elevate tensioni regionali.
Kennedy portò il presidente Nikita Krusciov “proprio sull’orlo di una guerra nucleare, guardò oltre il ciglio del baratro e gli mancò il coraggio,” secondo il generale David Burchinal, allora ufficiale di alto rango del personale di pianificazione del Pentagono. E’ arduo poter contare in eterno su una simile ragionevolezza.
Krusciov accettò una formula ideata da Kennedy ponendo fine alla crisi evitando la guerra. L’elemento più sfacciato della formula, scrive Allison, fu “un contentino segreto consistente nella promessa di ritiro dei missili statunitensi dalla Turchia entro sei mesi dalla soluzione della crisi.” Si trattava di missili obsoleti che erano già in corso di sostituzione con i molto più letali, e invulnerabili, sottomarini Polaris.
In breve, anche se correndo un elevato rischio di una guerra di devastazioni inimmaginabili, fu ritenuto necessario rafforzare il principio che gli Stati Uniti avevano il diritto unilaterale di dispiegare missili nucleari dovunque, alcuni puntati sulla Cina o ai confini della Russia, che in precedenza non aveva dislocato missili al di fuori dell’URSS. Naturalmente sono state offerte delle giustificazioni, ma non penso che esse resistano all’analisi.
Un principio accompagnatorio è che Cuba non aveva diritto di avere missili di difesa contro quella che sembrava un’invasione statunitense imminente. I piani di Kennedy, piani terroristici, l’Operazione Mongoose [Mangusta], prevedano “la rivolta aperta e il rovesciamento del regime comunista,” nell’ottobre 1962, il mese della crisi dei missili, riconoscendo che “il successo finale richiederà il deciso intervento militare statunitense.”
Le operazioni terroristiche contro Cuba sono comunemente scartate dai commentatori come insignificanti bravate della CIA. Le vittime, non sorprendentemente, vedono le cose in modo piuttosto diverso. Possiamo finalmente udirne le voci nel libro di Keith Bolender “Voices from the Other Side: An Oral History of Terrorism Against Cuba” [Voci dall’altra parte: storia orale del terrorismo contro Cuba].
Gli eventi dell’ottobre 1962 sono diffusamente celebrati come il momento più alto di Kennedy. Allison li presenta come “una guida su come disinnescare conflitti, gestire rapporti tra grandi potenze e prendere decisioni valide in politica estera in generale.” In particolare, oggi, nei conflitti con l’Iran e la Cina.
Il disastro fu pericolosamente vicino nel 1962 e non c’è stata mancanza di momenti pericolosi da allora. Nel 1973, negli ultimi giorni della guerra arabo-israeliana, Henry Kissinger decise un allerta nucleare di alto livello. L’India e il Pakistan sono arrivati vicini alla guerra nucleare. Ci sono stati innumerevoli casi in cui l’intervento umano ha bloccato un attacco nucleare solo pochi momenti prima del lancio dopo informazioni errate dei sistemi automatici. C’è molto da riflettere il 6 agosto.
Allison si unisce a molti altri nel considerare i programmi nucleari iraniani come la più grave crisi attuale, “una sfida anche più complessa, per i decisori della politica statunitense, della crisi dei missili cubani” a causa della minaccia dei bombardamenti israeliani.
La guerra contro l’Iran è già bene in corso, compresi gli assassinii di scienziati e le pressioni economiche che hanno raggiunto il livello di una “guerra non dichiarata”, a giudizio dello specialista dell’Iran, Gary Sick.
Si ricava grande orgoglio dai sofisticati attacchi informatici diretti contro l’Iran. Il Pentagono considera gli attacchi informatici come “un atto di guerra” che autorizza il bersaglio “a reagire utilizzando la forza militare tradizionale”, riferisce il Wall Street Journal. Con la solita eccezione: non quando i perpetratori sono gli Stati Uniti o i loro alleati.
La minaccia iraniana è stata recentemente delineata dal generale Giora Eiland, uno dei pianificatori militari israeliani di vertice, descritto come “uno dei più geniali e prolifici pensatori che [l’esercito israeliano] abbia mai prodotto.”
Delle minacce che egli descrive la più credibile è che “qualsiasi scontro ai nostri confini avrà luogo sotto l’ombrello nucleare iraniano”. Israele potrebbe perciò essere costretto a ricorrere alla forza. Eiland concorda con il Pentagono e i servizi segreti statunitensi, che considerano anch’essi la deterrenza come la maggiore minaccia posta dall’Iran.
L’attuale intensificazione della “guerra non dichiarata” contro l’Iran accresce la minaccia di una guerra accidentale su larga scala. Alcuni di pericolo sono stati illustrati nel mese scorso quando una nave statunitense, parte dell’enorme spiegamento nel Golfo, ha sparato contro una piccola imbarcazione da pesca, uccidendo un membro indiano dell’equipaggio e ferendone almeno altri tre. Non ci vorrebbe molto per scatenare una grande guerra.
Un modo sensato per evitare tali conseguenze orribili consiste nel perseguire “l’obiettivo di creare in Medio Oriente una zona libera da armi di distruzione di massa e da tutti i missili per il loro trasporto e l’obiettivo di un bando globale alle armi chimiche”, secondo la formulazione della risoluzione 687 del 6 aprile 1991 del Consiglio di Sicurezza, che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno invocato nel loro tentativo di dare una tenue copertura legale alla loro invasione dell’Iraq dodici anni dopo.
L’obiettivo è un obiettivo arabo-iraniano dal 1974, regolarmente riconfermato e a questo punto ha un sostegno globale quasi unanime, almeno formalmente. A dicembre potrà aver luogo una conferenza internazionale per prendere in considerazione modi per attuare un simile trattato.
Un progresso è improbabile salvo che ci sia un forte sostegno in occidente. Non cogliere l’opportunità allungherà, una volta di più, l’ombra sinistra che ha oscurato il mondo da quel 6 agosto fatale.
© 2011 Noam Chomsky
Distribuito dal The New York Times Syndicate.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
traduzione di Giuseppe Volpe
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Da "Menzogne di guerra" di J. Elsasser (1) alcune cose saltano agli occhi, specie in "BND e HNA", i servizi di intelligence tedesco e austriaco (dove il primo comandava e il secondo ubbidiva), e soprattutto nella sezione "Operazione vento del sud".
Si parla tra l'altro di Helmut Stubner, estremista nazista austriaco collegato all'FPO e ad Haider. Stubner risulta uomo dei servizi austriaci e quindi tedeschi, con un ruolo importante nel lavoro che precedette, istruì e poi mise in atto il "percorso di di autodeterminazione di Slovenia e Croazia" nel 1991 e seguenti (pagg. 89-91 nell'edizione italiana edita da "La città del Sole").
E guarda un po', lo Stubner, che lavorava sulle questioni etniche europee in seno al partito FPO, e sempre in organico nell'HNA, nel '91 salta in aria in Sud Tirolo mentre lavora alla costituzione di un gruppo terrorista-secessionista in Alto Adige. I suoi bolzanini compagni di ventura, interrogati ad Innsbruck, vantarono il suo lavoro come determinante per la preparazione e l'addestramento della Difesa territoriale slovena in preparazione alla secessione e all'inevitabile scontro con l'Armata federale jugoslava. Nel suo computer viene trovato un file, "Operazione Sudwind", e un elenco di contatti tra i quali quello di Renato Krajnc, al capo dei servizi sloveni all'epoca. I contatti del gruppo di Stubner interno all'FPO risalgono fino al Ministero della Difesa austriaco.
Nelll'interrogatorio di Innsbruck del 1991, anno di secessione della Slovenia, la banda armata di Bolzano afferma:
"Se la Slovenia ha potuto ottenere senza azioni militari di rilievo l'indipendenza questo è da ricondurre alla buona preparazione militare durata anni, che è stata attuata tramite il servizio informativo dell'esercito austriaco (HNA). Per il giorno X (guerra civile o conflitto bellico con la Serbia) Strubner avrebbe [sic], per conto dell'HNA e insieme ad altri alti ufficiali austriaci, costruito e formato cellule di difesa territoriale, dotate di armi e di addestramento militare. Il successo, il fatto che oggi la Slovenia è indipendente, sarebbe dovuto soprattutto a questa buona preparazione".
Come dire: stiamo parlando di cose serie...
(a cura di Jure Ellero)
1) Cap. V: "Wag the dog" - https://www.cnj.it/documentazione/bibliografia.htm#elsaes02 .
Inizio messaggio inoltrato:
Da: jugocoord
Data: 05 agosto 2012 09.47.18 GMT+02.00
A: JUGOINFO
Oggetto: [JUGOINFO] Los von Rom (Via da Roma)
(La crisi in Europa rinfocola le tendenze separatiste del Sudtirolo, a loro volta sostenute da determinati settori dell'establishment germanico...)
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58391
Der Zentralstaat als Minusgeschäft
03.08.2012
BOLZANO/ROM/BERLIN (Eigener Bericht) - Unter dem Druck der Eurokrise spitzt sich der von Berlin geförderte Autonomiekonflikt in der italienischen Provinz Bolzano/Alto Adige ("Südtirol") zu...
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http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58391
Der Zentralstaat als Minusgeschäft
03.08.2012
BOLZANO/ROM/BERLIN (Eigener Bericht) - Unter dem Druck der Eurokrise spitzt sich der von Berlin geförderte Autonomiekonflikt in der italienischen Provinz Bolzano/Alto Adige ("Südtirol") zu. Die italienische Regierung muss aufgrund des deutschen Spardiktats umfangreiche Kürzungen im Staatshaushalt vornehmen und dringt nun darauf, dass auch Südtirol sich angemessen beteiligt. Die Regierung der Provinz, die zu den wohlhabendsten Italiens gehört, sucht nach einem Ausweg; ein Regierungsmitglied fordert eine wirtschaftliche "Vollautonomie", um die Mittel-Umverteilung an Süditalien zu stoppen. Sezessionistenkreise preschen voran, verlangen ein Referendum über die vollständige Abspaltung Südtirols von Italien und schließen den Anschluss an Österreich nicht aus. Die Autonomiebestrebungen in Teilen der deutschsprachigen Minderheit Norditaliens werden seit Jahrzehnten aus der Bundesrepublik gefördert - teilweise von Vorfeldorganisationen der deutschen Außenpolitik, teilweise von Aktivisten der extremen Rechten. Für die 1960er Jahre wird außerdem von direkten Kontakten höchstrangiger bundesdeutscher Politiker zu Südtirol-Terroristen berichtet. Unter dem Krisendruck nähern sich die damaligen Bemühungen ihrem Ziel stärker denn je zuvor.
Eine Folge des Spardiktats
Ursache für die neuen Autonomie- und Sezessionsforderungen der deutschsprachigen Minderheit Norditaliens ist das von Berlin in der Eurokrise durchgesetzte Spardiktat, das Italien zu massiven Haushaltskürzungen zwingt. Von diesen ist auch die norditalienische Provinz Bolzano/Alto Adige ("Südtirol") betroffen, eine der wohlhabendsten Provinzen des Landes, die bereits seit mehreren Jahrzehnten außergewöhnlich umfangreiche Autonomierechte innehat. Bolzano ist nun aber nicht bereit, die von Rom geforderte Summe zur Etatsanierung beizutragen; diese übersteige die Mittel, die die italienische Regierung ihrerseits in Südtirol ausgebe, und verursache damit für die Provinz ein Minusgeschäft, heißt es zur Begründung. Die Provinzregierung sucht nun nach Möglichkeiten, die Forderungen Roms abzuwehren - und findet diese im Streben nach noch größerer Autonomie.
Wirtschaftlich nicht vergleichbar
Bereits im Januar ist der Südtiroler Wirtschaftslandesrat Thomas Widmann mit der Forderung nach einer "Vollautonomie" in Sachen Wirtschaft vorgeprescht. Widmann verlangte, Südtirol solle ökonomisch gänzlich von Rom unabhängig sein; nur noch die Außen- und die Verteidigungspolitik dürften von der Zentralregierung gestaltet werden. Bekomme Südtirol eine solche "Vollautonomie", dann sei man bereit, die Provinz mit einem einmaligen Beitrag zur Tilgung der Schulden Italiens gleichsam freizukaufen. Die "Vollautonomie" in Wirtschaftsfragen werde es ermöglichen, die im gesamtstaatlichen Vergleich recht kräftige Südtiroler Ökonomie von jeglicher Notwendigkeit zur Rücksichtnahme auf den schwächeren Süden zu befreien und ihr ein Wachstum zu verschaffen, das demjenigen Österreichs oder Deutschlands nahekomme. Auch könne man dann Unternehmen, die wegen der hohen Steuerbelastung ins Ausland abgewandert seien, nach Südtirol zurückholen. Das alles aber "geht nur, wenn wir uns selbst verwalten", erklärte Widmann bereits zu Jahresbeginn.[1] Anlässlich der jüngsten Herabstufung von 13 Banken und von 23 lokalen Körperschaften in Italien durch die Ratingagentur Moody's hat der Wirtschaftslandesrat seine Forderung jetzt bekräftigt. Im Falle Südtirols sei, äußert er, die Herabstufung "völlig ungerechtfertigt, weil unsere Wirklichkeit mit jener der anderen Regionen Italiens absolut nicht vergleichbar" sei.[2]
Los von Rom
Die Lage droht zu eskalieren. Der Südtiroler Landeshauptmann Luis Durnwalder zieht in Betracht, Österreich, das sich als Schutzmacht der deutschsprachigen Minderheit Italiens begreift, gegen die Forderungen der italienischen Regierung zu mobilisieren: "Wir werden die österreichische Bundesregierung informieren und notfalls Wien einschalten, sollte Rom nicht einlenken."[3] Noch weiter gehen traditionell deutsch-völkische Kräfte, die seit je die Abspaltung Südtirols von Italien ("Los von Rom") und gegebenenfalls seinen Anschluss an Österreich ("Wiedervereinigung Tirols") fordern. "Mit diesem Staat gibt es keine Zukunft für Südtirol", heißt es bei der Separatistenpartei "Süd-Tiroler Freiheit" [4]: Man müsse deshalb staatliche "Selbstbestimmung einfordern" [5]. Die "Süd-Tiroler Freiheit" gehört zur Organisation "European Free Alliance", die im Europaparlament mit Bündnis 90/Die Grünen in einer Fraktionsgemeinschaft kooperiert (german-foreign-policy.com berichtete [6]). Der Traditionsverband "Südtiroler Schützenbund" plädiert für ein Referendum über die Abspaltung Südtirols von Italien und den Anschluss des Gebiets an Österreich: "Wir Schützen treten ganz klar für die Wiedervereinigung mit Tirol ein", teilt der Schützen-Landeskommandant mit; ein Verbleib bei Italien sei für ihn "nicht mehr vorstellbar". Ihm zufolge werden ganz ähnliche Pläne hinter den Kulissen auch in der bisher dominierenden Polit-Organisation Südtirols diskutiert: "Ich weiß, dass auch in der Südtiroler Volkspartei schon hinter vorgehaltener Hand über eine Loslösung von Italien nachgedacht wird."[7]
Völkische Internationale
Die Südtiroler Volkspartei (SVP), die - in Abgrenzung zum offenen völkischen Separatismus - seit je als Partei des Verbleibs in Italien bei allerdings weitestreichender Südtiroler Autonomie galt, hält enge Beziehungen nach Deutschland. So kooperiert sie mit der bayerischen Regierungspartei CSU; ihr Personal ist in der "Föderalistischen Union Europäischer Volksgruppen" (FUEV) aktiv, die in Flensburg beheimatet ist, kräftig aus staatlichen deutschen Haushalten unterstützt wird und sich für ethnisch begründete Sonderrechte von Sprachminderheiten ("Volksgruppen") einsetzt.[8] Innerhalb der FUEV sind deutschsprachige Minderheiten aus ganz Europa und Zentralasien in einem eigenen Verband zusammengeschlossen; an dieser "Deutschtums"-Internationale, die politisch direkt an das Bundesinnenministerium angeschlossen ist (german-foreign-policy.com berichtete [9]), nehmen für die Autonome Provinz Südtirol Politiker der SVP teil. Dass mittlerweile sogar aus dieser Partei von offenen Sezessionsgelüsten berichtet wird, lässt klar erkennen, dass der "Deutschtums"-Avantgarde staatliche Grenzen auch im Westen Europas nicht mehr als unveränderlich gelten. Damit kommen Abspaltungspläne wieder ins Gespräch, die in den 1960er Jahren in Südtirol von Terroristen verfolgt wurden - mit Bombenanschlägen, unterstützt auch aus der Bundesrepublik.
Zünder aus Deutschland
Wie jüngere Recherchen bestätigen, handelte es sich bei dieser Unterstützung nicht nur um diverse Aktivitäten insbesondere aus dem Milieu ultrarechter Burschenschafter, von denen einige bis heute unbehelligt im deutschen Exil leben, obwohl sie in Italien wegen Sprengstoffverbrechen und Mord zu langjährigen Haftstrafen verurteilt worden sind. Zu den Kontaktpersonen der einstigen Südtirol-Terroristen gehörten laut einer aktuellen Buchpublikation etwa der Völkerrechtler Felix Ermacora, dessen Werke über ein angebliches Recht auf staatliche Selbstbestimmung für ethnisch-rassistisch definierte Blutsgemeinschaften in der völkischen deutschen Rechten bis heute eine spürbare Rolle spielen. "Eine wichtige Bezugsperson" für Bombenleger in Südtirol sei beispielsweise der CSU-Politiker Josef Ertl gewesen, seit 1961 Bundestagsabgeordneter, später Landwirtschaftsminister: Er habe "flüchtigen Tirolern mit Aufenthaltsgenehmigungen, Arbeit und Unterkunft" ausgeholfen. Der CSU-Politiker Franz Josef Strauß, zeitweise Bundesverteidigungsminister, hat demnach Terroristen in Südtirol nicht nur über Kontaktleute, sondern auch persönlich unterstützt. Er sei, heißt es, einmal "bei einer Probesprengung vorbeigekommen", die Südtirol-Terroristen zur Übung abhielten, und er habe sich erkundigt, "ob alles in Ordnung sei". Auf die Antwort, "die Zünder seien nicht gut", habe er "versprochen, bessere zu liefern".[10] Das Ergebnis: "Eine Serie zumindest kam tatsächlich aus Deutschland." Unter dem Druck der Krise droht die damalige Saat nun aufzugehen.
Bitte lesen Sie auch unsere Doppelrezension zum Thema Südtirol-Terrorismus.
[1] Landesrat will Südtirol um 15 Milliarden "freikaufen"; diepresse.com 12.01.2012
[2] Auch Südtirol von Moody's herabgestuft; www.tt.com 18.07.2012
[3] "Notfalls muss ich Wien einschalten"; www.tt.com 18.07.2012
[4] "Südtiroler Freiheit": Mit diesem Staat gibt es keine Zukunft; www.stol.it 11.07.2012
[5] Autonomie war Zwischenlösung - Jetzt gemeinsam Selbstbestimmung einfordern! www.suedtiroler-freiheit.com 25.07.2012
[6] s. dazu Europa driftet (II)
[7] Schützen wollen Volk befragen; www.tt.com 28.07.2012
[8] s. dazu Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen und Tragsäulen der Zukunft (IV)
[9] s. dazu Beziehungen pflegen
[10] Hans Karl Peterlini: Feuernacht. Bozen 2011. S. dazu unsere Doppelrezension
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/58390
Doppelrezension: Südtirol-Terrorismus
03.08.2012
Hans Karl Peterlini: Feuernacht
Südtirols Bombenjahre
Bozen 2011 (Edition Raetia)
512 Seiten
47 Euro
ISBN 978-88-7283-390-2
Herlinde Molling: So planten wir die Feuernacht
Protokolle, Skizzen und Strategiepapiere aus dem BAS-Archiv
Mit einer Einführung von Hans Karl Peterlini
324 Seiten
26 Euro
ISBN 978-88-7283-406-0
Dass der Südtirol-Terrorismus der 1960er Jahre von Aktivisten aus der Bundesrepublik unterstützt wurde, ist bekannt. Rechte Kräfte, die Südtirol von Italien abspalten und an Österreich anschließen wollten, sprengten damals Strommasten in die Luft, plazierten Bomben in italienischen Bahnhöfen und in Zügen und griffen italienische Repressionskräfte mit Maschinenpistolen an. Beteiligt waren nicht wenige Burschenschafter aus Österreich und aus der Bundesrepublik. Einer der bekanntesten damaligen Bombenleger ist Peter Kienesberger. Über ihn schreibt der Publizist Hans Karl Peterlini aus Südtirol, er habe sich zu Beginn der 1960er Jahre "zum Synonym für den entfesselten Terror" entwickelt: "Seine Spezialität" sei "der Kampfeinsatz im Hochgebirge" gewesen. Bald habe er sich zum Bomben-Experten gemausert, habe "als Könner im Basteln von Sprengfallen" gegolten. Italienische Gerichte verurteilten ihn schließlich für einen Anschlag, bei dem 1967 vier italienische Grenzer ums Leben kamen. Kienesberger lebt bis heute unbehelligt in der Bundesrepublik im Exil. Erst jüngst hat ein in Italien anhängiges Gerichtsverfahren bestätigt, dass sein Südtirol-Aktivismus ungebrochen ist: Ihm wird vorgeworfen, im Rahmen seiner Arbeit für eine gemeinnützige Stiftung alte Südtirol-Seilschaften auch weiterhin finanziell bedient zu haben.
Peterlini, einer der besten Kenner der Thematik, fasst in "Feuernacht" zahlreiche Ergebnisse seiner Recherchen zum Südtirol-Terrorismus zusammen. Er liefert dabei auch Erkenntnisse, die bis in die Bundesrepublik führen - über die Kreise ultrarechter Burschenschafter und ihres unmittelbaren, an den Anschlägen in Norditalien beteiligten Umfeldes hinaus. Felix Ermacora etwa, erklärt Peterlini, habe wichtige Fäden gezogen. Als Völkerrechtler sei er "Mitglied der meisten österreichischen Experten- und Verhandlungsdelegationen" in Sachen Südtirol gewesen; dank dieser Tätigkeit habe er die Bombenleger-Szene stets über den Stand staatlicher Verhandlungen über das Gebiet auf dem Laufenden halten können. "Ermacora hätte am liebsten mitgesprengt, wenn wir ihn gelassen hätten, aber er war als Diplomat viel wichtiger", zitiert Peterlini einen der damals Beteiligten. Ermacora ist in der völkischen Rechten in Deutschland nicht unbekannt; er hat Gutachten für die "Vertriebenen"-Verbände verfasst und Papiere für die in Flensburg ansässige "Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen" (FUEV) angefertigt. Anhänger eines angeblichen Rechts auf "Selbstbestimmung" für ethnisch-rassistisch definierte Blutsgemeinschaften berufen sich bis heute auf ihn.
Kontakte in die Südtiroler Terror-Szene hatte auch Josef Ertl, "zunächst Abgeordneter im Kreistag München-Land, 1961 in den Bundestag gewählt", später bundesdeutscher Landwirtschaftsminister. "Er hilft flüchtigen Tirolern mit Aufenthaltsgenehmigungen, Arbeit und Unterkunft aus", berichtet Peterlini. In Ertls Münchener Umfeld war das "Kulturwerk für Südtirol" tätig, das sich offiziell "an der Finanzierung deutscher Kindergärten und Kulturstätten" beteiligte; "das Spendengeld", schreibt Peterlini vielsagend, sei tatsächlich jedoch höchst "unterschiedliche Wege" gegangen. Man habe es häufig "für die Kriegskasse" der Terror-Szene verwendet. Ertl ist nicht der einzige Bundesminister gewesen, der Kontakte zu den Südtirol-Attentätern unterhielt. Ein enger Freund des CSU-Politikers und zeitweiligen Bundesverteidigungsministers Franz Josef Strauß, der Münchener Opel-Generalvertreter Josef Kuttendrein, habe die Bombenleger "finanziell stark unterstützt" und mindestens einen Sprengkurs in Oberbayern organisiert, berichtet Peterlini. Strauß sei "einmal bei einer Probesprengung vorbeigekommen" und habe sich erkundigt, "ob alles in Ordnung sei". Auf die Antwort, "die Zünder seien nicht gut, habe Strauß versprochen, bessere zu liefern". "Eine Serie zumindest kam tatsächlich aus Deutschland."
Einige Erkenntnisse liefert auch die Dokumentensammlung, die Herlinde Molling letztes Jahr bei Edition Raetia veröffentlicht hat. Molling gehörte selbst der Terror-Szene an; so manches Detail, das sie schildert, liefert näheren Einblick in die Entwicklung der damaligen Geschehnisse. Das gilt unter anderem für einen gewissen Hans Steinacher, der um 1960 in Südtirol aktiv war. Steinacher war in der Weimarer Republik und während der NS-Zeit ein maßgeblicher deutscher "Volkstums"-Aktivist und in der Führung des "Vereins für das Deutschtum im Ausland" tätig. Nach 1945 beriet er Bonner Regierungsstellen bei der Wiederaufnahme der alten "Volkstums"-Politik; im Jahr 1960 tauchte er in Südtirol auf. Vollkommen freiwillig hat sich der Mann mit besten Verbindungen in die Bundesrepublik offenbar nicht von dort zurückgezogen. In dem von Molling publizierten Band findet sich ein Dokument, laut dem Steinacher "in der Form bei der italienischen Polizei denunziert worden" sei, dass er als "militärische(r) Berater" der Terror-Szene fungiere. "Dr. St. erklärte sich unter diesen Umständen außerstande, seine Tätigkeit in ST fortzusetzen", heißt es in dem Papier, dessen Autor "Innsbruck", also österreichische Kreise, als Urheber der Denunziation vermutet. Wer da genau welche Fäden zog, bleibt offen. Dokumentiert ist damit jedoch einmal mehr, dass bereits damals der Bundesrepublik Kanäle nach Südtirol - auch wenn sie gelegentlich sabotiert wurden - offenstanden.
Oggetto: E nel frattempo che succede in Libia?
Data: 02 agosto 2012 13.50.59 GMT+02.00
Mentre i mercenari e i "ribelli" in Siria ad Aleppo hanno scatenato la fase della guerra aperta, delle epurazioni ideologiche, etniche e religiose (persino contro alcune tribù e imam sunniti non "embedded") che succede nella Libia già "democratizzata" dalla NATO?
Fonti: AFP, Euronews, Quryna (giornale libico filo-regime), Pana, Europe 1
http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5htyNKpga5h0hGSMA3pCY7hrDWSsQ?docId=CNG.da9120e4fdc50278390dc8116f409d68.641
Libye: les membres du Croissant-Rouge iranien détenus par une milice
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http://www.qurynanew.com/39448
http://www.gnet.tn/revue-de-presse-internationale/abdeljalil-revele-le-plan-de-liberation-de-tripoli-a-ete-prepare-au-qatar/id-menu-957.html
Abdeljalil : "Le plan de libération de Tripoli a été préparé au Qatar" |
Publié le Jeudi 02 Août 2012 à 08:37 |
Mustapha Abdeljalil, président du conseil national de transition libyen, a déclaré que le Qatar a dépensé plus de deux milliards de dollars pour la révolution de son pays, révélant pour la première fois que le plan de libération de la capitale Tripoli a été préparé dans cette monarchie pétrolière du Golfe. Abdeljalil a minimisé de la portée de l’intervention qatarie en Libye, estimant qu’elle a été beaucoup amplifiée, rapporte le site du journal libyen quryna. Le chef du CNT a ajouté en marge des séances culturelles ramadanesques organisées par la faculté des études islamiques dans la ville d’Al-Bayda, que le Qatar appuie les courants islamistes et sa vision penche vers la construction d’un système arabe fondé sur la Charia comme mode de gouvernance. Il a encore dit qu’aucun Libyen n’est allé au Qatar, sans qu'il ne lui octroie une somme d’argent, certains l’ont livré à l’Etat, et d’autres l’ont gardé pour eux-mêmes. "Je dis toujours que celui qui nie le rôle du Qatar est réellement un ingrat", a-t-il encore souligné. |
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http://www.afriquejet.com/libye-un-officier-des-renseignements-assassine-a-benghazi-2012073042484.html
Libye: Un officier des renseignements assassiné à Benghazi
Sleiman Bouzyreda a été atteint à la tête, d'une balle tirée d’une voiture à vive allure, a rapporté le journal Qurayna.
Transporté au centre médical de Benghazi, il a succombé à ses bléssures avant d'atteindre le centre médical de la ville.
Plusieurs anciens officiers appartenant au Service de sécurité interne de la ville de Benghazi ont été assassinés, le dernier en date, Abdelhamid Ali Kandouz, ayant été tué par l'explosion de sa voiture piégée, tout comme le sous-officier Ibrahim Al-Araibi, mort dans un attentat à la bombe placée sous le siège de sa voiture.
Pana 30/07/2012
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Libye - Nouvel attentat à l’explosif contre un tribunal de Benghazi
Des inconnus ont tenté de jeter vendredi à l'aube une grenade sur la façade de la cour d’Appel de la ville de Benghazi, apprend-on de sources sécuritaires libyennes. La tentative n'aurait pas causé de dégâts, à part un petit trou dans le mur contre lequel la grenade a été jetée, rapporte le journal Qurayna.
On rappelle qu'une explosion avait secoué à la fin du mois d’avril dernier les bâtiments du tribunal de première instance du nord de Benghazi, dans le centre de la ville, causant des dégâts importants et la dispersion des dossiers et documents.
La déflagration n’avait pas fait de victimes, mais sa puissance avait soufflé les verres des fenêtres de bâtiments résidentiels et un hôpital situé en face du tribunal.
Selon certains analystes et observateurs de la situation en Libye, l’incident est lié à l’infiltration en avril dernier à l'intérieur de la prison de Al-Koueyfiya d’hommes armés qui l’ont attaquée pour faire évader quelques prisonniers impliqués dans des affaires criminelles.
Pana
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http://www.europe1.fr/International/Mahdi-de-la-Libye-a-la-Syrie-1188487/
Mahdi, de la Libye à la Syrie
REPORTAGE - L'un des héros de la libération de Tripoli prête main forte à l'armée libre syrienne.