Informazione
27 GIUGNO, 19:29
di Roberto Pignoni
Martedì scorso la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha emesso una sentenza davvero storica. Dopo il ricorso presentato esattamente sei anni prima, il 26 giugno 2006, da un gruppo di «cancellati», la Corte ha ritenuto lo stato sloveno colpevole di alcune gravissime violazioni dei diritti umani, riferite all'art.8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), all'art.13 (diritto a un rimedio legale effettivo) e all'art.14 (divieto di discriminazione) della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Pur rigettando, inspiegabilmente, alcune posizioni particolari, la Corte ha accolto in pieno le argomentazioni dei ricorrenti, un campione assai ridotto, ma significativo, delle decine di migliaia di cittadini che furono illegalmente privati della «residenza permanente» il 26 febbraio '92, così perdendo ogni diritto civile, politico, economico e sociale. Un'operazione di pulizia etnica in guanti bianchi, portata a termine con un colpo di mouse davanti ai terminali dei computer del Ministero degli Interni sloveno, e passata per anni inosservata nonostante gli effetti devastanti su migliaia di famiglie (l'ultima stima governativa ammette la «cancellazione» di 25.671 persone).
La decisione della Corte, assunta dalla Grande Camera e perciò irrevocabile, è notevole anche perché applica la cosiddetta «procedura pilota», imponendo al governo sloveno di predisporre, entro un anno, uno schema di risarcimento per tutti i «cancellati». Al di là delle implicazioni economiche «da panico» per i media di Ljubljana, il dato politico è di enorme rilevanza: da martedì scorso la «cancellazione» è ufficialmente riconosciuta come un crimine contro i diritti umani. La sentenza seppellisce una volta per tutte il mito della success story slovena, di una secessione incruenta, condotta nel pieno rispetto dei principi democratici. Vent'anni fa, a Ljubljana, fu fissato un paradigma che prefigura nella forma più estrema e crudele il processo di spoliazione progressiva dei diritti che minaccia la società europea. Perché dai «cancellati» abbiamo imparato che Kafka è un autore neorealista: si limita a fotografare la realtà - con 80 anni d'anticipo.
Pirano, Slovenia, 1992. Un uomo svolta l'angolo sulla via di casa e intravvede dei poliziotti che gettano in strada le sue cose. Nato da genitori sloveni e cresciuto a Pirano, Milan Makuc si sente sloveno, ma per il nuovo stato indipendente è «solo jugoslavo». A sua insaputa, è stato cancellato dai registri di residenza permanente della Repubblica, perdendo tutto: casa, lavoro, assistenza sanitaria... Dall'appartamento, passa a una panchina del cortile. Sopravviverà grazie al buon cuore di qualche ex-concittadino. Quando l'abbiamo rintracciato, portava i segni di quattordici anni di «cancellazione»: un tumore gli mangiava il volto, nessun ospedale disponibile a curarlo. Dovettero farlo, quando sul tavolo della Corte di Strasburgo arrivò un fascicolo intitolato: «Milan Makuc e 10 altri c. Slovenia». Non era stato facile convincere Milan, temeva per la propria vita. «Sai, attraverso la strada, arriva una macchina, nessuno si accorgerà di niente...». Infine si decise, affidandosi all'ombrello della giustizia europea.
Il nostro gruppo si chiamava Karaula, come le caraule partigiane: piccole unità clandestine, ancorate ai colli fra Friuli e Slovenia. Avevano il compito di garantire i rifornimenti, assicurare i contatti fra le formazioni, raccogliere gli sbandati... La nostra si occupava di difendere i migranti. L'intervento spaziava dai campi rom della capitale agli scenari della memoria storica: con alcuni giovani di Ljubljana, girammo un documentario sui campi di concentramento fascisti in Friuli - compresi quelli di ultima generazione. Intervistavamo la gente all'uscita dalla messa di Pasqua, a Gradisca d'Isonzo, mentre il Cpt (oggi Cie) era in costruzione: «Scusi, ci sono dei campi di concentramento nei paraggi?» «Per adesso no...». Analizzando le tipologie di persone che finiscono nei lager attuali, che a volte (è il caso di Gradisca) vengono realizzati in perfetta continuità con quelli di ieri, c'imbattemmo nei «cancellati».
In Slovenia, con un'operazione segreta, decine di migliaia di cittadini erano stati trasformati in morti viventi, uomini senza diritti. Per mesi, a volte anni, molti di loro hanno continuato a esercitare, come per inerzia, le attività abituali. Un bel giorno venivano fermati dalla polizia, o entravano in un ufficio per rinnovare un documento. «Ci porti anche il passaporto...». Lo bucavano sotto i loro occhi, con un'apposita foratrice di metallo.
Le istituzioni europee fingevano di non vedere, compresi i nostri campioni, Romano Prodi e Riccardo Illy. Non c'era avvocato, in Slovenia, disposto a difendere i «cancellati». Così, anche dopo il primo articolo di denuncia di Tommaso Di Francesco sul manifesto del maggio 2004 che di fatto aprì la campagna, decidemmo di cercarlo in Italia. La caraula tenne fede al suo nome, assicurando un'efficace connessione fra movimento sloveno e italiano. I «cancellati» manifestavano a Gradisca, i compagni di Monfalcone in Slovenia. Ognuno fece la sua parte, dai centri sociali del Nord-Est alla Fiom, fino alla pattuglia di parlamentari del Prc a Bruxelles. L'idea del ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani la dobbiamo ai rom del Casilino: aveva funzionato cinque anni prima, quando l'avvocato Luigi Lusi s'era fatto carico, su mandato di Rutelli, di ripulire la capitale dagli zingari nell'anno del Grande Giubileo.
Per mesi, a Ljubljana, un gruppo di giovani ha intervistato persone, raccolto dati, interpretato e tradotto leggi, certificati, circolari. Lavoro militante, senza un centesimo in cambio. Al più una birra e un piatto di cevapcici offerti dai «cancellati». Periodicamente ci fiondavamo a Roma a concordare con gli avvocati, Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, la strategia da seguire. Carla Casalini ci ospitava la domenica, nella pagina europea del manifesto, dandoci modo di perfezionare lo stile e affilare le armi. Ne uscì un'iniziativa robusta, per la qualità della documentazione e l'eccellente contributo tecnico dei legali dello studio Lana.
Non era un compito facile: le regole della Corte paiono fatte apposta per tenere alla larga chi ne ha veramente bisogno. Al fine di garantire l'ammissibilità del ricorso, selezionammo undici casi fra centinaia di «candidati». Il 26 giugno, a Strasburgo, degli undici siluri lanciati nel 2006, sei hanno centrato il bersaglio.
Fra quelli che non ce l'hanno fatta, Velimir Dabetic. Nato a Capodistria (Slovenia) nel '69, era in Italia per lavoro e dopo la «cancellazione» non è potuto rientrare nel suo paese. Da dieci anni s'aggira per la riviera romagnola facendo il saltimbanco: i suoi due collaboratori sono in regola, iscritti all'anagrafe canina, ma Velimir non ha uno straccio di documento. Ogni tanto i poliziotti lo fermano, lo tengono dentro per un po', poi lo mollano. Un paio d'anni fa gli hanno notificato un decreto di espulsione verso... la Romania.
La Corte di Strasburgo aveva atteso quattro anni, prima di dar ragione a Velimir, nel 2010. L'altro giorno ci ha ripensato: a vent'anni e quattro mesi esatti dal 26 febbraio '92, ha deciso che Velimir Dabetic, apolide e senza mezzi di sussistenza, deve restare «cancellato» a vita.
Nemmeno Milan Makuc godrà i benefici della sentenza. Fu trovato morto qualche anno fa, nella misera stanza che gli aveva concesso la municipalità di Pirano. Il suo corpo venne cremato a tempo di record, senza informare i familiari. Accade anche in Italia, fra rom e «clandestini» - i nostri «cancellati».
Al funerale parteciparono una decina di persone. Con involontaria ironia il prete ricordava ai presenti che non abbiamo, su questa terra, «residenza permanente». Si formò un piccolo corteo, preceduto da un becchino in uniforme, con una bandiera nera. Dopo la cerimonia, abbiamo scoperto che era un «cancellato» pure lui. Reggeva il vessillo con la fierezza di un alfiere, scortando l'urna di Milan lungo i viali del magnifico cimitero di Pirano - un'isola di luce, battuta dalla brezza marina, dove le lapidi parlano tutte le lingue d'Europa.
da Il Manifesto, 29 Giugno 2012
http://www.b92.net/eng/news/crimes-article.php?yyyy=2012&mm=05&dd=01&nav_id=80039
Tanjug News Agency - May 1, 2012
Serbia, RS commemorate Croatia exodus
BELGRADE: Serbia and the Serb Republic (RS) are on Tuesday remembering Serb victims who died in western Slavonia during Croatian military's Operation Flash.
According to the data gathered by the Documentation Center Veritas, 280 people were killed and 15,000 driven out of their homes in only 36 hours on May 1 and 2, 1995.
Croatia's military and police forces carried out an aggression against the area that was at the time under UN protection (known as Sector West).
The UN forces were warned of the attack in advance, and instead of preventing it, withdrew to safe locations.
Croatia sent 16,000 members of its forces to attack less than 4,000 members of the military of the former Republic of Serb Krajina. The citizens were asleep and outnumbered four to one at 05:30 CET on May 1, 1995, when their towns of Pakrac and Okučani and their surroundings were attacked and cut off.
This resulted in an exodus, with refugees pouring over a bridge on the Sava River that led to the Serb Republic (RS), in Bosnia-Herzegovina. But as they were escaping, the Croatian forces attacked them from warplanes, helicopters, and with mortar shells and snipers. There were reports of injured people being run over by tanks, or "finished off" with knives.
The Veritas data shows that 283 Serbs were killed or are still listed as missing as a result of Operation Flash, of whom 57 women and nine children under the age of 14.
Those civilians who could not or would not leave their homes were placed in camps, while Serb property and holy places were pillaged and destroyed.
Neither courts in Croatia nor the Hague Tribunal ever raised any indictments for war crimes committed during this attack on Serb areas of western Slavonia. In Bosnia and Serbia, two cases related to the operation are being "analyzed", or are in the phase of "information gathering".
Operation Flash completed the ethnic cleansing of Serbs from the region, that saw 67,000 people leave their homes from 1991 until 1995, while in the decade and a half that have passed since, only 1,500, mostly elderly people, returned.
In Croatia, representatives of the state gather in Okučani every May 1 to celebrate the day which they mark as day of victory when they took over western Slavonia, losing 42 members of their forces during the operation.
A Donji Rajic in Croazia oggi è iniziata l’esumazione
A Donji Rajic, nel comune di Novska in Croazia, oggi è iniziata l’esumazione delle salme dei serbi che sono stati uccisi nell’azione militare dell’esercito croato Lampo nel maggio del 1995, ha comunicato la commissione per le persone scomparse dell’esecutivo serbo. L’esumazione a Donji Rajic è cominciata nel giugno del 2010. Finora sono stati trovati i resti di 110 vittime. All’inizio dell’esumazione, per la quale si suppone che durerà tre giorni, ha presenziato il presidente della commissione per le persone scomparse dell’esecutivo serbo Veljko Odalovic.
nei 1035 seggi elettorali aperti per il referendum sullo status della lingua russa, i "NO" sono stati 821.722, contro 273.347 "SI". L'affluenza definitiva si è invece attestata al 69%.
Il russo rimane quindi una lingua straniera in Lettonia, malgrado essa sia la lingua madre del 40% degli abitanti.
La consultazione popolare è stata una risposta alle azioni dei nazionalisti lettoni, che avevano organizzato, senza successo, una raccolta di firme per la trasformazione di tutte le scuole pubbliche di lingua russa in centri di studio di lingua lettone.
Gli organizzatori del referendum ammettono che raccogliere settecentosettantamila voti a sostegno della lingua russa era molto difficile non potendo contare sui voti di circa trecentoventimila persone di lingua russa "non cittadini" che, dopo la separazione della Lettonia dall'Unione Sovietica, sono stati privati della cittadinanza e non hanno diritto di voto .
(fonte: Fabio Muzzolon)
Nel Baltico, il nazionalismo mira a contestare l'esito della Seconda Guerra Mondiale e addirittura invertire, se potesse, i processi di Norimberga. Il razzismo, il culto delle armi e del militarismo, il disprezzo per le minoranze, la xenofobia e l'odio verso gli ebrei e rom, sono sempre più presenti in questa zona e in altre regioni dell'Europa orientale. La tolleranza verso gli atti di glorificazione del nazismo e del fascismo, il razzismo nazionalista e il disprezzo per le minoranze, coesiste con la repressione del comunismo e con una preoccupante deriva antidemocratica che dovrebbe preoccupare i cittadini e le istituzioni europee perché, inoltre, i segnali d'allarme non vengono solo dagli Stati baltici, anche se questi sono diventati il fulcro più preoccupante. Tentazioni simili sono apparse in Romania, Ungheria, dove regna una violenta persecuzione dei comunisti e nella Repubblica Ceca (dove la destra cerca di mettere fuori legge il partito comunista, uno dei più grandi del paese) e la Polonia. E come risultato della politica nazionalista e conservatrice, crescono i movimenti fascisti. Mentre continua la caccia alle streghe nel Mar Baltico contro i comunisti, non è stato avviato alcun processo fino ad oggi, contro i criminali nazisti originari dell'Estonia, della Lettonia o Lituania e la persecuzione e la diffidenza contro gli ebrei, le minoranze e la sinistra continuano ad essere l'ordinaria condotta dei governi di questi paesi. Il veleno del serpente fascista prosegue ad avvelenare il continente: nessuno può immaginare, senza turbarsi, l'idea che sfilino di nuovo i soldati nazisti in Germania e per questo dovrebbe inquietare che gli emblemi nazisti ancora svolazzino al vento nei paesi Baltici.
Polemiche su celebrazioni indipendenza di stasera
22 GIUGNO, 12:01
Il divieto ha provocato una valanga di proteste da parte delle associazioni antifasciste e di una parte dell'opposizione di sinistra. ''La Slovenia e' fondata sulla guerra antifascista del 1941-1945 e sulla lotta per l'indipendenza nel 1991, e la decisione del governo non e' altro che un tentativo di dividere gli sloveni su basi ideologiche'', si legge in un comunicato stampa di Slovenia Positiva (Ps), maggiore partito di opposizione guidato dal sindaco di Lubiana e ricco imprenditore Zoran Jankovic, che in segno di protesta probabilmente non partecipera' alle celebrazioni ufficiali. Il governo ha spiegato che ai festeggiamenti dell'Indipendenza saranno ammessi solamente i simboli ufficiali dello Stato sloveno e quelli dei veterani della breve guerra del 1991, quando Lubiana dopo dieci giorni di scontri conquisto' la sovranita' da Belgrado. Il Partito democratico sloveno (Sds, conservatori), del premier Jansa, ha spiegato che le bandiere dei veterani partigiani e antifascisti si associano in primo luogo al periodo della dittatura comunista, conclusasi con la sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia, e a un sistema antidemocratico dal quale la moderna Slovenia ha preso le distanze dopo il 1991.(ANSAmed).
Finché...
Il 1° gennaio 201.... il conduttore Bossi proclama l'indipendenza della Padania. Padania libera, dalle Alpi all'Adriatico! gridano nei territori dove ora sventolano le bandiere verdi e le Guardie padane cacciano via la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza e si scontrano con l'Esercito, che pure vorrebbe continuare a controllare il territorio per conto di Roma. I cittadini non padani per diritto di sangue e suolo si guardano intorno straniti e non sanno cosa sarà di loro, delle loro case, del loro lavoro.
A Roma il governo, attraverso la TV di stato, condanna l'atto di secessione, chiede garanzie per i propri dipendenti, amministrativi e militari, ma di fronte agli scontri provocati dai Padani non può fare altro che inviare altri militari, la tensione sale, è guerra civile.
Anna Lombarda, la milanese trapiantata a Roma, non sa che fare. Il suo cuore è a Milano, coi ribelli, ma il suo stipendio viene da Roma ladrona, che le ha finora permesso di vivere alla grande. Decide: prende le ferie e torna a Milano, dove starà per due settimane per vedere cosa succede. Ma allo scadere delle ferie comprende che non può tornare a Roma ladrona, deve restare con la sua gente, e non ha scelta. Si licenzia? macché, si dà malata e rimane a fare la secessionista.
Dopo sei mesi, durante i quali gli scontri continuano, i morti cominciano ad ammucchiarsi e Roma ladrona non sa più come uscire da una situazione di merda, Anna Lombarda viene licenziata, in tronco, perché ha preso parte attiva per i Padani? no perché è un'assenteista che si è finta malata per non tornare al lavoro.
La situazione precipita, Padania e Italia, ambedue insanguinate, non sono più paesi nei quali si può vivere, così Anna Lombarda scappa all'estero, va in Germania dato che conosce bene il tedesco e lì diventa un simbolo della crudeltà nazionalista di Roma ladrona, ottiene un posto in uno dei maggiori quotidiani nazionali ma visto il suo ruolo di testimonial gira il Paese in conferenze e dibattiti dove spara a zero sulla politica genocida di Roma ladrona, accusando l'Italia di crimini contro l'umanità. E viene portata in palma di mano dagli intellettuali, dalla società civile, dalle organizzazioni per i diritti civili.
Provate a cambiare un paio di nomi: Anna Lombarda in Azra Nuhefendic, Padania con Bosnia, Italia con Jugoslavia, Germania con Italia...
Claudia
Azra Nuhefendić prova goffamente a rivoltare la frittata sulla strage del mercato di Markale (1 luglio 2010)
di Redazione Contropiano
La commissione Onu per la decolonizzazione accoglie la richiesta, avanzata da Cuba, di riconoscere il diritto all'indipendenza di Puerto Rico, attualmente sotto sovranità statunitense. Il testo, presentato dall'Avana con gli auspici di Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Venezuela, é stato ratificato oggi dall'organismo delle Nazioni Unite per la decolonizzazione ed esorta gli Stati Uniti a portare a termine la devoluzione dei poteri al popolo portoricano, riconoscendone il diritto all'autodeterminazione. Nel documento si chiede inoltre la scarcerazione di tre detenuti, reclusi in penitenziari statunitensi per il loro coinvolgimento nella lotta per l'indipendenza della popolazione portoricana. Uno dei tre, Oscar Lopez Rivera, é in carcere ormai da addirittura 31 anni.
La mozione presentata dal rappresentante permanente di Cuba all'interno della Commissione dell'Onu affermava che Portorico è una nazione latinoamericana e caraibica con una propria identità culturale inconfondibile. E quindi Oscar González León ha reclamato l’indipendenza di questa colonia degli Stati Uniti - eufemisticamente definita da Washington uno ”Stato Libero Associato” - con il sostegno dei paesi latinoamericani retti da governi progressisti. Anche in virtù, ha ricordato, di ben 30 risoluzioni delle Nazioni Unite del 1972 ad oggi, mai rispettate dai vari governi statunitensi.
Nicola Nasser*
Dopo l’ultimo loro successo militare nell’aprire il cancello libico sull’Africa, sembra che degli Stati Uniti siano sul punto di assumere il 13° “partner” arabo della NATO, permettendo così di spostare il quartier generale di Africom dalla Germania al continente, dopo la rimozione del regime di Gheddafi, che si oppose sia a questa mossa e che all’Unione per il Mediterraneo (MU) francese, una rimozione che è di per sé, per tutte le ragioni realpolitiche, un avvertimento minaccioso alla vicina Algeria affinché ammorbidisca la sua opposizione sull’installazione in Africa di Africom e all’espansione verso sud della NATO, e a togliere qualsiasi riserva mentale sulla rinascita della MU, che ha perso il suo co-presidente egiziano, assieme al presidente Nicolas Sarkozy, con la rimozione dell’ex presidente Hosni Mubarak dal potere a Cairo.
Gli Stati Uniti e la NATO sono pronti ora a spostare l’attenzione dal Nord Africa arabo al Levante arabo, per affrontare l’ultimo ostacolo siriano alla loro egemonia regionale. L’amministrazione del presidente Barak Obama sembra ormai decisa a spezzare il regime di al-Assad, allontanandosi dalla politica decennale di gestione delle crisi, perseguita dalle precedenti amministrazioni degli Stati Uniti nei confronti della Siria, che si trova ora nel Medio Oriente come l’ex Jugoslavia si trovava sulla scia del crollo dell’Unione Sovietica, quando una serie di guerre etniche e religiose la rovinarono, creando dai suoi rottami vari stati nuovi, fino a quando il nucleo serbo dell’unione jugoslava venne bombardata dalla NATO nel 1999, per far della Serbia ora un possibile membro dell’alleanza.
Tuttavia fattori strategici geopolitici internazionali e regionali stanno trasformando la Siria in una linea rossa, che potrebbe inaugurare una nuova era di ordine mondiale multipolare che ponga fine all’ordine unipolare degli Stati Uniti, se l’alleanza guidata dagli Stati Uniti non riuscirà a cambiare il regime siriano, o alla completa egemonia regionale USA – NATO, ciò che potrebbe precludere il risultato tanto atteso, in caso di successo, sono:
- Internamente, le infrastrutture dello Stato sono forti, i militari, la sicurezza, la dirigenza diplomatica e politica sono coerenti, unificate e potenti, ed economicamente lo Stato non è gravato dal debito estero ed è autosufficiente per quanto riguarda prodotti petroliferi, alimentari e di consumo. Imporre un completo assedio per soffocare economicamente e diplomaticamente il Paese sembra impossibile. La cosa più importante politicamente è il fatto che la diversità pluralistica delle grandi minoranze religiose e settarie siriane, priva l’opposizione più importante, quella dell’organizzazione islamista dei Fratelli musulmani, del ruolo guida di cui gode nelle proteste di quella che è stata definita “primavera araba” in Tunisia, Egitto e Yemen.
- Contrariamente alle analisi occidentali, che prevedono che il cambiamento dei regimi della “primavera araba” sia un disco motivante per un cambiamento simile in Siria, tali cambiamenti sono stati dei cattivi esempi per i siriani. La distruzione delle infrastrutture dello stato, specialmente in Iraq e Libia, e la cessione del processo decisionale nazionale alla NATO e agli Stati Uniti, almeno per gratitudine verso i loro ruoli nel cambiamento, non sono considerate dalla stragrande maggioranza dei siriani, compresa l’opposizione tradizionale nel paese, un prezzo accettabile e fattibile per il cambiamento e la riforma. L’esimio giornalista veterano egiziano e internazionale, Mohammed Hassanein Heikal, in un’intervista al canale satellitare arabo del Qatar, al-Jazeera, citava i cattivi esempi iracheni e libici, per spiegare l’alienazione della classe media siriana nelle principali città dal sostegno alle proteste che esigono il cambiamento del regime, ed aveva anche accusato al-Jazeera di “istigazione” contro il regime siriano di al-Assad.
- Questa situazione complessiva interna continua a scoraggiare un intervento esterno, da un lato, e dall’altro spiega perché l’opposizione abbia finora fallito nel lanciare anche una sola protesta da milioni di persone nelle strade, come era ed è il caso di Tunisia, Egitto, Bahrain e Yemen, soprattutto nei centri abitati più importanti come la capitale Damasco, Aleppo, che ospitano una decina di milioni di persone.
- Inoltre, l’uscita di una minoranza di islamisti armati, che presumibilmente avrebbe difeso i manifestanti, è fallita, alienando il pubblico in generale, le minoranze, in particolare, ed evidenziando le loro fonti esterne di finanziamento e di armamento, in tal modo sostenendo l’accusa del regime dell’esistenza di una “cospirazione” esterna, ma soprattutto deviando i riflettori dei media dalle proteste pacifiche, indebolendo queste proteste e allontanando sempre più persone dall’unirsi a loro per paura della sicurezza personale, come dimostrato dalla grande diminuzione di manifestanti, e trascinando l’opposizione in battaglia, dove il regime è sicuramente più forte, almeno in assenza di intervento militare esterno, che non è prossimo in un futuro prevedibile; un fatto che è stato confermato nella capitale libica, Tripoli, il 31 ottobre, dal segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen: “La NATO non ha alcuna intenzione (di intervenire). Posso assolutamente escluderlo“, riferiva la Reuters .
- Geopoliticamente, è vero che le potenze occidentali dopo la Prima guerra mondiale riuscirono a ridurre la Siria storica alla sua dimensione attuale, ma l’ideologia siriana pan-araba e la sua influenza si basano ancora sulla Siria storica, ed è ancora coerente con ciò che il defunto studioso di Princeton, Philip K. Hitti aveva chiamato (citato da Robert D. Kaplan su Foreign Policy del 21 aprile 2011) “Grande Siria” – l’antecedente storico della moderna Repubblica – “il più grande piccolo paese sulla mappa, di dimensioni microscopiche, ma dall’influenza cosmica“, che comprende nella sua geografia, alla confluenza di Europa, Asia e Africa, “la storia del mondo civilizzato in miniatura“. Kaplan ha commentato: “Questa non è un’esagerazione, perché non lo sono i disordini in corso in Siria, molto più importanti di quanto abbiamo visto nei disordini in tutto il Medio Oriente.” Il cambiamento di regime in Siria non porterà sicurezza e stabilità nella regione, al contrario, si aprirà un vaso di Pandora regionale. Il presidente siriano al-Assad è assai ben consapevole di questa realtà geopolitica, quando ha detto in Gran Bretagna, in una recente intervista al Sunday Telegraph che la Siria “è una (regione) linea di faglia, e se salti sul suolo, causerai un terremoto“.
- Le ripercussioni regionali di una guerra civile in Siria sono un fattore deterrente, sia contro la militarizzazione delle proteste pacifiche pro-riforma che gli interventi militari a sostegno delle stesse. Pertanto, quando la NATO e gli Stati Uniti fanno pressione o incoraggiano i loro alleati regionali Turchia e paesi arabi del CCG a fomentare conflitti settari sunniti contro l’alleato siriano dell’Iran sciita, come un preludio di guerra civile per il solo pretesto di un intervento militare, in realtà giocano con il fuoco regionale, che non salverà né i responsabili, né gli interessi “vitali” dei loro sponsor USA-NATO.
- A livello regionale, la possibile perdita per l’Iran del suo ponte siriano sul Mediterraneo, mentre le sue rotte strategiche sul mare potrebbero facilmente essere chiuse nel Golfo, nel Mare Arabico, nello Stretto di Bab-el-Mandeb, nel mar Rosso e nel Canale di Suez da parte della quinta e sesta flotte degli Stati Uniti, nonché dalle flotte degli Stati membri della NATO e d’Israele, e dei governi pro-USA che si affacciano su queste rotte marittime; allora è la linea rossa iraniana il cui sconfinamento potrebbe creare una situazione gravida di rischi potenziali di una guerra regionale.
- Anche Livello regionale, a meno della decisione di Stati Uniti e NATO di andare in guerra contro l’Iran e la Siria, l’intervento militare in Siria non sarebbe all’ordine del giorno, a meno che non ci siano garanzie che Israele resti fuori dalla portata della prevedibile rappresaglia iraniana e siriana.
- I tempi dello spostamento dell’attenzione sulla Siria di USA – NATO coincidono con il punto morto del processo di pace palestinese – israeliano e col fallimento di Barak Obama nel mantenere le sue promesse verso i suoi alleati arabi, allontanando il più moderato di loro, vale a dire il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che è ancora in rotta di collisione con lo sponsor statunitense della campagna internazionale contro il suo processo per garantirsi, in ritardo, il riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Il fallimento della mediazione di pace degli Stati Uniti è più controproducente del processo di pace israelo-siriano. Il regime di al-Assad andò al potere con un colpo di stato, con il preciso intento di essere coinvolto nel processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti in Medio Oriente. Più di quaranta anni dopo gli Stati Uniti vi sono ancora impegnati. Questo fallimento erode l’influenza degli arabi moderati filo-USA, ponendosi come il più grande ostacolo alla costruzione di un fronte israelo-statunitense-arabo contro l’Iran, che è una priorità regionale statunitense e israeliana, aggiunge munizioni e forze al protagonista siriano. L’accordo di riconciliazione di Abbas con un Hamas basato in Siria, è un buon esempio per riflettere su questo contesto, un altro è l’ultima opzione pronunciata dal leader palestinese di sciogliere l’Autorità dell’auto-governo palestinese sotto l’occupazione militare israeliana, cosa che sarebbe un colpo mortale al processo di pace arabo – israeliano.
- Il fallimento della “sponsorizzazione” degli Stati Uniti è stato un fattore importante che ha contribuito ai cambiamenti della “primavera araba” sulla catena di regimi arabi filo-USA di Egitto, Tunisia e Yemen. Tuttavia, questo fallimento rafforza l’ideologia della “resistenza” della Siria, giustifica il suo coordinamento strategico difensivo con l’Iran, rafforza il sostegno popolare a entrambi i paesi nella regione, e dà credibilità alla tesi del regime di Damasco, secondo cui gli Stati Uniti e la NATO stanno alimentando le proteste siriane in nome del cambiamento e della riforma, ma in realtà sfruttando queste proteste “per cambiare il regime” e sostituirlo con uno più disposto ad accettare l’imposizione dei dettati per la pace israelo – statunitense.
- Il ritiro programmato delle forze di combattimento statunitensi dall’Iraq entro la fine dell’anno, è un altro fattore regionale negativo contro l’intervento militare in Siria. Il ritiro senza dubbio lascerà l’Iraq nel quadro di un regime pro – Iran. Il primo ministro Nouri al-Maliki è tra coloro che si oppongono al cambio di regime in Siria, proprio a causa dell’influenza iraniana. L’Iraq sta ormai apertamente sostituendo la Turchia come profondità strategica del suo vicino siriano, fornendo un collegamento strategico tra gli alleati Damasco e Teheran, dopo l’inversione di rotta della Turchia sulla sua “cooperazione strategica” con la Siria, dopo nove anni di “rapporti a zero problemi” con i vicini arabi e islamici, e la sua adesione ai piani della NATO e degli Stati Uniti sulla Siria come membro e alleata rispettivamente.
- A livello internazionale, gli ultimi veti russi e cinesi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sono un’indicazione sufficiente che lo sforzo di Stati Uniti – NATO per cambiare il regime siriano ha superato un’altra linea rossa. Perdendo le sue infrastrutture marittime in Siria, la Russia resterebbe esclusa dal Mar Mediterraneo, che lo renderebbe un lago della NATO e degli Stati Uniti. La Cina, il cui vantaggio competitivo in Africa viene messo in discussione a seguito del cambiamento di regime in Libia, vedrebbe la caduta della Siria, divenendo una base di lancio di Stati Uniti – NATO contro l’Iran, una minaccia reale per la sua competitiva partnership con l’Iran. Cacciando Pechino anche dall’Iran, l’emergente gigante economico cinese sarebbe alla mercé dei partner della NATO, se riuscissero a garantirsi il controllo di Iran e Siria, perché questo garantirebbe anche il controllo delle riserve strategiche di petrolio in Medio Oriente e Asia centrale. Questo è assolutamente una linea rossa cinese.
- Diplomaticamente, i piani di intervento militare in Siria di USA – NATO, hanno visto negata qualsiasi copertura di legittimità delle Nazioni Unite dai veti russi e cinesi. La legittimità della Lega Araba è ancora carente; per congelare l’adesione di uno Stato membro, come nel caso della Libia, ha bisogno di un consenso che non è in vista.
Questo è il contesto geopolitico strategico nel quale la trasformazione pro-democrazia siriana sta cercando disperatamente di sopravvivere ai mezzi non democratici di Stati Uniti – NATO per costringere la Siria alla conformità. Sia l’opposizione tradizionale nel paese che il regime al potere hanno quasi un consenso sulle riforme e ai cambiamenti fondamentali che porteranno la Siria a essere ciò che viene oggi definita “seconda repubblica”, attraverso il dialogo.
Sia questa opposizione che il regime, sono contro la militarizzazione delle proteste popolari pacifiche che richiedono riforme e cambiamento, e sono più risolutamente contrarie all’intervento straniero in qualsiasi forma, ed entrambe sono alla ricerca di unità nazionale interna, nonché del supporto estero al pacchetto di riforme che includono l’eliminazione della legge marziale, la limitazione del ruolo dell’intelligence dello Stato sulla sicurezza nazionale, l’abilitazione della società civile, il contrasto alla corruzione politica ed economica, pluralismo politico, elezioni, cambiando delle leggi elettorale, sui partiti e i media, bilanciamento tra esecutivo e legislativo, promozione della magistratura e dello Stato di diritto, e soprattutto, fine del monopolio costituzionale del potere del Partito Baath. Il Carnegie Endowment nella sua “Riforma in Siria: tra il modello cinese e il cambio di regime” del luglio 2006, aveva proposto la maggior parte delle riforme. In meno di sei mesi, il presidente al-Assad ha già emesso i decreti presidenziali che attuano tutte queste riforme.
Tuttavia l’asse dei sostenitori della “responsabilità di proteggere” di Stati Uniti – NATO persiste nel creare fatti sul terreno che comportino l’intervento straniero e li metta in grado di scambiare il loro sostegno a questo pacchetto di riforme interne a un cambiamento dall’esterno dell’agenda politica siriana che ha alimentato, nel corso di quattro decenni di governo al-Assad, la sua rete di alleanze regionali e internazionali hanno permesso alla Siria di mantenere una opzione di difesa nella sua lotta 40ennale per liberare le alture del Golan siriane occupate dagli israeliani, e di rimanere salda contro la dettatura di condizioni a Damasco per fare la pace con Israele, secondo termini israeliani.
Questi fattori negativi lasciano agli Stati Uniti e alla NATO due opzioni:
Primo, fare pressioni sul membro della NATO, la Turchia, affinché abbandoni i suoi nove anni di rapporti a “zero” problemi con i suoi vicini regionali, come descritto da Liam Stack sul New York Times, del 27 ottobre, mentre “ospita un gruppo armato di opposizione che conduce un’insurrezione ... nel mezzo di una più ampia campagna turca per minare il governo di Assad“, nel suo vicino meridionale siriano, la stessa ragione per cui la Turchia da anni conduce incursioni militari in Iraq, e del perché Ankara era sull’orlo della guerra con la Siria, alla fine degli anni ’90.
Secondo, aumentare la militarizzazione delle proteste pacifiche. Il 14 agosto 2011, il notiziario d’intelligence israeliano Debka aveva riferito che gli sviluppi in Siria erano al punto di una vera e propria insurrezione armata, integrata da “combattenti per la libertà” islamisti segretamente supportati, addestrati ed equipaggiati da potenze straniere. Secondo fonti di intelligence israeliane: il quartier generale della NATO a Bruxelles e l’alto comando turco, elaborano piani ... per armare i ribelli con armi controcarro ed anti-elicotteri ... Gli strateghi della NATO stanno pensando a riversare grandi quantità di missili anti-tank e anti-aereo, mortai e mitragliatrici pesanti nei centri di protesta ... La consegna di armi ai ribelli è prevista via terra, vale a dire attraverso la Turchia e sotto la protezione dell’esercito turco ... Secondo fonti israeliane, che restano da verificare, la NATO e l’alto comando turco, contemplano anche lo sviluppo di una “jihad” che comporta l’arruolamento di migliaia di “combattenti per la libertà” islamisti, cosa che ricorda l’arruolamento dei mujahideen per condurre la jihad (guerra santa) della CIA nel periodo di massimo splendore della guerra sovietico-afghana ... è stato anche discusso a Bruxelles e Ankara, affermano le nostre fonti, una campagna per arruolare migliaia di volontari musulmani nei paesi del Medio Oriente e del mondo musulmano, per combattere a fianco dei ribelli siriani. L’esercito turco avrebbe ospitato, addestrato questi volontari e garantito il loro passaggio in Siria!
L’editorialista del Washington Post del 28 settembre 2011, ha fatto una previsione: “La comparsa di tali forze non può essere benaccolta, neanche da coloro che sperano di porre fine al regime di Assad“.
Tuttavia, gli Stati Uniti e la NATO sembrano correre contro il tempo nel perseguire esattamente questo obiettivo, attraverso queste due opzioni, per impedire l’attuazione del pacchetto di riforme siriane, fino a quando il regime al potere sarà costretto a scambiare il suo sostegno a queste riforme con la conformità nell’agenda della politica estera siriana.
Ma poiché la politica estera siriana, come la politica estera di tutti i paesi, serve le prerogative interne in primo luogo, nel caso siriano la liberazione delle terre siriane occupate da Israele, la Siria non è tenuta ad adempiere tale scambio. Pertanto, la “resistenza” siriana continua, e con essa il conflitto regionale.
Nick Cohen ha scritto sul The Jewish Chronicle del 30 agosto 2011: “La Siria è una storia che grida la prima pagina. Ma non sta ricevendo l’interesse che si merita.” Cohen ha ragione, ma deve ancora affrontare la Siria da un approccio completamente diverso.
Mi ritengo gravemente danneggiata sul piano umano e materiale da reiterati “articoli” o interventi su facebook e su blog (un parziale elenco si trova più oltre) contro il mio impegno assolutamente gratuito e a mie spese benché quasi a tempo pieno, un impegno contro le guerre e i loro devastanti effetti, impegno iniziato nel 1990-91, e ultimamente volto a scongiurare la guerra Nato in Libia prima e in Siria ora, grazie a una intossicazione mediatica senza pari, alla quale gli autori delle ingiurie nei miei confronti collaborano (nel loro piccolo) e che io da molto tempo cerco di contrastare (nel mio piccolissimo).
Ecco alcuni degli articoli e interventi ai quali mi riferisco (ringrazio chi me li ha segnalati poiché non sono su facebook e la mia navigazione internet non si riferisce a siti di opinione). La libertà di giudizio non deve però arrivare a una disinformazione infamante. Invito le persone e i siti o blog o gruppi facebook nominati a ritirare al più presto le accuse e a scusarsi:
- - Scritto apparso sul sito Vicino Oriente a firma Monti Germano che mi accusa di essere al servizio del regime di Assad e mi affianca a gruppi di estrema destra (accuse entrambe ridicole per chiunque mi conosca; ma non è il caso dell’autore). L’articolo è stato ripreso dal sito di Amedeo Ricucci.
- - L’intervento della signora Aya Homsi nel gruppo facebook “Vogliamo una Siria libera” che fiancheggia il CNS (Consiglio nazionale siriano) e l’Esercito siriano libero; la signora afferma che se io scrivo quel che scrivo è perché “ne traggo un profitto”.
- - Le accuse di essere “embedded” rivoltemi pubblicamente dal signor Enrico De Angelis che lavora al Cairo per un centro di ricerca francese.
1. Gli attacchi ingiuriosi si riferiscono alla ricerca e divulgazione che compio e che in parte viene pubblicata sul sito dedicato www.sibialiria.org. Come chiunque può vedere il sito non dice nemmeno una parola a favore del governo siriano. Ma analizza in tanti episodi i cortocircuiti della disinformazione attuata sin dai massimi livelli (settori dell’Onu che attingono a fonti di parte), la quale sta portando Occidente e petromonarchie a un altro intervento con pretesti “umanitari”, reso possibile dalla creazione del consenso che manipola una realtà di scontri settari con interferenze esterne pesanti fomentati e la fa diventare “un intero popolo massacrato da un dittatore”. Riporto anche testimonianze dirette con nomi e cognomi di vittime alle quali nessuno presta attenzione. Il mio attivismo consiste non tanto nello scrivere articoli (questo non prenderebbe tanto tempo) quanto soprattutto nel networking nazionale e internazionale (rispetto a militanti, siti, gruppi politici, media alternativi) al quale dedico molte ore al giorno; per non dire delle numerose manifestazioni, sit in eccetera nei quali mi attivo da oltre un anno. Ma questo è sconosciuto a chi mi attacca.
2. E’ un grande dolore essere accusati – per la prima volta da quando ho iniziato l’attivismo pacifista nel 1991 - di “pacifismo nero” da parte di persone (vedi oltre) che sostenevano indirettamente i cosiddetti “ribelli” libici, le cui gesta razziste, violente, repressive dei diritti umani, e che ora sostengono il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), il quale è finanziato da stati come Qatar e Arabia Saudita, oltre alle potenze occidentali (“dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei”) e per questo invece di muoversi su una vera strada negoziale chiede ufficialmente interventi armati esterni da parte dei suoi alleati stati capitalisti e sostiene il cosiddetto Esercito siriano libero, delle cui gesta riferiscono ormai gli stessi media mainstream. E’ sorprendente che al tempo stesso i suoi “attivisti” siano presi come fonte di notizie...
3. E’ vergognoso che mi si accusi sul gruppo facebook “Vogliamo una Siria libera” di trarre profitto dai miei scritti. E’ l’esatto contrario, come sa chiunque mi conosca. E’ infatti notevole e ormai quasi insostenibile il danno materiale che traggo dall’impegno per la pace, a causa di (1) mancati introiti dalle mie attività lavorative, pressoché abbandonate da un anno per mancanza di tempo dovendo/volendo dedicarmi solo a questo impegno antiguerra, 2) spese di viaggi in loco (Libia e Siria), e di telefono. A questo si aggiungerà ora 3) il pregiudizio a mie attività future nel campo dell'ecologia di giustizia, a causa di questa diffamazione nei miei confronti. Di pagato in relazione alla Siria ho scritto solo un reportage con foto, per un totale di circa 300 euro. Il resto è stato gratuito e, ripeto, con spese a mio carico. E con una perdita di tempo che mi rallenta diversi progetti anche editoriali. La mia ostinazione è giustificata solo dal non voler vedere più il mio paese partire a bombardare altrui popoli (con effetti che ho verificato in loco più volte) con pretesti umanitari veicolati da menzogne assordanti. Mi muove il desiderio che quella alla Libia sia stata L’ultima delle (nostre) guerre di bombardamenti e massacri. Ma grazie a tanta gente non sarà così.
4. Per me questo è il naturale seguito di un impegno contro le guerre occidentali iniziato nel 1991 e sempre gratuito e autofinanziato (dalle mie attività di autrice di libri e articoli in materia di ecologia, rapporti Nord-Sud, rispetto dei viventi). L’indignazione per il ruolo bellico del paese nel quale purtroppo vivo mi ha portata a essere presente sia in Iraq che in Jugoslavia che in Libia durante i bombardamenti e non certo come inviata di guerra (!) ma come militante. Dal 1991 (prima guerra del Golfo) la propaganda mediatica e la disinformazione creano consenso a interventi bellici. Ora, accertare la verità è cosa difficile, ma cogliere le menzogne e la disinformazione lo è meno. Prende solo molto tempo
5. Con l’occasione denuncio l’opera di demonizzazione contro chiunque esca dal coro assordante e faccia notare esempi lapalissiani di propaganda pro-bellica a tutti i livelli. E’ additato e oltraggiato anche l’impegno di diversi attivisti della Rete NoWar di cui faccio parte.
In questi giorni abbiamo assistito, allibiti, ad una serie di attacchi alla nostra collega Marinella Correggia, giornalista, pacifista dal 1991 e componente di lunga data della Rete NoWar - Roma. Attacchi che respingiamo con sdegno perché infondati, strumentali e meschinamente ad personam.
Il lavoro che Marinella porta avanti da diversi anni, insieme ad alcuni di noi della Rete, è quello di smontare le bugie contenute in quel diluvio di notizie sensazionalistiche che i mass media usano regolarmente, si direbbe ad arte, per convincerci di sostenere interventi armati in paesi terzi. Il suo è un lavoro di "pacifismo militante giornalistico", gratuito e a sue spese (e quindi niente affatto “per conto terzi”).
Marinella, nello smontare le falsificazioni dei mass media, dà senz'altro fastidio a qualcuno, non abbiamo dubbi. E non solo ai giornalisti interessati, ma anche e soprattutto ai ceti dominanti che cercano di promuovere, per profitto, le guerre di conquista fatte passare per interventi "umanitari" in Libia, in Afghanistan, in Iraq, nell'ex-Jugoslavia, ora in Siria. Marinella sembra infastidire persino molti opinionisti politici che amano dipingere i conflitti in corso in modo semplicistico e del tutto subalterno ai mass media: "popoli coraggiosi che affrontano spontaneamente e a mani nude spietati dittatori i quali, assetati di sangue, non esitano a bombardarli". Marinella guasta la festa, scoprendo e documentando come, dietro queste sollevazioni senz'altro coraggiose e soggettivamente spontanee, ci siano anche registi occulti che armano i settori più estremisti, inviano nel paese in questione guerriglieri mercenari per aizzare il dittatore di turno e, quindi, provocano guerre civili per giustificare poi i loro interventi "umanitari" a suon di bombe. E che usano dunque, come i loro "apologeti de facto", questi opinionisti e questi giornalisti compiacenti.
Marinella li denuncia, documenti alla mano; non sorprende, dunque, che qualcuno di loro, per stizza o per partito preso, denuncia Marinella -- e, non avendo documenti di appoggio, ricorre all'insinuazione e all'attribuzione di intenti. Ma ora basta. Continuare a spargere queste denigrazioni potrebbe danneggiare seriamente l'attività giornalistica di Marinella. Pertanto avvertiamo chi vorrebbe continuare a farlo che saremo solidali con Marinella nella tutela del suo nome e della sua professionalità.
Roma, 19 giugno 2012
Firmatari: Nella Ginatempo, Alessandro Marescotti, Giulietto Chiesa, Ufficio Centrale di Alternativa. Claudia Fanti e la redazione Adista, Giovanni Sarubbi, Sergio Cararo, Mila Pernice, Maurizio Musolino, Loretta Mussi, Alessandra Capone, Alessandro Di Meo, Andrea Dominici, Anita Fisicaro, Anna Farkas, Antonella Recchia, Antonio Deplano, Armando Tolu, Bassam Saleh, Blanca Clemente, Luisa Morgantini, Bruna Felici, Carla Razzano, David Lifodi, Dominique Sbiroli, Enrica Paccoi, Enza Biancongino, Enzo Brandi, Ernesto Celestini, Flavia Lepre, Francesco Lussone, Franco Maresca, Gianfranco Landi, Haysha Moore, Jasmina Radivojevic, Laura Tussi, Luciano Manna, Mahamid Souad, Marco Benevento, Marco Palombo, Marco Papacci, Marco Santopadre, Maria Antonietta Polidori, Maria Cristina Lauretti, Mario Schena, Marta Turilli, Massimo Fofi, Mirella Retico, Ornella Sangiovanni, Paola Tiberi, Patrick Boylan, Patrizia Cecconi, Piero Pagliani, Pietro Raitano, Pilar Castel, Roberto Battiglia, Roberto Luchetti, Rosa Maria Coppolino, Samantha Mengarelli, Sancia Gaetani, Simona Ricciardelli, Stefania Limiti, Stefania Russo, Tiziano Cavalieri, Tullio Cardia, Francesco Santoianni, Angelica Romano, Simona Ricciardelli. Francesco Lussone
Oggetto: Fermo 23/6, Sinalunga 30/6: I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA
Data: 18 giugno 2012 12.14.03 GMT+02.00
Storie e memorie di una vicenda ignorata
La pagina su Facebook: http://www.facebook.com/partigianijugoslavi.it
Gaetano Colantuono
"La presenza di partigiani jugoslavi nella Puglia centrale (1943-1945). Il caso del comune di Grumo Appula"
Abstract:
L’autore analizza i caratteri della presenza di ex internati, profughi e partigiani jugoslavi in Italia meridionale – e delle memorie che di essa permangono – nel comune di Grumo Appula, situato nella Puglia centrale, dal settembre 1943 alla fine della seconda guerra mondiale. Sono qui sviluppati e approfonditi i risultati di una laboriosa ricostruzione delle vicende dei gruppi jugoslavi attivi nella lotta partigiana in Italia, esposte nel volume collettaneo I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda ignorata. Sulla base del riesame di fonti di varia natura, il saggio conferma l’importante ruolo svolto dalla Puglia sia come duplice retrovia per coloro che avevano combattuto lungo l’Appennino e per quanti combattevano nei Balcani (luogo di cure mediche, di reclutamento, di addestramento, di formazione delle Brigate d’oltremare che successivamente si sarebbero unite all’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia) sia come area di complessa mediazione fra i diversi soggetti attivi nel periodo dell’occupazione alleata.
alle 18:00 presso il B.U.C. Machinery del Conservatorio, Via dell'Università 16
nell'ambito delle iniziative per il 68.mo anniversario della Liberazione di Fermo e del Fermano
Saluti del Sindaco e delle Autorità
Presentazione dei volumi
I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana
di Andrea Martocchia, ed. Odradek
e
La sentenza
di Valerio Varesi, ed. Frassinelli
Saranno presenti gli autori. Coordina Samuele Biondi, Presidente ANPI Fermo
alle ore 18:00 presso la libreria della Festa Democratica di Pieve di Sinalunga (zona Stadio)
Presentazione del volume
I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana
Storie e memorie di una vicenda ignorata
di e con il dr. Andrea Martocchia
in collaborazione con ANPI Sinalunga
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Ci metto la faccia!
Iniziativa a sostegno dei bambini serbi del Kosovo e Metohija promosso da“Un Ponte per...”
SABATO 23 GIUGNO
dalle ore 16.00 in poi a Grottaferrata (Rm)
presso Agricoltura Capodarco via del Grottino snc,
Presentazione iniziativa a sostegno di famiglie e bambini serbi del Kosovo e Metohija (zona di Gnjilane)
Partecipazione musicale di
Aloha –Yampapaya world music
Sacchi -Ranieri-Segnegni Trio Jazz
Temperanova (bossanova)
I Musicanti Rudari(musica balcanica)
Massimo Carrano (multipercussioni)
Michele Martino (Mediterrafrica)
Rusty Bluesy ensemble (blues )
Radici... ritrovare nell’antica musica nera... la forza di liberazione
per le schiavitù di oggi... (spiritual)
Proiezione video "Tempo di digiumo" e brevi letture di Alessandro Di Meo (ass. Un Ponte per...)
A fine serata Gran falo’ della Notte di San Giovanni
Stand gastronomici con degustazione di piatti tipici
Un ringraziamento speciale a Guido Manzi per il service
(Kirghisa Suono www.kirghisa.it)
Per info: 0694549191 segreteria@...
Godišnjica Kumanovskog sporazuma
Sub, 09/06/2012Na današnji dan pre 13 godina, predstavnici SR Jugoslavije i NATO-a potpisali su u Kumanovu, Vojno-tehnički sporazum o povlačenju jugoslovenske vojske i policije sa Kosova i Metohije. Time su okončani napadi NATO-a na Saveznu Republiku Jugoslaviju, a na Kosmetu su, na osnovu Rezolucije 1244 Saveta bezbednosti UN, raspoređene međunarodne snage. Dan posle potpisivanja sporazuma, prestalo je Nato bombardovanje Jugoslavije posle 78 dana, a snage Vojske Jugoslavije i MUP-a Srbije počele su povlačenje sa Kosova i Metohije, koje je prema sporazumu trajalo 11 dana. Kumanovskim sporazumom stvorena je i Kopnena zona bezbednosti, koja je formalno još uvek na snazi, čija je dubina pet kilometara, od administrativne linije pokrajine i centralne Srbije. U Nato bombardovanju SRJ koje je počelo 24. marta 1999. više od 2.000 ljudi je poginulo, a gotovo 5.000 ranjeno. Teško su oštećeni infrastruktura, privredni objekti, škole, zdravstvene ustanove, medijske kuće i spomenici kulture.
Visoka cena „nezavisnosti“
Sre, 13/06/2012Priština, čini se, skupo plaća svoju tzv. nezavisnost. Brojnim zapadnim diplomatama koji su već bogato naplatili svoj angažman na realizaciji projekta tzv. nezavisnog Kosova pridružio se i penzionisani američki general Vesli Klark, koji je posebno zainteresovan za rezerve uglja u Pokrajini. I dok oni zgrću bogatstvo, na Kosovu i Metohiji su sve prisutniji korupcija i organizovani kriminal, a građani sve dublje tonu u siromaštvo, o čemu najbolje govore visoka stopa nezaposlenosti i konstantan pad životnog standarda.
Nije tajna da su tokom proteklih 12 godina mnoge zapadne diplomate vodile veoma uspešan biznis na Kosovu i Metohiji, što im je donelo zaradu od nekoliko stotina miliona dolara. Među njima su bivša američka državna sekretarka Medlin Olbrajt i nekadašnji šef UNMIK-a Bernar Kušner, koji su vodili glavnu reč u telekomunikacionim poslovima. Prema navodima nekih beogradskih listova, Kušner je imao ključnu ulogu u stvaranju prvog i najvećeg operatera mobilne telefonije na Kosmetu “Valja” - konzorcijuma PTT Kosova i francuskog “Alkatela”, sa godišnjim prihodom od 200 miliona dolara."Olbrajt grupa" je 2004. godine preuzela posao specijalnog savetnika predsednika Upravnog odbora "Ipko neta", koju su 1999. godine usred bombardovanja bivše Jugoslavije formirali niko drugi nego čelnici Međunarodnog komiteta za pomoć ugroženima. "Ipko net" je posle dolaska NATO na Kosmet, uz Kušnerov blagoslov, potpisao ekskluzivni ugovor sa Kosovskom energetskom korporacijom, o korišćenju infrastrukture, što mu je omogućilo da postane prvi internet-provajder koji je pokrivao 70 odsto teritorije pokrajine.
Veslija Klarka, u vreme bombardovanja SRJ komandant NATO snaga, a sada rukovodioca kanadske energetske korporacije "Eviditi“ interesuju isključivo rezerve uglja na Kosmetu, iz kojih bi se, kako se procenjuje, dobijalo oko 100 hiljada barela sintetičke nafte dnevno. Ta vest, koju je objavio portal „Život na Kosovu“, možda i ne bi privukla pažnju domaće javnosti, da zakoniti vlasnik tog rudnog bogatstva, kao uostalom svih energetskih potencijala i telekomunikacione infrasturkture, nije upravo Republika Srbija. Prema podacima beogradskog Geozavoda za istraživanje mineralnih sirovina, koji od 2006. godine radi u sklopu Geoinstituta reč je o 7 do 12 milijardi tona uglja u kosmetskom basenu i oko dve milijarde tona u Metohiji. S ozbirom na to može se pretpostaviti koliko je Srbija u proteklih 12 godina izgubila zbog nerešenog kosmetskog problema, odnosno zbog činjenice da nad svojim sirovinskim i energetskim potencijalima u pokrajini nema nadležnosti.
S druge strane, ponovo se nameće zaključak da u osnovi tzv. projekta kosovske nezavisnosti ipak nisu ljudska prava, na čemu insistiraju prištinski mentori na Zapadu, nego strateški, a čini se, ponajviše lični interesi glavnih igrača u međunarodnim političkim i ekonomskim odnosima. Na to je još pre par godina otvoreno ukazao američki profesor Majkl Čosudovski iz Insituta Globar Researchs. On je tada, u svom autorskom tekstu, naveo da je priznanje nezavisnosti Kosmeta deo vojnog plana na realaciji SAD – NATO i da je bombardovanjem Srbije, posebno izgradnjom Bondstila na Kosovu, Amerika stvorila uslove za stalno vojno prisustvo u južnoj Evropi. Jer, kako navodi Čosudovski, jedan od ciljeva formiranja Bondstila je obezbeđivanje projekta izgradnje strateškog naftovoda između Albanije, Makedonije i Bugarske, koji bi naftu iz Kaspijskog jezera trebalo da sprovede do Jadrana, tačnije do albanske luke Drač i dalje do zapadne Evrope i SAD. „Planovi za izgradnju Bondstila bili su poznati još 1997. godine, dve godine pre bombardovanja bivše Jugoslavije, i bili su ugrađeni u ugovor Ministarstva odbrane SAD i firme Kelog, Braun i Rut, ćerke firme petolejske kompanije Halibarton, na čijem čelu se tada nalazio Dik Čejni, kasnije potpredsednik SAD, navodi između ostalog Majkl Čosudovski.
U tom kontekstu, tzv. nezavisnost Kosmeta, čini se, skupo košta Prištinu, ali zbog toga najviše trpi Srbija, jer je očigledno da tu nije reč samo o pokušaju ugrožavanja njenog teritorijalnog integriteta, već o pokušaju nezakonitog prisvajanja i te kako značajnog sirovinskog i energetskog potencijala na Kosovu i Metohiji.
Piše Ivana Subašić
KFOR: Chiuso il valico vicino Brnjak
16. 06. 2012. -Le forze militari internazionali in Kosovo e Metochia hanno comunicato di aver chiuso il valico alternativo nelle vicinanze di Brnjak, con l’obiettivo, come indicato, di prevenire i passaggi illegali della linea amministrativa tra il Kosovo e la Serbia centrale. Nel comunicato posto all’agenzia Tanjug, il Comando della KFOR ha spiegato che l’azione è stata compiuta con l’obiettivo di creare un ambiente sicuro e pacifico. La KFOR attualmente è impegnata nei dialoghi con i rappresentanti della popolazione locale e fa appello che ogni tipo di protesta sia pacifico e che non minacci la libertà di circolazione – viene indicato nel comunicato.
Kosovo settentrionale: serbi e KFOR si sono ritirati dalla strada a Štuoce
16. 06. 2012. - 18:57 -- MRSIl traffico nel Kosovo settentrionale è stato normalizzato dopo che i serbi hanno interrotto il raduno sulla strada magistrale da Kosovska Mitrovica fino a Ribarić nel villaggio Štuoce, mentre i militari della KFOR hanno rimosso veicoli da combattimento dalla strada. I serbi da Ibarski Kolašin si sono ritirati dalla strada dopo che il presidente del comune di Zubin Potok, Slaviša Ristić, li ha invitati a sciogliersi. I militari italiani della KFOR si sono ritirati da Štuoce in una colonna formata da una quindicina di veicoli da combattimento. Slaviša Ristić ha dichiarato che i rappresentanti della KFOR gli hanno detto che non hanno ottenuto ordini per chiudere le altre strade alternative nel Kosovo settentrionale, eccetto la strada che porta vero il villaggio Banja. Loro hanno detto che quella direzione alternativa era troppo vicino al valico Brnjak e che perciò hanno dovuto chiuderlo e disabilitarlo per il traffico – ha detto Ristić. L’unica cosa che ci rimane è la lotta pacifica e decisiva, ha sottolineato il presidente del comune sperando che molti alla fine dovranno capire che i serbi dal Kosovo settentrionale non vogliono integrarsi nelle cosiddette istituzioni kosovare.
KFOR: La situazione nel Kosovo settentrionale è calma
16. 06. 2012.La situazione nel Kosovo settentrionale è calma, dopo che la KFOR ha chiuso la direzione stradale alternativa vicino a Brnjak – è stato comunicato dal Comando delle forze internazionali. I rappresentanti della KFOR hanno indicato che non possono confermare che durante l’incidente di stamane, nelle vicinanze di Brnjak, fosse stato ferito un civile che ha tentato di arrampicarsi sul veicolo di quella missione. I militari della KFOR hanno sparato tre pallottole di gomma in aria in modo da distogliere i manifestanti dall’arrampicarsi sui veicoli da combattimento – viene evidenziato nel comunicato. Il portavoce della KFOR, Marko Marsegna, ha invitato tutte le parti ad astenersi dalle mosse unilaterali, dalle dichiarazioni incendiarie e dalla violenza. Secondo le sue parole, la chiusura della strada alternativa e del passaggio è stata fatta in modo da permettere alle unità della KFOR di completare i loro compiti principali e di favorire le condizioni per un ambiente sicuro e pacifico.
=== 2 ===
www.vesti-online.com
Slučajno se ubio italijanski pripadnik Kfora
Pored tela stradalog 26-godišnjeg vojnika pronađena je puška iz koje se, kako su pokazali prvi rezultati istrage, ubio, javili su prištiniski mediji.
Istraga će pokazati tačan uzrok smrti o čemu će biti izdato naknadno saopštenje.
18 giugno 2012
Si chiamava Michele Padula, aveva 26 anni ed era originario di Montemesola (Taranto) il militare della Kfor, la Forza Nato in Kosovo, morto in una base del contingente italiano nel nord del Kosovo. La notizia, che si è diffusa oggi nel piccolo paese in provincia di Taranto, è stata confermata da fonti vicine alla famiglia.
Si tratterebbe di «un episodio drammatico di suicidio personale». Lo riferiscono a Tmnews fonti da Pristina precisando che «il militare è stato trovato morto stamattina» nella base italiana di stanza a Novo Selo, fra i villaggi di Zupc e Caber, non lontano da Kosovska Mitrovica. Se confermato, sarebbe il primo episodio di sucicidio di un militare italiano in Kosovo, dal dispiegamento della missione Nato, Kfor, nel 1999. Iso 182036 giu 12Si tratterebbe di un incidente, avvenuto .
All'interno del campo, è stato sentito un colpo d'arma da fuoco, e il soldato è stato trovato morto, con il suo fucile vicino.
In Kosovo ancora 5mila militari
Sono circa 550 i militari italiani impegnati nell'operazione della Nato Kfor in Kosovo, cui partecipano attualmente 31 Paesi, con un impegno complessivo di forze che oggi ammonta a circa 5.500 unità. Il contingente nazionale è schierato a Pristina, Belo Polje, Decane e Dakovica.
L'Italia guida il Multinational Battle Group West nel quale sono inseriti anche i militari di Slovenia e Austria, attualmente strutturato su base 17 Reggimento Artiglieria Controaerei «sforzesca» di Sabaudia (Lt), il cui comando si trova a «Villaggio Italia», base italiana, a Belo Polje (Pec).
Nell'ambito dell'area ovest del Paese opera, inoltre, un «Joint Regional Detachment» a conduzione nazionale che assicura il continuo monitoraggio delle attività sul terreno e il mantenimento dei collegamenti con le istituzioni locali e le altre organizzazioni internazionali.
All'Aeronautica Militare è stata affidata la realizzazione e la gestione tecnico-operativa di una struttura aeroportuale all'interno dell'area di responsabilità del contingente nazionale nella zona di Dakovica.
Il Kosovo Metohija a 13 anni dalla fine dell’aggressione NATO
La “questione Kosovo” continua ad essere, e sempre più, un nodo irrisolto della comunità internazionale occidentale, la quale pensava che con il raggiungimento della cosiddetta “indipendenza” imposta ed avallata finora da soli 89 paesi, ovviamente tutti i sudditi dell’impero, tra cui naturalmente l’Italia...ma pare che anche lo stato di Tonga stia per fare il grande passo...), si sarebbero assopite le forme di resistenza del popolo serbo kosovaro e delle altre minoranze perseguitate; ma non è stato così e lo dimostrano alcuni fatti chiarificatori di quanto sia pericolosa la situazione ed esposta a rischi per nuovi scenari di guerra e turbolenze.
Da ormai quasi nove mesi il nord del Kosovo è bloccato da decine di barricate erette dai serbi, che cercano di impedire il passaggio delle forze NATO_Eulex e della Polizia kosovara (KPS); nonostante decine di scontri con morti e decine di feriti, assalti per smantellarle vengono presidiate notte e giorno, e immediatamente rifatte se perse (... naturalmente il tutto nel più assoluto silenzio dei grandi media di informazione, vedere “Kosovo Notizie 5” del FBItalia).
Proprio nei giorni scorsi la KFOR ha attaccato una barricata per sgomberarla, ma la pronta mobilitazione e reazione di centinaia di serbi ha scatenato uno scontro che ha provocato otto feriti, quattro soldati americani e almeno quattro serbi. In questo clima Germania ed Austria hanno deciso di mandare altre truppe prevedendo una intensificazione delle lotte di resistenza.
Un altro dato su cui riflettere è il Referendum organizzato dalle municipalità serbe del Nord del Kosovo a febbraio, che ha confermato il rifiuto ad accettare le autorità di Pristina e l’esistenza del Kosovo indipendente. Il voto, dichiarato nullo da governo kosovaro e dalle autorità internazionali, ma nche, cosa più grave dal governo quisling serbo, segna però soprattutto un momento di rottura della comunità serba del nord con Belgrado, che temendo ripercussioni sul percorso di integrazione UE ha osteggiato il voto, facendo scendere in campo con ricatti, pressioni e minacce, anche l’allora presidente serbo filo occidentale Tadic.
Secondo i risultati ufficiali il 99.74% dei votanti ha detto “no” nel referendum organizzato in quattro municipalità del Nord del Kosovo. Il quesito su cui dovevano esprimersi era così formulato: “accettate le istituzioni della cosiddetta Repubblica del Kosovo?”
Nonostante il maltempo e l’ostilità di Belgrado, l’alta affluenza alle urne è stato un forte segnale di determinazione.
Altro dato è stata la “provocatoria” richiesta di decine di miglia di serbi kosovari di avere la cittadinanza russa, ritenendo che forse la Russia di Putin potrà avere più a cuore dei governanti filo occidentali di Belgrado, il destino e i diritti di propri cittadini.
Dalla parte albanese del Kosovo guidato dai criminali ( come documentato anche dall’Intelligence occidentale) ex UCK, si continua a gettare benzina sul fuoco con atti e dichiarazioni che alzano le tensioni; l’AKSH (Armata Nazionale Albanese) ha ufficialmente dichiarato a marzo, con un comunicato inviato ai media internazionali l’apertura di un ulteriore confronto con i serbi del Kosovo, nell’ottica di una nuova guerra per la riunificazione di tutti gli albanesi sotto un'unica bandiera, lo stesso primo ministro albanese Thaci ha pubblicamente dichiarato che concorda con questa visione. Mentre in Macedonia questi terroristi dell’AKSH, facenti parte del FBSH (Fronte Unito Nazionale Albanese), hanno attaccato negli ultimi mesi la comunità slava e macedone del paese, con attacchi terroristici che hanno provocato morti e numerosi feriti, costringendo il governo macedone ad indire un coprifuoco. La gravità di questo sta anche nel fatto che il Kosovo è il retrovia di questi terroristi, che dopo gli attacchi si rifugiano di là dal confine senza problemi.
Una ulteriore innalzamento della pericolosità di nuovi scenari di guerra è anche stata la notizia delle scorse settimane, della visita “fraterna e cameratesca”fatta in Kosovo, da una delegazione della cosiddetta “opposizione siriana”, che è giunta riconoscendo alla storia dell’UCK e del Kosovo secessionista un esempio per imparare: “...siamo venuti per imparare, voi possedete un esperienza che potrà esserci molto utile...abbiamo molto da imparare dalla vostra esperienza e dalle vostre capacità di internazionalizzare il vostro conflitto...”. Certo tra criminali ci si intende bene.
Ma la notizia più seria è che la cosiddetta opposizione siriana ha chiesto di poter usare le ex basi UCK, per addestrare i propri combattenti, naturalmente sotto l’addestramento dei capi militari terroristi UCK, che hanno insanguinato e massacrato la regione kosovara.
Qual è la situazione per i popoli che abitavano la provincia serba, dopo tredici anni di “ democrazia e libertà”? Penso si dovrebbe partire dalla dichiarazione che fece la DEA ( Agenzia Antidroga USA), che definì il Kosovo indipendente un “narcostato nel cuore dell’Europa”.
Questo staterello fantoccio, che si regge su due stampelle: una militare: ed è la presenza delle forze di occupazione NATO-Eulex, l’altra economica: ed è il fiorire e proliferare di tutte le attività criminose possibili: dal traffico di eroina, a quello delle donne, degli organi e delle armi.
Quest’area è diventata lo snodo tra Asia ed Europa dei più svariati traffici; dalle varie segnalazioni di molti rapporti di Intelligence, è ormai noto che le raffinerie presenti nella provincia producono oltre dieci tonnellate delle varie droghe, che arrivano poi nel continente soprattutto attraverso Montenegro ed Albania; ed anche lo smistamento delle ragazze avviate alla prostituzione, passa da lì (negli ultimi anni sono state decine le cosiddette “agenzie” chiuse a Pristina, dove venivano offerte e vendute ragazze dell’est ); così come, soprattutto per la clientela dei soldati occidentali lì presenti, si parla di circa 120 bordelli esistenti nella capitale kosovara ed altri 200 sparsi nella provincia.
Anche per il traffico di organi, di cui la mostruosità della famosa “casa gialla” di Burel in Albania è stato l’apice, ma che tuttora prosegue (...l’arresto proprio nelle scorse settimane del trafficante israeliano M. Harel, considerato la mente del traffico internazionale insieme ad altri albanesi locali.
...Nell’autobiografia dell’ex procuratrice Carla Del Ponte del Tribunale Internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia, che ha perseguito per anni, soprattutto i leaders serbi, per le varie guerre balcaniche, è scritto che i rapiti, furono prima rinchiusi in campi a Kukesh e Trpoje, poi dopo essere stati esaminati da dottori albanesi per poter verificare quali fossero i più sani e robusti, venivano portati a Burel e dintorni, nell’Albania centrale, dove erano ben rifocillati, curati e non torturati, in modo da essere pronti per la mutilazione degli organi.
La Del Ponte ha detto che una parte di questi era rinchiusa in una casa gialla, situata a circa 20 chilometri a sud della cittadina albanese di Burel, in una stanza vi era una specie di infermeria, dove venivano asportati gli organi ai prigionieri. Poi questi venivano spediti attraverso l’aeroporto Madre Teresa di Tirana, verso le destinazioni occidentali che avevano pagato per poter effettuare i trapianti. In questi campi vi erano anche molte donne provenienti dalle province kosovare, dalle
repubbliche ex jugoslave, dall’Albania, dalla Russia e altri paesi, anche a loro furono poi estratti gli organi prima di essere uccise...
Dal punto di vista dei diritti universali dell’uomo, per le minoranze non albanesi i dati riferiscono una situazione degradata e terribile, a cominciare dalla situazione delle enclavi, dove decine di migliaia di persone vivono in campi di concentramento a cielo aperto, senza diritti umani minimi garantiti: da quello del lavoro a quello della sanità, dai diritti civili e politici, da quelli per l’istruzione a quelli religiosi, dal diritto al ritorno dei 250.000 espulsi ed esiliati a quello di avere giustizia per i 1.300 serbi e non albanesi rapite ed assassinati dal 1999 ad oggi. Dal diritto alla libertà di movimento al riappropriamento delle proprie case e terre espropriate con la violenza dai terroristi: nel Kosovo liberato e democratico sono TUTTI NEGATI e VIOLATI, compresa la risoluzione ONU 1244 del 1999.
Dal punto di vista sociale la situazione nella provincia serba resta devastata da tutti punti di vista, vige un economia drogata in tutti i sensi, essendo infatti fondata su capitali ed attività criminali, tutto il resto non può che essere marginale e secondario; così la grande maggioranza degli stessi albanesi kosovari onesti non legati agli interessi criminali, vive in una povertà profonda ed in condizioni difficili, con una disoccupazione che sfiora il 50%, le uniche industrie rapinate allo stato serbo come la Centrale elettrica o le miniere Trepca di Zvecan, la Ferronichel, le Poste Telekom del Kosovo (PTK) o il birrificio di Pec sono il bottino che le multinazionali occidentali hanno come premio per l’occupazione del Kosovo, in testa ovviamente USA, Francia, Germania e Gran Bretagna; quindi ulteriori licenziamenti e sfruttamento liberista selvaggio.
Certamente va rilevato che comunque vada, c’è e ci sarà un problema “Methoija”, di quelle migliaia di serbi kosovari cioè, che vivono nella parte del Kosovo a sud di Mitrovica, per essi che sopravvivono nelle enclavi circondati da odio, ostilità e violenze quotidiane, i problemi e le scelte da fare sono molto più complessi e delicati. E questo non è un problema da poco, perché rischia di spaccare la già debole comunità serba della provincia.
C’è un dato nuovo, che non potrà certamente rovesciare a breve termine, la realtà della provincia e del popolo serbo, ma è un dato che potrebbe in prospettiva risultare importante: è la presidenza della Serbia ottenuta nell’ultima tornata elettorale da T. Nikolic, figura non limpida nella progettualità politica, ma sicuramente migliore del quisling precedente B. Tadic, che comunque molto probabilmente, formerà con il suo partito i Democratici e i Socialisti del SPS, il nuovo governo.
Perlomeno Nikolic, rappresenta in una forma certamente moderata ma definita, un retroterra culturale e politico che ha nella difesa dell’identità, dell’interesse e sovranità nazionali i suoi cardini; ma nel panorama politico deficitario delle forze politiche serbe oggi, non è poco.
Probabilmente su questo si è basato l’elettorato serbo, di sicuro disilluso e non fiducioso in chissà che cosa, ma se almeno mantenesse anche solo alcuni punti della sua campagna elettorale, come freno alle politiche liberiste interne devastanti ed alle aggressioni economiche e di rapina della UE e del FMI, come un freno all’arroganza NATO e di riflesso nuove attenzioni al ruolo che una Russia forte e solida con Putin, potrebbe giocare nei Balcani, al fianco di una Serbia meno sottomessa e ricattata dai diktat delle lobby occidentali. Senza dimenticare il nodo dell’entrata nella UE e la questione NATO ( nelle scorse settimane un sondaggio ufficiale ha rivelato che oltre il 60% dei serbi è contrario all’alleanza militare atlantica.
In una fase come questa basterebbe solo un freno: se Nikolic mantenesse pure solo questo orientamento, anche per la questione Kosovo e per i serbi e le minoranze non albanesi della provincia kosovara, si potrebbe riaprire un barlume di speranza in un futuro meno cupo di quello che stanno vivendo e...meno solitudine. Una cosa è certa: il Kosovo resta una spina nel fianco dei politici “mercanti” di Belgrado, ma anche una spina nell’anima del popolo serbo intero.
“...Kosovo tredici anni dopo...
A cura di Enrico Vigna, portavoce del Forum Belgrado, per “Kosovo Notizie 6”
Info: sosyugoslavia @ libero.it
Voice of Russia - June 17, 2012
What is NATO/KFOR really doing in Kosovo?
What exactly is NATO doing in Kosovo? Who or what are they protecting and what are they stationed there for? When we look at what they have been doing since June of 1999, in reality it does not look good.
We must not forget that NATO is a military organization and military organizations are designed for one thing, the legalized killing of the opponents of a state. No matter how noble NATO tries to paint itself it is an organization that should have been disbanded at the end of the Cold War and it has in itself become one of the most destabilizing factors and causes of death and destruction in modern times.
We must also not forget that NATO operates as a proxy for the US in promoting US interests in areas of the world where the US can not rightfully interfere, although this in reality does little to stop them.
Putting aside for the moment the destruction of Afghanistan, Iraq, Libya, and other countries obliterated by Western “intervention,” let’s take a look for a moment at Kosovo.
What exactly is the US, I mean NATO, I mean KFOR, doing in Kosovo? What is their objective in the country? Who or what are they protecting and what are they stationed there for?
When we look at what they have been doing since June of 1999, in reality it does not look good.
Wanting to be fair and impartial when gathering material for this piece, one of the first places I went to was their own site. Not surprisingly it is filled with the usual Western catchphrases and pseudo-reasoning that many in the West gobble up to justify the killing and destruction they wreak on the world. Words and phrases like multi-ethnic force, assistance to civil authorities, civil protection and, my favorite sentence, “KFOR is cooperating with and assisting the UN, the EU and other international actors, as appropriate, to support the development of a stable, democratic, multi-ethnic and peaceful Kosovo.” Sounds good, but it is poppycock.
First of all who are these “other international actors”? The drug dealers and traffickers in human organs? The Mafia killers? The US imperial paymasters? The US-sponsored war criminals? As for a stable blah-blah multi-ethnic Kosovo, well, obviously, that means one free of Serbs, and this my dear reader is what it is all about.
Let’s go back in time a bit to February 2008. This was the month when, after protesters attacked the US Embassy in Belgrade, the former Bush administration finally admitted after starting two wars of aggression and the subsequent occupations of sovereign nations, the extensive use of torture, extraordinary renditions, the illegal prison at Guantanamo and extensive black sites worldwide, there was such a thing as international law.
The destruction, dismantling and dividing up of Yugoslavia into ethnically-pure sections was the crowning achievement of Hillary’s husband, former president Bill Clinton, so the final seal on the destruction of the former Yugoslavia, namely the “independence” of Kosovo, was something she wholeheartedly embraced. Like Hillary’s famous quote on the occasion of the death of Muammar Gaddafi, “we came, we saw, he died,” her statement on the occasion of Kosovo’s separation from Serbia also showed monumental callousness and complete disregard for human life and dignity.
Pretending to be so wise as to the local language, as her State Department did with the “overload” button disgrace, she used the Albanian word for Kosovo, “Kosova”; she referred to Kosovo by the Albanian spelling "Kosova" and stated: "It will allow the people of Kosova to finally live in their own democratic state. It will allow Kosova and Serbia to finally put a difficult chapter in their history behind them and to move forward." The only problem, it was ripping the heart out of the Serbian people.
According to Nebojsa Malic at Global Research.ca, there can be no doubt that the March 1999 attack on Yugoslavia was illegal. In an article the following articles, treaties and citations were listed.
Violated articles:
Article 2, section 4 of the UN Charter clearly says: "All Members shall refrain in their international relations from the threat or use of force against the territorial integrity or political independence of any state…”
Article 53 (Chapter VIII) of the UN Charter clearly says that: "[N]o enforcement action shall be taken under regional arrangements or by regional agencies without the authorization of the Security Council".
From NATO's own charter, the North Atlantic Treaty of 1949, Article 1: "The Parties undertake...to settle any international dispute...by peaceful means…”
Article 7: "This Treaty...shall not be interpreted as affecting...the rights and obligations under the Charter of the Parties which are members of the United Nations, or the primary responsibility of the Security Council for the maintenance of international peace and security."
Other laws and treaties: the Helsinki Final Act of 1975 for violating the territorial integrity of a signatory state.
The 1980 Vienna Convention on the Law of Treaties for using coercion to compel a state to sign a treaty i.e., the Rambouillet ultimatum.
Finally, Yugoslavia did not attack any NATO member nor was it a security threat to any country in the region. What NATO perpetrated on March 24, 1999 was a war of aggression and a crime against humanity.
So if the invasion was illegal, then obviously the ensuing occupation was as well and everything KFOR/NATO/US is doing there is also illegal.
So what does KFOR do in Kosovo? With an almost total and complete media blackout, and I have seen this with my own eyes, there is little news we receive from the area. However the reports we get are of constant and methodical limitation to the freedom of movement and supplies to the Serbian population, in particular in Northern Kosovo, and reports of the continued practice of limiting Serbs to certain areas or ghettos, making them refugees in their own country. This serves to ethnically cleanse and divide the country along ethnic and racial lines, like most American cities, a comparison that I can not help but make.
KFOR also protects, enables and provides support for the belligerent side they have chosen to support in this conflict. What are the reasons? They are many but one of the main ones is money, huge money, which has been filling KFOR coffers for years on end, and according to countless media reports going back for years, from countless illicit sources. (That is a topic for a later discussion.)
On Friday there was another incident of KFOR opening fire, this time with rubber bullets, on peaceful Serbs as they blocked an important road and attempted to make Serbs accept Kosovo license plates for their cars, an obviously transparent attempt to make them recognize Kosovo as an independent entity.
A press release from the Raška-Prizren Eparchy stated that they are concerned about KFOR’s latest actions in northern Kosovo and stated “attempts to force the Serbs in the north to accept Kosovo license plates by using combat vehicles and blocking roads that are the main channel for supplies and medicines are creating a serious humanitarian crisis that could have immense consequences”.
The Eparchy also strongly urged all sides to work constructively to find solutions that contribute to the survival of the Serbian people in the entire territory of Kosovo and Metohija.
For the Serbian people, they are fighting for their very existence. For KFOR and the “West”, Kosovo is just another pawn in a filthy game of geopolitical influence and power. As soon as it is used up, or no longer needed, they will throw it away as well.
LJUBO CUPIC: una foto ritrovata
Sappiamo che questa foto che abbiamo recuperato [ http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/1942.jpg ] non è inedita (era già presente a pagina 73 di Report on italian crimes against Yugoslavia and its people [ http://www.diecifebbraio.info/2012/03/pubblicazioni-sui-crimini-italiani-in-jugoslavia/ ]), ma vale sicuramente la pena conoscerne la storia. Siamo nella primavera del 1942 nel Montenegro protettorato italiano sotto occupazione miltare, solo pochi mesi dopo l’invasione dell’aprile 1941 e la proclamazione nel luglio sucessivo del ”libero e indipendente” Regno del Montenegro che fece invece scatenare una vasta insurrezione popolare. In conseguenza di ciò venne nominato Governatore civile e militare il Generale Alessandro Pirzio Biroli che attuò da quel momento una feroce repressione che comprendeva rastrellamenti su larga scala, bombardamenti e distruzione di interi villaggi, fucilazioni di massa non solo di partigiani ma anche di civili, donne e bambini compresi. In questa ottica fu particolarmente importante l’alleanza con i nazionalisti monarchici cetnici, ma per tutti questi crimini alla fine della guerra così come per tutti gli altri casi nei territori occupati lo Stato italiano non autorizzò mai l’estradizione dei colpevoli.
Tutto questo fece crescere la reazione partigiana e grosso ruolo ebbe nell’organizzazione delle formazioni il Partito Comunista. Come altri giovani anche il protagonista della nostra storia si unisce ai partigiani diventando in poco tempo comandante di un battaglione. Ljubo Cupic [ http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/ljubocupic.jpg ] era nato nel 1913 da una famiglia montenegrina emigrata in Nord America e all’età di 14 anni torna con i genitori in Montenegro. Terminati gli studi superiori si trasferisce a Belgrado dove studia legge e diventa membro del Partito Comunista Jugoslavo. Nel 1941, dopo la capitolazione del paese, torna in Montenegro per unirsi ai partigiani ma nell’aprile del 1942 viene catturato durante una battaglia dai cetnici e imprigionato. In carcere fu torturato, ma insieme ai suoi compagni riesce a resistere, sfidando apertamente e mettendo in ridicolo i cetnici nazionalisti come servi degli invasori e impedisce alla sua famiglia di muovere alcuna richiesta di grazia nei suoi confronti. Condannato a morte da un tribunale fantoccio assieme ad altri combattenti e comunisti, viene fucilato a Trebjšje, nei dintorni di Nikšić [il 9 maggio]. Il motivo che ha reso famoso il suo nome è la foto scattata dopo la condanna a morte, in un atteggiamento di aperto contrasto e derisione verso gli organizzatori del processo farsa, un sorriso di sfida alla morte che ha reso celebre quell’immagine.
Le ultime parole gridate contro i suoi carnefici ed alla popolazione costretta ad assistere alle esecuzioni di comunisti e patrioti, “Živjela slavna komunistićka partija!”, “Lunga vita al glorioso partito comunista!”, sembrano risaltare dalla foto che abbiamo pubblicato, dove si vedono in grande numero alpini e soldati italiani.
Un ulteriore motivo di interesse per questa storia potrebbe venire, se confermato, da un articolo del giornale Vesti del 23 maggio 2010, dove viene pubblicata la foto numero 3 di questa serie di “Ricordo Comunista Fucilato 9.5.1942 XX Niksic M.Negro” [ http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/ljubocupic3.jpg ] e dove veniamo a conoscenza dell’autore di quegli scatti: Carlo Ravnich.
All’epoca di questi scatti forse era ancora un soldato semplice con la passione per la fotografia, ma all’8 settembre 1943 Carlo Ravnich comandava il Gruppo artiglieria alpina “Aosta” che partecipò alla spontanea rivolta contro i nazisti. Successivamente comandò la Brigata partigiana Aosta e alla fine lo Stato Maggiore del nuovo Esercito Italiano lo nominò, con il grado di maggiore, a guidare l’intera Divisione italiana partigiana Garibaldi dal 2 luglio 1944 fino al rientro in Italia avvenuto l’8 marzo 1945.
In questa intervista del 1980 [ http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/ravnich.htm ] Carlo Ravnich racconta la sua esperienza in Jugoslavia, mentre in questo articolo da Storia Illustrata n.284 del luglio 1981 [ http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/Storia-Rivelazione-del-Gen.-Ravnich-comandante-della-Garibaldi-in-Jugoslavia-1945.pdf ] con rivelazioni sulla “corsa per Trieste” ci sono numerosi scatti dello stesso autore, più una breve biografia.
Ljubo Cupic è stato nominato eroe nazionale Jugoslavo il 10 Luglio 1953.
http://www.viaggiareibalcani.it/articoli/752/sentieri-partigiani-in-montenegro-seconda-parte.html