Informazione
by Prof. James Petras - Global Research, November 28, 2011
Il nuovo autoritarismo: dalle democrazie in decomposizione alle dittature tecnocratiche, e oltre
del prof. James Petras
Professore emerito di sociologia all’università Binghamton di New York. Ultimo libro pubblicato: The Arab Revolt and the Imperialist Counter Attack, (Clarity Press, March 2011). Recente libro tradotto in italiano : USA: padroni o servi del sionismo? I meccanismi di controllo del potere israeliano sulla politica degli USA (Libro Press, 2007).
(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
Global Research, 28 novembre 2011
Introduzione
Viviamo in un tempo di cambiamenti di regime, dinamici, regressivi. Un periodo in cui sono in piena accelerazione grandi trasformazioni politiche e l’arretramento drammatico di norme legislative di natura socio-economica introdotte un mezzo secolo fa; tutto questo provocato da una crisi economica prolungata e sempre più profonda e da un’offensiva portata avanti dalla grande finanza in tutto il mondo.
Questo articolo analizza come gli importanti cambiamenti di regime in corso hanno un profondo impatto sui modi di governare, sulle strutture di classe, sulle istituzioni economiche, sulla libertà politica e la sovranità nazionale.
Viene individuato un processo in due fasi di regressione politica.
La prima fase prevede il passaggio da una democrazia in disfacimento ad una democrazia oligarchica; la seconda fase, attualmente in atto in Europa, coinvolge il passaggio dalla democrazia oligarchica ad una dittatura colonial-tecnocratica.
Si individueranno le caratteristiche tipiche di ogni regime, concentrando l’attenzione sulle specifiche condizioni e sulle forze socio-economiche che stanno dietro ad ogni “transizione”.
Si procederà a chiarire i concetti chiave, il loro significato operativo: in particolare la natura e la dinamica delle “democrazie decadenti”, delle democrazie oligarchiche e della “dittatura colonial-tecnocratica”.
La seconda metà del saggio puntualizzerà le politiche della dittatura colonial-tecnocratica, il regime che più si è discostato dal principio di democrazia rappresentativa sovrana.
Verranno chiarite le differenze e gli elementi simili tra le dittature tradizionali militar-civili e fasciste e le più aggiornate dittature colonial-tecnocratiche, mirando l’analisi sull’ideologia del “tecnicismo apolitico” e della gestione del potere tecnocratico, come preliminare per l’esplorazione della catena gerarchica profondamente colonialista del processo decisionale.
La penultima sezione metterà in evidenza il motivo per cui le classi dirigenti imperiali e i loro collaborazionisti nazionali hanno ribaltato la pre-esistente formula di gestione del potere oligarchico “democratico”, la ricetta del “governare indirettamente”, a favore di una presa di potere senza più paraventi.
Dalle principali classi dominanti finanziarie di Europa e degli Stati Uniti è stata consumata la svolta verso un diretto dominio coloniale (in buona sostanza, un colpo di stato, con un altro nome).
Verrà valutato l’impatto socio-economico del dominio di tecnocrati colonialisti designati di imperio, e la ragione del governare per decreto, prevaricando forzatamente il precedente processo di persuasione, manipolazione e cooptazione.
Nella sezione conclusiva valuteremo la polarizzazione della lotta di classe in un periodo di dittatura colonialista, nel contesto di istituzioni svuotate e delegittimate elettoralmente e di politiche sociali radicalmente regressive.
Il saggio affronterà le questioni parallele delle lotte per la libertà politica e la giustizia sociale a fronte di governi imposti da dominatori colonialisti tecnocratici, alla fine venuti alla ribalta.
La posta in gioco va oltre i cambi di regime in corso, per identificare le configurazioni istituzionali fondamentali che definiranno le opportunità di vita, le libertà personali e politiche delle generazioni future, per i decenni a venire.
Democrazie decadenti e la transizione verso democrazie oligarchiche.
Il decadimento della democrazia è evidente in ogni sfera della politica. La corruzione ha pervaso ogni settore, i partiti e i leader si contendono i contributi finanziari dei ricchi e dei potenti; posizioni all’interno dei poteri legislativo ed esecutivo hanno tutte un prezzo; ogni parte della legislazione è influenzata da potenti “lobbies” corporative che spendono milioni per la scrittura di leggi a loro profitto e per individuare le manovre più opportune alla loro approvazione.
Eminenti faccendieri che agiscono nei posti di influenza come il criminale statunitense Jack Abramoff si vantano del fatto che “ogni membro del congresso ha il suo prezzo”.
Il voto dei cittadini non conta per nulla: le promesse elettorali dei politici non hanno relazione alcuna con il loro comportamento quando sono in carica. Bugie e inganni sono considerati “normali” nel processo politico.
L’esercizio dei diritti politici è sempre più sottoposto alla sorveglianza della polizia e i cittadini attivi sono soggetti ad arresti arbitrari.
L’élite politica esaurisce il tesoro pubblico sovvenzionando guerre coloniali, e le spese per queste avventure militari eliminano i programmi sociali, gli enti pubblici e i servizi fondamentali.
I legislatori si impegnano con demagogia al vetriolo in conflitti da vere marionette, sul tipo dei burattini Punch (Pulcinella) e Judy (Colombina), in manifestazioni pubbliche di partigianeria, mentre in privato fanno festa insieme alla mangiatoia pubblica.
A fronte di istituzioni legislative ormai screditate, e del palese, volgare mercato di compravendita dei pubblici uffici, i funzionari dirigenti, eletti e nominati, sequestrano i poteri legislativo e giudiziario.
La democrazia in decomposizione si trasforma in una “democrazia oligarchica” come governo auto-imposto di funzionari dell’esecutivo; vengono scavalcate le norme democratiche e si ignorano gli interessi della maggioranza dei cittadini. Una giunta esecutiva di funzionari eletti e non eletti risolve questioni come quelle della guerra e della pace, alloca miliardi di dollari o di euro presso una oligarchia finanziaria, e mossa da pregiudizi di classe riduce il tenore di vita di milioni di cittadini tramite “pacchetti di austerità”.
L’assemblea legislativa abdica alle sue funzioni, legislativa e di controllo, e si inchina davanti ai “fatti compiuti” della giunta esecutiva (il governo di oligarchi) . Alla cittadinanza viene assegnato il ruolo di spettatore passivo - anche se si diffondono sempre più in profondità la rabbia, il disgusto e l’ostilità.
Le voci isolate dei rappresentanti il dissenso sono soffocate dalla cacofonia dei mass media che si limitano a dare la parola ai prestigiosi “esperti” e accademici, compari pagati dall’oligarchia finanziaria e consiglieri della giunta esecutiva.
I cittadini non faranno più riferimento ai parlamenti, alle assemble legislative, per trovare soccorso o riparazione per il sequestro e l’abuso di potere messo in atto dall’esecutivo.
Per fortificare il loro potere assoluto, le oligarchie castrano le costituzioni, adducendo catastrofi economiche e minacce assolutamente pervasive di “terroristi”.
Un mastodontico e crescente apparato statale di polizia, con poteri illimitati, impone vincoli all’opposizione civica e politica. Dato che i poteri legislativi sono fiaccati e le autorità esecutive allargano la loro sfera di azione, le libertà democratiche ancora presenti sono ridotte attraverso “limitazioni burocratiche” imposte al tempo, luogo e forme dell’azione politica. Lo scopo è quello di minimizzare l’azione della minoranza critica, che potrebbe mobilitare simpateticamente e divenire la maggioranza.
Come la crisi economica peggiora, e i detentori di titoli e gli investitori esigono tassi di interesse sempre più alti, l’oligarchia estende e approfondisce le misure di austerità. Si allargano le diseguaglianze, e viene messa in luce la natura oligarchica della giunta esecutiva. Le basi sociali del regime si restringono. I lavoratori qualificati e ben pagati, gli impiegati della classe media e i professionisti cominciano a sentire l’erosione acuta di stipendi, salari, pensioni, il peggioramento delle condizioni di lavoro e di prospettive di carriera futura.
Il restringersi del sostegno sociale mina le pretese di legittimità democratica da parte della giunta di governo. A fronte del malcontento e del discredito di massa, e con settori strategici della burocrazia civile in rivolta, scoppia la lotta tra fazioni, tra le cricche rivali all’interno dei “partiti ufficialmente al governo”.
L’“oligarchia democratica” è spinta e tirata nelle varie direzioni: si decretano tagli alla spesa sociale, ma questi possono trovare solo limitati appoggi alla loro applicazione. Si decretano imposte regressive, che non possono venire riscosse. Si scatenano guerre coloniali, che non si possono vincere. La giunta esecutiva si dibatte tra azioni di forza e di compromesso: robuste promesse per i banchieri internazionali e poi, sotto pressioni di massa, si tenta di ritornare sugli errori.
A lungo andare, la democrazia oligarchica non è più utile per l’élite finanziaria. Le sue pretese di rappresentanza democratica non possono più ingannare le masse. Il prolungarsi dello stato conflittuale tra le fazioni dell’élite erode la loro volontà di imporre a pieno l’agenda dell’oligarchia finanziaria.
A questo punto, la democrazia oligarchica come formula politica ha fatto il suo corso.
L’élite finanziaria è già pronta e decisa a scartare ogni pretesa di governo da parte di questi oligarchi democratici. Sono considerati sì volonterosi, ma troppo deboli; troppo soggetti a pressioni interne da fazioni rivali e non disposti a procedere a tagli selvaggi nei bilanci sociali, a ridurre ancora di più i livelli di vita e le condizioni di lavoro.
Arriva in primo piano il vero potere che muoveva le fila dietro le giunte esecutive. I banchieri internazionali scartano la “giunta indigena” e impongono al governo banchieri non-eletti – doppiando i loro banchieri privati da tecnocrati.
La transizione verso la dittatura coloniale “tecnocratica”
Il governo dei banchieri stranieri, alla fine venuto direttamente alla ribalta, è mascherato da un’ideologia che descrive questo come un governo condotto da tecnocrati esperti, apolitici e scevri da interessi privati. Dietro alla retorica tecnocratica, la realtà è che i funzionari designati hanno una carriera di operatori per- e- con i grandi interessi finanziari privati e internazionali.
Lucas Papdemos, nominato Primo ministro greco, ha lavorato per la Federal Reserve Bank di Boston e, come capo della Banca centrale greca, è stato il responsabile della falsificazione dei libri contabili a copertura di quei bilanci fraudolenti che hanno portato la Grecia all’attuale disastro finanziario.
Mario Monti, designato Primo ministro dell’Italia, ha ricoperto incarichi per l’Unione europea e la Goldman Sachs.
Queste nomine da parte delle banche si basano sulla lealtà totale di questi signori e sul loro impegno senza riserve di imporre politiche regressive, le più inique sulle popolazioni di lavoratori di Grecia e Italia.
I cosiddetti tecnocrati non sono soggetti a fazioni di partito, nemmeno lontanamente sono sensibili a qualsiasi protesta sociale. Essi sono liberi da qualsiasi impegno politico ... tranne uno, quello di assicurare il pagamento del debito ai detentori stranieri dei titoli di Stato - in particolare di restituire i prestiti alle più importanti istituzioni finanziarie europee e nord americane.
I tecnocrati sono totalmente dipendenti dalle banche estere per le loro nomine e permanenze in carica. Non hanno alcuna infarinatura di base organizzativa politica nei paesi che governano. Costoro governano perché banchieri stranieri minacciavano di bancarotta i paesi, se non venivano accettate queste nomine. Hanno indipendenza zero, nel senso che i “tecnocrati” sono soltanto strumenti e rappresentanti diretti dei banchieri euro-americani.
I “tecnocrati”, per natura del loro mandato, sono funzionari coloniali esplicitamente designati su comando dei banchieri imperiali e godono del loro sostegno.
In secondo luogo, né loro né i loro mentori colonialisti sono stati eletti dal popolo su cui governano. Sono stati imposti dalla coercizione economica e dal ricatto politico.
In terzo luogo, le misure da loro adottate sono destinate ad infliggere la sofferenza massima per alterare completamente i rapporti di forza tra lavoro e capitale, massimizzando il potere di quest’ultimo di assumere, licenziare, fissare salari e condizioni di lavoro.
In altre parole, l’agenda tecnocratica impone una dittatura politica ed economica.
Le istituzioni sociali e i processi politici associati con il sistema di sicurezza sociale democratico-capitalista, corrotto da democrazie decadenti, eroso dalle democrazie oligarchiche, sono minacciati di demolizione totale dalle prevaricanti dittature coloniali tecnocratiche.
Il linguaggio di “sociale / regressione” è pieno di eufemismi, ma la sostanza è chiara. I programmi sociali in materia di sanità pubblica, istruzione, pensioni, e tutela dei disabili sono tagliati o eliminati e i “risparmi” trasferiti ai pagamenti tributari per i detentori di titoli esteri (banche).
I pubblici dipendenti vengono licenziati, allungata la loro età pensionabile, e i salari ridotti e il diritto di permanenza in ruolo eliminato. Le imprese pubbliche sono vendute a oligarchi capitalisti stranieri e domestici, con decurtamento dei servizi ed eliminazione brutale dei dipendenti. I datori di lavoro stracciano i contratti collettivi di lavoro. I lavoratori sono licenziati e assunti a capriccio dei padroni. Ferie, trattamento di fine rapporto, salari di ingresso e pagamento degli straordinari sono drasticamente ridotti.
Queste politiche regressive pro-capitalisti sono mascherate da “riforme strutturali”.
Processi consultativi sono sostituiti da poteri dittatoriali del capitale – poteri “legiferati” e messi in attuazione dai tecnocrati designati allo scopo.
Dai tempi del regime di dominio fascista di Mussolini e della giunta militare greca (1967 - 1973) non si era mai visto un tale assalto regressivo contro le organizzazioni popolari e contro i diritti democratici.
Raffronto fra dittatura fascista e dittatura tecnocratica
Le precedenti dittature fasciste e militari hanno molto in comune con gli attuali despoti tecnocratici per quanto concerne gli interessi capitalistici che loro difendono e le classi sociali che loro opprimono. Ma ci sono differenze importanti che mascherano le continuità.
La giunta militare in Grecia, e in Italia Mussolini, avevano preso il potere con la forza e la violenza, avevano messo al bando tutti i partiti dell’opposizione, avevano schiacciato i sindacati e chiuso i parlamenti eletti.
Alla attuale dittatura “tecnocratica” viene consegnato il potere dalle élites politiche della democrazia oligarchica - una transizione “pacifica”, almeno nella sua fase iniziale.
A differenza delle precedenti dittature, gli attuali regimi dispotici conservano le facciate elettorali, ma svuotate di contenuti e mutilate, come entità certificate senza obiezioni per offrire una sorta di “pseudo-legittimazione”, che seduce la stampa finanziaria, ma si fa beffe di solo pochi stolti cittadini. Infatti, dal primo giorno di governo tecnocratico gli slogan incisivi dei movimenti organizzati in Italia denunciavano: “No ad un governo di banchieri”, mentre in Grecia lo slogan che ha salutato il fantoccio pragmatista Papdemos è stato “Unione Europea, Fondo Monetario, fuori dai piedi!”
Le dittature in precedenza avevano iniziato il loro corso come stati di polizia del tutto vomitevoli, che arrestavano gli attivisti dei movimenti per la democrazia e i sindacalisti, prima di perseguire le loro politiche in favore del capitalismo. Gli attuali tecnocrati prima lanciano il loro malefico assalto a tutto campo contro le condizioni di vita e di lavoro, con il consenso parlamentare, e poi di fronte ad una resistenza intensa e determinata posta in essere dai “parlamenti della strada”, procedono per gradi ad aumentare la repressione caratteristica di uno stato di polizia... mettendo in pratica un governo da stato di polizia incrementale.
Politiche delle dittature tecnocratiche: campo di applicazione, intensità e metodo
L’organizzazione dittatoriale di un regime tecnocratico deriva dalle sue politiche e dalla missione politica. Al fine di imporre politiche che si traducono in massicci trasferimenti di ricchezza, di potere e di diritti giuridici, dal lavoro e dalle famiglie al capitale, soprattutto al capitale straniero, risulta essenziale un regime autoritario, soprattutto in previsione di un’accanita e determinata resistenza.
L’oligarchia finanziaria internazionale non può assicurare per tanto tempo una “stabile e sostenibile” sottrazione di ricchezza con una qualche parvenza di governance democratica, e tanto meno una democrazia oligarchica in decomposizione.
Da qui, l’ultima risorsa per i banchieri in Europa e negli Stati Uniti è di designare direttamente uno di loro a esercitare pressioni, a farsi largo e ad esigere una serie di cambiamenti di vasta portata, regressivi a lungo termine. La missione dei tecnocrati è di imporre un quadro istituzionale duraturo, che garantirà per il futuro il pagamento di interessi elevati, a spese di decenni di impoverimento e di esclusione popolare.
La missione della “dittatura tecnocratica” non è quella di porre in essere un’unica politica regressiva di breve durata, come il congelamento salariale o il licenziamento di qualche migliaio di insegnanti. L’intento dei dittatori tecnocrati è quello di convertire l’intero apparato statale in un torchio efficiente in grado di estrarre continuamente e di trasferire le entrate fiscali e i redditi, dai lavoratori e dai dipendenti in favore dei detentori dei titoli.
Per massimizzare il potere e i profitti del capitale a scapito dei lavoratori, i tecnocrati garantiscono ai capitalisti il potere assoluto di fissare i termini dei contratti di lavoro, per quanto riguarda assunzioni, licenziamenti, longevità, orario e condizioni di lavoro.
Il “metodo di governo” dei tecnocrati è quello di avere orecchio solo per i banchieri stranieri, i detentori di titoli e gli investitori privati.
Il processo decisionale è chiuso e limitato alla cricca di banchieri e tecnocrati senza la minima trasparenza. Soprattutto, in base a regole colonialiste, i tecnocrati devono ignorare le proteste di manifestanti, se possibile, o, se necessario, rompere loro la testa.
Sotto la pressione delle banche, non c’è tempo per le mediazioni, i compromessi o le dilazioni, come avveniva sotto le democrazie decadenti e oligarchiche.
Dieci sono le trasformazioni storiche che dominano l’agenda delle dittature tecnocratiche e dei loro mentori colonialisti.
1) Massicci spostamenti delle disponibilità di bilancio, dalle spese per i bisogni sociali ai pagamenti dei titoli di stato e alle rendite
2) Cambiamenti su larga scala nelle politiche di reddito, dai salari ai profitti, ai pagamenti degli interessi e alla rendita.
3) Politiche fiscali fortemente regressive, con l’aumento delle imposte sui consumi (aumento dell’IVA) e sui salari, e con la diminuzione della tassazione su detentori di titoli ed investitori.
4) Eliminazione della sicurezza del lavoro (“flessibilità del lavoro”), con l’aumento di un esercito di riserva di disoccupati a salari più bassi, intensificando lo sfruttamento della manodopera impiegata (“maggiore produttività”).
5) Riscrittura dei codici del lavoro, minando l’equilibrio di poteri tra capitale e lavoro organizzato. Salari, condizioni di lavoro e problemi di salute sono strappati dalle mani di coloro che militano nel sindacato e consegnati alle “commissioni aziendali” tecnocratiche.
6) Lo smantellamento di mezzo secolo di imprese e di istituzioni pubbliche, e privatizzazione delle telecomunicazioni, delle fonti di energia, della sanità, dell’istruzione e dei fondi pensione. Privatizzazioni per migliaia di miliardi di dollari sono sopravvenienze attive su una dimensione storica mondiale. Monopoli privati rimpiazzano i pubblici e forniscono un minor numero di posti di lavoro e servizi, senza l’aggiunta di nuova capacità produttiva.
7) L’asse economico si sposta dalla produzione e dai servizi per il consumo di massa nel mercato interno alle esportazioni di beni e servizi particolarmente adatti sui mercati esteri. Questa nuova dinamica richiede salari più bassi per “competere” a livello internazionale, ma contrae il mercato interno. La nuova strategia si traduce in un aumento degli utili in moneta forte ricavati dalle esportazioni per pagare il debito ai detentori di titoli di stato, provocando così maggiore miseria e disoccupazione per il lavoro domestico. Secondo questo “modello” tecnocratico, la prosperità si accumula per quegli investitori avvoltoio che acquistano lucrativamente da produttori locali finanziariamente strozzati e speculano su immobili a buon mercato.
8) La dittatura tecnocratica, per progettazione e politiche, mira ad una “struttura di classe bipolare”, in cui vengono impoverite le grandi masse dei lavoratori qualificati e la classe media, che soffrono la mobilità verso il basso, mentre si va arricchendo uno strato di detentori di titoli e di padroni di aziende locali che incassano pagamenti per interessi e per il basso costo della manodopera.
9) La deregolamentazione del capitale, la privatizzazione e la centralità del capitale finanziario producono un più esteso possesso colonialista (straniero) della terra, delle banche, dei settori economici strategici e dei servizi “sociali”. La sovranità nazionale è sostituita dalla sovranità imperiale nell’economia e nella politica.
10) Il potere unificato di tecnocrati colonialisti e di detentori imperialisti di titoli detta la politica che concentra il potere in una unica élite non-eletta.
Costoro governano, supportati da una base sociale ristretta e senza legittimità popolare. Sono politicamente vulnerabili, quindi, sempre dipendenti da minacce economiche e da situazioni di violenza fisica.
I tre stadi del governo dittatoriale tecnocratico
Il compito storico della dittatura tecnocratica è quello di far arretrare le conquiste politiche, sociali ed economiche guadagnate dalla classe operaia, dai dipendenti pubblici e dai pensionati dopo la sconfitta del capitalismo fascista nel 1945.
Il disfacimento di oltre sessanta anni di storia non è un compito facile, men che meno nel bel mezzo di una profonda crisi socio-economica in pieno sviluppo, in cui la classe operaia ha già sperimentato drastici tagli dei salari e dei profitti, e il numero dei disoccupati giovani (18 - 30 anni) in tutta l’Unione europea e nel Nord America varia tra il 25 e il 50 per cento.
L’ordine del giorno proposto dai “tecnocrati” - parafrasando i loro mentori colonialisti nelle banche – consiste in sempre più drastiche riduzioni delle condizioni di vita e di lavoro. Le proposte di “austerità” si verificano a fronte di crescenti disuguaglianze economiche tra il 5% dei ricchi e il 60 % degli appartenenti alle classi subalterne tra Sud Europa e Nord Europa.
Di fronte alla mobilità verso il basso e al pesante indebitamento, la classe media e soprattutto i suoi “figli ben educati”, sono indignati contro i tecnocrati che pretendono ancor di più tagli sociali. L’indignazione si estende dalla piccola borghesia agli uomini di affari e ai professionisti sull’orlo della bancarotta e della perdita di status.
I governanti tecnocratici giocano costantemente sulla insicurezza di massa e sulla paura di un “collasso catastrofico”, se la loro “medicina amara” non venisse trangugiata dalle classi medie angosciate, che temono la prospettiva di sprofondare nella condizione di classe operaia o peggio.
I tecnocrati lanciano appelli alla generazione presente per sacrifici, in realtà per un suicidio, per salvare le generazioni future. Con atteggiamenti dettati all’umiltà e alla gravità, parlano di “equi sacrifici”, un messaggio smentito dal licenziamento di decine di migliaia di dipendenti e dalla vendita per miliardi di euro / dollari del patrimonio nazionale a banchieri e investitori speculatori stranieri. L’abbassamento della spesa pubblica per pagare gli interessi ai detentori di titoli e per invogliare gli investitori privati erode ogni richiamo all’“unità nazionale” e all’“equo sacrificio”.
Il regime tecnocratico si sforza di agire con decisione e rapidità per imporre la sua agenda brutale regressiva, l’arretramento di sessanta anni di storia, prima che le masse abbiano tempo di sollevarsi e di cacciarli.
Per precludere l’opposizione politica, i tecnocrati domandano “unità nazionale”, (l’unità di banchieri e oligarchi), l’appoggio dei partiti in disfacimento elettorale e dei loro leader e la loro sottomissione totale alle richieste dei banchieri colonialisti.
La traiettoria politica dei tecnocrati avrà vita breve alla luce dei cambiamenti sistemici draconiani e delle strutture repressive che propongono; il massimo che possono realizzare è quello di dettare e tentare di attuare le loro politiche, e poi tornarsene ai loro santuari lucrativi nelle banche estere.
Governo tecnocratico : prima fase
Con l’appoggio unanime dei mass-media e il pieno sostegno di banchieri potenti, i tecnocrati approfittano della caduta dei politici disprezzati e screditati dei regimi elettorali del passato.
Essi proiettano un’immagine pulita del governo, che parla di un regime efficiente e competente, capace di azioni decisive. Promettono di porre fine alle condizioni di vita progressivamente in deterioramento e alla paralisi politica dovuta allo scontro fra le fazioni dei partiti.
All’inizio della loro assunzione di potere, i dittatori tecnocratici sfruttano il disgusto popolare, giustificato, nei confronti dei politici privilegiati “nullafacenti” per assicurarsi una misura del consenso popolare, o almeno l’acquiescenza passiva da parte della maggioranza dei cittadini, che sta annegando nei debiti e alla ricerca di un “salvatore”.
Va notato che fra la minoranza politicamente più preparata e socialmente consapevole, che i banchieri ricorrano ad un “regime tecnocratico” da colonia, questo provoca poco effetto: gli appartenenti alle minoranze immediatamente identificano il regime tecnocratico come illegittimo, dato che fa derivare i suoi poteri da banchieri stranieri. Essi affermano i diritti dei cittadini e la sovranità nazionale. Fin dall’inizio, anche sotto la copertura dell’assunzione del potere in uno stato di emergenza, i tecnocrati devono affrontare un nucleo di opposizione di massa.
I banchieri realisticamente riconoscono che i tecnocrati devono muoversi con rapidità e decisione.
Politiche shock dei tecnocrati : seconda fase
I tecnocrati lanciano un “100 giorni” del più eclatante e grossolano conflitto di classe contro la classe operaia dai tempi dei regimi militare / fascista.
In nome del Libero Mercato, del Detentore di Titoli e dell’Empia Alleanza fra oligarchi politici e banchieri, i tecnocrati dettano editti e fanno passare leggi, immediatamente buttando sul lastrico decine di migliaia di dipendenti pubblici. Decine di imprese pubbliche sono mandate in blocco all’asta. Viene abolita la certezza del posto di lavoro e licenziare senza giusta causa diventa la legge del paese. Sono decretate imposte regressive e le famiglie vengono impoverite. La piramide del reddito complessivo viene capovolta. I tecnocrati allargano e approfondiscono le disuguaglianze e l’immiserimento.
L’euforia iniziale che salutava il governo tecnocratico viene sostituita da biasimi amari. La classe media inferiore, che ricercava una risoluzione dittatoriale paternalistica della propria condizione, riconosce “un altro raggiro politico”.
Come il regime tecnocratico corre a gran velocità a completare la sua missione per i banchieri stranieri, lo stato d’animo popolare inacidisce, l’amarezza si diffonde anche tra i “collaboratori passivi” dei tecnocrati. Non cadono briciole dal tavolo di un regime colonialista, imposto al potere per massimizzare il deflusso delle entrate statali a tutto vantaggio dei detentori del debito pubblico.
L’oligarchia politica compromessa cerca di far rivivere le sue fortune e “contesta” le peculiarità dello “tsunami” tecnocratico, che sta distruggendo il tessuto sociale della società.
La dimensione e la portata del programma estremista della dittatura, e il continuo accumulo di frustrazioni di massa, spaventano i collaborazionisti appartenenti ai partiti politici, mentre i banchieri li incalzano per tagli alle garanzie sociali sempre più grandi e più profondi.
I tecnocrati di fronte alla tempesta popolare che sta montando cominciano a farsi piccoli e ritirarsi in buon ordine. I banchieri esigono da loro maggiore spina dorsale e offrono nuovi prestiti per “mantenerli in corsa”. I tecnocrati si dibattono in difficoltà - alternando richieste di tempo e sacrifici con promesse di prosperità “dietro l’angolo”.
Per lo più fanno assegnamento sulla mobilitazione costante della polizia e di fatto sulla militarizzazione della società civile.
Missione compiuta: guerra civile o il ritorno della democrazia oligarchica?
La riuscita dell’“esperimento” con un regime dittatoriale colonialista tecnocratico è difficile da prevedere. Una ragione è dovuta al fatto che le misure adottate sono così estreme ed estese, tali da unificare allo stesso tempo quasi tutte le classi sociali importanti (tranne la “crema” del 5%) contro di loro. La concentrazione del potere in una élite “designata” la isola ulteriormente e unifica la maggior parte dei cittadini a favore della democrazia, contro la sottomissione colonialista e governanti non eletti.
Le misure approvate dai tecnocrati devono far fronte alla prospettiva improbabile della loro piena attuazione, in particolare a causa di funzionari e impiegati pubblici a cui si impongono licenziamenti, tagli di stipendio e pensioni ridotte. I tagli a tutta l’amministrazione pubblica minano le tattiche del “divide et impera”.
Data la portata e la profondità del declassamento del settore pubblico, e l’umiliazione di servire un regime chiaramente sotto tutela colonialista, è possibile che incrinature e rotture si verificheranno negli apparati militari e di polizia, soprattutto se vengono provocate sollevazioni popolari che diventano violente.
A questo punto, le giunte tecnocratiche non possono assicurare che le loro politiche saranno attuate. In caso contrario, i ricavi vacilleranno, scioperi e proteste spaventeranno gli acquirenti predatori delle imprese pubbliche. La grande spremitura ed estorsione pregiudicherà le imprese locali, la produzione diminuirà, la recessione si approfondirà.
Il governo dei tecnocrati è per sua natura transitoria. Sotto la minaccia di rivolte di massa, i nuovi governanti fuggiranno all’estero presso i loro santuari finanziari. I collaborazionisti appartenenti alle oligarchie locali si affretteranno ad aggiungere miliardi di euro/dollari ai loro conti bancari all’estero, a Londra, New York e Zurigo.
La dittatura tecnocratica farà ogni sforzo per riportare al potere i politici democratici oligarchici, a condizione che siano mantenute le variazioni regressive poste in essere. Il governo tecnocratico vedrà la sua fine con “vittorie di carta”, a meno che i banchieri stranieri insistano che il “ritorno alla democrazia” operi all’interno del “nuovo ordine”.
L’applicazione della forza potrebbe rivelarsi un boomerang.
I tecnocrati e gli oligarchi democratici, rinnovando la minaccia di una catastrofe economica in caso di inosservanza, riceveranno un contrordine dalla realtà della miseria effettivamente esistente e dalla disoccupazione di massa.
Per milioni, la catastrofe che stanno vivendo, risultante dalle politiche tecnocratiche, prevale su qualsiasi minaccia futura. La maggioranza ribelle può scegliere di sollevarsi e rovesciare il vecchio ordine, e cogliere l’opportunità di istituire una repubblica socialista democratica indipendente.
Una delle conseguenze impreviste di imporre una dittatura di tecnocrati designati, radicalmente colonialista, è che viene cancellato il panorama politico delle oligarchie politiche parassite e si pongono le fondamenta per un taglio netto. Questo facilita il rigetto del debito e la ricostruzione del tessuto sociale per una repubblica democratica indipendente.
Il pericolo grave è quello che i politici screditati del vecchio ordine tenteranno con la demagogia di impadronirsi delle bandiere democratiche delle lotte “anti-dittatoriali anti-tecnocratiche”, per rimettere in piedi quello che Marx definiva “la vecchia merda dell’ordine precedente”.
Gli oligarchi politici riciclati si adatteranno al nuovo ordine “ristrutturato” dei pagamenti dell’eterno debito, come parte di un accordo per conservare il processo in corso di regressione sociale senza fine.
La lotta rivoluzionaria contro i dominatori tecnocratici colonialisti deve continuare e intensificarsi per bloccare la restaurazione degli oligarchi democratici.
James Petras è un collaboratore assiduo di Global Research.
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Voice of Russia - November 14, 2011
20,000 Kosovo Serbs want Russian passports
Over 20,000 Kosovo Serbs have asked the Russian Parliament’s lower house, the State Duma, to help them obtain Russian citizenship, said the Russian Embassy Counsellor Oleg Bouldakov in Belgrade.
They cite security guarantees against the Albanian authorities of the self-proclaimed Kosovo as the main reason for their request.
Russian Information Agency Novosti - November 15, 2011
Kosovo Serbs turn to Russia over Belgrade's negligence
BELGRADE: At least 20,000 Kosovo Serbs, who applied for Russian citizenship last week, were acting out of despair and disillusion in Belgrade’s ability to defend the ethnic minority, a Serbian leader in Kosovo, Marko Jaksic, said on Tuesday.
Last week, Kosovo Serbs handed over a petition with signatures to the Russian Embassy in Belgrade, asking for Russian citizenship.
“Those who turned in the petition live mostly in the southern enclaves in Kosovo, further away from the administrative border between Kosovo and Serbia,” Jaksic said. He added this showed how hard their lives were.
“As Russian citizens they would be more secure compared to their current status when Belgrade has turned its back on them,” Jaksic said.
Serbs constitute 5-10% of the 2-million population and Albanians make up the majority of Kosovo.
Albanian authorities proclaimed Kosovo’s independence from Belgrade with support from the United States and the European Union in 2008.
Both Serbia and Russia have refused to recognize Kosovo’s independence. Ethnic Serbs in Kosovo are bluntly opposed to the Albanian authorities in Pristina.
Tensions flared in Kosovo's ethnic Serbian enclave in October after Albanian Kosovars installed their customs officers at the Jarinje and Brnjak border crossings with Serbia.
http://www.rbcnews.com/free/20111116170147.shtml
RosBusinessConsulting - November 16, 2011
Russian envoy pledges support for Kosovo Serbs
Moscow: Russia's ambassador to NATO Dmitry Rogozin called upon authorities to grant Russian citizenship to 20,000 Kosovo Serbs after this group filed a relevant petition, claiming that its security was in jeopardy in a region dominated by ethnic Albanians.
"This opportunity should be discussed, including with the Russian president, and we should assist them in relocating to Russia," Rogozin said, adding that Kosovo Serbs should be included in Russia's repatriation program.
Interfax - November 17, 2011
Russia understands motives behind Kosovo Serbs' request - Lavrov
MOSCOW: The Russian Foreign Ministry has familiarized itself with the request of several thousand Kosovo Serbs for Russian citizenship and it understands the reasons behind it, said Russian Foreign Minister Sergei Lavrov.
"We have read this request attentively, of course, and we will have to act guided by a number of factors," Lavrov said at a joint news conference with his Indian counterpart Somanahalli Krishna on Thursday.
Concerning the legal aspect of this problem, we have a law in Russia which regulates instances when Russian citizenship is granted to foreign nationals, he said.
"From the political point of view, we very well understand the motives behind the Kosovo Serbs' request of this kind," Lavrov said.
It was reported earlier that more than 20,000 Kosovo Serbs had applied for Russian citizenship.
"They have found themselves in a desperate situation and they have the feeling of hopelessness in conditions when they are being forced to obey the Pristina dictate in violation of UN Security Council Resolution 1244 and when they can even lose the right to local self-government. Too bad that all this is happening with connivance and direct support from the Kosovo Force, led by NATO, and the European Union's so-called Rule of Law Mission," Lavrov said.
These "international presences" are operating in violation of the "neutral-status mandate they have," he said.
"We will be firmly opposing this in the future and we think that no one should usurp the role of ruler of the destinies of nations, especially Kosovo Serbs, wherever they live, using opportunities provided by international or Russian law," he said.
Russia has been actively assisting the Kosovo Serbs for the past few years in humanitarian programs and in saving their culture, ethnic identity and traditions. This work will be continued," the Russian foreign minister said.
http://english.ruvr.ru/2011/11/23/60927581.html
Russian Information Agency Novosti - November 23, 2011
Russia to find way to support Kosovo Serbs - Rogozin
The application of more than 20,000 of Kosovo Serbs for the Russian citizenship is an unprecedented and very alarming situation, Russia’s envoy in NATO Dmitri Rogozin said Wednesday.
“Russia will find a way to support the nation which is spiritually close to us and which found itself in such a difficult situation”, Rogozin said.
Earlier this month 22,000 Kosovo Serbs put their signatures under collective application for the Russian citizenship as they find that Serbia is not providing them with the required support.
Russian Information Agency Novosti - November 27, 2011
Number of Kosovo Serbs seeking Russian citizenship tops 50,000
MOSCOW: Over 50,000 Kosovo Serbs have applied for Russian citizenship, Serbia’s B92 television reported citing Zlatibor Djordjevic, a spokesman for the Old Serbia movement.
The number of applications sent to the Russian Embassy in Belgrade has more than doubled since the beginning of November as more and more Kosovo Serbs
become disillusioned with Belgrade’s ability to defend the ethnic minority.
“We are not satisfied with the progress in talks in Brussels [between Belgrade and Pristina], which, if they conclude with the same outcome as in the beginning, will mean the end of Kosovo Serbs,” Djordjevic said on Saturday.
...
Djordjevic said that Kosovo authorities applied pressure on elderly Serbs and Serbs living in poverty to swap their Serbian citizenship for the Kosovo one by promising them pensions and other social benefits.
He also stressed that most of Kosovo Serbs seeking Russian citizenship were not planning to relocate to Russia, but simply wanted political protection from Moscow.
Russian Foreign Minister Sergei Lavrov said on Tuesday that Russia intended to defend the rights of Serbs wherever they live, taking into account all options derived from international and Russian law.
He did not say, though, how Moscow was planning to respond specifically to Kosovo Serbs’ applications for Russian citizenship.
Kosovo, a landlocked region with a population of mainly ethnic Albanians, declared its independence from Serbia in February 2008. Up to 10 percent of Kosovo two-million-people population are ethnic Serbs.
Both Serbia and Russia have refused to recognize Kosovo’s independence.
Stars and Stripes - November 18, 2011
Kosovo disturbances mimicked in training scenario
HOHENFELS, Germany: The chaos arrived in the early afternoon, hours after negotiations failed.
As soldiers in riot gear approached a makeshift roadblock and the mob that erected it, they were met with taunts and jeers. “U.S. go home!” the crowd began to chant. Then someone hurled a rock.
The riot that ensued was a training simulation – the “rocks” were sandbags, the mob was a group of role-playing Germans, retired soldiers and an active-duty platoon.
Yet it was a mimic of real events in Kosovo, the newly independent Balkan state — and the destination of a National Guard unit that recently trained at the Joint Multinational Readiness Center in Hohenfels. This summer, ethnic Serbs erected barriers on roads in the country’s north, in a dispute over border crossings into Serbia, forcing violent confrontations with local police and a tense standoff with NATO peacekeepers.
Officials at JMRC, which regularly prepares U.S. and multinational soldiers for the NATO force known as KFOR, or Kosovo Force, decided to re-create the events as a training tool after a visit to the country last month.
Important tasks during a civil disturbance include holding formation in a line, minding flanks, responding with appropriate force and generally keeping composure at a time when emotions run high, said Lt. Col. Eric McFadden, a training leader at JMRC.
Judging by the action on Thursday, that’s easier said than done.
The Guard unit, a maneuver company from Georgia, arrived with a track vehicle posing as a tank and several Humvees.
The roadblock — an assemblage of plywood planks, stacked wooden pallets and old tires — was easy enough to handle. The tank pushed through, slowly advancing on the mob, which backed away. Soldiers then formed a line the width of the road, their shields held together to form a barrier.
That’s when the rioters emerged from the crowd, a dozen or so civilians played by a platoon with 1st Battalion, 4th Infantry Regiment, U.S. Army Europe’s opposition force. Harassment was their tactic, 1st Lt. Todd Pitt, the platoon leader, advised his men before the exercise began.
“Try to steal batons, try to steal shields,” he said. “Don’t go jumping into their lines.”
Platoon members taunted the soldiers. They grabbed at shields while dodging baton swipes, threw sandbags and rolled tires with smoke grenades inside. Someone suddenly hurled a smoking tire into the crowd.
In a pattern that repeated itself several times, the Guard line surged forward with abandon, an apparent effort to push the rioters back. Each time, the 1-4 took advantage of the resulting disorder in the line, gaining clean hits with sandbags and grabbing shields or batons.
...
Some soldiers seemed to take things personally. Several times, a soldier dropped his shield and baton to tackle one of the rioters. JMRC observer-controllers, referees in the exercise, broke each scuffle up to resume the scenario.
...
They also appeared to improve over the course of the exercise. Soldiers began to move in lock-step, counting out each step forward. They moved to protect their flanks, keeping shields up and preventing individual soldiers from lurching forward. They learned to hold their shields properly, preventing them from being pushed against them and causing injuries.
The rioters were eventually thinned out at the discretion of the observer-controllers, taken out by a range of nonlethal weapons — among them rubber bullets — that KFOR soldiers might actually use, but didn’t use in the exercise. The company eventually reached the boundary line that was its goal.
McFadden said the simulation achieved what trainers wanted, making the company adjust to the situation around them.
“It’s better to learn the hard lessons here than have to deal with the hard lessons once you deploy,” he said.
Associated Press - November 23, 2011
NATO in Kosovo moves to dismantle Serb barricade
RUDARE, Kosovo: NATO troops in Kosovo fired tear gas to disperse a crowd of Serbs resisting the dismantling of a concrete barricade put up to block Kosovo authorities from controlling the Serb-dominated area.
An AP reporter witnessed NATO soldiers in riot gear attempting to remove a concrete barrier late Wednesday and stretching barbed wire on the road. Tear gas was fired after several hundred Serb protesters removed the barbed wire. NATO did not immediately comment.
Serbs in Kosovo's north have been blocking roads since summer angered by Kosovo authorities' attempt to send ethnic Albanian customs and police officers into the Serb area.
Many Serbs that live there reject the country's 2008 secession from Serbia and say NATO is supports Kosovo institutions.
http://rt.com/news/nato-dismantle-barricade-kosovo-093/
RT - November 24, 2011
Tear gas, barbed wire, isolation: NATO tools for Kosovo raid
Serbs protesters have thwarted attempts by NATO to dismantle a barricade in Northern Kosovo. And while NATO claims their decision to fire tear gas came as 21 of their soldiers were injured, Belgrade has warned Pristina against any further violence.
The Serbian Minister of Internal Affairs and Deputy Prime Minister Ivica Dacic has called on the Kosovo's Prime Minister Hashim Thaci to restrain his NATO-led forces from attacking Serbian civilians.
“The red line for Belgrade would be Hashim Thaci’s decision to initiate an armed attack on Serbs in Kosovo. Thaci must know that any attack against Kosovar Serbs means an attack on Belgrade,“ Dacic said in a statement aired on local television Thursday.
Dacic went on to warn Pristina it would be mistaken to think that fears of upsetting the current balance of power would exclude the possibility of war.
Dacic was quick to point out “historically, we’ve lost Kosovo several times, and then it’s returned to us.”
The Serbian minister’s strongly worded appeal is a response to overnight clashes in Northern Kosovo which NATO claims injured 21 of its soldiers.
NATO released a statement Thursday saying Serb protesters threw stones and drove trucks loaded with gravel into its troops. The alliance also claims one soldier was seriously injured, as the decision to fire tear gas and end the operation was taken...
Wednesday night’s disturbances came as Serbs thwarted attempts by a Kosovo Force (KFOR) contingent under NATO command from dismantling a barricade near the town of Zvecan in Northern Kosovo.
Late on Wednesday, KFOR forces stretched barbed wire across a road near Zvecan – a town located near the de facto Serbian capital of Kosovska Mitrovica -as they moved to dismantle the concrete barricade.
Shortly after NATO forces arrived, a siren went off which alerted local Serbs, who soon rushed to the area and began tearing down the barbed wire.
KFOR troops then deployed tear gas in a failed attempt to repel the hundreds of Serbs who had gathered to protect the barricades.
After the NATO troops withdrew from the area, the Serbs moved to further reinforce the concrete blocks.
According to RT's Aleksey Yaroshevksy, some sources have said NATO forces also used rubber bullets, though no injuries have been reported.
Tensions in Northern Kosovo have been on the rise for months over disputed border crossings.
The government of the breakaway province wants to control the border with Serbia to enforce an import ban – a move resisted by ethnic Serbs in Kosovo.
In July, a policeman was shot dead whilst Kosovo police were trying to take control of the border posts.
At the time a temporary deal was reached between Pristina and Belgrade to allow the international peacekeepers to guard the border, but was rejected by local Serbs.
Kosovo proclaimed independence in 2008, though Serbia never recognized the breakaway move.
Political analyst Aleksandar Pavic told RT that NATO had destabilized the region by taking Pristina’s side in the conflict, a decision which overstepped their role as a peace keeping force under UN Security Resolution 1244.
“In 2008 Pristina unilaterally declared independence and NATO countries recognized that independence so the root of the problem is that we have Western Powers who are recognizing an illegally declared state and they are trying to make the Serbs down there live in this illegally declared state, and that's why practically every day now, especially over the past several months, they're overstepping their UN mandate,“ he said.
http://english.ruvr.ru/2011/11/24/60962772.html
Russian Information Agency Novosti - November 24, 2011
Attack on Kosovo serbs is attack on Belgrade - Serbia's interior minister
Serbia’s Interior Minister and Deputy Prime Minister Ivica Dacic has said that an attack on ethnic Serbs in Kosovo would actually mean an attack on Belgrade.
In his statement broadcast on the B92 TV channel, he reminded Kosovo’s Prime Minister Hashim Thaci that throughout its history Serbia had lost and then regained Kosovo several times.
Earlier, Mr. Dacic called for dividing Kosovo into Albanian and Serb parts.
Tensions in the Serb-populated northern Kosovo have been running high since early September when Kosovo’s Albanian authorities deployed their policemen and customs officers at the Jarinje and Brniak border checkpoints on the border with Serbia, which led to armed clashes between police and local Serbs.
Deutsche Presse-Agentur - November 24, 2011
NATO soldiers injured in attempt to clear Serb barricades
Pristina/Belgrade - NATO peacekeepers in Kosovo (KFOR) said Thursday that 21 soldiers were injured in clashes with a crowd of ethnic Serbs when the soldiers tried to dismantle a roadblock in the northern Kosovo enclave.
The incident comes amid heightened tensions in the Serb-dominated north of Serbia's former province...
The soldiers took control over the roadblock and began dismantling it late Wednesday. But they withdrew under a hail of stones thrown by a crowd that continued to grow and approach ever closer, despite tear gas canisters lobbed their way.
KFOR command in Pristina said its soldiers withdrew...Nonetheless, KFOR reported 21 injuries sustained.
In recent months, Serbs have erected around 20 roadblocks in the north to prevent the government in Pristina from taking control over the borders to Serbia proper.
...Serbs fiercely resist any authority from Pristina and, nearly four years since Kosovo declared independence from Serbia, still consider Belgrade their capital.
In a tense cat-and-mouse game, KFOR has dismantled several roadblocks since the Serbs put them up at crossings in September. Each time the barricades were renewed.
...
Serbian leaders promised never to recognize Kosovo's independence and have backed their compatriots' resistance to Pristina's rule.
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The most prominent turnaround was made by the Deputy Premier and Interior Minister Ivica Dacic, who told Thursday's edition of the daily Press that a new war over Kosovo 'cannot be excluded.'
...
Dacic leads the Socialist Party, a junior partner in President Boris Tadic's ruling coalition.
http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2011&mm=11&dd=24&nav_id=77468
B92/Press - November 24, 2011
“We should go to war over Kosovo if necessary”
BELGRADE: Kosovo PM Hashim Thaci needs to know that by attacking Serbs in Kosovo he is also attacking Belgrade, Serbian Deputy PM Ivica Dačić told daily Press.
He added that Serbia could not stand by peacefully and watch that.
Dačić on Wednesday stated that nobody in Serbia must say that Kosovo was lost and that they would not go to war over it.
“A red line for Belgrade is Hashim Thaci’s armed assault on Serbs in Kosovo and Metohija,” he was quoted as saying.
“Thaci needs to know that by attacking Serbs in Kosovo he is attacking Belgrade as well. Serbia cannot and will not watch it peacefully,” the deputy PM pointed out.
He stressed that if Turkey could say that an attack on Sarajevo was an attack on Istanbul, then there was no reason “the attack on Kosovska Mitrovica is not an attack on Belgrade”.
Dačić assessed that rejection of a possibility of war would be a wrong message to Thaci because a “balance of fear” was necessary for the sake of security in the region. He explained that the “balance of fear” was the only reason why a war never broke out between the U.S. and the USSR.
...
Military-political analyst Miroslav Lazanski believes that the use of force is a part of diplomacy and points out that “this is one in a scale of statements in which Dačić is expressing his position on the situation in Kosovo”.
“Dačić’s position is hard, but right in my opinion. Not a single state diplomacy is successful if it is not supported by military force. It takes two to have a war and there is a question what we would do if someone attacked us. If NATO does not want to go over the barricades by force, what would happen if Serbia set a clear line regarding some other issues as well? If the Americans say ‘stick and carrot’, because the carrot itself is not enough, which in translation means that we need to show that we are ready to use the force we have at our disposal,” Lazanski was quoted as saying.
...
http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2011&mm=11&dd=24&nav_id=77469
Beta News Agency/Serbian Radio and Television/Tanjug News Agency - November 24, 2011
KFOR troops withdraw, Serbs at barricades
ZVEČAN: KFOR troops withdrew about an hour and a half after midnight from a barricade in the village of Dudin Krš which they attempted to remove on Wednesday night.
Serbs built a new barricade at Dudin Krš during the night (Tanjug)
The local Serbs additionally reinforced the barricade last night by adding new amounts of gravel.
KFOR troops withdrew toward southern Kosovska Mitrovica while the Serbs continued to reinforce the barricade.
The barricades made of dirt, sand and large boulders are around two meters high and are blocking both lanes on a bridge near Zvečan.
When the Serbs started unloading the large amounts of gravel and building new barricades KFOR troops used tear gas to disperse them. Some of the citizens had gasmasks on and ambulance arrived to the scene to treat those did not have them.
Shots were heard in the area around 00:30 CET but it is still unknown who fired them. Majority of citizens left home around 02:00 and only a small number of them stayed at the barricade.
The barricade in the village of Dudin Krš was built almost four months ago and it is blocking the road leading to the Jarinje administrative crossing.
KFOR has already tried to remove the barricade near Dudin Krš twice, on October 18 and 22 but they were stopped by the citizens both times.
Explosion rocks Kosovska Mitrovica
A powerful explosion took place about 01:00 CET in northern Kosovska Mitrovica. Nobody was injured but two cars were damaged in the blast.
The explosion took place near the Faculty of Economy and police immediately came to the scene.
“So far we have neither motive nor suspects for the bomb attack,” Kosovo police regional Spokesman Besim Hoti has stated.
RT - November 26, 2011
Northern Kosovo: Serbs make their last stand
Tensions run high on Serbia's border with northern Kosovo, as neither of the conflicting sides is prepared to rule out a further escalation of violence.
Local Serbs say NATO forces are to blame, for breaking an agreement by trying to remove a barricade blocking the way to one of a number of disputed checkpoints.
The move prompted violent clashes that left dozens injured on both sides.
Last night in Northern Kosovo passed without violence though this does not mean that the source of tensions has disappeared.
On November 23 the NATO’s KFOR forces attempted to remove a barricade put up by ethnic Serbian minority of the region. The resistance was tense so the soldiers used tear gas. More than 20 people were injured but the Serbs got it their way and the KFOR operation was ceased.
RT crew traveled around the area and saw the barricades that have been there for the last four months still up. They are constantly maintained and people there say they are not going to abandon them in any case and in fact are planning to build more of them.
To an untrained eye those barricades seem to be mere piles of rubble, amateurishly constructed. One would never say they could become a cause of armed conflict.
But in order to comprehend why the barricades appeared in the first place, the developments in July in Kosovo must be remembered.
The Serbian minority, that constitutes 10 per cent of the Kosovo population, lost any kind of legal status once Kosovo unilaterally proclaimed independence from Serbia in 2008. The Kosovo Serbs still consider themselves the citizens of Serbia. Needless to say that the Kosovo Albanians do not consider Northern Kosovo to be independent and expect Serbs to leave their homes and move to Serbia.
Until July the Serbs in northern Kosovo were allowed a measure of self-independence and an ability to be in free contact with mainland Serbia. But then the official Pristina (Kosovo capital) decided to take the border with Serbia under control, to install customs stations to administrate the goods flow and all the cars and trucks coming into the area.
The Serbs did not see that as a mere formality, but as an infringement of their remaining freedoms. They called it a slippery slope, first comes the customs control – then they become hostages of a political will of Albanian Pristina.
To prevent that from happening they erected barricades.
Then it appeared a compromise was found when it was announced that the customs stations will be controlled not by Albanians, but by KFOR forces.
The only matter is that the Serbs never trusted KFOR, seeing it as a force that conducts NATO policies in the region, making the separation of Kosovo from Serbia possible in the first place and protecting Albanian interests only.
And Serbs have every right to stick to their opinion since KFOR has never been evinced any sympathies with Serbs.
This time it was exactly the same. Once the tensions ran high and an attempt to remove the barricades was made, KFOR opened fire at protestors with live ammunition, later claiming they were using rubber bullets.
But doctors in the region who were treating the wounded have seen enough to tell the difference between a rubber bullet wound and a real one. Luckily enough, no one was killed.
In November KFOR started another operation to remove the barricades and again Serbs born in Kosovo made a stand, clearly understanding this might be their last one, saying firmly they will not leave their land.
http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2011&mm=11&dd=25&nav_id=77496
B92/Beta News Agency/KiM Radio - November 26, 2011
KFOR commander's statements "worrying"
ČAGLAVICA: A Serb mayor in northern Kosovo on Friday commented on a statement made by KFOR commander Erhard Drews, who warned about "a possible escalation of violence".
The German general who commands NATO's troops in Kosovo commented on the situation in the northern part of the province in an interview reported on Thursday.
Today, Zvečan Mayor Dragiša Mišović told KiM Radio in Čaglavica that "KFOR does as Priština (K. Albanian authorities) decide", while Serbs in the north - where they are a majority rejecting the authority of the government in Priština - "will not jeopardize security or aggravate the already difficult situation".
For the past several months, local Serbs have been putting up barricades blocking the roads leading to the administrative line crossings between central Serbia and Kosovo, after the Priština authorities tried to install their customs and police at the checkpoints. Local Serbs and official Belgrade also reject the unilateral proclamation of independence of Kosovo, made by ethnic Albanians in early 2008.
Mayor Milović said on Friday that he believed Drew's statement meant that "obviously these announcements are coming from Priština":
"As he himself has said, Priština is getting increasingly nervous, but we expect him and all KFOR officials to act in line with their mandate and in line with (UNSC) Resolution 1244, in maintaining the stability and security of all people who live in Kosovo and Metohija."
According to the mayor, claims that the barricades were limiting KFOR's ability to move freely were "not true".
"KFOR enjoys full freedom of movement, and we have agreed with their representatives that there must not be any unilateral moves. On the other hand, we receive the answer in the form of an attempt to use force to remove the barricade in Dudin Krš," Milović said, referring to the incident at one of the road blocks, that took place earlier this week.
Voice of America News - November 28, 2011
NATO Soldiers Wounded in Clash With Serb Protesters
A NATO spokesman says two soldiers serving with NATO's Kosovo Force were wounded Monday during a confrontation with Serb protesters in north Kosovo.
The violence erupted when NATO troops began removing several earthen roadblocks put in place by the Serbs who reject the authority of the Kosovo government. The ethnic Albanian-dominated Kosovo declared its independence from Serbia in 2008.
A KFOR spokesman said the wounded soldiers condition is not known.
RT - November 29, 2011
NATO troops shot, wounded in brutal Kosovo clashes
At least two Kosovo Serbs and two NATO peacekeepers were injured in a fresh wave of violence in northern Kosovo, casting doubts on whether the conflict could be resolved in the near future.
The skirmishes occurred near the town of Zubin Potok, where Serbs were protesting NATO’s attempts to remove a barricade made of buses and trucks that was blocking a main road in the region. NATO peacekeeping troops responded by firing rubber bullets, tear gas and water cannons at the demonstrators. They also used pepper spray and batons against the protesters while the latter hit the NATO peacekeepers with clubs and pelted them with rocks.
NATO has been claiming the two injured peacekeepers were under fire from the Serb demonstrators and is now instructing its soldiers to fire live ammunition if they come under attack.
Violence between Kosovo Serbs and NATO troops and Kosovar police flared up this summer after the self-proclaimed Kosovo government sought set up customs and border posts in the north of the country, where the overall minority Serbs make up a majority.
The Serb population responded by burning one of the posts and attacking Kosovar police. NATO troops were then called in, but Serbs began setting up barricades made of mud, soil, rock and concrete barriers to block the main road arteries leading to the border. This led to several skirmishes over the past months involving NATO peacekeepers and Kosovo Serbs.
Just last week more than 20 Portuguese and Hungarian soldiers were injured in another operation to remove the barricades.
Kosovo declared its independence from Serbia in 2008 but it was only recognized by 85 countries, including the United States, the United Kingdom and France, but not most of the countries, including Russia and Serbia itself.
...
http://english.ruvr.ru/2011/11/29/61193442.html
Itar-Tass - November 29, 2011
25 NATO servicemen injured in clashes with Kosovo Serbs
25 NATO servicemen have been injured in clashes with Serbs in Northern Kosovo, according to a statement that the KFOR international security force for Kosovo released earlier today. According to the Serbian mass media, up to 50 civilians were injured in the clashes.
NATO servicemen used rubber bullets, water cannons and tear gas to disperse the raging crowd, and also heavy military hardware to unblock the motorway that the protesters cut off with their buses and trucks in the area of the town of Zubin Potok.
The situation in Northern Kosovo was aggravated in the middle of September, when the Albanian authorities of the self-proclaimed state assumed control over the Jarinje and Brnjak checkpoints on the administrative border with Serbia. Kosovo Serbs have since started erecting barricades to protest the move.
Beta News Agency/Tanjug News Agency - November 29, 2011
KFOR: We'll shoot; Serbs start building new road
JAGNJENICA: KFOR members used loud speakers on Tuesday to warn local Serbs that they would "shoot" if they built a new barricade at Jagnjenica.
KFOR at Jagnjenica on Tuesday (Tanjug)The locals ignored the warning and started hauling in earth and gravel, dumping it on the road, thus constructing a new barricade. KFOR reacted by throwing tear gas at the Serbs, who are also this Tuesday building a new road nearby.
This latest maneuver by the locals left KFOR troops "partially blocked", Tanjug is reporting.
The vehicles the soldiers used on Monday to break up the old barricade are now located between two new road blocks, set up on both sides of the Zubin Potok-Zvečan road this afternoon.
KFOR vehicles can at present only retreat to Čabra, an ethnic Albanian village where they had set up camp, according to this report.
Earlier in the day, the talks between the NATO troops in Kosovo and local Serb leaders, held earlier in the day, did not produce any results.
"If your trucks unload gravel here, we will shoot," it was heard from the KFOR loud speakers.
The citizens gathered on the roads reacted with dissatisfaction, but no incidents were reported from the scene.
During the meeting on Tuesday, KFOR again asked Serbs to leave the road, while Zubin Potok Mayor Slaviša Ristić said that the troops should return to the positions they held before they moved to remove the barricade at Jagnjenica, and added that KFOR enjoyed freedom of movement.
A KFOR commander, who reports said "did not wish to introduce himself", accused Ristić of being "directly responsible for yesterday's violence against KFOR" - an accusation which the mayor rejected as false.
Ristić also said he woud call on citizens to remain calm.
After the meeting, KFOR again used lound speakers to warn the Serbs to disperse, and threaten that tear gas would be used against them.
New road
Meantime, local Serbs have decided to build a new road near Jagnjenica.
On Tuesday afternoon, they brought machines to the location and started building an "alternative" road, in a bid to circumvent the barricade that is now held by KFOR.
The aim is to make sure that the town of Zubin Potok, now cut off from other towns in the north of the province, is once again connected to Zvečan and Kosovska Mitrovica.
The citizens are hauling in gravel and building the road, while KFOR troops are observing the developments.
http://www.defense.gov/news/newsarticle.aspx?id=66279
U.S. Department of Defense - November 29, 2011
U.S. Commander Condemns Attacks on Kosovo Force
WASHINGTON: A senior U.S. military leader in Europe condemned recent violence against NATO troops in Kosovo just as a Wisconsin Army National Guard unit prepares to take command of the 15th rotation of peacekeeping forces there.
Navy Adm. Samuel J. Locklear III, commander of Allied Joint Force Command Naples, visited Pristina, Kosovo, today to assess the situation a day after attacks by Serb demonstrators wounded more than two dozen NATO Kosovo Force members. No U.S. troops were wounded in the clashes.
The attacks occurred after the KFOR troops removed blockades that had shut off a main road in northern Kosovo.
“The use of violence against KFOR troops is unacceptable,” Locklear said in a statement released today...
About 180 members of the Wisconsin National Guard’s 157th Maneuver Enhancement Brigade are now preparing to assume authority for the next KFOR rotation in December. They will serve as the brigade headquarters unit for Multinational Battle Group East, also known as Task Force Falcon. In that role, the 157th will oversee operations for the entire Multinational Battle Group East.
The group includes National Guard and Reserve soldiers from Wisconsin, Mississippi, Georgia, Nebraska, Vermont, North Dakota, New Jersey, Wyoming, Massachusetts and Puerto Rico. It also includes international forces from Armenia, Greece, Poland, Turkey, Romania and the Ukraine.
To prepare for the mission, the KFOR 15 troops trained in realistic scenarios at Camp Atterbury, Ind., and most recently, at U.S. Army Europe’s Joint Multinational Training Center in Hohenfels, Germany.
...
Observer-controllers at both training sites strived to make the training as realistic as possible, he said, based on tactics, techniques and procedures taking place on the ground.
“Early on in our training, the focus was on a relatively steady state and calm environment in Kosovo,” Liethen said earlier this month at Hohenfels.
“Things have drastically changed,” he said. “It’s very obvious that the training program here at Hohenfels has been modified to replicate what is actually going on in Kosovo right now so that will definitely be a help in us conducting our mission.”
http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2011&mm=11&dd=30&nav_id=77557
Tanjug News Agency - November 30, 2011
UN SC voices different views on Kosovo
NEW YORK: U.S., Great Britain, France and Germany’s representatives in the UN Security Council supported on Tuesday removal of the barricades in northern Kosovo.
Russia and China, on the other hand, backed Serbia’s integrity.
Serbia’s Foreign Minister Vuk Jeremić requested from the UN Security Council to prevent further unilateral actions. The UN Security Council permanent members strongly condemned violence but remained divided regarding who was responsible for it.
...
Commenting on the recent incidents in northern Kosovo, the German representative said that violence against KFOR soldiers had to be fiercely condemned because attacks on KFOR...
Pointing out that putting up roadblocks was unacceptable, Wittig called on all sides to refrain from violence and asked Serbian authorities to use their influence to prevent violence. He also appealed to Priština officials to get involved in the search for a solution to the problems of organized crime and attacks on minorities.
U.S. Ambassador to the UN Rosemary DiCarlo said that the violence in northern Kosovo had been caused by few extremists, adding that her country was still optimistic regarding solving of the issues between Belgrade and Priština.
She called on the Serbian government to cooperate with KFOR and EULEX on removal of the barricades and arrest of suspected criminals in northern Kosovo.
DiCarlo said that Kosovo was a unique customs market and that it therefore had the right to control its borders. She accused the Serbian security structures of being in northern Kosovo illegally.
British Ambassador to the UN Michael Tatham strongly condemned the attacks on KFOR and called for an immediate removal of the barricades.
He also called for continuation of the Belgrade-Priština dialogue, adding that Great Britain supported Serbia’s EU integration.
French and German representatives voiced similar views. French Ambassador Gerard Araud said that the biggest victims of the barricades in the north were the people living there.
The German ambassador said that the violence was organized by the Serbs who kept protesting and called for full freedom of movement in the entire Kosovo.
He added that Serbia needed to implement the agreements that had been reached and that it was one of the conditions for the EU candidate status.
Russian and Chinese ambassadors had completely different views regarding Kosovo, pointing out that Priština was responsible for the violence in the north.
Russia's Ambassador Vitaly Churkin said the UN body had to send a clear message to everyone in Kosovo that they had to restrain from violence and continue the dialogue.
Pointing out that Russia shared the concern of the Serbian foreign minister over the situation in Kosovo, Churkin reiterated that official Moscow did not recognize the unilaterally proclaimed independence of Kosovo and that this stance would not change.
“The UNSC Resolution 1244 is in effect and represents an international and legal basis for the resolving of the Kosovo issue. We believe it is important that the dialogue is resumed, in order to find a solution to the problem,” the Russian ambassador said.
“Unilateral actions by Priština are unacceptable,” he stressed.
“Russia is concerned over the deterioration of the situation in northern Kosovo,” Churkin said, stressing that certain incidents were very brazen.
When it comes to the clashes between KFOR and Kosovo Serbs, he stated it would be best if KFOR concentrated not on the removal of barricades but rather on what the concerns of the people living in that part of the province were.
“KFOR and EULEX allegedly acted so as to ensure freedom of movement, but this is an shifting argument. According to the Resolution 1244, Kosovo is a special area within Serbia, and therefore we oppose the selective implementation of KFOR and EULEX's mandate,” Churkin said.
“The use of force in order to establish the government of the so-called state of Kosovo is neither status neutral nor in keeping with their mandate,” Churkin pointed out, and added that Russia advocated a detailed investigation into developments from September 27, when KFOR used weapons and wounded civilians.
“Russia also demands that a full and objective investigation into allegations on organ trafficking be launched, under the auspices of the UN Security Council,” he said.
“Moreover, Moscow is concerned because the key witnesses in important proceedings have been eliminated and because the number of returnees in Kosovo is unsatisfactory,” the Russian representative concluded.
The Chinese ambassador stressed that Serbia’s integrity and territorial sovereignty needed to be respected and said that a dialogue should be a solution to the crisis.
He expressed concern over the human organ trafficking case in Kosovo, pointing out that Beijing requested a full and an unbiased investigation.
Colombia, Brazil, South Africa and Bosnia-Herzegovina’s representatives also stressed that the Belgrade-Priština dialogue was the only possible solution.
RT - November 30, 2011
Moscow slams NATO power games in Kosovo
Russia is concerned with the exacerbation of the situation in northern Kosovo, where NATO forces are pursuing their power politics targeted against Serbs, Russian envoy to the UN Vitaly Churkin is convinced.
Violence could have been prevented, the diplomat said during a Security Council meeting devoted to the Kosovo settlement, if “KFOR focused on providing security of the region’s residents, as stipulated in their mandate, rather than on eliminating Serbian barricades, which are a response to Pristina’s attempts to take under control the administrative border with Serbia.”
The Russian diplomat also said that Moscow has supported the Serbian government’s appeal to the UN secretary-general to thoroughly investigate an incident on September 27, when KFOR resorted to force, leading to a number of civilian casualties.
Russia also insists on a full and objective probe into cases of human organ trafficking revealed by member of the Parliamentary Assembly of the Council of Europe Dick Marty.
The process of the return to Kosovo of displaced people, most of whom are Serbs, is unsatisfactory, Vitaly Churkin went on to say. And one of the main reasons for this is that those people are not confident of their security. In addition, “incidents of looting and theft of Kosovo Serbs’ property remain unpunished.”
He also demanded that all necessary measures be taken for the defense of Orthodox shrines and believers.
“The UN mission to Kosovo should play a most active role in Kosovo settlement,” the Russian envoy to the UN stressed.
On November 29, at least two Kosovan Serbs and two NATO peacekeepers were injured in a fresh wave of violence near the town of Zubin Potok in the north of Kosovo. Serbs were protesting NATO’s attempts to remove a barricade made of buses and trucks that was blocking a main road in the region. NATO responded by firing rubber bullets, tear gas and water cannons at the demonstrators. Churkin called the incident “outrageous.”
The document, logged at the Department of Justice, says Patton Boggs will offer Kosovo “advisory services on legal and advocacy issues to be used for expansion of bilateral and multilateral relations”.
The company will also be “fostering investments and trade opportunities for Kosovo, as well as gathering funds from foreign aid programs”.
Although the deal with the company was apparently signed on August 31, it has not been announced by the government, which last year was forced to cancel a similar contract.
Frank Wisner, Patton Bogg's foreign affairs advisor, met Thaci in the United States last July. According to a press release issed by the PM's office they discussed “current political developments in Kosovo and the achievements up to now of Kosovo’s institutions”.
Wisner is an old Kosovo hand. The former US Secretary of State under George Bush, Condoleezza Rice, appointed him the US’s special representative to the Kosovo Status Talks in 2005. Wisner played a crucial role in negotiating Kosovo’s independence.
In September 2010 the government then voted to employ Patton Boggs at a rate of 50,000 dollars a month [38,000 euro].
The cabinet was forced to cancel the decision in November after Balkan Insight revealed that the move appeared to break Kosovo's own law on public procurement.
This was because the cabinet had simply selected Patton Boggs instead of allowing a competitive bidding process to take place. The cabinet had also not justified to the Public Procurement Agency why it went ahead with a single-source tender.
Government officials said they annulled the deal on legal advice but denied having broken procurement rules.
The document recently seen by Balkan Insight showed that the annulled deal has since been quietly revived.
The Foreign Ministry said it had awarded the contract in coordination with the Procurement Agency.
Confusingly, the Agency first stated that it had no record of such a request from the ministry, but then later said it did.
Balkan Insight has now seen a copy of the request by the Foreign Ministry to the Procurement Agency to secretly award the contract to Patton Boggs with a single-source tender.
Seemingly unaware that all such contracts are required, by law, to be published online by the US Justice Department, Kosovo's Foreign Ministry argued that if the contract became public it could hinder Patton Boggs' lobbying work.
The Foreign Ministry's request was approved by the Procurement Agency.
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Data: 27/11/2011 23.09
Ogg: Scacco alla Siria in 5 mosse. Ecco le prove della malafede della Casa Bianca
Seguiamo con attenzione questa sequenza...
----- PRIMA MOSSA -----
MEDIO ORIENTE. Media e osservatori in Siria: Assad accetta il piano di pace della Lega araba. Road map in quattro punti. Ma l'opposizione è scettica
Il presidente siriano Bashar Assad ha accettato la road map della Lega araba per porre fine alle violenze. Ovvero un piano in quattro punti che prevede tra l'altro l'apertura del Paese a osservatori della Lega e ai media internazionali. Lo rende noto la Lega araba.
IL TESTO - L'accordo stabilisce anche la «fine immediata delle violenze» e il «ritiro dei carri» armati dalle strade per «rivolgere un messaggio rassicurante alla piazza siriana», prima dell'avvio di un «dialogo nazionale» con l'opposizione.
Fonte Corriere della Sera 2 novembre 2011
http://www.corriere.it/esteri/11_novembre_02/siria-road-map_d5b3336e-056f-11e1-bcb9-6319b650d0c8.shtml
----- SECONDA MOSSA -----
(AGI) Washington - Gli Usa gettano benzina sul fuoco della rivolta in Siria contro il regime di Bashar el Assad.
Washington ha chiesto agli insorti di non arrendersi ne' di accettare l'amnistia offerta da Damasco a chi consegnera' le armi in suo possesso entro il 12 novembre.
http://www.corriere.it/esteri/11_novembre_24/olimpio-scenario-siria_baea5e0a-166c-11e1-a1c0-69f6106d85c1.shtml
Fonte: http://www.bluewin.ch/it/index.php/564,503544/Siria__ancora_attacchi_disertori_a_governativi,_18_morti/it/news/estero/sda/
Alessandro Marescotti
http://www.peacelink.it
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Oggi sono stati celebrati e commemorati i 70 anni dalla battaglia sul Monte Kadinjaca nei pressi di Uzice (Serbia).
Settant'anni fa, il territorio di Uzice e una vasta area intorno sono stati il centro del primo Territorio libero nell'Europa occupata, con più di un milione di abitanti; la Repubblica di Uzice durò dal 24 settembre fino al 29 novembre 1941. Dopo i brillanti successi dei combattenti partigiani e i molti danni causati alla soldatesca germanica, nel mese di ottobre iniziarono una serie di pesanti rappresaglie contro la popolazione civile, con svariate migliaia di fucilazioni di cittadini adulti e studenti, in base al criterio "cento per ogni tedesco".
Scopo della strenua difesa sul Monte Kadinjaca, a nord-est di Uzice, era di rallentare l'avanzata tedesca e dare tempo alla maggior parte dell'Esercito di Liberazione, e al suo Quartiere generale, di ritirarsi verso la Bosnia. Il Battaglione degli operai consisteva di lavoratori delle ferrovie, fornai, tessili e calzolai, mentre nei suoi ranghi era assente il plotone degli operai della fabbrica delle armi: erano 120, tutti vittime di un precedente sabotaggio nello stabilimento. In quel momento si trovavano davanti ai loro macchinari, mentre i fornai sfornavano il pane, i calzolai le scarpe e gli scarponi... Tutti facevano i partigiani al di fuori del loro orario di lavoro, oppure quando non prestavano servizio di guardia.
Durante la battaglia sul Monte Kadinjaca, il Battaglione degli operai si trovò circondato dai tedeschi che cercavano di neutralizzare e distruggere le postazioni delle mitragliatrici partigiane. Non ci ritireremo, combatteremo fino all'ultimo - disse dapprima Dusan Jerkovic: e così fecero. Combattendo fino all'ultimo sangue, presto gli operai-partigiani caddero; cadde il comandante del settore Dusan Jerkovic con la pistola stretta in pugno; vicino a lui Andrija Đurović, comandante del Battaglione degli operai; e poi tanti alti combattenti del Battaglione degli Operai. Verso le 14,30 la battaglia ebbe fine.
Avevo cinque anni ed il mio ricordo mi si presenta come un sogno; mi ricordo come papà puliva le babbucce davanti all'ingresso di casa. Se ne andò sulla bicicletta, con un maglione bianco e una bandiera tricolore in mano. Non lo vidi mai più - ricordava Ljubinka, la figlia del comandante del Battaglione degli operai, Andrija Djurovic.
Il ricordo di quegli eroici e tragici momenti fu mantenuto e curato nella Jugoslavia socialista. Ancora oggi, nel giorno del 29 Novembre, si rende onore ai caduti presso il Memoriale sul Monte di Kadinjača.
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Jugoslaveni – rješenje, a ne problem!
... zajednička je ocjena učesnika okruglog stola na temu „Jugoslavenstvo – priznavanje prava na nacionalnost“ održanog u nedelju, 30.10.2011. godine u Sarajevu. Tom prilikom izneseno je više aspekata vezanih za opšte stanje nacije danas i za njeno pojmovno određenje uz poseban osvrt na odnose među narodima i državama na prostorima nekadašnje SFRJ uopšte kao i posebno prema Jugoslavenima. Prisutnima su prezentovani pojmovi političke kulture, kulture dijaloga, tolerancije, političke religije i dominacije militantnog teizma, ksenofobije, nacionalizma, kao i u političkim i društvenim krugovima opšteprisutnog antiintelektualizma.
„Problem današnjeg vremena je upravo težnja svih protivnika priznavanja prava na nacionalnost Jugoslavenima da dokažu naše nepostojanje, da nas žive sahrane ispod njihovih tmurnih naslaga prošlosti, pogotovo bliske prošlosti u poslednjih tridesetak godina. Proces razbijanja zajedničke države 90-ih godina prošlog veka nije izvršen sa uspehom do kraja, ako još uvek postoje Jugoslaveni, kao živi svedoci tih događaja.“
„Ideja o postojanju Jugoslavenske nacije mnogo je starija od Jugoslavije kao državne zajednice. Treba, također, istaći da Jugoslaveni nikada nisu imali svoju državu niti su tome težili. Sve zajedničke države naših naroda na ovim prostorima bile su tvorevine u koje su ti narodi unosili dijelove svog suvereniteta, stvarajući i oblikujući ih na taj način. Jugoslaveni su se prilagođavali svakoj novoj situaciji dajući svakom društvu, čiji su bili sastavni dio, najbolje i najviše iz svojih redova. Nakon razbijanja SFRJ njima (Jugoslavenima) je naprasno oduzeto pravo na nacionalnost, čime im je oduzeta sloboda izjašnjavanja i ukinuto pravo na slobodan izbor nacionalnoj pripadnosti.“
„Ako se zaista želi raditi na provođenju demokratskih promjena i primjenjivanju demokratskih principa, odnosno osigurati uvođenje demokratije u sve segmente društvenog života neophodno je prihvatiti postojanje jugoslavenske nacionalnosti kao nezaobilazne istorijske činjenice i Jugoslavena kao sastavnog dijela stanovništva i jednog od najznačajnijih kohezionih faktora u regiji. Stoga sa ovog današnjeg skupa šaljemo jednostavnu ali jasnu poruku – Jugoslavene shvatite i prihvatite kao rješenje, a ne kao problem!“
Sve naprijed rečeno moglo se čuti na ovom skupu, a za riječ su se javljali: Dr. Pavle Vukčević i Miodrag Cvjetičanin iz Splita, Slobodan Stajić, Jezdimir Milošević i Samir Arnautović iz Sarajeva, Frederik Goda iz Ulma (Njemačka), Zlatko Stojković iz Pule i Dalibor Tomić iz Kiseljaka.
Ovo je bio već drugi po redu okrugli sto organizovan na inicijativu i pod pokroviteljstvom Udruženja „Naša Jugoslavija“ i Saveza Jugoslavena, kao njegovog sastavnog dijela. O mjestu i datumu održavanja sljedećeg skupa ovakve vrste javnost će biti pravovremeno obavještena.
Za PRESS-SLUŽBU
Udruženja „Naša Jugoslavija“
Dalibor Tomić
Nakon osnivanja Saveza Jugoslavena u Zagrebu (21.03.2010. godine), kao i Kluba Jugoslavena u Splitu nedugo iza toga, ovo je već treća po redu organizacija koja svoje djelatnosti konkretno usmjerava ka okupljanju Jugoslavena i aktivnostima na ostvarivanju njihovog prava na nacionalnost, te očuvanju kulturnog identiteta, istorijske, umjetničke i jezične baštine, tradicije i običaja – grubo i bespravno ukinutih nakon 1991. godine.
Vođeni plemenitim idejama međusobnog razumijevanja, tolerancije i poštovanja osnovnih ljudskih prava na slobodu, javno izjašnjavanje i opredjeljenje – pravima koja su zagarantovana ustavima svake demokratske države – skrećemo pažnju na neravnopravan odnos prema pripadnicima nacionalnosti Jugoslaven u svim novonastalim državama na teritoriji nekadašnje SFRJ.
Kao osnovnu karakteristiku Jugoslavenstva treba istaći njegovu heterogenost i otvorenost prema drugom i drugačijem. Jednakost nezavisna od boje kože, polne pripadnosti, religiozne opredjeljenosti ili svake druge orjentacije obogaćuje ovaj kompleksni fenomen, prikazuje ga u svjetlu izrazito pozitivne istorijske i socijalno-kulturne dinamike, a iznad nazadne i primitivne
ograničenosti nacionalizma, odnosno jednonacionalne samozadovoljnosti i besperpektivnosti.
Jugoslavenstvo znači otvoreno govoriti o ravnopravnosti svake vrste, istinito prikazivati istorijske činjenice, ponositi se zajedničkim jezikom i porijeklom... Jugoslaveni ne žive samo na teritoriji nekadašnje SFRJ, već širom Evrope i svijeta, imaju iste osjećaje nacionalne pripadnosti. Poručujemo i pozivamo sve njih, kao i sve druge koji se osjećaju nama bliski da nam se pridruže i daju svoj doprinos u ostvarenju zajedničkih ciljeva.
Saveza Jugoslavena za Njemačku
Ulm, 23.10.2011. godine
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Tracce della cultura degli slavi del sud in territorio italiano
https://www.cnj.it/CULTURA/SLAVIDELSUDINITALIA/slavidelsudinitalia.htm
Il patrimonio artistico-religioso in Kosmet e la sua distruzione
https://www.cnj.it/documentazione/KOSMET/monasteri.htm
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European debt crisis threatens Balkan economies
By Antid Oto
22 November 2011
The deepening European financial crisis and the ever-growing possibility of bankruptcy for countries like Greece and Italy pose huge dangers for the economies of the Balkan countries. The latter are highly dependent on foreign capital investment and are intertwined with the economies of both Greece and Italy.
A number of recently published reports point to the graveness of the situation facing the so-called Western Balkan countries, a region that has never recovered from the decline of living standards in the 1980s, before the forcible reintroduction of capitalism and semi-criminal fire-sale of state owned assets crippled their economies.
While the region has seen comparatively high growth of 5-10 percent per year prior to the 2008 crisis, this growth relied heavily on foreign direct investment (FDI) or various aid projects financed from abroad. When investment dried up following the 2008 crises, most of the region experienced significant “negative growth” in 2009, with Montenegro, Serbia, Bosnia and Herzegovina suffering sharp recession.
The Balkan states recorded anemic average growth rates of only 1.6 percent in 2010, with similarly low projections for 2011 and 2012. However, even these low predictions may be unrealistically optimistic, according to the World Bank (WB) report on the region released last Tuesday.
Looking at six South-East European countries of Albania, Bosnia and Herzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro and Serbia, dubbed SEE6, the WB warns at the beginning of its report that they “depend critically on factors that are largely beyond the control of their governments. They are influenced by the global slowdown and uncertainties in the Euro zone (EZ).”
The report terms the current growth rate as “sluggish” and states, “even these modest growth projections assume that the current turmoil in the EZ is resolved in a manner that doesn’t involve a disorderly default and avoids contagion effects.” Based on recent developments in the EU, this is wishful thinking.
The report continues by noting that the non-EU Balkan countries are “susceptible to the effects of a further global slowdown and a deepening euro area crisis through several channels: trade, FDI, foreign banks, and remittances. The EU countries … are the largest trade partners of all the SEE6: trade with the EU is equivalent to between 30 percent and almost half of the SEE6 GDPs.”
Serbia, for example, would be most directly affected by the deepening crisis in Italy, because Italian companies, most notably the automobile company Fiat and the clothing manufacturer Benetton, are among the biggest investors in Serbia. Italy is the top export partner for Serbian products, with proceeds amounting to just over $1 billion in 2011, according to Goran Nikolic, economist from the New Policy Centre, reported by Balkan Insight.
The EU is also the largest FDI provider to the region, with net FDI inflows worth over 2 percent of the SEE6 GDP, and a significant source of remittances in the region.
Another major financial danger is the domination of foreign-owned banks in the region. The WB report explains that even though the banking system in the region “appears resilient... [t]his could change abruptly due to a high share of Greek and Italian owned banks in local banking systems. [N]ot only is the share of foreign banks in the total assets of the region’s banking system very large (at around 89 percent of the total), but this foreign presence is largely an EZ one.”
In a clear sign that the governments are aware and apprehensive of the ever more real prospect of state default in the EU, Albania’s parliament introduced a new bill earlier this month aimed at forcing foreign banks controlling 95 percent of the country’s market to transform their local branches into subsidiaries. The government is thus trying to protect depositors from a possible default of the mother institution.
The International Monetary Fund (IMF) has also noted the danger of a contagion effect of the EZ debt crises on Albania. Its October report candidly explains that the country “has large trade, labour-market, and banking-system links with Greece and Italy, which could result in substantial spillovers with banking-system contagion potentially the most severe near-term risk, while sharply lower remittances could result in a significant GDP shock”.
The situation is similar in Montenegro. The November 2 edition of The Balkan Insight reported that the Finance Minister Milorad Katnic and World Bank Regional Coordinator for Southeast Europe Jane Armitage, presented the WB’s report on public spending in Montenegro. The report declared that the country must reduce its fiscal deficit and public debt and reduce its dependency on foreign finance, “in particular at a time when conditions on the international market are sensitive and unpredictable” (emphasis added.).
Some two weeks later, on November 17, the local daily Vijesti carried a report from the Montenegrin Finance Ministry, which stated that the IMF could “in case of serious disturbances in the market and a major crisis” provide Montenegro with an unspecified financial loan.
It is evident that the IMF, WB and other representatives of financial capital are seriously considering the possibility of state default in the EU and are developing contingency plans aimed to transfer the fallout of a catastrophic crisis onto the working class of each country.
The capital flight from the region is already evident in currency exchanges. Last week’s Financial Times article “Eastern Europe’s currencies take a Eurozone beating” states that “[f]ar from benefiting from being outside the Eurozone, eastern European countries are feeling the strain of exclusion from the club” with “the value of their currencies plummeting.”
Considering this a somewhat belated reaction the article continues: “Many analysts are surprised it has taken the foreign currency market so long to work out that the impact of the Eurozone crisis on the region’s close trading partners in eastern Europe was likely to be severe.” The Serbian dinar, for example, has lost almost 25 percent of its value in the last three years.
A renewed credit crunch in the Balkan region would be much more severe than in 2008-2009. The extent of social cuts and privatisation of state assets already carried out means that this time round there would be no room for softening the blow with further public spending cuts. This is the conclusion reached by the WB’s chief economist for poverty reduction and economic management in Europe and Central Asia, Ron Hood.
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Nell'aprile scorso, le cosiddette istituzioni dello Stato del Kosovo effettuarono il censimento della popolazione su questo stesso territorio - ma allora non si parlava dei "rigorosissimi regolamenti" di cui sopra. A noi risulta che quei regolamenti non furono applicati! Una enorme parte degli abitanti serbi del Kosovo e Metohija boicottarono quel censimento, in base dell'appello rivolto dallo Stato della Serbia. Tra di noi ci chiedevamo se saremmo stati presi in considerazione nel successivo censimento che stava per effettuare il nostro Stato. Ci speravamo. Il risultato finale è stato che solo qualche abitante del Kosovo e Metohija è stato censito. Così, in uno dei censimenti risultano i soli albanesi, mentre noi non siamo presenti in alcuno dei due. Ci domandiamo in base a quali criteri allo Stato della Serbia non è consentito di effettuare il censimento su di una parte del proprio territorio, visto che questo non è stato neanche riconosciuto come "Stato" indipendente da parte delle Nazioni Unite. Se si tratta di un protettorato, allora lo è per entrambe le etnie!
E perciò, non siamo circa 378.000 abitanti in meno - ovvero 7.120.666 - bensì siamo di più, soltanto non ci avete sottoposto al censimento. Seppure la minoranza albanese avesse boicottato il censimento, più di 100mila serbi non avrebbero fatto lo stesso. >>
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