Informazione

Serbia ed Unione Europea, 10 anni dopo il golpe

1) Dieci anni di... teppismo liberista in Serbia (A. Martocchia / L'Ernesto online)
2) Ora tocca alla Serbia (Tanja Trikic / Blic)


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http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=19817

DIECI ANNI DI... TEPPISMO LIBERISTA IN SERBIA

di A. Martocchia*

per l'Ernesto Online del 26/10/2010

*Segretario Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus


Visto quello che ha fatto a Genova, vista la "celebrità" che gli hanno accordato i media, vista la sua provenienza da un... esotico paese slavo - la Serbia - affibbiargli il soprannome è facile: "Ivan il Terribile". Ma capire la logica delle sue azioni è ben altra impresa.

I danneggiamenti e gli scontri di cui si è reso protagonista assieme ai suoi accoliti si sarebbero potuti evitare con una normale prevenzione poliziesca, così come si sarebbe potuta evitare questa sovraesposizione mediatica, di fronte alla quale in tanti siamo rimasti perplessi. Da Belgrado accusano: "Sapevate cosa stava per succedere". (1) I servizi di sicurezza serbi spiegano di avere preavvertito, nel corso di un vertice e poi di nuovo attraverso il delegato della Uefa, sulle intenzioni degli "ultras" (teppisti, a tutti gli effetti) che dalla Serbia dovevano giungere in Italia per la partita tra le due nazionali di calcio lo scorso 12 ottobre. Il presidente della Federcalcio serba, Tomislav Karadzic, ha dichiarato che i tifosi della nazionale "non erano venuti soli a Genova": per Karadzic infatti si sarebbe trattato di un piano preordinato per creare incidenti e far saltare l'incontro. E' la stessa impressione che hanno avuto i giocatori della Serbia, alcuni dei quali il giorno stesso, prima della partita, avevano ricevuto inedite minacce, restandone sconvolti.

Anche se i responsabili serbi non avessero preavvertito, è quantomeno bizzarro che i servizi di sicurezza italiani non abbiano saputo prevenire le distruzioni e le escandescenze, data la "stretta" securitaria ordinata da Maroni già da qualche tempo (tessera del tifoso eccetera). Cosicchè, in Italia quei fatti sono subito diventati materia per una effimera polemica politica. Il Pd ha chiesto al ministro degli interni "come sia stato possibile che questo gruppo di violenti sia potuto giungere in Italia, a Genova e dentro allo stadio con tutto il corredo di armi improprie". Il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, ha rivelato anche che, messasi in contatto con la Questura, aveva percepito una scarsa volontà di prevenzione: "Ho capito che c'era una linea morbida per evitare la tragedia" (sic). (2)

Nei giorni successivi però da Belgrado sono arrivati altri dettagli, che dimostrano che il problema non è solo di politica interna, ma ha implicazioni molto gravi di politica internazionale. E' stato rivelato infatti che i teppisti erano stati "pagati per creare incidenti a Genova". Secondo il principale quotidiano belgradese Politika, due boss latitanti avrebbero versato 200 mila euro ai teppisti per organizzare i disordini. (3) Inoltre, i quotidiani di Belgrado hanno scandagliato la figura di "Ivan il Terribile", scoprendo alcune cose che i media italiani si sono guardati bene dal riportare.

Ivan Bogdanov appartiene ad una ben precisa tipologia di teppisti. E' stato un protagonista degli incidenti di piazza a Belgrado il 5 Ottobre 2000, quando bande di (ribadiamo) teppisti anti-jugoslavi assaltarono il Parlamento, diedero fuoco agli uffici elettorali e alle sedi dei partiti della sinistra, e realizzarono così quella che da noi è stata candidamente elogiata come la "rivoluzione anti-Milosevic" ("Belgrado ride", intitolò vergognosamente Liberazione). In particolare, Bogdanov guidò l'attacco alla stazione di polizia e i connessi saccheggi sulla Via Jevrosime Madre. Quest'anno è ricorso il decennale di quella "rivoluzione" - nessuno in realtà lo ha festeggiato. Non sappiamo se "Ivan il Terribile" già allora viveva nel lussuoso quartiere di Dedinje - i "Parioli" o la "Via San Babila" di Belgrado -, in Bulevar Karadjordjevic, di fronte all'ambasciata di Israele. Uno dei suoi più prossimi vicini di casa è il Ministro dell'Interno Ivica Dacic. (4)

La tipologia cui appartiene "Ivan il terribile" è dunque quella del teppista provocatore, ben pagato e rifornito di ogni comfort. Ciò che Ivan, con i suoi colleghi di lavoro, ha ottenuto è stato di accentuare l'immagine già negativa che è stata appiccicata addosso alla Serbia e ai serbi negli ultimi 20 anni. (5) Il fatto che questi teppisti ostentino simbologie e slogan "ultranazionalisti serbi" e bigotti-reazionari in occasione dei loro show più recenti (ricordiamo anche, ad esempio, la manifestazione contro il "gay pride" a Belgrado lo scorso 10 ottobre) non ci dice molto del significato "politico" di queste loro azioni, ma viceversa serve a distorcerlo o capovolgerlo: questo è d'altronde il mestiere dei provocatori.

Come CNJ-onlus valutiamo che << certamente, negli stadi e nelle piazze l'estremismo teppista trova anche alimento nei settori sociali sconfitti, delusi ed impoveriti dagli eventi balcanici degli ultimi 20 anni - inclusi ovviamente i profughi dallo stesso Kosovo. Ma non ci sembra questa la componente determinante, quanto piuttosto quella costituita dai numerosissimi provocatori infiltrati dai "servizi di sicurezza" che esistono in tutte le tifoserie, calcistiche o meno, e svolgono un ruolo ben preciso e prevedibile.
Quale potrebbe essere la strategia provocatoria in questo caso? Ci sono almeno due funzioni "utili" che questi "hooligans" stanno svolgendo.
Innanzitutto, gli incidenti non sono affatto "destabilizzanti" per il governo serbo. Viceversa, con essi la stessa questione del Kosovo viene relegata a questione "di ordine pubblico" e definitivamente sepolta - assieme ai serbi-kosovari, che sono oggi o profughi oppure prigionieri nei "bantustan" della provincia.
L'unica destabilizzazione possibile che gli incidenti di Genova possono arrecare è quella dei rapporti tra Berlusconi e Tadic, il cui incontro previsto in questi giorni, in occasione di un summit bilaterale, era già stato rimandato. >> (6)

E' impressionante anche la coincidenza degli incidenti al Marassi di Genova con la visita della Hillary Clinton a Belgrado, avvenuta lo stesso giorno, dopo la tappa a Sarajevo e prima di quella a Pristina. A Belgrado la Clinton ha usato parole di scontato sostegno all'orientamento capitalista-atlantista della Serbia, nel decennale appunto del "nuovo corso", ed ha affermato anche che i tempi sarebbero maturi per l'entrata della Serbia nella UE. In effetti, questo argomento era stato messo all'ordine del giorno a Bruxelles per il 25 ottobre.

Ma il giorno dopo essere stata a Belgrado, in Kosovo la Clinton ha ribadito piuttosto il sostegno degli USA all'irredentismo pan-albanese nei Balcani, chiedendo che tutti i paesi riconoscano la "indipendenza" e dunque la secessione della provincia dalla Serbia. La Segretaria di Stato è stata salutata come una eroina da centinaia di persone convenute in Bulevar Bill Clinton, all'incrocio dove sorge la statua che raffigura suo marito Bill, alta circa quattro metri. (7) Sempre lo stesso giorno, 13 ottobre, il parlamento olandese ha votato all'unanimità una risoluzione che chiede agli altri paesi UE di posporre la valutazione della candidatura serba almeno fino a fine 2010, e cioè almeno fino al prossimo rapporto del procuratore dell'Aia sulla cooperazione di Belgrado con il "tribunale ad hoc". E' ben noto che la questione dei "processi" dell'Aia è usata ad ogni piè sospinto, in maniera pretestuosa, a giustificare la costante applicazione dei "due pesi due misure" nei confronti della Serbia.

Chi sia veramente favorevole, e chi contrario, alla adesione della Serbia alla UE è questione che meriterebbe lunga e complessa analisi. La nostra impressione è che su questo punto tra i singoli paesi europei e gli USA ci sia uno strano "gioco delle parti". L'Italia potrebbe essere uno dei paesi più favorevoli alla "normalizzazione" dei rapporti internazionali con la Serbia. Tale politica sarebbe coerente anche con la linea abbastanza autonoma perseguita dal governo Berlusconi nei confronti di vari paesi "scomodi" (Libia, Russia); ma la gestione degli incidenti di Genova fa pensare che qualcuno, a Roma oppure a Belgrado, "remi contro" la politica del proprio governo e preferisca mantenere l'isolamento internazionale della Serbia.

Dunque dieci anni sono passati, la Jugoslavia (Serbia-Montenegro) è stata cancellata ed è stata forzata una secessione de facto del Kosovo dal resto della Serbia; dal punto di vista economico e sociale, sono state prese tutte le principali misure per cancellare quanto rimaneva in Serbia delle strutture e delle prerogative del sistema socialista jugoslavo: le banche e le grandi industrie sono state privatizzate (si pensi al caso Zastava Auto, dove la FIAT ha avuto gratis la fabbrica con un migliaio di operai sottopagati da usare contro quelli di Pomigliano) e si passa adesso ad altre svendite. L'ultima operazione annunciata è quella su Telekom Serbia, di cui stanno per essere messe in vendita il 51% delle azioni detenute dalla Stato, per un valore stimato sui 1,4 miliardi di euro. (8) Dunque è passato un decennio in cui le politiche liberiste e filo-atlantiche sono state imposte in tutti i modi ad ogni anfratto della società e dell'economia della Serbia - eppure ancora qualcuno è contrario alla "normalizzazione" dei rapporti con quel paese.

Il problema della collocazione internazionale della Serbia ha assunto una cronicità che dovrebbe preoccupare anche i diplomatici più cauti. Secondo l'istituto di analisi geopolitica statunitense Stratfor (9) il clima che si è instaurato attorno e all'interno della Serbia è quello della Repubblica di Weimar. Frustrata in tutte le sue legittime ambizioni, la Serbia potrebbe covare al suo interno forze animate da un forte spirito revanscista; e questo si potrebbe ritorcere contro l'Europa come a suo tempo successe con la Germania.

Anche se questa valutazione fosse esagerata, va riconosciuto che in ampi settori della opinione pubblica serba domina lo scontento per la situazione che si è determinata dopo quel fatidico 5 Ottobre. E' opinione comune che il paese sia in mano a corrotti e ladri: se ne scrive tutti i giorni sui giornali. La situazione economica e occupazionale non è mai migliorata. Infine, non è solo opinione dell'ex collaboratore di Slobodan Milosevic, Vladimir Krsljanin, che la Serbia sia oggi "un paese sotto occupazione straniera" (10). Questa è in effetti l'impressione generale, benché ancora in Serbia i paesi della NATO non abbiano potuto installare direttamente alcuna base militare (fatta eccezione per il Kosovo, ovviamente). Insistentemente peraltro si parla di adesione del paese alla NATO: nella scorsa primavera a fronte delle dichiarazioni esplicite del Ministro della Difesa, che si è detto favorevole, c'è stata la reazione di vasti settori di intellettuali (11) e semplici cittadini. E le pressioni continuano, da ultimo attraverso una visita a Belgrado di una delegazione del "Parlamento NATO" guidata dal vicepresidente Vincenzo Bianco. (12)

Anche molti di quelli che condivisero il moto di protesta dieci anni fa, dichiarano oggi di essere profondamente delusi. A suo tempo costoro salutarono la "svolta", incarnata in particolare dal neopresidente Vojislav Kostunica, pensando che tale ricambio della classe dirigente in senso liberista-europeista poteva meglio garantire la difesa piena degli interessi nazionali, ritenuti a rischio per la "impresentabilità" della vecchia classe dirigente erede dei valori jugoslavisti e socialisti. Con il passare degli anni, però, Kostunica è stato estromesso, ed è stato infine relegato all'opposizione. L'attuale governo ha una posizione di compromesso sulla questione del Kosovo, che in tanti ritengono rinunciataria: no alle secessione formale ed al riconoscimento di qualsiasi statualità, si invece ad una interlocuzione da pari a pari con la classe dirigente dell'ex UCK. Insomma una rinuncia de facto a quel territorio, benchè da non formalizzare e "salvaguardando" le enclave non-albanesi ed i locali simboli e tesori della storia serba.

Uno dei paradossi serbi oggi è che al governo, a perseguire tali politiche liquidazioniste (privatizzazioni e svendita dello stato sociale, rinuncia al Kosovo), c'è un governo composto anche dal Partito Socialista della Serbia (SPS) - o meglio, da ciò che ne rimane. Già Milosevic dal carcere dell'Aia contestava come opportunisti e traditori diversi esponenti dell' SPS che si trovano oggi al governo. Dopo quel 5 Ottobre, il partito ha subito fuoriuscite e scissioni. Tra le varie formazioni "socialiste" che sono nate, vale la pena di segnalare il "Pokret Socijalista" guidato dal giovane Aleksandar Vulin, che appare tra le formazioni più vivaci e ferme su di una linea contemporaneamente attenta alla sovranità nazionale e ai diritti dei lavoratori.

Vivace è anche l'area comunista, che registra continue "fondazioni" di organizzazioni nuove ma anche incessanti tentativi di unificazione. Questi ultimi si scontrano però da un lato con il soggettivismo e le logiche di piccolo gruppo - che "a pensar male" sembrano talvolta di carattere provocatorio - e dall'altro con settarismi ideologici di vecchia data tra l'area "cominformista", quella "trotzkista" variamente declinata, e i "titoisti". Va detto anche che tale vivacità in campo comunista (nel bene e nel male) ha pressoché gli stessi connotati in tutta l'area jugoslava, cioè anche nelle repubbliche confinanti con la Serbia. Un esercizio semplice ma abbastanza istruttivo può essere il seguente: si provi in Facebook a digitare "Jugoslavija" oppure "Tito" oppure "Komunisticka partija", e simili. Si troveranno decine di migliaia di risultati di gruppi e singoli individui che si richiamano (anche solo simbolicamente, anche solo nel nome o nell'immagine del profilo) al passato socialista. Evidentemente, nonostante le pressioni di ogni genere che hanno subito, gli jugoslavi (serbi e non solo) sanno distinguere tuttora molto bene che cosa sia nel loro comune interesse, e che cosa no.

Note:

(1) Repubblica online, 15 ottobre 2010: http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/15/news/serbia_italia_15_ottobre-8069677/ .

(2) Si veda: http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/13/news/arresti_italia_serbia-7997211/?ref=HREA-1 e http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/13/news/polemica_maroni-8010519 .

(3) Repubblica online, 16 ottobre 2010: http://www.repubblica.it/sport/calcio/2010/10/16/news/serbi_pagati_per_incidenti-8119237/ .

(4) Fonte: http://www.pressonline.rs/sr/vesti/vesti_dana/story/136784/Huligan+sa+Dedinja!.html .

(5) << Addirittura il presidente del Senato Renato Schifani ha dichiarato: "Quello che è accaduto ieri allo stadio di Genova (...) mostra il volto peggiore di un'Europa ancora troppe volte attraversata dalla violenza di chi rifiuta la civiltà, la dignità, il rispetto della persona". Non ci vuole una particolare fantasia per associare tale "volto peggiore" alla Serbia e ai serbi, attribuendo così a tutto un popolo (etnia? razza?) il rifiuto della superiore "civiltà" di Schifani. >> (Dal Comunicato stampa di CNJ-onlus: "Hooligans serbi? Sgombriamo il campo dagli equivoci" - https://www.cnj.it/CNJ/huligani2010.htm )

(6) Ibidem.

(7) Voice of America, 14 ottobre 2010: http://www.voanews.com/english/news/europe/Clinton-to-Push-for-Wider-Kosovo-Recognition-104901414.html .

(8) B92, 19 ottobre 2010. La privatizzazione dell'altra compagnia di telefonia mobile, la Mobtel, era già avvenuta nel 2006. In Kosovo alla Telekom Serbia poche settimane fa hanno arbitrariamente "spento" le antenne. E' anche interessante confrontare questa prevista privatizzazione con l'operazione Telekom Serbia che tanto scandalo scatenò in Italia alla fine degli anni 90: in quel caso allo Stato serbo rimaneva il "golden share" della maggioranza assoluta del pacchetto azionario...

(9) Stratfor 14.10.2010: "Serbia: A Weimar Republic?" - http://www.nspm.rs/nspm-in-english/serbia-a-weimar-republic-q.html .

(10) Intervista rilasciata a "junge Welt" (Berlino), 6 ottobre 2010.

(11) Da registrare il cosiddetto "Appello dei Trecento": http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6647 .

(12) Tanjug, 22 ottobre 2010.


=== 2 ===

http://www.presseurop.eu/it/content/article/371561-ora-tocca-alla-serbia

Ora tocca alla Serbia

26 ottobre 2010
BLIC BELGRADO


Il 25 ottobre i ventisette hanno deciso di inoltrare alla Commissione la domanda di adesione di Belgrado. Ma restano da compiere diversi passi cruciali, primo tra tutti l'arresto del criminale di guerra Ratko Mladic.

Tanja Trikić


Finalmente dal Lussemburgo arriva una buona notizia: i ministri degli esteri dell'Unione europea hanno deciso di inoltrare alla Commissione la domanda di candidatura della Serbia all'ingresso nell'Ue. La decisione è stata presa all'unanimità dopo il successo delle pressioni sui Paesi Bassi, che volevano condizionare l'intera procedura di adesione all'arresto di Ratko Mladic – accusato di crimini di guerra e genocidio dal Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia.

La fermezza dei Paesi Bassi è stata tuttavia presa in debita considerazione. I ventisette hanno insistito affinché ogni tappa del processo di adesione sia approvata da tutti i governi dell'Ue, ed esigono che Belgrado collabori in modo soddisfacente con il Tribunale. In altri termini, la Serbia deve arrestare Ratko Mladic e gli altri ricercati.

La palla passa quindi in campo serbo. E non soltanto per ciò che concerne l'arresto di Mladic, impegno che la Serbia tarda a soddisfare. Nel questionario che sarà presto spedito a Belgrado, la Serbia dovrà rispondere sui progressi fatti per rispettare i criteri politici ed economici preliminari a una sua adesione all'Ue, come la lotta alla corruzione e l'instaurazione di rapporti diplomatici con il Kosovo.

Come ha fatto notare Štefan Füle, il commissario europeo incaricato dell'allargamento, l'appoggio che la Serbia ha ottenuto da parte delle autorità europee è proporzionale alle attese di queste ultime nei confronti di Belgrado.

L'euforia, dunque, avrà breve durata. Se non vuole restare un'eterna promessa, Belgrado farà bene a mettersi al lavoro senza perdere altro tempo. Bisognerà infatti intraprendere profondi e radicali cambiamenti, a prescindere da quanto difficili si riveleranno.

Dopo le spiacevoli esperienze di Bulgaria e Romania, Bruxelles ha ribadito che la Serbia non potrà entrare nell'Ue dalla porta di servizio. L'Unione europea non abboccherà a un altro bluff.

(traduzione di Anna Bissanti)

Dove sarebbero andate esposte le opere di Ivan Mestrovic ...

... se non ci fosse stata la Jugoslavia? Era una domanda che qualcuno, a suo tempo, si poneva. Infatti ecco, oggi 19.10.2010 sono stato vedere la Mostra del Centenario al Vittoriano di Roma, intitolata "Roma verso il 2011". Tra i documenti esposti ho visto la rivista "Panorama" del 1911, aperta alla pagina dedicata all' arte slava nel padiglione serbo all' Esposizione internazionale d' arte a Roma, 1911. Eh si, giacche' non esisteva ancora la Jugoslavia, anche Mestrovic fu indicato come artista serbo.
Allego qui l' articolo apparso su "Il Messaggero" del 1911. Ieri in Jugoslavia, oggi in tutte le ex Repubbliche jugoslave si trovano opere d' arte di questo maestro originario dalla Dalmazia interna. Primeggiano senz' altro il mausoleo al Milite ignoto sul monte Avala vicino Belgrado, il Vincitore sul Kalemegdan di Belgrado e, sulla cima più alta del monte Lovcen in Montenegro, il mausoleo a Petar Petrovic-Njegos.

Ivan per CNJ-onlus

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http://mestrovic.kkz.hr/web_redizajn/ART-srppavilj.htm

Il padiglione della Serbia

"Il Messaggero", Roma 11 aprile 1911

Se è vero che in tutti gli atti e le idee vi sia un punto culminante che adombra ed identifica il miracolo, ecco, il miracolo di Valle Giulia è questo: il padiglione della Serbia. Certamente i visitatori di questa esposizione internazionale, dotti ed indotti, riporteranno nel padiglione serbo le impressioni più profonde e indimenticabili.
Qui storia e leggenda vivono insieme – prodigio inatteso ai nostri tempi – a formare l'epopea palpitante, quale dovette essere nell'antichissima Ellade, quando dal loro connubio nacque, e in organismo vivo e contemporaneo, il paganesimo puro. Di tutto ciò noi supponevamo e favoleggiavamo: oggi è sotto gli occhi nostri un caso moderno di questa vera realizzazione dell'ormai irrealizzabile.

Cosa son mai davanti a ciò le tragedie, i poemi mitologici od epici che noi sentiamo adesso con uno spossante ed imponente sforzo cerebrale?
Qui si vede, qui si tocca con mano come la nostra civiltà, già troppo lontana da ciò che fu a' tempi eroici, deve aver il coraggio di rinunziare definitivamente alla loro reincarnazione; che ci riesce muta o grottesca: manierata ed insensata sempre.
Dio mio, che sgomento a dover fissare in brevi e frettolose note ciò che meriterebbe un libro ed un libro che fosse poema! Ah, lasciatemelo dire sotto l'impressione immediata e col coraggio di chi non ha paura a riconoscer se stesso; noi tutti del bacino mediterraneo occidentale e di quello nord-atlantico, noi tutti civili e liberi siam gente troppo dotta, vissuta, raffinata: scienza, coscienza e civiltà hanno finito per deprimere, livellare, distruggere naturalezza, subcoscienza, sensibilità; siamo davanti a costoro, come una stirpe di signori che ha lineamenti aristocratici e finezze di esperienza, ma non ha più né muscoli, né volontà, siamo una gente che scende per l'altro dell'altro versante della montagna della storia e della vita, mentre costoro si arrampicano su per il versante opposto con una violenza inaudita.
Oltre a ciò la meravigliosa esposizione, così povera di dottrina e così ricca di forza, ispirazione e passione, ha due caratteri, uno frequente, sebbene non troppo, e l'altro che è unico. Ha il carattere nazionale evidentissimo che elimina ogni idea di conglomerati e di antecedenti: ed ha poi un vero e proprio – tanto più prezioso per quanto meno voluto – carattere politico: una orma costante di rivolta e speranza, di dolore e d'odio, che potrebbe far fremere (io faccio qui esame d'arte e posso parlar sincero) i vani tentativi di rinnovamento cerebrale, scolastico, accademico, privi di un contenuto nazionale, deboli di vita, di un'altra mostra assai vicina a quella della Serbia.
Il grande regno di Dusciano, re e zar dei Serbi e dei Greci, conquistatore dei Balcani. Il di cui impero nel secolo XIV scendeva fino al mare Adriatico, fu pari a quello di Alessandro il Macedone e di Napoleone il Grande, così nelle vittorie, come nella sua fine prematura.
Il regno dei Nemagna cade nella fatale battaglia di Kosovo (1389). Ecco l'invasione turca che poi si stende in Croazia ed Ungheria: e comincia il martirio del popolo serbo, durato quattro secoli. Furono i primi, i serbi, i più vicini, i più ferocemente trattati dalle barbarie arabe prima e poi mongoliche e tartare.
Pochi esempi vi sono di popoli eroici e liberi trattati con più crudele signoria. Il sangue che si versava ogni giorno sui pali, sotto le mannaie, nelle terre spopolate, deserte, ogni gloriosa traccia del passato distrutta a ferro e fuoco, le fanciulle violate, rapite, l'armata dell'oppressore composta ormai di uomini che da fanciulli erano stati rubati alle madri serbe per poi essere scristianizzati ed evirati, tutto questo inferno di secoli avrebbe distrutto qualunque nazione non fosse stata fortissima: ma non riuscì a distruggere l'invitta Serbia.
Dove il miracolo fu compiuto dalla poesia, frutto, a sua volta, delle mirabili energie della razza. I canti nazionali serbi, che quel popolo rassomiglia ai canti di Omero, conservarono lo spirito nazionale, prepararono la rivincita.
I cantori di gusle: vecchi, ciechi, povera gente inerme, condotta a mano da fanciulletti scalzi, per quattro secoli ricantarono nella più schietta lingua, nella forma più commovente le leggende della gloria e del dolore. Le gesta dei re magnanimi fino alla morte del grande Dusciano, la tragedia di Kosovo con la fine di Lazaro, ultimo zar, e la morte grandiosamente eroica della Niobe serba, la madre dei nove figli Jugovici, che non pianse nemmeno dinanzi ai cadaveri degli otto figli sgozzati, ma si spense di angoscia quando i corvi le gettarono in grembo la mano troncata del suo ultimo nato; tutto cantarono i guslari, aggiungendovi l'epopea di Marko Kraljevic, l'eroe nazionale, il Sigfried serbo, figlio di re, gigante di corpo, fanciullo d'animo, che accorrendo dovunque, come un arcangelo, sul suo grande cavallo nero, libera fanciulle, debella mostri, combatte infedeli, tracanna fiumi di vino, esuberante di vita e di gioia, e s'addormenta infine nell'antro fatato delle Villi dei monti, conficcando nella rupe la spada favolosa che lo risveglierà da morte soltanto nel dì della riscossa.
E la battaglia di Kosovo fu vendicata. Guai a quella nazione moderna, civile od incivile, che volesse nuovamente allungare la mano sacrilega su la indipendenza della Serbia! Son pochi: ma pronti a tutto. Le rivolte albanesi, in cui freme un medesimo dolore, possono darne un esempio.
La figura di Marko Kraljevic, famigliarizzata dalla passione patriottica del popolo serbo e al tempo stesso sovrannaturalizzata, è una delle più belle e vive incarnazioni svoltesi lungo il corso del Danubio e dei secoli, della figura del paladino errante dell'eterno eroe di Roncisvalle, simbolo della magnanimità e del valore. Ma io mi accorgo di essermi troppo trattenuto su ciò che è il contenuto nazionale, etnico e passionale della mostra serba: della quale avrei piuttosto dovuto parlare.
E non me ne dolgo. Un soffio di poesia e di fede è sempre la più alta espressione e celebrazione delle forti intenzioni e delle grandi opere. Parleremo in seguito con qualche particolare di ciò che vi è di più mirabile in codesto padiglione, dove il disegno è ancora – quasi sempre – primitivo, ma la colorazione è violenta e l'espressione è tragica e potentissima sempre.
Nel bel padiglione, che arieggia all' esterno e all'interno, un tempio neoegiziano, stanti i caratteri specifici dell'architettura locale, trionfa fra tutti Ivan Mestrovic: un giovine dall'aspetto dolce e pensieroso, quasi umile, vicino alla caratteristica voluttuosa bellezza slava della sua signora che, nelle linee del volto e negli occhi, ricorda un poco la regina Elena.
Ivan Mestrovic è il Giotto serbo: ed egli, come quasi tutti gli artisti suoi connazionali, ha avuto la eccezionale fortuna di poter immergere la sua nativa e vigorosa ingenuità artistica nel flusso della piena civiltà circostante; quindi il miracolo! Ivan Mestrovic quindici anni a dietro pasceva le greggi su le balze della Dalmazia: ed oggi è più e meglio che un Giotto, un Michelangelo quasi, ancor tarsognato ed informe, ma che dove tocca con la sua stecca o batte col suo scalpello crea una vita formidabile e sempre nuova. Egli giganteggia nella mostra, tutta pervasa dall'opera sua, con la quale sono stati costruiti i frammenti, le materie prime ed essenziali di quel gran Tempio del Kosovo che presto sorgerà, ricordo della stirpe e della risurrezione, monumento gigantesco e perenne come quello di Vittorio Emanuele a Roma.
La mano di questo improvviso aedo nazionale dello scalpello, di questo nuovo Omero della pietra, questo creatore di mondo sparito – al quale, tenendo conto della sua abbondanza e della sua potenza, le associazioni artistiche internazionali, il comitato, la cittadinanza devono e renderanno certamente onori eccezionali ed indimenticabili, perchè sarà egli uno dei trionfatori nelle mostre del 1911 – sollevò l'enorme statua ignuda di Marko Kraljevic sopra un membruto cavallo danubiano di quelli che le legioni di Traiano riportarono e che prevalsero nella scultura dell'Impero. E impone stupore e terrore questo grandioso simulacro dell'ira nazionale e delle forze indomite frementi e giubilanti che scossero e atterrarono il Moloch asiatico, tiranno della intera Jugoslavia.
All'appello del Mestrovic, dissotterrante atletiche divinità mai viste e plasmante innumeri genti, come coloro che effigiarono la potenza di Roma diffusa per tutto il mondo conosciuto, accorse una schiera di giovani forze, serbi e croati, figli di una madre comune e parlando una stessa lingua, che han voluto e saputo aiutarlo a creare l'arte nazionale, sempre con la stessa ingenuità e spesso con identico vigore, ed a fissare in perpetuo la storia della razza, l'epopea del passato.
Ma – e con molto dispiacere – devo qui fermarmi.
Un'altra volta parleremo singolarmente delle opere migliori, vale a dire di quasi tutte.
(.....)

G.D.

QUANTE ALTRE COSE DA RESTITUIRE...

Fonte: Glas Srbije - http://www.glassrbije.org

La Germania ha oggi restituito alla Serbia la Croce santa che appartiene al monastero Zica.

http://glassrbije.org/I/index2.php?option=com_content&task=view&id=10062&pop=1&page=0&Itemid=26

19.10.2010.

La Germania ha oggi restituito alla Serbia la Croce santa che appartiene al monastero Zica. La croce e' sparita durante la Seconda guerra mondiale. In seguiro essa e' stata esposta per molti decenni, come un dono del milite ignoto, nel Museo della diocesi cattolica nella citta' di Paderborn. La croce e' stata consegnata nell'ambasciata serba a Berlino al vescovo serbo di Zica Hrizostom da parte dell'arcivescovo di Paderborn Hans-Josef Becker. Alla cerimonia hanno presenziato i rappresentanti del Ministero degli Esteri della Germania e i dignitari ecclesiastici dei due Paesi. La Croce santa, dono del re serbo Aleksandar Obrenovic, e' stata deposta nel monastero Zica nell'anno 1889. La croce d'oro e di legno intarsiato di Prizren e' fissata su una base di metallo. Il monastero Zica e' stato costruito piu' di otto secoli fa. Nel corso della Seconda guerra mondiale e' stato bombardato. Un anno dopo la guerra un soldato ignoto della Germania ha regalato la croce alla diocesi cattolica di Paderborn. Nel 1991 il vescovo serbo Tomislav Markovic l'ha vista per caso durante la sua visita al museo della diocesi. La diplomazia serba ha iniziato nel 2003 le attivita' affinche' la croce fosse restituita alla Serbia.


(Un articolo sulla grave contaminazione causata dalla fuoriuscita di liquido tossico da una fabbrica ungherese, che sottolinea il nesso con le privatizzazioni selvagge avvenute in questi anni in Ungheria e nei paesi vicini)


Hungary’s red sludge: a product of capitalist restructuring


By Heather Cottin 
Published Oct 15, 2010 10:17 PM


Hungary has arrested Zoltan Bakonyi, managing director of MAL Aluminium, the privately owned company responsible for the country’s worst environmental disaster. Bakonyi is son of the company’s owner, Arlep Bakonyi, “a businessman who played a central role in the privatization of the country’s aluminum industry and is the largest shareholder of the company.” (New York Times, Oct. 11)

As of Oct. 11, 4,000 people were desperately working to reinforce the reservoir dam owned by MAL that had partially burst a week earlier.

Some 200 million gallons of toxic red sludge created by MAL’s aluminum processing plant in Ajka, Hungary, had flooded out of the reservoir, devastating the villages of Devecser, Somlovasarhely and Kolontar. Eight people died in the flood’s wake and hundreds were hospitalized with alkali burns.

The toxic flood killed all plant and animal life along the beautiful Marcal River. As the sludge flooded the water systems that feed into Europe’s second-longest river, the Danube, the aluminum company denied responsibility. It said the incident was a “natural catastrophe” and insisted on its website that, according to European Union safety standards, the sludge is not considered toxic. (BBC, Oct. 8)

The plant’s owners are Hungarian and own plants in Slovenia and Bosnia, as well — perks for them after a U.S. war destroyed the socialist republic of Yugoslavia and broke it up into competing mini-states.

According to the BBC report, when Hungary put its state assets on the sales block in 1995, three of the country’s richest men bought the aluminum plant in Ajka.


Capitalist structural adjustment


Even before the toxic sludge inundated Central Hungary, Hungarians were suffering.

The World Bank called Hungary’s privatization process the most comprehensive of any East-Central European country. The World Bank was deeply involved in restructuring the Hungarian economy.

Prices for Hungarian products fell 65 percent, killing family farms. The World Bank’s structural adjustment loans were conditioned on the elimination of low-cost housing loans. Residential subsidies also fell 80 percent, causing a housing crisis of huge proportions for the poor. Family subsidies, which included educational, social and medical support, fell 50 percent. Education, public health and government support for families became victims of repeated cuts.

The Hungarian government’s embrace of neoliberal economic reforms meant that the new owners could offer low wages, no limits on overtime, six- or seven-day workweeks, three-month contracts and low safety standards. An Employment Code instituted in 1992 weakened the rights of labor unions and safety standards. Most privatized firms have been unwilling to adhere to safety regulations or to adequately invest in plant improvements.

Meanwhile, automation and the loss of the Soviet market led to a 30-percent reduction in the country’s workforce. This forced wages down by 15 percent in the decade after 1990.

The CIA World Factbook admits that capitalist Hungary currently has an official unemployment rate of 10.8 percent, up 40 percent from 2009. In addition to the social and economic destabilization resulting from the destruction of socialist planning, wages have plummeted for the majority of workers.

A Law on Economic Partnership rewarded the directors of publicly owned companies with the productive assets of those companies, so the privatization process “managed to transfer public assets into the hands of a few, influential individuals.” (www.saprin.org) MAL Aluminium’s owners got very rich.


Red mud, environmental anarchy


A European Commission spokesman said the red sludge was regulated under European Union law but was not necessarily considered a hazardous waste. The factory received a permit from the Hungarian government for handling the sludge in 2006.

International and national environmental laws are written to assist the companies that run the world’s mines, farms, factories and processing plants. The owners of MAL Aluminium claim to have been dealing with the waste according to law. But the neoliberal adjustments the World Bank forced upon Hungary, among other countries, were written to make profits, not to protect people or the environment.

The volume of muck that escaped from the red mud reservoir in Hungary was almost as large as the oil spewed into the Gulf of Mexico after the recent BP well rupture. (Associated Press, Oct. 8)

Like the oil spill, there were warnings before the disaster.

“The wall [of the reservoir] did not disintegrate in a minute. This should have been detected,” Hungarian Prime Minister Viktor Orban told the BBC. (Oct. 8) A blogger noted that on Google Earth, a website offering satellite views, the wall of the containment reservoir was visibly cracked in a photo taken two weeks before the toxic flood. (Observer, Oct. 8)

Disaster management officials expect another huge wave of contaminants to break free of the damaged reservoir containment wall. Hungary’s environmental secretary, Zoltan Illes, said, “We don’t know whether it will last another day or another week.” (Xinhua, Oct. 10)

Illes confirmed that the sludge had a “high content of heavy metals,” including carcinogens. If the sludge dries out, he said, these toxins can be blown by the wind and wind up in the human respiratory system. (BBC, Oct. 8)

Greenpeace found levels of arsenic, mercury and chrome. The arsenic level was “double what is usually contained in such red sludge.” (BBC, Oct. 8) These heavy metals can cause birth defects. They affect the brain, liver, kidneys and, if they enter the soil, the entire food chain.

The Hungarian government has dumped tons of plaster into the rivers feeding into the Danube to neutralize the alkaline levels of the water, but the heavy metals from the toxic sludge threaten the fish and health of all who live along the rivers. Hungarians consider the company’s offer of 110,000 euros for compensation to the villagers an insult to the dead, the injured and those who had to evacuate their homes. (Observer [Britain], Oct. 8)

Capitalist transformation has brought nothing to Hungarian workers and farmers but hardship and devastation.



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(Diese Interview auf deutscher Sprache: 


Interview with Krsljanin: ‘Serbia is an occupied country’

Published Oct 17, 2010 10:26 PM

On Oct. 5, 2000, a coup engineered by U.S. imperialist agencies and supported by Western European imperialist governments overthrew the Socialist Party government in Yugoslavia led by Slobodan Milosevic. At the time — only 16 months after a vicious 79-day U.S.-led NATO air war against the people of Yugoslavia — there was much confusion even among progressive and anti-war forces in the imperialist countries due to the overwhelming anti-Milosevic propaganda in the corporate media. The following interview by Cathrin Schütz with former Milosevic aide Vladimir Krsljanin throws light on those events and the developments in Serbia in the last 10 years.

Ten years ago, on Oct. 5, Yugoslav President Slobodan Milosevic was overthrown. What is hidden behind this “democratic revolution for freedom” celebrated by the Western media and politicians?

For 10 years Serbia had successfully resisted the war against Yugoslavia, which began in the early 1990s. After NATO’s war of aggression against our country ended in 1999 without a clear victory, London and Washington carried out a vast special operation to overthrow Milosevic; it was the mother of all subsequent “color revolutions.”

Through a presidential decree, Bill Clinton gave the CIA carte blanche to carry out a coup in Yugoslavia. Enormous sums were invested in political parties, NGOs [non-governmental organizations] and media. The fragmented opposition [to Milosevic and the Socialist Party of Serbia] was unified under foreign guidance. A coalition of 18 parties under the umbrella called the “Democratic opposition,” or DOS, formed with one goal: overthrow Milosevic.

William Montgomery, the person later named as U.S. ambassador to Belgrade, set up a specially equipped office in Budapest [in neighboring Hungary]. Opposition activists attended courses that were run by CIA agents. The so-called student group known as “Otpor” (Resistance) used the slogan “Gotov je” (He is finished) to conduct the election — this was all a project of Western intelligence agencies.

How did the overthrow take place?

In the Yugoslav presidential election on Sept. 24 the incumbent Milosevic obtained 15 percent fewer votes than Western-backed candidate Vojislav Kostunica. However, since neither of these two leading candidates won an absolute majority, it should have come to a run-off ballot. The DOS parties claimed that Milosevic had falsified the elections and Kostunica was victorious in the first round of voting. Otpor led violent street protests.

DOS wanted to prevent the runoff, although they would have won for sure. Milosevic refused to accept a resignation without a second round of voting.

At the height of the dispute, the Supreme Court issued a strange decision: Because of rumors of irregularities in the first ballot, all votes from the southern Serbian province of Kosovo were simply canceled. Of course, the vote in those districts would have to be repeated.

With Kosovo’s votes cancelled, Kostunica’s vote share increased to more than 50 percent. Milosevic acknowledged the decision and on Oct. 5 congratulated Kostunica’s victory. This step, which had barely been reported, was buried in what was a media-constructed “popular uprising.” As Otpor set the Parliament on fire, the Kostunica forces immediately and completely seized the government apparatus. With this coup they avoided a controlled handover of power.

It was thus not simply an electoral victory for the opposition?

The years-long image of Milosevic as a “dictator” in the Western media would have appeared absurd if he were simply removed by a Democratic vote. The West didn’t want to risk this loss of credibility. Mainly though, the “revolution” needed to be carried out violently to shorten the time until the new regime could allow far-reaching Western interventions in the state and economy, thus making the transformation irreversible.

After Oct. 5, government offices and businesses were occupied by so-called crisis units, and those previously in charge were dismissed. After a few months 40,000 officials had been illegally removed from office. Today’s economy minister, Mladjan Dinkic, began his illustrious career by using machine guns to take over the National Bank.

Dinkic’s party, G17 Plus, was originally set up as an NGO by the West. Despite its marginal election results, for the last 10 years it has controlled public finances under successive governments. Dinkic’s first act as a national bank director was to dissolve the four largest Serbian banks at the behest of the International Monetary Fund — with the result that the Serbian banking system is now in foreign hands, and every year 6 billion euros flow out of the country. I remember Milosevic’s words before the election: “They are not targeting Serbia to grab Milosevic, but Milosevic to grab Serbia.”

But beyond the Western propaganda, there was in reality a great discontent among the population [in 2000]. ... Under the guidance of and in close collaboration with their foreign sponsors, the opposition understood how to blame on Milosevic the suffering caused by Western sanctions and NATO’s war and how to make big promises should they win the elections.

The bombs had destroyed the economy and infrastructure, which aggravated the social discontent. When the government used up the remaining government funds for repairing the main road and rail links, the voters felt even more pain and were susceptible to opposition propaganda that claimed voting out Milosevic would stop the foreign pressure and increase the standard of living. It is in this sense that one should understand White House spokesperson Ari Fleischer’s comments that the war was part of the “regime change” strategy of NATO and the United States, because it weakened Milosevic and led to his fall.

Why did the leading Western countries carry out such an aggressive intervention policy in Yugoslavia and Serbia?

Since the early 1990s there have been not many different wars in Yugoslavia — in Slovenia, Croatia, Bosnia, Kosovo — it was all one war: that of the West against Yugoslavia. In this statement I fully agree with Milosevic. Former U.S. President George Bush Sr., while speaking during the celebration of German reunification, discussed the elimination of the consequences of the Versailles Treaty in Europe. A key point regarding Versailles at the beginning of the 20th century was to weaken Germany in favor of the Eastern European countries, which Germany had considered as satellites within the “Central Europe” doctrine.

Thus, those in Versailles for the first time recognized Yugoslavia as a state. Until Yugoslavia’s breakup, Catholic and Muslim groups in Yugoslavia were used by Western powers to counteract Russian influence, which was based on historical closeness with Serbs. In the 1990s, however, a resurgent Germany’s role was to serve as a NATO member to weaken Russia and Eastern Europe, which was to be transformed into a “Euro-Atlantic region” — but of course only as a colony. In line with the long-cherished desire of the British, Serbia especially should be weakened as a potential ally of Russia.

With Milosevic it could never happen. Kosovo is now home to Camp Bondsteel, the largest U.S. military base in Europe, in the area of the proposed major oil and gas pipelines from the Caspian Sea.

Did Milosevic’s fall pay off for Serbia’s population?

Immediately after Oct. 5, 2000, the Milosevic-SPS dominated Serbian Parliament was rendered powerless through the formation of a transitional government. Early parliamentary elections were held. DOS won a two-thirds majority and named Zoran Djindjic, the number one favorite of the West, as prime minister, the most powerful office of Yugoslav politics. Thus, the coup was completed.

Serbia is now an occupied country. Foreign “advisers” are sitting in government, army, police and secret service. The economy is flattened; the banking system in foreign hands. Privatization and sale of large companies bring poverty and hunger to Serbia. The army consists of only four brigades; the media have been silenced, the politicians corrupted. Montenegro has separated and Kosovo has declared its independence.

And while before Oct. 5, 2000, the Belgrade District Court tried in absentia and convicted the NATO leaders of war crimes, sentencing them to 20 years in prison, the sentence was repealed shortly after the coup. The head of the government TV station was found responsible for the death of his staff — those who died from NATO bombs. Afterwards Milosevic and several high-ranking state officials and generals were delivered to the NATO Inquisition in The Hague, in violation of the Constitution.

Thus nothing has improved. On the contrary, our remote-controlled president and the choir of the bought politicians and “experts” talk about great victories on the road to joining the European Union. But it seems obvious that this way is not the right way.

Published Oct. 6 in the German daily newspaper Junge Welt. Translated by Workers World managing editor John Catalinotto.


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A Trieste, a pochi metri dal Conservatorio - dove c'è oggi solo una lapide illeggibile a ricordare la strage dell'aprile 1944 (56 impiccati lasciati penzolare nel cortile) - grazie a "generose" elargizioni private è stato aperto un Museo e Centro studi del Fascismo repubblichino. All'inaugurazione sono intervenuti diverse generazioni di reduci fascisti e militanti neo-fascisti.
La cronaca dell'inaugurazione della sede dell'Istituto Panzarasa, con note e appendici, che di seguito riportiamo, è a cura della redazione de La Nuova Alabarda: http://www.nuovaalabarda.org/

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http://ilpiccolo.gelocal.it/dettaglio/trieste-la-storia-dei-vinti-nellistituto-panzarasa/2527947

Trieste. La storia dei vinti nell'Istituto Panzarasa

Cinquemila libri e riviste, divise, cimeli e distintivi, più di ventimila immagini anche inedite per raccontare le vicende storiche e umane di chi, dopo l’8 settembre 1943, scelse di combattere con la divisa dei reparti della Repubblica sociale italiana. Un "museo" che Carlo Alfredo Panzarasa mette a disposizione della città
di Pietro Comelli

TRIESTE. Trecento metri quadrati ospitano l’altra storia. Quella dei ”vinti”. Non vuole essere un museo e nemmeno un covo di reduci: quelle stanze al terzo piano di via Ghega 2 - fra 5mila libri e riviste, divise, cimeli e distintivi, filmati più 20mila immagini anche inedite - vogliono raccontare soprattutto le vicende storiche e umane di chi, dopo l’8 settembre 1943, scelse di combattere “ dalla parte sbagliata”, con addosso la divisa della Decima Mas e degli altri reparti della Repubblica sociale italiana. Un periodo storico, quello della ”guerra civile” e dello scontro fratricida tra fascisti e partigiani, che l’Istituto di ricerche storiche e militari dell’età contemporanea Carlo Alfredo Panzarasa mette a disposizione dell’intera città e non solo. 

Sarà inaugurato sabato alle 15.45 - nel corso di una tre giorni in programma da venerdì, con incontri, conferenze e libri ribattezzata ”tutta un’altra storia” - aprendo ufficialmente le porte a storici, studenti e semplici appassionati che avranno a disposizione non solo i documenti, ma anche una stanza informatica con computer, scanner e fotocopiatrice. 

Un investimento non di poco conto, vicino ai 500mila euro, portato avanti da Carlo Panzarasa, coinvolgendo anche un suo amico e il figlio di un ”Pow-Non”. È la sigla dei prigionieri di guerra non cooperatori, a cui l’istituto riserva una stanza, che dopo quel rifiuto durante il secondo conflitto mondiale finirono nel campo di Hereford in Texas. 

Classe ’26, residente in Svizzera, Panzarasa è un signore distinto e dai modi gentili. È stato un combattente nella Compagnia Volontari di Francia del Battaglione Fulmine: «Sono nato a Parigi, dove la mia famiglia era emigrata nel 1912. Dopo l’8 settembre ’43 raggiunsi la base atlantica Betasom di Bordeaux ed entrai nella Decima Mas - ricorda - Il 28 aprile ’45 mi trovavo a Thiene, io riuscii a tornare a casa mentre altri finirono imprigionati o trucidati dai partigiani...». Ma i libri di Pansa sui ”vinti” non bastano più. Sono storie che loro, i ”repubblichini”, conoscevano già. Panzarasa non ha solo messo mano al portafogli e, infatti, tutto il suo archivio, fotografico e cartaceo, assieme al materiale sulla Decima Mas (riconosciuto dal ministero dei Beni culturali come ”di interesse storico particolarmente importante”) è stato donato all’istituto e utilizzato per la pubblicazione di alcuni libri. Altro materiale storico si è aggiunto e, almeno nella volontà del fondatore,!
 altro arriverà. 

A Trieste, una scelta che Panzarasa spiega così: «Questo è il posto giusto, la città adatta a raccogliere questi documenti proprio per la sua storia - dice - Ho trovato e fatto amicizia con alcune persone di fiducia, qui c’è la sensibilità giusta per raccontare quella scelta. Il confine orientale ha vissuto delle battaglie epiche e così Trieste mi ha adottato». Già, perché i reduci («che brutta parola, diciamo veterani» replica Panzarasa) sono gelosi delle proprie cose. Un patrimonio al quale troppo spesso, però, figli e nipoti non danno un significato storico e così, un giorno, tutto finisce all’asta nei centri di collezionismo, dai rigattieri... Chi offre di più si porta a casa un cimelio del fascismo, fra nostalgia e collezionismo. «Anch’io sono geloso delle mie cose, ma è arrivato il momento di metterle a disposizione di tutti - dice Panzarasa - e sto invitando anche gli altri miei comilitoni a farlo. Almeno lascino un testamento scritto con le loro volontà... ormai non !
siamo rimasti in tanti». Una volontà di aprirsi, specie alle nuove generazioni, dopo aver tenuto per anni tutto per sé. Non è un caso che - accanto alle iniziative da tenere nella sede dell’istituto, che ha una sala conferenze con un’o ttantina di posti a sedere - l’istituto Panzarasa vuole affidare a un gruppo di ricercatori la raccolta di materiale e testimonianze. Ecco che le testimonianze dirette di un centinaio di combattenti della Rsi sono state raccolte in altrettante interviste nel documentario ”Generazione Decima” che sarà proiettato sabato in anteprima. «Siamo convinti che domani uno studente universitario, che si vuole laureare in storia contemporanea, oltre all’istituto storico della Resistenza - dicono in via Ghega 2, mentre gli operai allestiscono scaffali e sistemano l’impianto elettrico - approfondirà la sua ricerca per la tesi attingendo anche da questi archivi». Quasi una ”pacificazione”, delle fonti storiche. 

RIPRODUZIONE RISERVATA
(15 ottobre 2010)

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INAUGURAZIONE DELLA SEDE DELL’ISTITUTO CARLO PANZARASA A TRIESTE, SABATO 16 OTTOBRE 2010, ORE 15.45.


Alla presenza di circa un centinaio di persone (per la maggior parte “reduci” di una certa età, ma non mancavano alcuni giovani), è stato inaugurato a Trieste l’Istituto di Ricerche Storiche e Militari dell'Età Contemporanea Carlo Panzarasa (via Ghega 2, a poche decine di metri dalla stazione centrale).

Al tavolo dei relatori erano presenti Carlo Alberto PANZARASA [i], Edoardo FORNARO [ii] e Gianfranco GAMBASSINI [iii].

La presentazione è stata fatta da Marina MARZI[iv], che ha ringraziato le seguenti persone ed associazioni:

tutti gli intervenuti, alcuni dei quali anche dall’estero (Sudafrica, Svizzera, America…) e da altre città italiane;

la Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste, per il contributo di 10.000 Euro;

il professor Mario MERLINO [v], che ha seguito da tantissimi anni la creazione dell’Istituto;

Nino ARENA [1], presente all’iniziativa, che ha donato molti dei suoi libri;

i tre giovani Andrea (laureato in storia), Stefano e Nevio, presentati col solo cognome, che hanno fatto i lavori di ristrutturazione dell’appartamento;

le autorità presenti: per il Governo il sottosegretario Roberto MENIA [vi]; per la Regione Autonoma FVG il presidente della Commissione Cultura Piero CAMBER[vii]; per il Comune di Trieste il vicesindaco Gilberto Paris LIPPI [viii].

Prima di dare la parola a questi rappresentanti istituzionali, MARZI ha invitato a parlare l’ausiliaria del Battaglione “Lupo” Fiamma MORINI (figlia di una crocerossina della I guerra mondiale, poi fondatrice del Fascio femminile, e del fondatore del Fascio maschile di Lonigo) che ha donato all’Istituto le medaglie della madre; Carlo PRADERIO (del Battaglione guastatori alpini “Valanga”); ed il triestino, ora trasferito a Genova, Mario Isidoro NARDIN (“Gamma”), che ha narrato le proprie esperienze.

Dopo avere cercato di arruolarsi in Marina a 16 anni e mezzo, venne rimandato indietro e si arruolò a 17 anni nel 1940.

Prima sede la caserma di San Bartolomeo che fu poi la caserma di Junio Valerio Borghese. Successivamente a Marina di Massa, poi nella scuola sommergibilisti, infine in base a Brindisi, dove prese servizio in uno dei 17 “africani” che la Marina fascista volle dare come nomi a propri mezzi: Beilul (tra gli altri il Shirè, l’Adua…).

Mandato in servizio allo “scoglio” di Lero, da dove, dopo una strenua resistenza, furono mandati via a fine luglio 1943, “quando l’Italia era in ginocchio”, dopo avere colpito 2 caccia inglesi; inviato a Monfalcone, vi si trovò l’8 settembre.

Successivamente andò a Verona con altri 5 sommergibilisti: i tedeschi avevano bloccato Verona in quanto passaggio verso il Brennero, nel frattempo il loro comandante aveva affondato il sommergibile, loro furono rimandati a Trieste, città che rientrava nel disegno tedesco del Litorale adriatico, a quel punto si pose il problema di cosa fare, dopo un incontro con il Federale NARDIN fu mandato tra i mezzi d’assalto. Ebbe come comandanti FERRARO, e WOLK; fu arrestato dagli Inglesi (ma su questo punto non è stato molto chiaro, perché ha poi detto di essere stato inviato in un campo di internamento dove conobbe Nino BUTTAZZONI [ix], che però fu arrestato nel dopoguerra).

Il motto dei “Gamma” era “fare e non dire”, cioè un lavoro silenzioso: erano circa 100 persone, 80 delle quali sommozzatori esperti; il loro compito era di sabotare le navi nei porti. I “Gamma” nuotavano, anche per chilometri, di notte, per piazzare le mine sotto le navi. Avevano una base a Valdagno ed una a Venezia (a Venezia attaccarono anche nel porto, anche navi ospedale, ma questo non è chiaro a quando si sarebbe riferito, dato che Venezia rimase nella RSI fino alla fine di aprile 1945).

Gli ordigni consistevano in 12 chili di esplosivo che i Gamma andavano a prendere al confine (quale confine non si è capito) perché non si fidavano di quello che potevano avere in altri (quali?) modi; uno dei Gamma inventò un sistema particolare di mina che esplodeva mediante un meccanismo a croce di S. Andrea che se si avvitava non succedeva niente ma se si svitava esplodeva (o forse il contrario, non sono riuscita ad annotare esattamente). Commento di NARDINI: “una cosa meravigliosa”.

Nel dopoguerra lavorato a recuperi di residuati bellici nella zona di Cavallino, tra Caorle e Venezia, dove era pieno di aerei ed altri mezzi da guerra semidistrutti.

MARZI ha ripreso la sua presentazione con un accenno al fatto che gli Istituti storici sono solitamente “monotematici”, ed ha poi dato la parola ai rappresentanti istituzionali.

MENIA ha affermato la necessità di riconoscere anche a coloro che poi si dirà che stavano dalla parte sbagliata il valore delle loro idee; la necessità della pacificazione sta nel riconoscere con obiettività le scelte altrui.

LIPPI ha ricordato di essere nipote di un prigioniero nel Texas “non collaborante”, ed ha asserito che questo Istituto storico deve servire come messaggio ai giovani.

CAMBER ha ricordato che nella sua famiglia (il padre, avvocato, era stato alpino della Monterosa) venivano spesso a mangiare persone come Spartaco SCHERGAT[x] (cui la medaglia d’oro non procurò altro che un posto di bidello all’Università) e Maria PASQUINELLI [xi], “donna bellissima”, che dopo essere stata rilasciata venne alcune volte a Trieste e si fermò a pranzo da loro.

Tra gli altri ricordi, intorno al 1976 si recò in Germania col padre ad un raduno dei reduci della Monterosa, che avevano fatto l’addestramento nella base militare di Metzingen (nel Baden-Wuerttemberg) nel 1943. CAMBER padre avrebbe voluto entrare a visitare il posto, ma solo dopo avere detto ai piantoni che era stato addestrato lì questi si sono schierati con tutti gli onori e li hanno portati in jeep a visitare il campo.

MARZI ha ripreso il suo intervento dicendo che Trieste “è la città giusta dove doveva nascere” un Istituto come questo.

Ha poi preso la parola GAMBASSINI, che si è presentato come un aderente alla RSI che ha avuto il coraggio di dichiararlo da sempre e di esserne orgoglioso (applausi a scena aperta), ed ha in comune gli stessi ideali di PANZARASA.

Ricorda il comandante Giuseppe PARELLO, “Fulmine”, uno dei “longobardi di Francia” [xii], una memoria comune da onorare, col quale si trovò rifugiato nel Seminario romano maggiore e lì divennero amici di PANZARASA.

Il senso di questo Istituto è di continuare i loro ideali.

L’ingegner Edoardo FORNARO, uno dei tre finanziatori dell’Istituto (il secondo è PANZARASA mentre il terzo vuole mantenere l’anonimato, ha detto MARZI), ha narrato di essere figlio di un prigioniero non cooperante, che insegnava in Libia (dove lui è nato); il padre fatto prigioniero in Tunisia (evidentemente non era solo un “insegnante” fu poi inviato a Hereford nel Texas. FORNARO ha ribadito che a 65 anni di distanza non si dovrebbe più avere remore su cosa dire o non dire perché ormai si tratta di parlare di fatti storici. La storia non la fanno solo i vincitori: ha poi spiegato di abitare a Lugano, a poca distanza da PANZARASA ma di averlo scoperto solo recentemente.

I prigionieri di Hereford pubblicavano un giornale dal titolo “Volontà”, tra di essi c’erano lo scultore Alberto BURRI, lo scrittore Giuseppe BERTO, Gaetano TUMIATI. I libri dei prigionieri, ha aggiunto, sono stati chiosati in modo da dimostrare l’indegno comportamento che i prigionieri avrebbero avuto, questo il motivo per pubblicare i libri per conto proprio.

Avendo necessità di “un posto nostro dove dirigere la nostra memoria”, hanno creato questo l’Istituto, e ringrazia l’ingegnere Emilio COCCIA, presidente dei prigionieri in Sudafrica, lì presente.

Cosa da ribadire, secondo FORNARO, è che non sono state rispettate le convenzioni di Ginevra, ad esempio quando i prigionieri sono stati separati, la truppa inviata in Sudafrica a lavorare dove c’era bisogno di manodopera, mentre gli ufficiali in India. Chi parlava di portare la libertà avrebbe dovuto quantomeno rispettare le convenzioni sui prigionieri.

Osservazione personale: chi non si dichiarava portatore di libertà era forse esente dal rispetto delle convenzioni internazionali, dato che non mi sembra che minare navi ospedale sia rispettoso di alcunché.

FORNARO ha aggiunto che ora “abbiamo una base comune”.

Necessario studiare i 5 anni dal 1940 al 1945 che però sono anni che abbracciano tutto il 900, non per niente una stanza dell’Istituto è sede dell’Associazione culturale 900 [xiii] La II guerra mondiale non è un evento nato per caso o per la follia di qualche dittatore, ma si riferisce alla I guerra mondiale, agli anni successivi ed anche quelli precedenti, quando ci furono tante ingiustizie che rimangono ancora oggi. È per un senso di giustizia, ha detto, che dobbiamo evidenziare le cose che abbiamo fatto.

Infine PANZARASA ha concluso ma si è limitato a ringraziare tutti e ricordare gli altri commilitoni: SAVINO, ROBERTI e Pier Benito FORNARO del “Valanga” e Carlo PRADERIO.

 


[1] Vedi nota in APPENDICE



[i] Carlo Alberto PANZARASA, del battaglione “Fulmine”, “volontario di Francia” (vedi ultima nota).

[ii] Figlio del sottotenente Pietro FORNARO, prigioniero “non collaborante” a Hereford, nel Texas.

[iii] Gianfranco GAMBASSINI: toscano, tra i fondatori della Lista per Trieste, orgoglioso reduce della RSI, ha scritto un libro di memorie in cui rivendica di essere stato un fucilatore, fervente antisloveno.

[iv] Marina MARZI, oggi animatrice dell’Associazione 900 e membro del Consiglio direttivo dell’Associazione X Mas, nel 1990 si trovava, assieme al suo primo marito Giampaolo Scarpa (già esponente di Avanguardia nazionale, pluridenunciato sia per atti di violenza politica che per tentata ricostituzione del partito fascista), nell’auto guidata da Stefano Delle Chiaie, coinvolta in un incidente nel quale perse la vita la convivente di Delle Chiaie, Leda Pagliuca Minetti. Nel 1992 fu candidata a Trieste nella lista della “Lega delle leghe”, creata da Delle Chiaie.

[v] Mario Michele MERLINO, oggi filosofo, nel 1969 infiltrato nei gruppi anarchici romani, sosia di Valpreda, andò in Grecia con Stefano Delle Chiaie ed altri ad imparare le tecniche di infiltrazione.

[vi] . Segretario del Fronte della Gioventù negli anni 80, coinvolto in svariati episodi di tipo squadristico, non si contano le foto in cui viene ritratto mentre fa il saluto romano. Parlamentare di AN, oggi finiano di ferro.

[vii] Il padre di Piero CAMBER, l’avvocato fratello del parlamentare Giulio (Forza Italia)

[viii] Paris Lippi, fratello di Angelo (animatore della “900” assieme a Marina MARZI), militante del Fronte della Gioventù, fu arrestato il 1° luglio 1981 per ordine della magistratura di Bologna per reticenza e falsa testimonianza in merito a soggiorni nel Libano, in campeggi paramilitari dei falangisti assieme ad altri due giovani esponenti di destra, Fausto Biloslavo (oggi giornalista noto soprattutto per i suoi reportages di guerra) ed Antonio Azzano, tutti e tre assistiti dall’Avvocato Bezicheri.
[ix] Nino BUTTAZZONI, comandante dei Nuotatori paracadutisti della Decima.

[x] Nino ARENA, allievo pilota, poi paracadutista della “Folgore” della RSI, combatté in Friuli Venezia Giulia durante la seconda guerra mondiale, autore di vari testi di storia militare, agiografici delle forze armate della RSI.

[xi] SCHERGAT Spartaco, palombaro della Decima, assieme ad Antonio Marceglia fu autore dell’affondamento della corazzata britannica “Queen Elizabeth” nella baia di Alessandria il 19/12/41.

[xii] PASQUINELLI Maria, già insegnante di mistica fascista, si recò come crocerossina in Africa e lì si travestì da uomo per combattere con l’esercito italiano ( per questo motivo fu espulsa dalla CRI); dopo l’8/9/43 giunse nella Venezia Giulia per raccogliere notizie sulle foibe e preparò una relazione “sul problema giuliano” da consegnare alla “Franchi” (l’organizzazione di Edgardo Sogno); funse da ufficiale di collegamento tra i servizi segreti della X Mas e gli occupatori nazifascisti nella Venezia Giulia, e tra il ‘44 ed il ‘45 si impegnò a cercare contatti operativi tra la Divisione partigiana friulana “Osoppo” e la Decima stessa in modo da creare un fronte comune “antislavo” contro la brigata Garibaldi . Il 10 febbraio 1947, in occasione della firma del trattato di pace, andò nella città di Pola dove uccise a bruciapelo il generale britannico Robin de Winton, in “segno di protesta” perché l’Istria e la Dalmazia erano state assegnate alla Jugoslavia. Condannata a morte dalla Corte Alleata, la pena le fu commutata nell’ergastolo e fu trasferita in Italia, dove, alcuni anni dopo, le fu concessa la libertà vigilata. Da qualche anno è in atto una campagna (tramite pubblicazioni, conferenze, addirittura letture sceniche) che vuole dare un’interpretazione eroica del suo esecrabile atto assassino.

[xiii] LONGOBARDI DI FRANCIA

in http://digilander.libero.it/fiammecremisi/eramoderna/altri3.htm

leggiamo:

alla fine dell'estate in Veneto la quarta compagnia composta di Volontari di Francia. Questi uomini erano Italiani emigrati in Francia che si erano presentati volontari dopo l'8 settembre al comando BETASOM (sommergibili italiani) di Bordeaux per essere incorporati nel battaglione Longobardo della Divisione Marina Atlantica della R.S.I.  Alla data del 6 giugno 1944 (sbarco in Normandia) il reparto era diviso in piccoli nuclei nell'artiglieria da costa tedesca che contrastava lo sbarco. 4oo uomini del Longobardo rientravano quindi in Italia il 18 Giugno al comando della Piazza Navale di Venezia. L'impiego in operazioni anti partigiane nella pianura Veneta, ne ridusse per defezioni l'organico di un terzo. I restanti dopo lo scorporo di un gruppo che passava alla Divisione SS italiana andarono a costituire la 4a compagnia del Fulmine. Con questi uomini alla fine del 44 il Fulmine iniziava in Italia Orientale un nuovo ciclo di lotta antipartigiana.  Dopo un primo impiego contro la Osoppo, a metà gennaio 1945 si scontrava a Selva di Tarnova coi partigiani di Tito. Rimasti accerchiati da oltre 2.000 uomini, resistettero per tre giorni fino all'arrivo dei soccorsi. La Divisione era in attesa del cambio quando alle prime ore del 19 Gennaio un numeroso nucleo di partigiani Jugoslavi attaccarono le posizioni tenute dal battaglione Fulmine.

In http://www.decima-mas.net/apps/index.php?pid=98 (si trova anche elenco dei componenti)

Terza compagnia - Volontari di Francia

La Terza Compagnia era formata da giovani italiani figli di emigrati in Francia che avevano sentito il richiamo della Patria tradita, anche se non mancano, tra gli effettivi, militari del disciolto Regio Esercito, che al momento dell'armistizio si trovavano fuori dai confini d'Italia e che videro nel tricolore che sventolava a Bordeaux un punto di richiamo per poter proseguire la guerra con l'alleato tedesco.
Vengono aggregati ad Ivrea nel luglio del 1944 per sopperire ad una notevole diminuzione dell'organico del Btg. manifestatosi nel trasferimento da Pietrasanta al Piemonte. Infatti in concomitanza di questo trasferimento si era appresa la necessità momentanea di condurre operazioni di controguerriglia contro elementi che attentavano all'incolumità delle forze della R.S.I. presenti in quella regione. Molti non accettarono questo, anelando (come tutti) solo di raggiungere il fronte, e se ne andarono. Di qui l'inserimento della Terza Compagnia dei Volontari di Francia.
Questa Compagnia era presente già da qualche mese sul suolo Patrio ed aveva avuto il battesimo del fuoco ed i suoi primi caduti. Avevano avuto un periodo di addestramento in Francia e nonostante la giovane età media, erano tutt'altro che impreparati. Parlavano quasi esclusivamente in francese e questo creava un certo distacco dalle altre Compagnie, ma solo in questo. Parteciparono a tutti i fatti salienti del Btg. dando sempre il massimo ed il loro immancabile tributo di sangue.
La Terza Compagnia si sciolse a Thiene il 29 aprile del 1945.
ARMAMENTO - Mitragliatrici Breda mod. 37 - Fucili mitragliatori Breda mod. 30 - Mortai Brixia da 45 mm - Armi individuali
ORGANICO: La Compagnia era strutturata su tre plotoni.
Possiamo quindi individuare gli stessi a seconda dell'armamento impiegato: un plotone di mitraglieri pesanti e leggeri, uno di mortai da 45 e l'ultimo di fucilieri. Nell'elenco sono compresi tutti coloro che sono transitati per pochi mesi o che ne hanno fatto parte sino alla fine. Qualcuno potrebbe essere rimasto in Francia senza seguire il gruppo, combattendo sino alla fine delle ostilità con le forze armate tedesche.

 

APPENDICE


Si è svolto sabato 29 settembre a Roma, promosso dall’associazione culturale Raido, il convegno dal titolo “Il passaggio del testimone – Dalla Rsi ai militanti del Terzo Millennio”. Presentati da un membro della comunità di Raido, sono intervenuti: Rutilio Sermonti, combattente della Seconda Guerra mondiale, storico e scrittore, Marco Pirina, fondatore del centro studi e ricerche “Silentes Loquimur”, Marina Marzi dell’”Associazione 900” di Trieste, Carlo Panzarasa, combattente Rsi, storico, scrittore e istitutore dell’omonima fondazione e Mario Merlino, poeta e autore teatrale. Hanno presenziato e animato l’evento anche molti reduci nonché delegazioni dei vari corpi dell’esercito repubblicano, dalle fiamme bianche, alle Ausiliarie del SAF, alla associazione Campo della Memoria della X MAS.
Il moderatore, dopo i saluti ed aver sottolineato l’importanza della ricorrenza del 29 settembre, giorno nel quale la Guardia di Ferro romena usava prestare giuramento sul nome dell’arcangelo Michele e genetliaco di Luigi Ciavardini, vittima di una giustizia “alla birmana”, ha dato la parola a Rutilio Sermonti. Uomo d’azione e di lettere, con la sua voce stentorea ed “esplosiva” come lo scoppio di una Srcm, ha dapprima sottolineato la formidabile carica motivazionale che spinge tanti giovani a tutt’oggi, ad “abbracciare” gli ideali del Ventennio. Ancora risuonano le sue parole: “Sessant’anni di antifascismo non sono riusciti a cancellarne venti di fascismo”; ”Essere camicie nere quando tutti le indossavano era facile; esserlo oggi è sintomo di grande coraggio e di temperamento anticonformista”, Subito dopo ha posto l’accento sull’impellente esigenza di “calare” questi ideali nella vita quotidiana. La purezza adamantina, dura e inossidabile va bene, ma bisogna rifuggire dalla facile tentazione di chiudersi in uno sterile narcisismo contemplativo fine a se stesso, in un autocompiacimento snobistico, in una estetica autoreferenziale, improduttiva quanto autolesionistica. L’idea ha bisogno di essere tramandata alle generazioni del Terzo Millennio, e tutto ciò necessita di gente che sappia offrire esempi calzanti di comportamento e di coerenza ideale, vivendo a contatto con coloro che, insofferenti del fondo in cui è precipitata la nostra Patria, possano guardare a noi come a preziosi punti di riferimento. La volontà deve essere la cifra distintiva dell’uomo del nostro schieramento. Volontà che va forgiata con tenacia e perseveranza. Come esempio ha portato se stesso, giovane ufficiale agli esordi sul fronte albanese, che al primo impatto con la guerra dovette ingaggiare una dura lotta per imporsi l’autocontrollo contro l’impulso della paura che attanaglia sempre il “pivello” alle prime armi. Dopo un anno di fronte, ormai corazzato e con addosso la scorza del veterano rotto a tutti i cimenti, il giovane Rutilio era riuscito così bene nel temprare la virtù del coraggio che la paura non solo non l’avvertiva più, ma veniva addirittura ripreso dai superiori perché considerato un temerario, suscitando l’ammirazione dei commilitoni del Terzo Reich. Sermonti, dopo avere colpito con possenti bordate dialettiche l’idea di democrazia, stigmatizzando l’esistenza dietro le quinte parlamentari, di una nascosta ed intelligente elite - pur se non nominato, Pareto era il convitato di pietra nella lucida analisi dell’oratore - ha anche ammonito la dispersa galassia della destra radicale a ritrovare compattezza e unità di vedute. L’attuale panorama di frammentazione e l’alto tasso di litigiosità non sono di aiuto a nessuno: “che volete che conti, nel panorama politico, uno 0,1% o l’1%? Anche nel nostro ambiente il viziettopartitocratico ha contagiato e infettato anime e corpi col virus della sterile polemica”, contribuendo anzi alla perdita di credibilità di un ambiente che, monolitico, avrebbe molte più possibilità di successo. In rappresentanza dell’Istituto Storico della Rsi, la camerata Elisa ha svolto un breve presentazione ed ha invitato i presenti a sostenere l’attività e visitare gli archivi dell’istituto a Terranuova Bracciolini (Ar). Il relatore successivo, Marco Pirina, ha dapprima narrato con parole struggenti le sue amare vicissitudini di bimbo reso precocemente orfano dalla mano vigliacca e assassina di un partigiano. Successivamente ha illustrato all’uditorio le ultime missioni felicemente portate a conclusione, tra mille difficoltà, dal centro ricerche da lui fondato, “Silentes Loquimur”. Si è trattato dell’individuazione, nelle campagne di Poviglio (Reggio Emilia), dei poveri resti di uomini e donne uccisi a tradimento, a guerra ormai finita, nel famigerato “triangolo della morte” dai banditi rossi successivamente insigniti del rango di “resistenti”. Quindi ha rivendicato il contributo al recupero delle salme di un manipolo di guardacoste del Nord catturati e infoibati vivi - sui loro corpi fracassati non sono stati rilevati fori di proiettili - dagli “eroici” partigiani della brigata “Cichero” in una forra vicino Campastrino (La Spezia). Carlo Panzarasa ha, a sua volta, narrato l’avventurosa scoperta e il recupero in Slovenia dei brandelli di un manipolo di soldati della RSI fatti prigionieri e massacrati dai titini in seguito alla battaglia di Tarnova. Dilaniati dal filo spinato e decapitati, quel che ne è rimasto degli sfortunati difensori dei confini orientali d’Italia è stato fortunosamente riesumato, raccolto in un sacco e fatto passare, eludendo i controlli, attraverso i blindati confini della Slovenia da Panzarasa stesso, il quale, sempre personalmente, ha provveduto poi a inumare le reliquie in Patria, a Redipuglia. Un’impresa tanto pericolosa quanto audace, che fa di Carlo Panzarasa un eroico, disinteressato difensore dell’italianità oltraggiata dalla barbarie slavocomunista. Marina Marzi dell’”Associazione 900” di Trieste, ha segnalato ai presenti la prossima apertura, resa possibile grazie al contributo di Panzarasa, di un archivio storico privato e di una biblioteca pubblica sulla Rsi e sui fatti di Trieste del 1953, auspicando l’opportunità di creare una rete fra le varie istituzioni culturali esistenti in Italia per approfondire e diffondere la conoscenza della vera storia Italiana del Novecento. Una storia che nessun libro di scuola riporta, in quanto, in ossequio all’ideologia risultata vincitrice dell’ultimo conflitto, i fatti alle nuove generazioni “devono” essere narrati secondo i canoni della vulgata resistenziale filotitina e filoslava. Canoni assolutamente e politicamente corretti: niente foibe, niente esodo giuliano-dalmata, niente pulizia etnica, niente stragi. L’ultimo esempio di servilismo filoslavo dell’amministrazione Illy è stata l’imposizione del bilinguismo italiano-sloveno nella Provincia di Trieste. “Voi romani” - ha affermato in sostanza la Marzi – “date per acquisite italianità e identità, considerate pressoché sinonimie d’appartenenza, e nessuno, al governo o all’opposizione, può a Roma seriamente dubitare o inficiare l’intangibilità dell’idioma di Dante o la connotazione etnica del ceppo italico sia nella toponomastica sia nell’arena pubblica e politica. A Trieste tutto questo non è ancora dato per scontato”. Nel capoluogo giuliano c’è stato chi, complice il sindaco del caffè, ha pensato bene di appiccicare, accanto alle targhe che in italiano recano l’intestazione di vie, piazze e monumenti, anche pleonastiche patacche in versione slovena. Così, malgrado i grandi problemi cittadini, regolarmente lasciati irrisolti da una giunta inetta, c’è chi considera di gran lunga più importante stabilire che Trieste si chiami soprattutto “Trst”. E, per qualche voto in più, i lecchini filoslavi assisi sugli scranni di Palazzo della Provincia, rischiano di compromettere definitivamente il già sfilacciato tessuto etnico e sociale della città di San Giusto. E poi dicono che il caffè rende più lucide le idee. Mario Merlino, uomo di cultura icona da sempre dell’immaginario sapienziale della cultura non conforme e radicale, ha testimoniato con la sua militanza di “sessantottino della parte sbagliata” la necessità di passare appunto il testimone della tradizione alle nuove generazioni. Il trio Paola, Yuri e Giorgio ha magistralmente declamato brani tratti da memorie di uomini e ausiliarie della Rsi. Attraverso i dialoghi sapientemente interpretati dai tre, è stato possibile tornare con la mente e con il cuore a respirare l’atmosfera disperata ed esaltante della esperienza della Rsi. Le parole dei personaggi narrati promanavano amarezza, stupore, presagio della fine imminente, sorpresa e sconcerto dinanzi a tanto odio e tanta violenza, ma anche la ferma consapevolezza e una ascetica accettazione di un destino di gloria. Una gloria che si sarebbe presto tinta del colore del sangue e del martirio. Una testimonianza dura da accettare, tuttavia necessaria per riscattare l’onore della Patria tradita e per consegnare alle generazioni a venire un’immagine dell’Italia monda dalle lordure badogliane. Da segnalare gli intermezzi musicali che hanno ornato l’evento con atmosfere suggestive ed emozionanti. Mario e Marco degli Hobbit, Francesco Mancinelli, Massimiliano e Fabian degli Imperium, hanno commosso l’uditorio al suono delle ballate che hanno scandito gli anni di eroica militanza e di lotta per le piazze di tutta Italia nel ricordo del sacrificio compiuto dai combattenti dell’onore. Tutte canzoni molto entusiasmanti con, a chiusura della serata il brano più sentito, “Non ho tradito” scritto dal Cap. Bonola, Reg. “Folgore” della R.S.I., presso il campo di concentramento di Coltano nell’estate 1945 e musicato dai NND. Una serata che ha riconfermato il profondo legame tra le diverse generazioni e che ha testimoniato la necessità del ricordo, della memoria, affinché sia chiaro che senza il nostro passato non potremo avere un futuro! L’associazione Raido dà appuntamento ai camerati, sabato 20 ottobre 2007 per una conferenza jungeriana dal titolo “Tempeste d’acciaio” alla quale interverrà Maurizio Rossi.


(srpskohrvatski / italiano)

Ancora sulla questione degli "hooligans serbi"

1) "Ivan il terribile" era uno dei teppisti del 5 ottobre 2000 / KO JE UHAPŠENI IVAN BOGDANOV: Huligan sa Dedinja!

2) CNJ-onlus - SAOPŠTENJE ZA JAVNOST:
Srpski huligani? Očistimo prvo ovu temu od dvosmislenosti i pogrešnih shvatanja

3) Serbia, tifosi pagati per creare incidenti a Genova / Da Belgrado nuove accuse all'Italia "Sapevate cosa stava per succedere" (La Repubblica)

4) Alessandro Di Meo: Non voltiamo la faccia

5) A.N.P.I. – MARASSI: NAZIONALISMO CONSERVATORE MA NON SOLO DI SCENA A MARASSI

Sull'argomento si veda anche il nostro Comunicato stampa:
Hooligans serbi? Sgombriamo il campo dagli equivoci


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"Ivan il terribile" era uno dei teppisti del 5 ottobre 2000 


<< [1] Nel frattempo, si è scoperto che il "principale" hooligan in tutta questa storia, un certo Ivan Bogdanov, è stato un partecipante di primo piano nel 5 Ottobre [quando bande di teppisti anti-jugoslavi a Belgrado assaltarono il Parlamento, diedero fuoco agli uffici elettorali e alle sedi dei partiti della sinistra, e realizzarono così la "rivoluzione anti-Milosevic", ndCNJ] e uno di quelli che hanno attaccato la stazione di polizia e saccheggiato in Via Jevrosime Madre. (Vedi: http://www.pressonline.rs/sr/vesti/vesti_dana/story/136784/Huligan da Dedinje Html! [sotto]) È interessante che nella maggior parte dei tabloid serbi di tutta Europa queste informazioni sulla biografia di Ivan Bogdanov sono state completamente omesse, benchè sia su tutte le copertine, e anche su otto colonne nelle pagine interne che titolano "Il leader di teppisti ha causato l'incendio dell'Ambasciata USA a Belgrado" [nel febbraio 2008, ndCNJ]. (Vedi: http://www.blic.rs/Vesti/Tema-Dana/211806/Vodja-huligana-jurisao-i-na-Ambasadu-SAD-u-Beogradu ) >>

[1] У међувремену се испоставило да је „главни“ хулиган у читавој овој причи, извесни Иван Богданов, био истакнути учесник 5. октобра и један од оних који су напали ин опљачкали полицијску станицу у улици Мајке Јевросиме. (види: http://www.pressonline.rs/sr/vesti/vesti_dana/story/136784/Huligan+sa+Dedinja!.html) Интересантно је да је у најевропскијем међу свим српским таблоидима овај податак из биографије Ивана Богданова потпуно прескочен, али је зато преко читаве насловне стране и чак 8 (осам!?) стубаца на унутрашњим страницама стављен наслов да је дотични „вођа хулигана предводио и паљење амбасаде САД у Београду“. (види: http://www.blic.rs/Vesti/Tema-Dana/211806/Vodja-huligana-jurisao-i-na-Ambasadu-SAD-u-Beogradu)

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BEOGRAD 14. 10. 2010 - PRESS

KO JE UHAPŠENI IVAN BOGDANOV ICA (30), VOĐA HULIGANA KOJI SU PREKINULI UTAKMICU ITALIJA - SRBIJA U ĐENOVI

Huligan sa Dedinja!

Vođa huligana uhapšen juče ujutru u Italiji, policija ga pronašla u prtljažniku autobusa! Bogdanov živi na Dedinju, vođa je Zvezdine navijačke grupe „Ultra bojs" i protiv njega je do sada podneto najmanje pet krivičnih prijava zbog tuča, napada na policajce i dilovanja droge. Italijani priveli 138 huligana, srpska policija na granici proverava sve sumnjive


Ivan Bogdanov zvani Ica Ultras (30), vođa huligana koji su u utorak prekinuli meč Italija - Srbija, uhapšen je juče ujutro u Đenovi i prebačen u zatvor „Marasi". Tetovirani grmalj, koga su kamere snimile kako sa ograde stadiona komanduje divljanjem huligana, uhapšen je dok se krio u prtljažniku autobusa koji je navijače prevozio u Srbiju! Bogdanova su, kako saznajemo, odale brojne karakteristične tetovaže po rukama i telu. Kako je juče saopšteno, Bogdanov je u Italiju otišao još u subotu, 9. oktobra, tri dana pre utakmice sa Italijom. Osnovano se sumnja da je on u Đenovi tri dana pripremao incidente i sa italijanskim saučesnicima na tribine stadiona uneo štangle i pirotehniku.

Imao ulogu i 5. oktobra

Ivan Bogdanov Ica potiče iz prosečne beogradske porodice (otac Pozek preminuo je pre pola godine), živi na Dedinju, elitnom delu Beograda, u ulici Bulevar Aleksandra Karađorđevića, preko puta ambasade Izraela. Jedan od prvih komšija Bogdanova je ministar policije Ivica Dačić, koji stanuje samo tri ulaza dalje!
Bogdanov je završio srednju školu i po struci je drvni tehničar. Jedno vreme radio je kao obezbeđenje u poznatim prestoničkim kafićima i splavovima, a najduže u „Grin baru" na Adi Ciganliji. Pokojni otac i majka Fanika su tokom devedesetih imali kiosk brze hrane ispred škole „Vojvoda Radomir Putnik", ali su ga zatvorili. Navijač od malih nogu, Ivan je imao zapaženu ulogu i 5. oktobra 2000, kada je bio u grupi koja je zauzela stanicu policije u ulici Majke Jevrosime!
U MUP Srbije postoji podebeo dosije o Bogdanovu, a do sada je protiv njega podneto najmanje pet krivičnih prijava. Njegovo ime se nalazi na spisku vođa Zvezdine navijačke grupe „Ultra bojs", zajedno sa Markom Vučkovićem, Veljkom Stajićem, Markom Mitrovićem i Miroslavom Jankovićem. Republički tužilac zatražio je od Ustavnog suda zabranu ove, ali i još 13 navijačkih grupa Crvene zvezde, Partizana i Rada.
- Policija je do sada Drugom opštinskom tužilaštvu podnela nekoliko krivičnih prijava protiv Bogdanova. Jedna od njih podneta je 26. maja 2005. zbog učešća u tuči u jednom beogradskom restoranu. Mesec dana ranije Okružnom tužilaštvu podneta je prijava i zbog trgovine drogom - navodi sagovornik Pressa iz policije. On dodaje da su u julu 2006. podnete još dve prijave protiv njega.
- Jedna prijava podneta je zbog napada na policajaca na košarkaškoj utakmici Zvezde i Partizana. Bogdanov je tada sa Draženom Dragašem drvenom gredom tukao navijača Partizana Filipa S. - otkriva sagovornik Pressa.
Bogdanov je 2006. učestvovao u linčovanju navijača slovenačkog Maribora, koji je u Beogradu igrao utakmicu Intertoto kupa protiv fudbalera Zete iz Golubovaca. (...)

Ekipa Pressa

komentari (337): http://www.pressonline.rs/sr/vesti/vesti_dana/story/136784/Huligan+sa+Dedinja!.html

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OTKRITI ORGANIZATORE NASILNIKA NA MEČU U ĐENOVI

Vođa huligana jurišao i na Ambasadu SAD u Beogradu

V. Z. Cvijić - M. Maleš - A. Ž. Adžić  | 14. 10. 2010.

(...) Peti oktobar

„Ultras bojse“, čiji je Bogdanov pripadnik, predvodi Marko Vučković, zvani Mare, koji je učestvovao u probijanju policijskog kordona ispred Savezne skupštine i demoliranju RTS-a 5. oktobra 2000. S obzirom na to da su bili na strani DOS-a, o „delijama“ se govorilo kao o nacionalnim herojima. Vučković je tada ispričao za novine kako je zajedno sa ostalim „delijama“, ekipom navijača Rada i nešto malo „grobara“, na znak jednog od lidera DOS-a „golim rukama poveo narod u proboj na zgradu Skupštine Srbije“ koja je potom opljačkana i zapaljena. Vučković je, međutim, tvrdio da su oni „samo razoružavali policajce i navlačili im majice ’Otpora’ kako bi ih zaštitili od linča“, kao i da su navodno pokušavali da spreče pljačku, ali ne i razbijanje RTS-a.
- Porazbijali smo sve aparate koje su neki pokušali da iznesu. Bolje je da su neupotrebljivi. Što se tiče štitova, šlemova i pendreka, oduzetih od policije, nećemo ih vraćati. Biće nam to draga uspomena. Moram da zahvalim Čačanima na onom bageru, izvadili su stvar - govorio je tada Vučković. (...)

Komentara: 419 


=== 2 ===

La versione in italiano del seguente Comunicato stampa è sul nostro sito:


Italijanska koordinacija za Jugoslaviju - onlus (neprofitna društveno korisna organizacija)

SAOPŠTENJE ZA JAVNOST


Srpski huligani? Očistimo prvo ovu temu od dvosmislenosti i pogrešnih shvatanja


Incidenti koje su se desili 10. oktobra u Beogradu, prilikom manifestacija protiv parade "gay pride" koja se održavala u to isto vreme, kao i ovaj u Đenovi 12. oktobra uveče u prilici održavanja fudbalske utakmice Italija-Srbija, a koja zato nije mogla biti održana - doprinose jačanju već negativne slike prišivene Srbiji i Srbima u zadnjih 20 godina.

Čak je i Renato Schifani, predsednik italijanskog Senata, izjavio: "Događaji koji su se odigrali juče na stadionu u Đenovi (...) prikazuju ono najgore lice jedne Evrope kojom se još uvek širi nasilništvo koje odbija civilizacijske norme, dostojanstvo i poštovanje čoveka". (1) Nije potrebno biti posebno maštovit da se to "najgore lice" asocira sa Srbijom i Srbima, te da ga se na taj način, prišije celom narodu (etniji - kako to kažu u Evropi, rasi?) koja odbija superiorne "civilizacijske norme" koje spominje Schifani. Na ovakvoj liniji ocenjivanja postavlja se otvoreno i revanšističko italijansko udruženje izbeglica iz Istre i Dalmacije, koje dodaje ono svoje o "srpskom ludilu", te nasilje na stadionu povezuje sa "onim nasiljem sa balkanskim pečatom", čija su navodno bilas žrtvom "zajednica italijana" u vreme Antifašističkog pokreta otpora. (2)

U Italiji se doista u ovom momentu mnogi iživljavaju da u dobroj ili lošoj nameri, ali u svakom slučaju na neodgovarajući način, dovedu u vezu nasilništvo "huligana" sa pretpostavljenom brutalnošću jugoslovenskih partizana, koje se zbirno opisuje pod matricom "foibe - jame". Pre nego što se, dakle, diskutuje o temi "srpskih huligana", mora se prvo raščistiti polje posmatranja od prvog i najtežeg vida pogrešnog shvatanja: između dve teme - "foibe - jame" i "huligana" - ne postoji nikakva moguća veza ili znak jednakosti, osim onog koji se nameće u dobro poznatoj italijanskoj rasističkoj jednačini, prema kojoj su sloveni = varvarski narod = infoibatori (bacači ljudi u jame). (3)

Svakako da se postavlja pitanje koje se društveno i političko značenje treba dati ovom fenomenu "srpskih huligana". Površni posmatrači zapažaju da "huligani" svojim natpisima, parolama i pozivanjem na 1389. godinu, kada se odigrala bitka na Kosovu polju, mašu temom Kosova. Ovom temom, međutim, oni mašu kroz čisto "etnički" pristup ("Kosovo je srpsko, a ne albansko"), i to na neusaglasiv i kontradiktoran način sa istorijsko-političke tačke gledišta. Oni koji žele da se bolje obaveste i upoznaju istoriju ovog područja, otkriće da je Kosovo kao potpuno albanizovana zona, kakvo je ono danas ponovo postalo, predstavljalo fašističku i nacističku zamisao realizovanu tokom II svetskog rata. (4) Sa strogo istorijsko-političkog stanovišta, za one koji se izjašnjavaju kao nacifašisti i/ili četnici, samo postavljanje pitanja o Kosovu u Srbiji, predstavlja temu punu kontradiktornosti.

Svakako da bi bili preterano od "huligana" tražiti da poseduju istorijsko-političku disciplinu u svom načinu razmišljanja. Ali, mi se pitamo da li bi se to pitanje trebalo postaviti desnici koja je sada na vlasti u Srbiji?

Ovaj problem zaista postoji. Sa anti-jugoslovenskim pučem čija se decenija ovih dana obeležava, u Srbiji je na vlast stupila vladajuća klasa koja nije samo ultraliberalistička te povezana sa MMF-om, NATO-om i EU: vlast su uzeli direktni potomci tradicionalnog četništva koje je lebdelo između vernosti nacionalnom jedinstvu i lojalnosti prema inostranim savetnicima i gazdama. Današnji četnici ne ponašaju se drugačije od onih u prošlosti (pod ovim podrazumevamo one prave četnike, od bivšeg ministra Vuka Draškovića, pa nadalje, a ne i "huligane"): i u današnje vreme, kao u ono pređašnje, ponavlja se situacija u kojoj kolaboracionisti inostranih okupatora prihvataju komadanje Jugoslavije i odvajanje Crne Gore i Kosova (5), dok se istovremeno razmeću sa svojim reakcionarnim i nostalgičnim simbolima, anti-partizankim istorijskim revizionizmom, te anti-islamskim šovinizmom. (6)

Svakako da na stadionima i trgovima, ekstremistički razbijački pokret nalazi svoje tlo u poraženim delovima društva koji su ujedno razočarani i osiromašeni zbivanjima na Balkanu u proteklih 20 godina - među njima se naravno nalaze upravo i izbeglice sa Kosova. Nama se, međutim, ova komponenta ne čini odlučujućom, već ona koju čine brojni provokatori "bezbednosnih službi", kakvih ima u svim navijačkim grupama, bilo da se radi o fudbalu ili nekom drugom sportu. Oni imaju precizan zadatak čije rezultate mogu predvideti. (7)

U čemu bi se sastojala ta strategija provokacija, kad se o ovoj oblasti radi? Ovi "huligani" obavljaju najmanje 2 "korisna" zadatka.

Pre svega, ovi incidenti ni u kom slučaju ne destabilizuju Vladu Srbie. Upravo je obrnuto: njima se samo pitanje Kosova svodi na temu iz sfere "javnog reda", te se na taj način samo pitanje definitivno sahranjuje - skupa sa Srbima sa Kosova, koji su danas ili izbeglice, ili pak zatvorenici u "bantustanima" ovog regiona.

Jedini štetan efekat koji incidenti iz Đenove mogu imati, predstavljen je u destabilizaciji odnosa Berluskonija i Tadića, čiji je sastanak, inače planiran za ovaj period pod vidom bilateralnog samita, već pomeren. Ali, ako je o ovome reč, tj. o međunarodnom strateškom planu (od strane USA) da Srbiju udalje od "prijateljskih" zemalja i nastave sa njenom izolacijom, u tom slučaju mora se smoći snage da se o ovome otvoreno govori u Srbiji, ali pre svega u Italiji, jer ovde znamo jedino da širimo prezir prema našim jugoslovenskim susedima svih narodnosti.

Za CNJ- onlus, Upravni savet

13. oktobra 2010. g.


Napomene:

(1) http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/13/news/\ arresti_italia_serbia-7997211/index.html?ref=search
(2) http://www.anvgd.it/index.php?option=com_content&task=view&\ id=10010&Itemid=111 . I prva "masovna" reakcija na nasilništvo "huligana" na stadionu u Đenovi, takođe je bila rasistička: sa severne tribine krenuli su uzvici << Cigani, cigani govnari >>: http://www.anvgd.it/index.php?option=com_content&task=view&id=\ 10009&Itemid=111 .
(3) U ovom slučaju, prvo poređenje je samo malo "produženo": Srbi = Sloveni, pa stoga Srbi = infoibatori (bacači u jame). Ovaj silogizam nije samo rasistički i lažan kad se radi o "foibama - jamama" (pogledati svu prikupljenu dokumentaciju na našoj stranici:https://www.cnj.it/documentazione/paginafoibe.htm ), već je neodrživa i sa čisto istorijske i političke tačke gledišta. Na istočnoj granici Italije, od svog jugoslovenskog stanovništva, nisu živeli razmešteni Srbi, već su se u Pokret otpora uključili Slovenci i Hrvati iz tog područja. Po simbolima i shvatanjima koje proklamuju, "Huligani" iz Beograda i Đenove ne mogu ni sa jedne tačke gledišta biti posmatrani kao potomci partizana. Na sve strane može se videti fotografija vođe ovih tabadžija, kako pozdravlja naci-fašističkim pozdravom, kao i grafički keltsko-nacistički elementi istetovirani po telu; svi komentatori, ujedno, govore da se radi o "desnim ekstremistima", kako onima iz Beograda od pre nekoliko dana, tako i ovima iz Đenove.
(4) https://www.cnj.it/documentazione/KOSMET/foto.htm . "Nacionalna srpska" opcija u okvirima naci-fašizma u ono doba, bila je manjinska i gubitnička: srpski kolaboracionisti Italijana i Nemaca (Nedić, Ljotić) *prihvatili su* odsecanje Kosova od Srbije, te su čak i doprineli njegovom realizovanju. U početnom periodu na antifašističkoj strani bili su kraljevski oficiri Draže Mihajlovića - takozvani četnici - koji su, međutim, bili mnogo više neprijatelji komunistima nego nacistima i fašistima: usled te svoje velike nestalnosti, angloamerički saveznici su ih veoma brzo otkačili, obzirom da im je bilo pouzdanije da se oslone na jugoslovenski internacionalistički patriotizam Titovih partizana. U završnoj fazi II svetskog rata, od onih četnika koji dotle nisu zastranili, boreći se uz rame sa naci-fašistima.
(5) Pogledati: https://www.cnj.it/POLITICA/serimo2003.htm,https://www.cnj.it/POLITICA/cnj2008.htm .
(6) 2001. godine ukinut je državni praznik višenacionalne Jugoslavije - 29. Novembar -, nova sadašnja državna hima Srbije je jedna bogomoljna litanija "Bože Pravde", fotografije Draže Mihajlović vise na sve strane, a "tri prsta" koje sada uvis podižu fudbaleri. nije bilo moguće zamisliti u vreme tako omrznutog Miloševića.
(7) << Italijanska stranka Pd od Ministra unutrašnjih poslova traži "da razjasni kako je bilo moguće da ova grupa nasilnika uđe u Italiju, u Đenovu, te u sam stadion, sa svim nedozvoljenim oružjem, a da ih niko zaustavi, izoluje i razoruža. (...) "Oni nisu otišli sami u Đenovu", zapazio je sa svoje strane Predsednik Fudbalskog saveza Srrbije, Tomislav Karadžić i time u suštini potvrdio ono što je rekao sinoć u Đenovi odmah po prekidu utakmice: prema Karadžiću, radilo se o unapred pripremljenom planu ultra-navijača da izazivaju nerede i tako upropaste održavanje utakmice (...) "Pitam se jednu stvar: ko je ovim nesrećama dopustio da uđu u Italiju?". Ovo se pita Marta Vincenzi, gradonačelnica Đenove. (...) Gradonačelnica Vincenzi izjavljuje između ostalog da (...) je stupila u vezu sa policijkom upravom "odakle su mi odgovorili da su se policajci nalazili na licu mesta, ali da se radilo o delikventima i da se morao izbeći tragičan ishod. Shvatila sam da je postojao neki meki pristup izbegavanju tog tragičnog ishoda" >>. O neobičnom odvijanju događanja u Đenovi, pogledati:http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/13/news/arre\ sti_italia_serbia-7997211/?ref=HREA-1 , http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/13/news/pole\ mica_maroni-8010519 .


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Calcio


Serbia, tifosi pagati per creare incidenti a Genova


Secondo il giornale 'Politika' due boss latitanti avrebbero versato 200 mila euro agli ultrà balcanici per organizzare i disordini che hanno provocato lo sospensione del match al Ferraris



BELGRADO - Due boss latitanti hanno pagato più di 200mila euro agli ultrà serbi per creare disordini a Marassi. Lo scrive 'Politika', giornale filo-governativo di Belgrado, che cita una fonte vicina all'inchiesta. "Più di 200mila euro sono stati versati a oltre 60 teppisti per l'organizzazione, il viaggio e l'armamentario della spedizione che ha portato alla sospensione di Italia-Serbia", ha riferito il giornale.

La polizia starebbe seguendo alcuni indizi da cui emerge che a organizzare i disordini sono stati i boss di due gang criminali, uno ricercato per traffico di cocaina e riciclaggio, l'altro per una serie di omicidi e rapine. "E' probabile che i due, pur essendo rivali, abbiano finanziato i disordini perché hanno entrambi interesse a creare caos in Serbia", ha spiegato la fonte anonima di Politika. Ci sarebbe anche una pista che porta ad ambiente ostili all'attuale federcalcio serba, ma gli inquirenti la considerano più debole. 
(16 ottobre 2010)

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RETROSCENA


Da Belgrado nuove accuse all'Italia
"Sapevate cosa stava per succedere"


Duello tra le diplomazie. Prima della partita vi fu un vertice. Giallo sui dati forniti dall'Interpol. Lakovic: nessuna risposta ai nostri allarmi, abbiamo dovuto contattare il delegato Uefa. La replica: "Un bluff, c'è un verbale della riunione"


di CARLO BONINI
 

ROMA - Le scuse del governo di Boris Tadic e l'urgenza di Belgrado di non urtare oltre la sensibilità di un governo, il nostro, che, dopo le forti perplessità olandesi, potrebbe avere un peso cruciale nella decisione del prossimo 25 ottobre sull'ingresso della Serbia nell'Unione Europea, non mettono un punto ai fatti di Marassi. Tra Roma e Belgrado non smettono di volare gli stracci e nella ricostruzione di quanto accaduto alla vigilia della notte del 12 ottobre continua a collimare poco o nulla.

Con una sola certezza, a questo punto: che, in ogni caso, il nostro apparato di prevenzione è stato burocraticamente tarato sulle sole informazioni ("nulle", sostiene il Viminale. "Precise", insistono i serbi) che arrivavano dai Balcani. E questo nonostante i fatti del gay pride di Belgrado e nonostante si scopra ora che Ivan e le sue avanguardie di "eroi" e "becchini", evidentemente "ignorati" dalle polizie serba e italiana, erano comodamente arrivate in Italia già da giorni, ospiti tra Milano e Varazze, quando cioè i due Paesi ancora non avevano cominciato a scambiarsi via fax quei pezzi di carta che ora si rinfacciano.

Del resto, che nulla sia andato per il verso giusto e che in questa storia la "verità" continui ad avere molti, troppi padri, trova ora conferma in una nuova tagliente polemica su quanto accaduto non due, non tre giorni prima della partita. Ma alle dieci del mattino di
martedì, appena dieci ore prima dell'incontro. Allo 
stadio "Luigi Ferraris", come da protocollo, alla presenza del delegato Uefa, si incontrano le delegazioni della Federazione italiana e serba. Per il Viminale, partecipa Roberto Massucci, in qualità di portavoce dell'Osservatorio per le manifestazioni sportive. Per i serbi, un generale della polizia di Belgrado, nella veste di "security officer". "In quell'incontro  -  riferisce ora Zoran Lakovic, segretario generale della Federcalcio serba, al quotidiano "Vecernje Novosti"  -  abbiamo informato la Federcalcio italiana e il delegato della partita della possibilità che accadesse quanto poi è accaduto. Non abbiamo avuto risposta e così, alle 13, abbiamo ribadito dell'esistenza di un grande pericolo, anche perché gli hooligan erano già in città. Non è accaduto nulla e così, alle 18, abbiamo telefonato al dirigente della sicurezza Uefa, che abbiamo rintracciato alle Isole Far Oer e a cui abbiamo spiegato quanto poteva accadere. Insomma, credo che la Federcalcio italiana avrà molti problemi a spiegare l'organizzazione catastrofica della partita. Noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo. Loro, no".

Roberto Massucci trasecola. Di quell'incontro, con il volto inespressivo del "security officer" serbo ("che non parlava inglese, comunicava attraverso l'interprete e ci fu presentato proprio da Lakovic") il portavoce dell'Osservatorio dice di ricordare soltanto un paio di dettagli. "Su mia insistenza circa le informazioni trasmesse dall'Interpol che parlavano di qualche centinaio di tifosi, corresse quella stima e disse che i pullman in arrivo da Belgrado sarebbero stati 9 e non due. Aggiunse anche che la polizia serba non era in grado di dire quando sarebbero arrivati a Genova e che abitualmente gli ultras serbi fanno uso di fumogeni. Non esattamente un allarme. Del resto, di quella riunione esiste un verbale del delegato Uefa e non sarà difficile verificare che cosa ci si è detti davvero". Insomma, i serbi starebbero bluffando ancora. 

"Non fosse altro  -  aggiungono fonti qualificate del Dipartimento  -  per una semplice circostanza. Nella giornata di martedì, la Federcalcio serba ci aveva comunicato che il numero dei biglietti venduti era di 1300. Dunque, già sapevamo che le prime stime di Belgrado arrivate via Interpol erano inattendibili. Il problema è che su quell'elenco di nomi di acquirenti dei biglietti, e dunque sul profilo e la qualità del rischio, la polizia serba, unica a poter incrociare quei nomi con i suoi database, non ha saputo dirci una sola parola". 

(15 ottobre 2010)


=== 4 ===

Da: Alessandro Di Meo <alessandro.di.meo @ uniroma2.it>

Oggetto: Non voltiamo la faccia

Data: 13 ottobre 2010 08.37.52 GMT+02.00


La Serbia non esce bene da questa serata calcistica.

In mondovisione, i serbi sono apparsi di nuovo i "temibili nazionalisti selvaggi" che tremare il mondo fanno! Ma quella rabbia ha una casa. E quella casa sta nello scippo che i Serbi hanno subito da chi, al governo in Serbia oggi, colluso con l'occidente, sta svendendo la propria anima. Il Kosovo, cuore della Serbia, è lontano, con il patriarca ortodosso, paragonabile al nostro papa, costretto a insediarsi alla chetichella nel patriarcato di Pec, appena tollerato dal governo del Kosovo "liberato" dalla Nato, retto da mafia e narcotrafficanti. Il Fondo Monetario Internazionale, l'FMI, presta soldi che servono a finanziare le imprese estere (come la Fiat che espropria la Zastava, la Fiat dell'apparentemente italiano e fido Marchionne, uomo in realtà dell'americanissima Philip Morris!!!). Le bombe del '99 sono ormai dimenticate, quei morti e quei profughi offrono storie che non riempiono le cronache, troppo impegnate nel descrivere il nuovo look delle varie attricette da strapazzo, quelle si, degne delle nostre odierne e democratiche, attenzioni, il tutto condito da un omicidio assurdo e l'altro, parte del nostro amato occidente.
Ma in Serbia si organizza il Gay Pride, cosa "assolutamente prioritaria" nella Serbia di oggi, assurda provocazione che non poteva che dare i risultati che ha dato. Ma gli USA si congratulano con la polizia serba, per le capacità a proteggere i "diritti umani" nel proprio paese. Nuove violenze si prospettano all'orizzonte, contro altri diritti...
Ai bambini serbi, che non erano allo stadio stasera, così come quei tanti loro coetanei italiani che la retorica dei telecronisti di Rai1 (assurdi, inadeguati e ignoranti al punto da scambiare il segno delle tre dita dei calciatori serbi come un invito a non far perdere la partita per tre a zero!!!) continuava a incensare, non resta molto da sperare per il futuro. Nonostante questa triste serata, però, io continuo a stare con i Serbi. C'è una Serbia che non ci sta, anche se il suo volto, stasera, non era certo accattivante e accomodante. Una Serbia che non vuole entrare in Europa, perchè dall'Europa si sente tradita, defraudata, umiliata. E' una triste serata perchè preoccupante per il futuro, che temo foriero di nuove stagioni di violenza. Ma quella violenza ha una casa. Il mio è un invito. A non voltare la faccia. 

Alessandro Di Meo


=== 5 ===

Da: "Anpi - Marassi / Sezione. G.Arzani" <anpimarassi @ aruba.it>
Data: 13 ottobre 2010 14.43.28 GMT+02.00
Oggetto: [resistenza-continua] ITALIA - SERBIJA

NAZIONALISMO CONSERVATORE MA NON SOLO DI SCENA A MARASSI.
 
Non sarà certo sfuggito a nessuno che la maglietta del facinoroso, iper-tatuato supporter ultras serbo, allo stadio Luigi Ferraris di Genova, ieri sera 13 Ottobre 2010 durante lo svolgimento della partita tra la nazionale Italiana e quella di Serbia, recava la lugubre simbologia della destra nazionalista dei Cetnizi: tibie incrociate e teschio su sfondo nero e la scritta in lingua serba (in caratteri cirillici in uso nella lingua serba) CETNIZI di SERBIJA.
I Cetnizi, la cui formazione politico-militare risale al periodo in cui la regione balcanica era occupata dall’impero ottomano (Turchia), all'inizio delle Guerre Balcaniche formarono l’Internal Macedonian Revolutionary Organization, combatterono contro i Turchi in Erzegovina e nella Macedonia settentrionale nella Prima Guerra Balcanica, mentre nella Prima guerra mondiale combatterono contro l'Austria-Ungheria; durante il periodo della IIª guerra mondiale, dopo che l'esercito monarchico jugoslavo si arrese nell'aprile del 1941, alcuni dei soldati jugoslavi rimasti, per lo più ufficiali di nazionalità serba, si riunirono sotto il controllo del colonnello Draža Mihailović nel distretto di Ravna Gora, in Serbia occidentale, e costituirono il 13 maggio del 1941 l'Esercito Jugoslavo nella Patria (JVUO) , si distinsero per la loro ambigua politica di alleanze quale movimento che si ricostituisce per combattere gli Ustasha croati (formazione nazionalista della destra croata) e il movimento partigiano comunista. I Cetnizi sono dapprima, tra il 1941 e il 1943, appoggiati dagli alleati (Churchill)  che designavano il loro comandante, quale braccio armato del re Pietro II in esilio, come unico portatore di libertà nell'Europa nazi-fascista. I servizi d'informazione alleati erano male informati ed attribuivano ai Cetnizi le azioni dei Partigiani di Tito. I Cetnizi di Draža Mihailović, infatti, collaborarono con le truppe dell’occupazione fascista italiana fino all’8 settembre 1943, dopo questa data, nel biennio successivo, al fianco dei nazisti contro l’Esercito Partigiano di Liberazione della Jugoslavija guidato da Tito. Il loro motto è : ЗА КРАЉА И ОТАЏБИНУ СЛОБОДА ИЛИ СМРТ – (za kralja i otadžbinu sloboda ili smrt), ovvero “ per il re e la Patria libertà o morte”. I loro “valori” erano e sono quelli della Destra conservatrice (fascista), incentrati sulla difesa della famiglia (intesa come culla della razza) e della proprietà privata, erano e sono conseguenti anti-comunisti. Come durante il periodo della seconda Guerra Mondiale lottarono per la restaurazione della monarchia, nel presente questa fazione, che non è espressione di tutto il popolo serbo, sono per la creazione di una Grande Serbia (nazionalismo pan-serbo). Per questo recrudescenza di eccessivo nazionalismo conservatore dobbiamo ringraziare la lungimirante scelta politica della NATO a cui l’Italia non si è sottratta, prima nell’aver dato via libera all’aggressione e bombardamento di ciò che rimaneva della Jugoslavija ed in seconda parte l’aver appoggiato le mire secessionistiche in chiave anti-serba da parte della minoranza albanese del Kossovo.
 
Dovuto questo necessario preambolo, ritornando alla violenta gazzarra inscenata al Luigi Ferraris di Genova-Marassi, non può certo sfuggire a nessuno di noi che, per l’Europa “unita”, si aggira non lo spettro del comunismo di marxiana memoria, quale spauracchio antidemocratico evocato, in ogni dove, dal nostro attuale capo di governo, il sig. Berlusconi, ma, ormai dalla caduta del muro di Berlino, il neo-nazifascismo, che alimentato dal becero nazionalismo conservatore la fa da padrone ed è il cavallo di battaglia di quei movimenti e capi politici che si ispirano alla dottrina nazi-fascista. Questi personaggi, emersi dall’humus del sotto-proletariato, sono abilmente manovrati, i burattinai, quelli che filano la trama, sono da ricercare nella politica di odio xenofobo e razziale, nel falso-federalismo di quei movimenti politici, italiani ed europei che in realtà sono secessionisti dell’unità nazionale. Questo assunto vale tanto per la disciolta Jugoslavija come per il nostro paese e per tutti i paesi che compongono l’intera UE. Ieri, al Luigi Ferraris, erano di scena i nazionalisti Cetnizi Serbi in chiave calcistica, ma non dimentichiamoci che gli esempi nostrani non difettano affatto, il proscenio italico in quanto a xenofobia e razzismo e ostentazione di una lugubre simbologia di morte non ne è immune. 
 
Il rimedio? Occorre innanzitutto che sia applicata una politica di morigerazione-pecunaria, ossia dell’esagerato profitto che contraddistingue l’amministrazione delle società calcistiche, questa dovrebbe essere etica conseguente di tutto lo sport: è assurda e vergognosa la proliferazione della scalata miliardaria di questo mercato, ormai divenuto solo un bussines, un gioco al servizio della società capitalista.
 
Quello che accade negli stadi non ha più nulla di quello che un tempo distingueva la Domenica come una gioiosa festa popolare.
 
Gli stadi sono specchio, se pur deformante con i suoi eccessi, di quello che oggi la società dei consumi propone alle masse e questo dovrebbe farci riflettere profondamente sull’utilizzo dei mezzi di informazione e su certi tipi di spettacoli televisivi e l’impatto psicologico che hanno sulle giovani generazioni. A 150 anni dall’unità d’Italia oggi la Patria è identificata con la nazionale di calcio e non con chi ha lottato per la sua unità, con chi ha dato la vita per la libertà, la pace e la libertà nella lotta contro la tirannide e il nazifascismo e questo, volontariamente, senza chiedere compenso alcuno.
 
Altro fatto rimarchevole, degno di attenzione, vede il popoloso e popolare quartiere di Genova Marassi, dove sorge lo stadio Luigi Ferraris, essere divenuto zona militarizzata: durante lo svolgimento delle manifestazioni calcistiche, il quartiere è praticamente occupato militarmente dalle forze dell’ordine, ed è allestito una sorta di percorso di guerra. Strade sbarrate, divieto di sosta nelle vie principali, passaggi obbligati quali scale e vie di  accesso, per entrare a casa propria, chiuse con transenne e inferriate come durante il G8. Questo sistema di “prevenzione” che dovrebbe favorire i controlli, di fatto impedisce la libertà di circolazione e movimento alla cittadinanza del quartiere.
La militarizzazione del quartiere non impedisce, però, a nessuno di coloro che vanno allo stadio,  di occupare, in modo incivile, nelle vie adiacenti lo stadio che non sono soggette a chiusura e sorveglianza, i marciapiedi, i giardini di Piazza Galileo Ferraris e i passaggi pedonali con moto e scooter.
 
E’ espressione dell’imbecillità, dell’incapacità politica dei nostri amministratori oppure studiato calcolo a tavolino (?!): durante la settimana non si perdona una breve sosta ed invece quando c’è la partita di calcio si permette ogni abuso di sosta illecita? Che dire d’altro? Occorre, innanzitutto una sana informazione rivolta ai giovani che, nelle scuole dell’obbligo,

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Riceviamo e volentieri segnaliamo:
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Teatro della Contraddizione

21, 22, 23, 24 Ottobre 2010 - ore 20,45
Ister Teatar – Belgrado
Pustinja 2010 (Deserto)
genere: globalna metafora

di e con Anđelija Todorović, Danica Arapović, Jelena Jović
drammaturgia Damir Vijuk - musiche Nenad Jelić - scene Ljubomir Todorović
luci e fotografia Aleksandar Milosavljević - costumi Ister Teatar
video Andreja Jović - maschere e trucco Branislava Kuprešanin

in collaborazione con Comune di Milano – CDZ1


Ingresso €12,00 – ridotto€9,00 – Prenotazione (consigliata) €1,00


Pustinja 2010 ha debuttato al Bitef Teatar di Belgrado nel giugno del 2010 ed è stato ospite a INFANT - 37 International Festival of Alternative and New Theatre di Novisad, dove ha vinto il premio"Most Original Exploration of One Segment of Theatrical Language"


Nel 2000 Ister Teatar realizzava Pustinja, ripercorrendo, con uno sguardo introspettivo, la storia dell'area balcanica dalla seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri, passando attraverso gli ultimi conflitti, offrendo un punto di vista originale su come gli artisti percepivano in quel momento ciò che una volta si chiamava Jugoslavia.


Dopo tutto ciò che avevano attraversato, si poneva l'urgenza di cercare delle risposte alle domande: cosa siamo? chi siamo? dove siamo? e dove stiamo andando?


Pustinja 2010 è un omaggio a Pustinja; a dieci anni di distanza Ister pone le stesse domande e teme di trovare le stesse risposte: "cosa siamo, chi siamo e dove siamo oggi, dieci anni dopo? E' cambiato qualcosa? Siamo cambiati?"


"Il deserto è come l'oceano, un luogo dove nulla mai cambia.
Stiamo forse diventando un oceano senza fine che non si muove mai,
che non respira, con un cuore senza battiti;
un oceano senza vita che scorre via come i granelli di sabbia in una clessidra?
Viviamo, ma potremmo anche non esistere, tutto sarebbe uguale;
siamo come un miraggio nell'orizzonte di viaggiatori esausti."

Una storia fatta di odio e di grazia, di confini da difendere...
più o meno come quella di tutti i popoli...

Ister Teatar prende il suo nome dall'antica denominazione del Danubio, fiume che collega due mondi e due civiltà diverse.
Fondato nel 1994, concentra il suo lavoro nella ricerca di un teatro fisico che riesca a coniugare tecniche della danza ed elementi peculiari alla prosa.
Le produzioni della compagnia includono spettacoli teatrali, performance di strada, film.
Ister Teatar è stato ospite di numerosi festival nazionali e internazionali e ha presentato i suoi spettacoli in Bulgaria, Romania, Gran Bretagna, Olanda, Germania, Egitto.
Grazie alla collaborazione con il Teatro della Contraddizione di Milano, dal 2000 ad oggi Ister Teatar è stata una presenza ricorrente nella Stagione Sperimentale Europea.
 
Ister è cofondatore e membro di ANET (Association of Independent Theatres - Belgrado) e di STANICA (Station – Service for Contemporary Dance).
 
Nel 2008 con lo spettacolo Tri Sestre (da "Le Tre Sorelle" di A. Ćechov) ospitato dal Teatro della Contraddizione nella Stagione Sperimentale Europea 2008/2009, Ister Teatar ha ricevuto il premio "Dimitrije Parlićcome migliore coreografia.

Nenad Jelić compositore, arrangiatore, musicista dalla personalità eclettica, è co-fondatore di Ister Teatar, e dei gruppi "Balkan Impressions" e "Jazzy", redattore musicale del progetto "Belgrado visionaria", direttore musicale e arrangiatore del musical "Hair", ha partecipato a più di 70 festival di musica e teatro internazionali europei.
Dal 1976 a oggi ha vissuto e lavorato in Austria, Portogallo e Grecia.
Tra le sue produzioni citiamo le musiche per lo spettacolo "Vollmond" di Pina Bausch e le collaborazioni con Goran Bregovič.

21, 22, 23, 24 Ottobre – ore 20,45
Ingresso €12,00 – ridotto €9,00 – prenotazione (consigliata) €1,00

Infoline:
Teatro della Contraddizione 025462155
via della braida, 6 – 20122 Milano (MM3 Porta Romana)




junge Welt (Berlin), 05.10.2010



»Serbien ist ein besetztes Land«


Zehn Jahre nach der NATO-gesteuerten »Revolution« in Belgrad: Seit dem Milosevic-Sturz sitzen ausländische »Berater« in Regierung, Armee und Geheimdienst. Ein Gespräch mit Vladimir Krsljanin

Interview: Cathrin Schütz


Vor zehn Jahren, am 5. Oktober 2000, verlor der jugoslawische Präsident Slobodan Milosevic sein Amt. Was verbirgt sich hinter dieser von westlichen Politikern und Medien gefeierten »demokratischen Freiheitsrevolution«?


Serbien hat sich dem Anfang der 1990er Jahre begonnenen Krieg gegen Jugoslawien zehn Jahre lang erfolgreich widersetzt. Nachdem der NATO-Angriffskrieg gegen unser Land 1999 ohne echten Sieg endete, haben London und Washington zum Sturz Milosevics eine riesige Spezialoperation durchgeführt, die Mutter aller nachfolgenden »bunten Revolutionen«. Bill Clinton übertrug der CIA per präsidentiellem Erlaß einen Freibrief zur Durchführung eines Staatsstreichs in Jugoslawien. Unsummen wurden in politische Parteien, Nichtregierungsorganisationen und Medien investiert. Die zersplitterte Opposition wurde unter ausländischer Anleitung geeint. Ein Bündnis aus 18 Parteien hatte als »demokratische Opposition« DOS ein Ziel: Milosevic stürzen. Der spätere US-Botschafter in Belgrad, William Montgomery, unterhielt in Budapest ein eigens dafür eingerichtetes Büro. Oppositionelle Aktivisten besuchten Kurse, die von CIA-Agenten geleitet wurden. Auch die als »Studentengruppe« bekannte Gruppe »Otpor« (Widerstand), die den Slogan »Gotov je« – »Er ist fertig« geprägt hat, mit dem der Wahlkampf geführt wurde, ist ein Projekt westlicher Geheimdienste.


Wie spielte sich der Umsturz ab?


In der jugoslawischen Präsidentschaftswahl am 24. September trat Amtsinhaber Milosevic gegen den vom Westen unterstützten Kandidaten Vojislav Kostunica an und unterlag deutlich mit 15 Prozent weniger Stimmen. Da keiner der Kandidaten die absolute Mehrheit erringen konnte, hätte es regulär zu einer Stichwahl kommen müssen. DOS-Kreise behaupteten wie angekündigt, Milosevic hätte die Wahlen gefälscht, und Kostunica sei siegreich aus dem ersten Wahlgang hervorgegangen. Otpor führte gewaltsame Straßenproteste an. DOS wollte die Stichwahl verhindern, obwohl sie die mit Sicherheit gewonnen hätte. Milosevic lehnte einen Rücktritt ohne zweiten Wahlgang ab. Auf dem Höhepunkt der Auseinandersetzung fällte der Oberste Gerichtshof eine kuriose Entscheidung: Wegen Gerüchten über Unregelmäßigkeiten beim ersten Wahlgang wurden alle Stimmen aus der südserbischen Provinz Kosovo einfach annulliert. Natürlich hätte die Wahl in den betreffenden Bezirken wiederholt werden müssen. Die Stimmenannullierung vergrößerte Kostunicas Stimmenanteil auf über 50 Prozent. Milosevic erkannte die Entscheidung noch am 5. Oktober an und gratulierte Kostunica zum Sieg. Dieser Schritt, über den kaum berichtet wurde, ging in einem medienwirksam inszenierten »Volksaufstand« unter. Während Otpor das Parlament in Brand setzte, wurde die sofortige Übernahme des Regierungsapparates durch Kostunica und die Opposition vollzogen. Mit diesem Putsch kam man einer geregelten Amtsübergabe zuvor.


Es ging der Opposition also nicht um einen einfachen Wahlsieg?


Die jahrelange Darstellung Milosevics als »Diktator« in den westlichen Medien wäre durch seine demokratische Abwahl ad absurdum geführt worden. Diesen Glaubwürdigkeitsverlust wollte der Westen nicht riskieren. Aber die »Revolution« mußte vor allem inszeniert werden, um mit gewaltsamen Mitteln in kürzester Zeit weitreichende Eingriffe in Staat und Wirtschaft vornehmen und so die Transformation unumkehrbar machen zu können. Nach dem 5. Oktober wurden Behörden und Betriebe von sogenannten Krisenstäben besetzt, bisher Verantwortliche entlassen. Nach wenigen Monaten waren 40000 Funktionäre illegal aus ihren Ämtern entfernt worden. Der heutige Wirtschaftsminister Mladjan Dinkic begann seine große Karriere mit der Übernahme der Nationalbank mit Maschinengewehren. Seine Partei G17plus war ursprünglich eine vom Westen unterhaltene »Nichtregierungsorganisation«, die trotz marginaler Wahlergebnisse seit zehn Jahren unter wechselnden Regierungen die Staatsfinanzen kontrolliert. Dinkics erste Tat als Nationalbankdirektor war die Auflösung der vier größten serbischen Banken auf Geheiß des Internationalen Währungsfonds – mit dem Ergebnis, daß sich das serbische Bankensystem heute in ausländischen Händen befindet und jedes Jahr sechs Milliarden Euro ins Ausland wandern. Ich erinnere an Milosevics Worte vor der Wahl: »Sie greifen nicht Serbien wegen Milosevic an, sondern Milosevic wegen Serbien.«


Aber es gab jenseits der westlichen Propaganda tatsächlich eine große Unzufriedenheit in der Bevölkerung …


Die Opposition verstand es unter Anleitung von und im geschickten Zusammenspiel mit ihren ausländischen Sponsoren, das von westlichen Sanktionen und NATO-Krieg verursachte Leid Milosevic zuzuschreiben und große Verheißungen an ihren Wahlsieg zu knüpfen. Die Bomben zerstörten Wirtschaft und Infrastruktur, was die soziale Situation verschärfte. Als die Regierung die verbleibenden staatlichen Mittel zur Reparatur der wichtigsten Straßen- und Schienenverbindungen verwendete, bekamen die Wähler dies zu spüren und wurden für oppositionelle Propaganda noch empfänglicher: Mit der Abwahl Milosevics würde der ausländische Druck aufhören und der Lebensstandard steigen. In diesem Sinne ist die Bemerkung des Pressesprechers des Weißen Hauses, Ari Fleischer, zu verstehen, daß der Krieg Teil der »Regime change«-Strategie von NATO und USA gewesen sei, da er Milosevic schwächte und zu seinem Fall führte.


Warum betreiben die führenden westlichen Länder eine derart aggressive Einmischungspolitik in Jugoslawien bzw. Serbien?


Es gab seit Beginn der 1990er Jahre nicht mehrere Kriege in Jugoslawien. Slowenien, Kroatien, Bosnien, Kosovo – das alles war ein einziger Krieg: der des Westens gegen Jugoslawien. Dieser Aussage Milosevics stimme ich voll zu. US-Präsident George Bush sen. sprach im Rahmen der Verhandlungen zur deutschen Wiedervereinigung von der Beseitigung der Konsequenzen des Versailler Vertrages in Europa. Im Mittelpunkt des Versailler Konzepts stand die Schwächung Deutschlands zugunsten der osteuropäischen Länder, die von Deutschland zu Beginn des 19. Jahrhunderts im Rahmen der »Mitteleuropa«-Doktrin als Satelliten beansprucht worden waren. So wurde in Versailles auch erstmals Jugoslawien als Staat anerkannt. In den 1990er Jahren hingegen sollte ein wiedererstarktes Deutschland als NATO-Mitglied der Schwächung Rußlands dienen, und Osteuropa sollte in den »euro-atlantischen Raum« überführt werden – natürlich nur als Kolonie. Besonders Serbien sollte, entsprechend dem langgehegten Wunsch der Briten, als potentieller Bündnispartner Rußlands geschwächt werden. Um Milosevic ging es nie. Kosovo beherbergt nun mit Camp Bondsteel die größte US-Militärbasis in Europa, im Gebiet der geplanten großen Öl- und Gaspipelines aus dem Kaspischen Meer.


Hat sich der Sturz Milosevics für die Bevölkerung bezahlt gemacht?


Gleich nach dem 5. Oktober 2000 wurden das von Milosevic-Sozialisten dominierte serbische Parlament durch die Bildung einer Übergangsregierung entmachtet und vorgezogene Parlamentswahlen abgehalten. DOS erhielt eine Zweidrittelmehrheit und bestimmte mit Zoran Djindjic im Januar 2001 die Nummer eins des Westens zum Ministerpräsidenten, dem mächtigsten Amt jugoslawischer Politik. Damit war der Putsch vervollständigt. Serbien ist heute ein besetztes Land. Ausländische »Berater« sitzen in Regierung, Armee, Polizei, Geheimdienst. Die Wirtschaft ist am Boden, das Bankensystem in ausländischen Händen. Privatisierung und Ausverkauf der großen Betriebe bringen Armut und Hunger nach Serbien. Die Armee besteht nur noch aus vier Brigaden, die Medien sind mundtot gemacht, die Politiker korrumpiert, Montenegro hat sich losgelöst, Kosovo seine Unabhängigkeit erklärt. Und während vor dem 5. Oktober die Verantwortlichen der NATO für begangene Kriegsverbrechen vom Belgrader Bezirksgericht in Abwesenheit zu 20 Jahren Haft verurteilt wurden, wurde das Urteil kurz nach dem Coup aufgehoben. Dafür wurde der Chef des staatlichen TV-Senders für den Tod seiner Mitarbeiter verantwortlich gemacht, die durch NATO-Bomben starben. Milosevic und nach ihm zahlreiche hochrangige Staatsbedienstete und Generäle wurden unter Bruch der Verfassung an die NATO-Inquisition in Den Haag ausgeliefert. Nichts hat sich also verbessert, im Gegenteil. Unser ferngesteuerter Präsident und der Chor der gekauften Politiker und »Experten« sprechen von großen Etappensiegen auf dem Weg in die Europäische Union. Doch es ist wohl offensichtlich, daß dieser Weg nicht der richtige ist.


Vladimir Krsljanin war bis zum 5. Oktober 2000 Sonderbotschafter des Außenministeriums der Bundesrepublik Jugoslawien. Nach der Auslieferung Slobodan Milosevics nach Den Haag gehörte er zu dessen Beraterstab vor dem UN-Tribunal.


http://www.jungewelt.de/2010/10-05/052.php


HINTERGRUND


Die Auflösung Jugoslawiens


Der Putsch in Belgrad am 5. Oktober 2000 machte der westlichen Schikane kein Ende. Bis heute wird die Regierung Serbiens stets mit neuen Ultimaten konfrontiert. Mit der Verhaftung von Slobodan Milosevic am 1.April 2001 wie auch seiner illegalen Auslieferung an das Jugoslawien-Tribunal in Den Haag (ICTY) im Juni 2001 folgte Belgrad dem Diktat der USA und EU, die gar neue Sanktionen androhten, sollte sich die Regierung diesem in der Öffentlichkeit unpopulären Schritt verweigern.

Am 12. Februar 2002 begann der Prozeß, in dem Milosevic Kriegsverbrechen im Kosovo, in Kroatien und Bosnien vorgeworfen.wurden. Während das ICTY mit dem Prozeß nicht nur eine Verurteilung erwirken, sondern auch die westliche Propagandaversion der Geschichte Jugoslawiens der vorausgegangenen zehn Jahre festschreiben wollte, durchkreuzte Milosevic diesen Plan. Es gelang ihm, sichtbar zu machen, wie das einst auf Druck der USA und Deutschlands errichtete ICTY sich als Handlanger der NATO gibt Außerdem nannte er jene beim Namen, die für die Zerstörung der Sozialistischen Föderativen Republik Jugoslawien verantwortlich waren. So die von Helmut Kohl (CDU) und Hans-Dietrich Genscher (FDP) geführte Bundesregierung, die im Dezember 1991 mit der Anerkennung von Slowenien und Kroatien im Alleingang eine Verhandlungslösung vereitelte, die die blutigen Bürgerkriege im auseinander brechenden Jugoslawien hätten verhindern können. Der Krieg in Bosnien-Herzegowina tobte nach der Anerkennung durch die USA und Deutschland ab 1992. Muslime und Kroaten kämpften für die Sezession der Teilrepublik von Jugoslawien, Serben wollten im Gesamtstaat verbleiben. Wie im Falle Sloweniens und Kroatiens unterstützte der Westen die antijugoslawischen Kräfte.

Milosevic forderte 1991 als Präsident Serbiens mit Verweis auf Hunderttausende in Kroatien und Bosnien lebende Serben das Selbstbestimmungsrecht für jedes Volk ein. Er warnte vor allem angesichts der Nähe der kroatischen Führung zur faschistischen Ustascha-Bewegung vor einer Wiederholung der Verbrechen des Zweiten Weltkrieges. Doch die Ängste, die bei Serben erwachten, wurden ignoriert Ihr Wunsch nach Verbleib in Jugoslawien wurde hierzulande als aggressives »Großserbien«-Projekt dargestellt, Milosevic verteufelt. jenseits der EU zu verbreiten begann, geriet er erneut ins Kreuzfeuer des Westens. Schließlich wurden kosovo-albanische Terroristen zu einer Bewegung (UCK) aufgebaut, eine Krise in der südserbischen Provinz inszeniert. Der angeblich zur Rettung der Albaner als humanitäre Intervention getarnte Angriffskrieg der NATO begann im März 1999 . Cathrin Schütz





Kosovo is American


Hannes Hofbauer   
четвртак, 02. септембар 2010.
(Strategic Culture Foundation, 24.8.2010)

“Kosovo is Serbian”, is one of the key slogans in every political statement throughout Belgrade and Serbian Diaspora-meetings all-around the world. Orthodox monasteries all over the country seem to prove this point of view. “Kosovo is Albanian territory”, is the answer of the majority of the 1,9 million people living on this territory. Their proof seems to be based on the simple quantity of ethnic majority, which – by the way – does not necessarily have to do with statehood.“Kosovo is European”, is the statement of Brussels authority underlining the fact of Kosovo being part of the “Euro”-zone and under EU-supervision. Historically Serbian, ethnically Albanian, economically European periphery. Yes and no. However, geopolitically, Kosovo is American.
What about statehood? On the 22nd of July 2010, 10 out of 14 judges of the International Court of Justice (ICJ) in The Hague approved the Kosovarian declaration of independence as compatible with the standards of international law. Independence had been declared on the 17th of February 2008 by an “Assembly of Kosovo” in the parliament in Prishtina. The statement of the ICJ is restricted to the proclamation of the independence and does not refer to the legality of secession. This is a minor contradiction. A more serious contradiction lies in the fact that the Kosovarian assembly in the parliament at the time formally was (and is till today) not representing Kosovo in international belongings. The UN-Resolution 1244 of 1999 put in a “Special Representative of the Secretary General“ as the official representative of the province, which is defined as an integral part of Yugoslavia respectively Serbia. To put it strictly: The Kosovarian parliament was not entitled to represent Kosovo on the international arena. According to international law, no legal body had asked for independence. In the Press release of the ICJ one can read about legality of the „Assembly of Kosovo“ which declared independence: “On this point, the Court arrives at the conclusion that the authors of the declaration of independence . . . did not act as one of the Provisional Institutions of Self-Government within the Constitutional Framework, but rather as persons who acted together in their capacity as representatives of the people of Kosovo outside the framework of the interim administration (..) The authors of the declaration of independence were not bound by the framework of powers and responsibilities established to govern (...)“. Therefore the ICJ “finds that the declaration of independence did not violate the Constitutional Framework”. In other words: because the body which declared independence did not consist of legal representatives of Kosovo, rules of international law were not broken. This is a major contradiction.
The ICJ with its verdict de facto followed the position of the USA and the majority of the EU-states. The Western alliance had already tried before the declaration of independence to implement a so-called “independence under surveillance” by the United Nations. The Ahtisaari Plan was wrecked by Russia (and South Africa). So Washington, Paris, London and Berlin implemented this plan without UN-mandate.
De jure, UN-resolution 1244 is still valid. Kosovo thereby is a part of Serbia and the UN-administration officially rules status-neutrally.
The appeal to the ICJ put the question of state independence on an international level. And it was Serbia asking for it. So Belgrade cannot simply ignore the verdict of the ICJ. To repeat the slogan “Kosovo is Serbian” will not help to overcome its defensive position. Not to speak of the Serbian refusal to take into account the Kosovarian reality. 90% of the population is not willing to accept Serbian national markings. This fact cannot be ignored.
Precedent case
As a precedent the ICJ-verdict on the declaration of Kosovarian independence is far reaching. First of all it underlines the shift from international law towards a human rights preponderating conflict management. In the last two decades Western conflict management more and more operates with human rights arguments instead of international law. The whole NATO-war on Yugoslavia, which broke international law when it started in March 1999, followed the human rights argument to rescue the Albanian population assuming a Serbian aggression. The code of the law of nations thereby was put aside, outruled. NATO war on Yugoslavia also put an end to the juridical framework of e.g. CSCE guaranteeing national sovereignty, territorial integrity and respecting national borders. Since then, instead of codified international law, human rights served as arguments for military aggressions and interventions (e.g. also in Afghanistan). The range of possible interpretations of human rights makes it easy to use them as manipulative arguments serving as instruments for one’s interest.
The acceptance of Kosovo’s independence against the will of Belgrade also is a precedent for many concrete cases. On the territories of Ex-Yugoslavia foremost. After the verdict of the ICJ, it will be harder to explain, why “Republika Srpska” should stay within the federation of Bosnia-Herzegovina and why it should be impossible to split and unite with Serbia. Equally it will not be easy to explain to the Albanian minority in Makedonia, why it should be against international law to declare independence from Skopje or unite with Albania and/or Kosovo. Not to speak of the Serbs in the north of Kosovo who do not accept Prishinta’s authority. Why should they stay in a common state with Albanians? Their possible independence and/or unification with Serbia would follow the same ICJ’s logic.
ICJ’s declaration deepens the argument of national independence far beyond Ex-Yugoslavia. As a precedent it is important e.g. also for Tiraspol. The Pridnestrovian Moldavian Republic (PMR) since 20 years asks for independence from Moldova and for international recognition. Only hours after the ICJ-verdict on Kosovo the PMR-authorities underlined their point of view. And in the Georgian periphery the precedent case of Kosovo already led to a reaction from the Russian side when Moscow recognised the declarations of independence of Abchasia and of South-Ossetia in August 2008.
Self-determination versus colonial governance
Kosovo’s declaration of independence, its recognition by – at the moment – 69 states (out of 192) and the ICJ-verdict cannot hide that Kosovo in reality is not independent at all. This was not intended by the USA anyhow. Self-determination is far out of reach.
In military respect this is most evident. After Russian troops withdrew in June 1999 and later in 2003, the US-led NATO settled down in every corner of the country. In Camp Bondsteel, named after an US-officer who was killed in Vietnam, the US-army installed its biggest military camp in Europe covering a territory of almost 4 square kilometres. But also the civil administration is not in the hands of the local government or parliament. The Ahtisaari Plan of March 2007 is the blueprint of the Kosovarian constitution. This constitution clearly notes the colonial status in article 143: “All authorities in the Republic of Kosovo shall abide by all of the Republic of Kosovo’s obligations under the Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement dated 26 March 2007 (which is the Ahtisaari-Plan; HH). (...) . The provisions of the Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement dated 26 March 2007 shall take precedence (priority, HH) over all other legal provisions in Kosovo. (...) If there are inconsistencies between the provisions of this Constitution, laws or other legal acts of the Republic of Kosovo and the provisions of the said Settlement, the latter shall prevail.”
“Independence under surveillance” was (and is) the key word of Western politics planned for Kosovo. The profiteers of this “independence under surveillance”, besides the organised criminals knowing to handle businesses between legal and illegal structures, are tens of thousands of colonisers. Under abbreviations like UNMIK, EULEX and thousands of NGO’s they fill their bank accounts with monthly wages 10 to 20 times higher than an average local employee. Kosovo is a huge field for experiments: military, political, juridical, administrative. Respecting the fact that executive and legislative power are not divided under the administration of UNMIK’s “Special Representative of the Secretary General” (SRSG) and EULEX’s “International Civilian Representative” (ICR), this shows how politics can be made without Western political proceedings. The SRSG- and the ICR-administrations stand above local laws and international standards.
Since Russia could not stop the implementation of the Ahtisaari Plan, there seems to be no alternative to the colonial status of the region. Belgrade’s proposal from 2007 to combine territorial integrity and substantial autonomy for Kosovo doesn’t even find enough support in Serbia any more. The most reasonable solution would be to divide Kosovo along the river Ibar. The Serbian population north of it would become what they de facto are: Serbian citizens. South of Ibar a second Albanian state has become reality since 1999. Parallel to this split an anti-colonial move could lead to self-determination within Albanian Kosovo.
Several obstacles stand against this vision: the government in Prishtina, which acts as an extended body of Washington and lately threatened with a military intervention in case of Serbs in the north would declare independence from Prishtina; the government in Belgrade, which follows Brussels’ guidelines; and the geopolitical and economic interests of the United States and the European Union. Vague promises from the side of Brussels to integrate Kosovo into the framework of the European Union are not to be taken seriously. Already today Brussels has all economic means in its hands and controls currency and privatisation process. A closer integration would confront Brussels with US-interests. So the status quo is practical for both sides, although it is realised by playing off Serbs and Albanians against each other.
Hannes Hofbauer (Austria)


(english / italiano)

Abolire il "premio Nobel per la Pace" 

1) Alcuni link
2) Il Nobel della guerra ai signori del «Nobel per la pace» / Perché Liu Xiaobo ha conseguito il «Premio Nobel per la pace» (D. Losurdo)
3) The Nobel Peace Prize at the service of imperialism (voltairenet.org)


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L'assegnazione del "Premio Nobel per la Pace" è completamente screditata oramai da molti anni. 

Tra i moltissimi esempi che si possono fare di conferimenti "sbagliati", a personaggi che stanno passando alla storia come criminali e guerrafondai, ricordiamo quello recente (2008) a Martti Ahtisaari - di famiglia nazista, responsabile della creazione di una nuova gabbia "etnica" nei Balcani. Si veda la documentazione raccolta al nostro link:

Giuseppe Zambon ci ricorda addirittura che << nel 1935 i signori di Stoccolma avevano attribuito al cancelliere tedesco Adolfo Hitler e a Mahatma Gandhi lo stesso numero di voti!! Il merito di Hitler? Aver riportato in Germania la pace sociale...
Peccato! Se avesse vinto Hitler anche i più sprovveduti potrebbero oggi comprendere quale ruolo gioca –al servizio dei potenti- la giuria del Nobel! >>.
 
Tra i commenti pervenutici in lingua italiana, a proposito dell'ultima scandalosa assegnazione (all'attivista anticinese Liu Xiaobo, propugnatore dello squartamento della Cina in senso etnico e fanatico liberista sostenitore della ri-privatizzazione dei latifondi agricoli nel paese) segnaliamo:

Il Premio Nobel diventa "dissidente"
di M. H. Lagarde - www.cubasi.cu - Traduzione di l'Ernesto online
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See also:

Nobel Prize: A Weapon in the Battle for Peace?
RIA Novosti political commentator Nikolai Troitsky    2010-10-12 19:15:21     


Newsletter 2010/10/11 - Federal Republic of China
BERLIN/BEIJING (Own report) - Berlin is unanimously cheering the fact that this year's Nobel Peace Prize was awarded to Liu Xiaobo. Already in the past, Chancellor Merkel has taken initiatives in favor of this Chinese "dissident" demanding his release from prison and will continue to do so, declared a spokesperson for the German government.
Liu received the prize for his "struggle for fundamental human rights in China", writes the German Ministry of Foreign Affairs. As a matter of fact, Liu is demanding nothing less than the overthrow of the People's Republic of China. Unlike petitions from other Chinese "dissidents", the "Charter 08," which he co-authored, is no human rights resolution, but rather a comprehensive political program, seeking a fundamental transformation of China. Among the demands is the creation of a federal state, such as the Federal Republic of Germany, a complete rupture with the Chinese state tradition covering several millennia. In addition the program calls for the reversal of all nationalization measures, taken since the founding of the People's Republic. This would mean rescinding the land reform that has assured the small farmers' existence to this day and the fulfillment of the demands of Western companies seeking to expand to China...

more: http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/57878

Newsletter 2010/10/07 - Germany Versus China (III)
BERLIN/BEIJING (Own report) - On the eve of the announcement of this year's Nobel Peace Prize laureate, German media have declared a Chinese "dissident" to be their favorite candidate. According to the German press, "it would be a courageous signal", if the Nobel Committee awards the prize to Liu Xiaobo, the Honorary President of the Chinese Pen Center. Liu has been calling, among other things, for the far reaching privatization of state property in China, including the land that had been reapportioned to small farmers under the land reform. Since the beginning of the 1990s, German government circles, party foundations and NGOs have increasingly been using the so-called dissidents as a means of applying pressure on Beijing. Regardless of their concrete political demands, "dissidents" are presented to the German public as "human rights activists" to stir up anti-Beijing sentiments. Even though they currently have no influence in their country, these "dissidents" are being kept at the ready, as potential cooperation partners for the case of a change of system in China. In this third part of the series on Germany's strategy towards China, german-foreign-policy.com describes the Chinese "dissidents'" role in Berlin's foreign policy...

more: http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/57877


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(en francais: Le Nobel de la guerre aux Messieurs du « Nobel de la paix »


Domenico Losurdo 

Il Nobel della guerra ai signori del «Nobel per la pace»

Nelle scorse settimane un acceso dibattito ha avuto luogo in Australia. In un saggio pubblicato su «Quarterly Essay» e parzialmente anticipato su «Australian», Hugh White ha messo in guardia contro inquietanti processi in atto: all’ascesa della Cina Washington risponde con la tradizionale politica di «contenimento», rafforzando minacciosamente il suo potenziale e le sue alleanze militari; Pechino a sua volta non si lascia facilmente intimidire e «contenere»; tutto ciò può provocare una polarizzazione in Asia tra schieramenti contrapposti e far emergere «un rischio reale e crescente di guerra di larghe proporzioni e persino di guerra nucleare». L’autore di questa messa in guardia non è un illustre sconosciuto: ha alle spalle una lunga carriera di analista dei problemi della difesa e della politica estera e fa parte in qualche modo dell’establishment intellettuale. Non a caso il suo intervento ha provocato un dibattito nazionale, al quale ha partecipato lo stesso primo ministro, la signora Julia Gillard, che ha ribadito la necessità del legame privilegiato con gli Usa. Ma i circoli australiani oltranzisti sono andati ben oltre: occorre impegnarsi a fondo per una Grande allenza delle democrazie contro i despoti di Pechino. Non c’è dubbio: l’ideologia della guerra contro la Cina fa leva su una ideologia di vecchia data che giustifica e anzi celebra le aggressioni militari e le guerre dell’Occidente in nome della «democrazia» e dei «diritti umani». Ed ecco che ora il «Premio Nobel per la pace» viene conferito al «dissidente» cinese Liu Xiaobo: un tempismo perfetto, tanto più perfetto se si pensa alla guerra commerciale contro la Cina minacciata questa volta in modo aperto e solenne dal Congresso statunitense.

La Cina, l’Iran e la Palestina

Tra i primi a compiacersi della scelta dei signori di Oslo è stata Shirin Ebadi, che ha subito rincarato la dose: «Non solo la Cina è un Paese che viola i diritti umani. È anche un Paese che appoggia e sostiene molti altri regimi che li violano, come quelli al potere in Sudan, in Birmania, nella Corea del Nord, in Iran...»; per di più, è un Paese responsabile del «grande sfruttamento degli operai». E dunque, occorre boicottare «i prodotti cinesi» e «limitare il più possibile gli scambi economici e commerciali con la Cina». E di nuovo: chiaro è il contributo all’ideologia della guerra condotta in nome della «democrazia» e dei «diritti umani» e aperta è la dichiarazione di guerra commerciale. Ma, allora, perché Shirin Ebadi ha conseguito nel 2003 il «Premio Nobel per la pace»? Il premio è stato conferito a una signora che ha una visione manichea delle relazioni internazionali; nella lista delle violazioni dei diritti umani non c’è posto per Abu Ghraib e Guantanamo, per i complessi carcerari in cui Israele rinchiude in massa i palestinesi, per i bombardamenti e le guerre scatenate sulla base di pretesti falsi e bugiardi, per l’uranio impoverito, per gli embarghi tendenzialmente genocidi messi in atto sfidando la stragrande maggioranza dei membri dell’Onu e della comunità internazionale... E per quanto riguarda il «grande sfruttamento degli operai» in Cina, Shirin Ebadi chiaramente parla a vanvera: nel grande paese asiatico centiniaia di milioni di donne e uomini sono stati sottratti alla fame a cui li avevano condannati in primo luogo l’aggressione imperialista e l’embargo proclamato dall’Occidente; e in questi giorni su tutti gli organi di informazione si può leggere che i salari operai stanno crescendo a ritmo assai rapido. In ogni caso, se l’embargo contro Cuba infierisce esclusivamente sugli abitanti dell’isola, un eventuale embargo contro la Cina provocherebbe una crisi economica planetaria, con conseguenze devastanti anche per le masse popolari occidentali e con tanti saluti per i diritti umani (almeno per quelli economici e sociali). Non c’è dubbio: nel 2003, a conseguire il «Premio Nobel per la pace» è stata una ideologa della guerra mediocre e provinciale. Si è voluto premiare una attivista che, se non sul piano internazionale, almeno sul piano interno all’Iran, intende difendere la causa dei diritti umani? Se questo fosse stato l’intento dei signori di Oslo, essi avrebbero dovuto premiare Mohammad Mosaddeq, che agli inizi degli anni ’50 del Novecento si impegnò a costruire un Iran democratico ma che, avendo avuto l’ardire di nazionalizzare l’industria petrolifera, fu rovesciato da un colpo di Stato organizzato da Gran Bretagna e Usa, dai paesi che oggi si ergono a campioni della causa della «democrazia» e dei «diritti umani». Oppure, i signori di Oslo avrebbero potuto premiare qualcuno dei coraggiosi oppositori della feroce dittatura dello Scià, sostenuta dai soliti, improbabili campioni della causa della «democrazia» e dei «diritti umani». Ma, allora, perché nel 2003 il «Premio Nobel per la pace» è stato conferito a Shirin Ebadi? In quel periodo di tempo, mentre conosceva un nuovo giro di vite l’interminabile martirio del popolo palestinese, si delineava con chiarezza la Crociata contro l’Iran. Un riconoscimento dato a un attivista palestinese sarebbe stato un reale contributo alla causa della distensione e della pace nel Medio Oriente. Mancano gli attivisti palestinesi «non-violenti»? E’ difficile definire «non- violento» Obama, il leader di un paese che è impegnato in varie guerre e che per gli armamenti spende da solo quanto tutto il resto del mondo messo assieme. In ogni caso, i «non-violenti» non mancano in Palestina, e comunque non-violenti sono gli attivisti che da vari paesi giungono in Palestina per cercare di difendere i suoi abitanti da una violenza soverchiante e che talvolta sono stati spazzati via dai carri armati o dai bulldozer dell’esercito di occupazione. Sennonché, i signori di Oslo hanno preferito premiare una attivista che da allora non si stanca di attizzare il fuoco della guerra in primo luogo contro l’Iran, ma ora anche contro la Cina.
Dopo la consacrazione e la trasfigurazione di Liu Xiaobo, è subito intervenuto il presidente statunitense, che ha chiesto l’immediato rilascio del «dissidente». Ma perché non liberare intanto i detenuti senza processo di Guantanamo o almeno premere per la liberazione degli innumerevoli palestinesi (talvolta appena adoloscenti) da Israele rinchiusi, come riconosce la stessa stampa occidentale, in complessi carcerari racccapriccianti?

I signori di Oslo, gli Usa e la Cina

Con Obama ci imbattiamo in un altro «Premio Nobel per la pace» dalle caratteristiche assai singolari. Quando l‘ha conseguito, lo scorso anno, egli aveva già chiarito che intendeva rafforzare in Afghanistan la presenza militare Usa e Nato e dare impulso alle operazioni di guerra. Confortato anche dal prestigioso riconoscimento conferitogli a Oslo, egli è stato fedele alla sua parola: sono ora ben più numerosi che ai tempi di Bush gli squadroni della morte che dall’alto dei cieli «eliminano» i «terroristi», i «terroristi» potenziali e i sospetti di «terrorismo», e questi elicotteri e aerei senza pilota che fungono da squadroni della morte infuriano anche in Pakistan (con le numerose vittime «collaterali» che ne conseguono); l’indignazione popolare è così forte e diffusa che anche i governanti di Kabul e Islamabad si sentono costretti a protestare contro Washington. Ma non si lascia certo impressionare Obama, che può sempre esibire il «Premio Nobel per la pace»! Nei giorni scorsi è trapelata una notizia raccapricciante: in Afghanistan non mancano i militari statunitensi che uccidono per divertimento civili innocenti, conservando poi qualche parte del corpo delle vittime come souvenir di caccia. L’amministrazione Usa si è subito affrettata a bloccare la diffusione di ulteriori particolari e soprattutto delle foto: scioccata, l’opinione pubblica americana e internazionale avrebbe potuto premere ulteriormente per la fine della guerra in Afghanistan; pur di continuarla e inasprirla, il «premio Nobel per la pace» ha preferito infliggere un colpo anche alla libertà di stampa.
Ma a questo proposito si può fare una considerazione di carattere generale. Nel Novecento sono gli Usa il paese che ha visto incoronato dal «Premio Nobel per la pace» il maggior numero di uomini di Stato: Theodore Roosevelt (per il quale l’unico indiano «buono» era quello morto), Kissinger (il protagonista del colpo di Stato di Pinochet in Cile e della guerra in Vietnam), Carter (il promotore del boicottaggio dei Giochi olimpici di Mosca del 1980 e del divieto di esportazione di grano all’Urss, intervenuta in Afghanistan contro i freedom fighters islamici), Obama (che ora contro gli ex- freedom fighters, nel frattempo divenuti terroristi, fa ricorso a un mostruoso apparato di guerra). Vediamo sul versante opposto in che modo i signori di Oslo si atteggiano nei confronti della Cina. Questo paese, che rappresenta un quarto dell’umanità, negli ultimi tre decenni non si è impegnato in nessuna guerra e ha promosso uno sviluppo economico che, liberandoli dalla miseria e dalla fame centinaia di milioni di donne e uomini, ha consentito loro l’accesso in ogni caso ai diritti economici e sociali. Ebbene, i signori di Oslo si sono degnati di prendere in considerazione questo paese solo per assegnare tre premi a tre «dissidenti»: nel 1989 viene conferito il «Nobel per la pace» al XIV Dalai Lama, che già da tre decenni aveva abbandonato la Cina; nel 2000 consegue il Nobel per la letteratura Gao Xingjan, uno scrittore che era ormai cittadino francese; nel 2010 il «Nobel per la pace» incorona un altro dissidente che, dopo essere vissuto negli Usa ed aver insegnato alla Columbia University, ritorna in Cina «di corsa» (Marco Del Corona, in «Corriere della Sera» del 9 ottobre) per partecipare alla rivolta (tutt’altro che pacifica) di Piazza Tienanmen. Ancora ai giorni nostri, egli così parla del suo popolo: «noi cinesi, così brutali» (Ilaria Maria Sala, in «La Stampa» del 9 ottobre). E così, agli occhi dei signori di Oslo, la causa della pace è rappresentata da un paese (gli Usa), che spesso si ritiene investito della missione divina di guida del mondo e che ha installato e continua a installare minacciose basi militari in ogni angolo del pianeta; per la Cina (che non detiene basi militari all’estero), per una civiltà millenaria che, dopo il secolo di umiliazioni e di miseria imposto dall’imperialismo, sta ritornando al suo antico splendore, a rappresentare la causa della pace (e della cultura) sono solo tre «dissidenti» che ormai poco o nulla hanno a che fare col popolo cinese e che vedono nell’Occidente il faro esclusivo che illumina il mondo. Non c’è dubbio che nella politica dei signori di Oslo vediamo riemergere l’antica arroganza colonialista e imperialista.
Mentre in Australia risuonano voci allarmate per i pericoli di guerra, a Oslo si ridà lustro a un’ideologia della guerra di infausta memoria: a suo tempo da J. S. Mill le guerre dell’oppio sono state celebrate come un contributo alla causa della «libertà» dell’«acquirente» oltre che del venditore (di oppio) e da Tocqueville come un contributo alla causa della lotta contro l’«immobilismo» cinese. Non sono molto diverse le parole d’ordine agitate in questi giorni dalla stampa occidentale, che non si stanca di denunciare l’immobile dispotismo orientale. Occorre prenderne atto: saranno pure ispirati da nobili intenzioni, ma col loro comportamento concreto i signori del «Nobel per la pace» meritano per ora soltanto il Nobel per la guerra.

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MARTEDÌ 12 OTTOBRE 2010


Perché Liu Xiaobo ha conseguito il «Premio Nobel per la pace»


di Domenico Losurdo

Nel 1988 Liu Xiaobo dichiarò in un’intervista che la Cina aveva bisogno di essere sottoposta a 300 anni di dominio coloniale per poter diventare un paese decente, di tipo ovviamente occidentale. Nel 2007 Liu Xiaobo ha ribadito questa sua tesi e ha invocato una privatizzazione radicale di tutta l’economia cinese.
Riprendo queste notizie da un articolo di Barry Sautman e Yan Hairong pubblicato sul «South China Morning Post» (Hong Kong) del 12 ottobre.
Non si tratta di un giornale allineato sulle posizioni di Pechino, che anzi in questo stesso articolo viene criticato per aver colpito un’opinione sia pure «ignobile» con la detenzione piuttosto che con la critica.
Da parte mia vorrei fare alcune osservazioni. Anche sui manuali di storia occidentali si può leggere che, a partire dalle guerre dell’oppio, inizia il periodo più tragico della storia della Cina: un paese di antichissima civiltà è letteralmente «crocifisso» – scrivono storici eminenti; alla fine dell’Ottocento, la morte in massa per inedia divene noioso affare quotidiano. Ma, secondo Liu Xiaobo, questo periodo coloniale è durato troppo poco; avrebbe dovuto durare tre volte di più! Il meno che si possa dire è che siamo in presenza di un «negazinionismo» ben più spudorato di quello rimproverato ai vari David Irving. Ebbene, l’Occidente non esita a rinchiudere in galera i «negazionisti» delle infamie perpetrate ai danni del popolo ebraico, ma conferisce il «Premio Nobel per la pace» ai «negazionisti» delle infamie a lungo inflitte dal colonialismo al popolo cinese! Purtroppo, in modo non molto diverso si atteggia spesso la sinistra occidentale, che si è ben guardata dal condannare l’arresto a suo tempo di David Irving e di altri esponenti della stessa corrente ancora in stato di detenzione, ma che in questi giorni inneggia a Liu Xiaobo.
Quest’ultimo, peraltro, non si è limitato a esprimere opinioni, sia pure «ignobili» (come riconosce il South China Morning Post»). Dopo aver invocato nel 1988 tre secoli di dominio coloniale in Cina, l’anno dopo è ritornato di corsa (di sua spontanea iniziativa?) dagli Usa in Cina, per partecipare alla rivolta di Piazza Tienanmen e impegnarsi a realizzare il suo sogno. E’ un sogno per la cui realizzazione egli continua a voler operare, come dimostra la sua celebrazione (in un’intervista del 2006 a una giornalista svedese) della guerra Usa per l’esportazione della democrazia in Iraq. Come si vede, siamo in presenza di un personaggio che contro il suo paese invoca direttamente il dominio coloniale e, indirettamente la guerra d’aggressione. E’ un sogno che gli ha procurato al tempo stesso la detenzione nelle galere cinesi e il «Premio Nobel per la Pace».


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(en francais: Le prix Nobel de la paix au service de l’impérialisme

The Nobel Peace Prize at the service of imperialism

In one of our French columns, Domenico Losurdo denounces the way in which the Nobel jury uses the peace prize in order to serve the imperialist agenda. A mere glance at the most recent laureates reveals the systematic character of this manipulation.

Nobel Peace Prize recipients after 9/11

2003
Shirine Ebadi
To increase pressure on Iran.

2004
Wangari Muta Maathai
To mount pressure against Kenya and other African states inching closer to China.

2005
AIEA et Mohamed ElBaradei
For having neutralized Hans Blix and cleared the way for the war against Iraq.

2006
Muhammad Yunus et la Grameen Bank
For cashing in on poverty by lending to the destitute at interest rates twice those of the market.

2007
GIEC et Al Gore
For having invented themillenium bug and legitimized the marketing of the environment and the trade of CO2 emissions.

2008
Martti Ahtisaari
For having derailed the negotiations with Serbia and justified the Kosovo war.

2009
Barack Obama
For having revamped the image of the United States while continuing its imperial wars.

2010
Liu Xiaobo
To increase pressure on China.



Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus
www.cnj.it

COMUNICATO STAMPA

Hooligans serbi? Sgombriamo il campo dagli equivoci

Gli incidenti provocati da elementi che ostentano simbologie e slogan "ultranazionalisti serbi", sia a Belgrado lo scorso 10 ottobre (manifestazione contro il "gay pride" svoltosi in contemporanea) sia a Genova ieri sera 12 ottobre (in occasione della partita Italia-Serbia, che perciò non si è potuta svolgere) contribuiscono ad accentuare l'immagine già negativa che è stata appiccicata addosso alla Serbia e ai serbi negli ultimi 20 anni.

Addirittura il presidente del Senato Renato Schifani ha dichiarato: "Quello che è accaduto ieri allo stadio di Genova (...) mostra il volto peggiore di un'Europa ancora troppe volte attraversata dalla violenza di chi rifiuta la civiltà, la dignità, il rispetto della persona". (1) Non ci vuole una particolare fantasia per associare tale "volto peggiore" alla Serbia e ai serbi, attribuendo così a tutto un popolo (etnia? razza?) il rifiuto della superiore "civiltà" di Schifani. Su questa linea si pone esplicitamente la associazione revanscista degli esuli istro-dalmati, che titola di "follia serba" e collega la violenza da stadio a "quell'odio di matrice balcanica" di cui sarebbero stati vittime le "comunità degli italiani" durante la Resistenza antifascista. (2)

Di fatto, tanti in Italia in queste ore si stanno sbizzarrendo a collegare, in buona o cattiva fede ma comunque impropriamente, le violenze degli "hooligans" con le presunte crudeltà dei partigiani jugoslavi, riassunte con la parolina in codice "foibe". Prima dunque di entrare nel merito della questione "hooligans serbi", è necessario sgombrare il campo dal primo e più penoso equivoco: tra i due argomenti - quello delle "foibe" e quello degli "hooligans" - non esiste alcun collegamento possibile se non quello dettato dal ben noto sillogismo razzista italiano, per cui slavi = barbari = infoibatori. (3)

Si pone tuttavia certamente la questione di quale significato dare, in termini sociali e politici, a questo fenomeno degli "hooligans serbi". Chi osserva le cose in superficie nota che gli "hooligans" agitano la questione del Kosovo - con striscioni, slogan, e richiami al 1389, anno della battaglia di Campo dei Merli. La questione è tuttavia sollevata in termini meramente "etnici" ("il Kosovo è serbo e non è albanese"), in maniera del tutto incongruente e contraddittoria dal punto di vista storico-politico. Infatti chi abbia voglia di informarsi e conoscere un po' di storia di quella regione scoprirà che un Kosovo completamente albanizzato - come è tornato ad essere oggi - fu il progetto, realizzato nel corso della II Guerra Mondiale, proprio del Fascismo e del Nazismo. (4) Dunque da un punto di vista storico-politico rigoroso, porre la questione del Kosovo in Serbia non è cosa priva di contraddizioni per chi si professa nazifascista e/o cetnico.

Ovviamente, chiedere rigore ideologico-storico-politico a degli "hooligans" può essere una pretesa eccessiva. Ma alla destra che è attualmente al potere in Serbia tale richiesta dovrebbe essere formulata, oppure no?

Questo è in effetti il problema che sussiste sicuramente. Con il golpe anti-jugoslavo, di cui proprio in questi giorni ricorreva il decimo anniversario, in Serbia è salita al potere una classe dirigente non solamente ultraliberista ed alleata del FMI, della NATO e della UE: a prendere il potere sono stati anche i diretti eredi di quella tradizione cetnica oscillante tra fedeltà alla integrità nazionale e fedeltà ai propri mentori e padroni stranieri. L'atteggiamento dei cetnici di allora non è diverso da quello dei cetnici di oggi (intendiamo quelli veri, dall'ex Ministro Vuk Draskovic in poi, e non gli "hooligans"): oggi come allora i collaborazionisti dell'occupante straniero hanno accettato lo squartamento della Jugoslavia e la secessione del Montenegro e del Kosovo (5) proprio mentre si gongolano tra simbologie reazionarie e nostalgiche, revisionismo storico anti-partigiano, e sciovinismo anti-islamico. (6)

Certamente, negli stadi e nelle piazze l'estremismo teppista trova anche alimento nei settori sociali sconfitti, delusi ed impoveriti dagli eventi balcanici degli ultimi 20 anni - inclusi ovviamente i profughi dallo stesso Kosovo. Ma non ci sembra questa la componente determinante, quanto piuttosto quella costituita dai numerosissimi provocatori infiltrati dai "servizi di sicurezza" che esistono in tutte le tifoserie, calcistiche o meno, e svolgono un ruolo ben preciso e prevedibile. (7)

Quale potrebbe essere la strategia provocatoria in questo caso? Ci sono almeno due funzioni "utili" che questi "hooligans" stanno svolgendo.

Innanzitutto, gli incidenti non sono affatto "destabilizzanti" per il governo serbo. Viceversa, con essi la stessa questione del Kosovo viene relegata a questione "di ordine pubblico" e definitivamente sepolta - assieme ai serbi-kosovari, che sono oggi o profughi oppure prigionieri nei "bantustan" della provincia.

L'unica destabilizzazione possibile che gli incidenti di Genova possono arrecare è quella dei rapporti tra Berlusconi e Tadic, il cui incontro previsto in questi giorni, in occasione di un summit bilaterale, era già stato rimandato. Ma se di questo si tratta, cioè di una strategia internazionale (degli USA) per allontanare la Serbia dai paesi "amici" continuando ad isolarla, allora bisognerebbe pure avere il coraggio di parlarne apertamente, in Serbia ma soprattutto in Italia, dove invece non sappiamo far altro che professare disprezzo verso i nostri vicini jugoslavi - di tutte le nazionalità.

Per CNJ- onlus, il Consiglio Direttivo
13 ottobre 2010


Note:
(1) http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/13/news/arresti_italia_serbia-7997211/index.html?ref=search
(2) http://www.anvgd.it/index.php?option=com_content&task=view&id=10010&Itemid=111 . Razzista è stata anche la prima risposta "di massa" alle violenze che gli "hooligans" stavano scatenando nello stadio di Genova: dalla gradinata nord sono partiti cori << Zingari, zingari di merda >>: http://www.anvgd.it/index.php?option=com_content&task=view&id=10009&Itemid=111 .
(3) In questo caso il primo termine di paragone è stato semplicemente "allungato": serbi = slavi, e dunque serbi = infoibatori. Il sillogismo non è solamente razzista e bugiardo nel merito delle "foibe" (si veda tutta la documentazione raccolta o citata alla nostra pagina: https://www.cnj.it/documentazione/paginafoibe.htm ), ma è insostenibile anche dal punto di vista strettamente storico e politico. Infatti, tra le popolazioni jugoslave, non sono i serbi ad essere stanziati al confine orientale italiano e dunque ad essere stati lì coinvolti nella Resistenza partigiana, ma casomai sloveni e croati. Gli "hooligans" di Belgrado e di Genova, per simbologia ed argomenti ostentati non possono essere da nessun punto di vista intesi come eredi dei partigiani. Ovunque sono visibili le foto del capo dei teppisti di Genova con il braccio teso nel saluto nazifascista e gli elementi grafici celtico-nazisti tatuati sul corpo; inoltre, tutti i commentatori parlano di "estremisti di destra" per quanto riguarda questi "hooligans", sia quelli di Belgrado che quelli di Genova.
(4) https://www.cnj.it/documentazione/KOSMET/foto.htm . L'opzione "nazionalista serba" in campo nazifascista fu a quel tempo minoritaria e perdente: i collaborazionisti serbi degli italiani e dei tedeschi (Nedic, Ljotic) *accettarono* l'amputazione del Kosovo dalla Serbia ed anzi contribuirono a metterla in atto. Sul fronte antifascista c'erano inizialmente gli ufficiali monarchici di Draza Mihajlovic - i cosiddetti cetnici - i quali però erano molto più ostili ai comunisti che non ai nazifascisti: cosicchè si mossero con tanta ambiguità da essere ben presto "scaricati" dagli Alleati angloamericani, che trovarono più affidabile appoggiarsi al patriottismo internazionalista jugoslavo dei partigiani di Tito. Nella fase finale della II Guerra Mondiale, quelli tra i cetnici che non si erano già sbandati combattevano al fianco dei nazifascisti.
(5) Si veda: https://www.cnj.it/POLITICA/serimo2003.htm , https://www.cnj.it/POLITICA/cnj2008.htm .
(6) Abolita nel 2001 la festa nazionale della Jugoslavia multinazionale - il 29 Novembre -, il nuovo inno nazionale della Serbia è oggi la litania bigotta "Boze Pravde" ("La giustizia divina"), le immagini di Draza Mihajlovic campeggiano ovunque ed il fatto che i giocatori in campo usino la simbologia delle "tre dita" è un qualcosa che ai tempi del tanto vituperato Milosevic era inconcepibile.
(7) << Il Pd chiede al ministro degli interni "di capire come sia stato possibile che questo gruppo di violenti sia potuto giungere in Italia, a Genova e dentro allo stadio con tutto il corredo di armi improprie senza che nessuno sia stato in grado nè di fermarli, nè di isolarli e nè di disarmarli. (...) "Non erano venuti soli a Genova", ha osservato da parte sua il presidente della Federcalcio serba, Tomislav Karadzic, confermando in sostanza quanto da lui detto ieri sera a Genova subito dopo la sospensione della partita: per Karadzic infatti si sarebbe trattato di un piano preordinato della tifoseria ultras per creare incidenti e far saltare l'incontro. (...) "Mi domando una cosa: chi ha permesso a questi disgraziati di entrare in Italia?". E' quanto si chiede il sindaco di Genova, Marta Vincenzi. (...) La Vincenzi rivela tra l'altro che (...) si era anche messo in contatto con la questura "e mi sono sentita dire che gli agenti erano lì ma che quelli erano dei delinquenti e si doveva evitare che finisse in tragedia. Ho capito che c'era una linea morbida per evitare la tragedia" >>. Sulla strana dinamica degli avvenimenti a Genova si veda: http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/13/news/arresti_italia_serbia-7997211/?ref=HREA-1 , http://www.repubblica.it/sport/calcio/nazionale/2010/10/13/news/polemica_maroni-8010519 .