Informazione


Riproponiamo qui la traduzione già diffusa nel nostro invio precedente, con due correzioni significative benché non critiche per il significato complessivo dei periodi, evidenziate in grassetto rosso.

(na srpskohrvatskom: Zašto Tomislav Merčep nikada nije procesuiran? novossti.com, januar 2010.

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Perché Tomislav Merčep non fu mai processato?

http://www.novossti.com/
Numero 526


15.01.2010. 
Saša Kosanović


Molto tempo fa, quando lo incontrai per la prima volta, l'allora comunista Milan Bandić era una persona semplice e diretta e questo mi ha impressionato. Ora è una brutta cosa quando qualcuno divide i croati in rossi e neri, questo è inaccettabile, dobbiamo ripristinare la dignità del popolo croato sostenendo il candidato presidenziale Milan-centofacce-Bandic: questo ha detto, rimanendo in piedi, Tomislav Merčep, l'uomo che è diventato un simbolo dei crimini di guerra in Croazia, ma anche un simbolo del rapporto della giustizia croata con i crimini di guerra in generale. Dei Croati.

In molti hanno scritto nei giorni scorsi della comparsa di Milan Bandic in compagnia di un uomo che ha segnato con il sangue di tante persone tutti i luoghi in cui ha messo piede durante la Guerra patriottica, un uomo per cui l'elenco delle vittime delle azioni dei suoi commilitoni è superato in lunghezza solamente dall'elenco dei funzionari di ogni rango del HDZ, della polizia e dell'esercito croato (HV), che ripulivano quelle tracce di sangue dopo il suo passaggio, presumibilmente per preservare la facciata della famosa Guerra patriottica o per confermare il mantra secondo cui "in una guerra di difesa non c'è nessun crimine di guerra", ovvero quello ancora migliore secondo cui bisogna fare distinzione "tra crimine in guerra e crimine di guerra".


L'uomo del candidato


Perché Tomislav Merčep è ancora in libertà? Perché Tomislav Merčep, dopo gli eventi di Vukovar, si trova tuttora [gennaio 2010] in libertà? Perché Tomislav Merčep, dopo l'uccisione della famiglia Zec, si trova ancora in libertà? Perché Tomislav Merčep, dopo gli eventi accaduti a Gospic, si trova tuttora in libertà? Perché Tomislav Merčep, dopo gli eventi accaduti a Pakračka Poljana, si trova tuttora in libertà?

La risposta a tali quesiti è nota solo a Milan il Veggente, perché la risposta a queste domande non può essere normale. Non può essere normale che un uomo che era là dove è stato fatto, ed ha fatto, ciò che ha fatto, continui ancora a ridere in faccia alle vittime, alla giustizia, a tutte le persone normali in questo paese. Non può essere normale che un uomo simile si faccia vedere in compagnia dei candidati presidenziali. In realtà, questo può essere normale se il candidato è Milos Bandic, un eclettico; se il suo consigliere di difesa è un tale Miro Laco, il padrino del criminale di guerra Mirko Norac, che vive in un appartamento conferitogli da una certo comitato di Susak, la cui specialità era il saccheggio delle abitazioni militari... Allora si, gli può dare sostegno anche uno come Merčep.

La carriera del Presidente dell'Associazione dei volontari croati della Guerra patriottica, Tomislav Merčep, cinicamente assomiglia a tante altre carriere di quegli anni. Egli, infatti, prima della guerra era sconosciuto. Non si può dire che sia stato uno sconosciuto assoluto, ma non si può neanche dire che fosse un qualcuno. Era, insomma, un uomo mediocre che viveva in un villaggio vicino a Vukovar, e guidava la Renault 4. Era  l'ingegnere edile a capo di un certo cantiere per una ditta di costruzioni. Poi venne la guerra e con essa l'opportunità che quei centimetri, che madre natura gli aveva negato, si compensassero con il grande potere che gli derivava dalla mansione che svolgeva alla vigilia del Grande Massacro: presidente dell' HDZ Vukovar, il signor Tomislav Merčep. Figlio mio, nientemeno, e cosa vuoi di più!

Non è difficile immaginarsi Merčep che ogni mattina, preparandosi per il lavoro e guardandosi allo specchio, si va ripetendo: "Il presidente dell' HDZ di Vukovar, Tomislav Merčep!" E poi, così piccino, si solleva sulle punte dei piedi per sembrare più alto, fino a rendersi conto che è adesso il più grande in circolazione ...

E' diventato ancora più grande da quando si è convinto di poter fare quello che vuole e nessuno gli si è potuto opporre perché lo ha protetto il partito. Poi è iniziata le barbarie. Naturalmente, gli obiettivi principali erano i serbi, e i croati ribelli, così come mezzo secolo prima. Dapprima ci fu il saccheggio. Prima hanno attaccato i serbi ricchi e le loro proprietà.


Con dinamite industriale, micce, cartucce...


Merčep, come ha scritto in seguito "Feral Tribune", prese da una cava 500 kg di dinamite, dieci metri di micce a combustione lenta, mille metri di cavi di detonazione e 200 capsule di innesco. "Feral" ha pubblicato documenti che dimostrano che a rifornirlo di dinamite era Branimir Glavas che, a differenza di lui, oggi è un criminale di guerra condannato.

"Inviami 50 chili di salame e la quantità più grande che puoi di capsule", scriveva in un'occasione all'amico Branimir Tomica, visto che a Vukovar il numero di case serbe e negozi che dovevano essere minati superava di gran lunga la quantità di dinamite a disposizione. In quell'epoca "eroica", che la storiografia ufficiale nazionale omette come se non fosse mai accaduta, sono stati uccisi decine di cittadini di nazionalità serba. Secondo alcune fonti, il bilancio delle vittime si esprimeva con numeri a tre cifre. E' stato un tempo in cui i leader di SDS e HDZ non lasciavano niente al caso, perché doveva essere la guerra...

E' incredibile, ma sui crimini del "Napoleone di Vukovar", come i media guerrafondai chiamavano Merčep, si è saputo fino a Zagabria. In particolare ha fatto scalpore la lettera di un commissario del governo per Vukovar, Marin Bilog Vidic, che il 18 ottobre 1991 scrive al Presidente Tudjman e al primo ministro Francesco Greguric di come Merčep si fosse circondato di oscura gentaglia ed ex-criminali, che seminavano il terrore nella città, conducendo serbi noti e benestanti agli interrogatori presso la Segreteria della Difesa Nazionale, il cui capo nel frattempo diventava Merčep. Dopo gli interrogatori molti sparivano, e si sussurrava di cadaveri che galleggiavano nel Danubio - così era scritto nella lettera.

"Non per dire che a Vukovar non galleggiasse proprio nessun cadavere, ma erano meno di quanti avrebbero potuto essere", dirà più tardi Merčep, forse aspettandosi la gratitudine dai parenti dei serbi sopravvissuti... Pare che lo stesso Blago Zadro, che protesse molti serbi durante i più feroci combattimenti a Vukovar, una volta arrestò Merčep e alcuni dei suoi militi. Purtroppo, dopo un colloquio telefonico con Josip, Merčep fu rilasciato. Alla fine lo arrestò di nuovo il controverso membro della Polizia Ferdinand Jukic, che lo condusse via da Vukovar, nascosto nel bagagliaio dell'automobile e portato a Zagabria. Si ritiene che Tomica abbia preso un po' troppo sul serio il suo evidente ruolo da guerrafondaio.


Il terrore dell' "autore ignoto"


Naturalmente, né Franjo Tudjman né la sua mano destra Gojko Susak hanno pensato di arrestare Merčep. Infatti è stato promosso consigliere del Ministro degli Affari Interni Ivan Vekic. Sicuramente i consigli di Merčep erano preziosi perché l' "autore ignoto" che imperversava allora in tutta la Croazia, seminava il terrore tra i serbi, facendo saltare in aria le loro proprietà, licenziando e sfrattando, uccidendo e umiliando la gente, costringendoli a fuggire dal proprio paese. A quel tempo Merčep alla Fiera di Zagabria costituisce una sua propria unità, con la quale si reca sul campo di battaglia della Slavonia occidentale. Più precisamente, non solo sul campo di battaglia, ma accanto al campo di battaglia, nei villaggi vicino a Pakrac. Il terrore che hanno instaurato tra i serbi è stato descritto solo in parte nel processo a Sinisa Rimac e ad alcuni camerati di Merčep che sono stati poi condannati per diversi omicidi.

In quanti siano morti a Pakračka Poljana ancora non si sa. E' noto soltanto che attraverso le camere di tortura nella regione sono stati fatti passare tanti serbi, provenienti da Zagabria e Pakrac - dapprima saccheggiati, di molti di loro si perdono poi le tracce. In una delle azioni ordinarie dei soldati di Merčep - Sinisa Rimac, Munib SuljicIgor Mikola e Nebojsa Hodak - nel 1991 è morta anche la famiglia del macellaio zagabrese Mihajlo Zec. Il ricco macellaio Zec è stato rapinato e ucciso nella sua casa a Trešnjevka; sua moglie e la figlia di 12 anni, Alessandra, sono state portate sul monte Sljeme, fucilate e sepolte. Questo crimine è stato presto scoperto, e di più disgustoso c'è soltanto il modo in cui gli assassini sono stati tutti rimessi in libertà. Il ruolo principale in questa vergogna giudiziaria, senza precedenti rispetto alla già forte... concorrenza nel sistema giudiziario croato, che ancora si ricorda delle istruzioni di Milan Vukovic, lo ha svolto Vladimir Seks, Pubblico ministero dell'epoca. Li ha rilasciati a causa di errori procedurali, perché pare siano stati interrogati senza la presenza di un avvocato!

"Ci sarà bisogno di voi ragazzi" ha detto Franjo Tudjman ai camerati di Merčep dopo il loro rilascio. La morte ha impedito a Tudjman di recarsi all'Aia, dove avrebbe dovuto un pochino chiarire questa ed altre sue simili dichiarazioni.


Appartamento a Zagabria, villetta, terreni...


In quel 1991 eccezionalmente produttivo, Tomislav Merčep si recò a Gospic, città che aveva la sfortuna di essere al centro del territorio del gruppo di azione militare e intelligence, riunito intorno a Nikola Stedul, nonché di una organizzazione marginale ma pericolosissima: Il Movimento Croato per la Costituzione dello Stato. Non si è mai chiarito quale fosse la parte assegnata ai camerati di Merčep nei crimini commessi a Gospic - dal criminale Tihomir Oreskovic, e dall'allora 23enne cameriere di provincia Mirko Norac, che - almeno per quanto ne sa l'autore di queste righe - è noto per essere stato l'unico alto comandante militare ad essere giudicato colpevole di aver personalmente ucciso dei civili. Perchè fosse più grande il suo eroismo, Norac ha ucciso una donna, una madre, presa in una fila di decine di cittadini di Gospic, sparandole un colpo in testa. Sei anni dopo, un complice ne ha parlato. Miroslav Bajramovic, secondo la confessione fatta al giornalista di "Feral", non poteva sopportare la pressione psicologica che gli creava il fatto che Ivica Dikic, membro dell'unità di Merčep, avesse ucciso decine di civili. Dopo la sua scioccante confessione fu aperto il fascicolo contro alcuni ex-soldati di Merčep. Il nome di Tomislav Merčep, anche questa volta, non risultava; anche questo processo è finito con un fiasco - tutti sono stati assolti, nonostante la montagna di prove.

Sette anni fa, i giornali croati brulicavano di informazioni su come le accuse dell'Aia contro Merčep fossero ormai pronte, e che era solo una questione di giorni perché arrivassero a Zagabria. Più tardi si disse che il suo caso era stato trasmesso al sistema giudiziario croato - in altre parole, gettato nel dimenticatoio.

Nel frattempo, Tomislav Merčep vive la sua vita. Molto tempo fa ha lasciato l'HDZ, ed ha fondato un partito, il Partito popolare croato, nel 2000. Si è candidato per la presidenza. Ed ora riceve milioni di euro l'anno per la sua Associazione dei volontari. Questo convinto antifascista di famiglia partigiana, durante governo di Racan, partecipava ai banchetti nelle Giornate dell'Antifascismo. In un'intervista ha detto che a sua moglie regala i ciclamini. Quindi, vivacchia. Un appartamento a Zagabria, una casa nel Donji Dragonosac, un cottage in riva al mare, terreni a Lukovo Sugarje... Insomma, non manca niente...

Non si sa di che cosa abbia paura Tomislav Merčep. Una cosa è certa: non ha paura che la Procura della Repubblica lo citi in giudizio per i crimini di guerra che lui avrebbe ordinato, che sarebbero stati commessi dai cani da guerra di cui si era attorniato. E sarebbe interessante sentire cosa avrebbe detto Merčep se lo si fosse messo a sedere sulla panca dell'accusato. Cosa avrebbe detto di tutti questi TudjmanSeksVekicVukojevic e gli altri che lo hanno protetto in tutti questi anni... O in verità, volevano proteggere se stessi?



Tutti i diritti riservati © Novosti
Traduzione a cura di CNJ-onlus



Summit NATO, da Lisbona al mondo intero

1) "Guerra senza confini": la NATO si autoproclama Forza Militare Globale
Rick Rozoff trae le sue conclusioni dal vertice di Lisbona
2) "Perché la Russia dovrebbe aderire all'Alleanza Nord Atlantica?"
Gennady Zyuganov, Segretario generale del Partito Comunista della Federazione Russa, espone sue considerazioni prima del summit
3) La Russia e la NATO: “Non un pezzo d’arredamento”
Eric Walberg fornisce utili indicazioni sui rapporti Russia-NATO e Russia-Europa

(traduzioni di Curzio Bettio, che ringraziamo)

Segnaliamo inoltre che l'articolo
The US-NATO March to War and the 21st Century "Great Game" (Part II)
di Mahdi Darius Nazemroaya, da noi già diffuso
è disponibile online anche in lingua italiana:

La marcia USA-NATO verso la Guerra e il “Grande Gioco” del 21° secolo
di Mahdi Darius Nazemroaya


=== 1 ===



"Guerra senza confini": la NATO si autoproclama Forza Militare Globale

Summit di Lisbona: Concetto Strategico


di Rick Rozoff


(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)



Global Research, 22 novembre 2010


Dal summit della NATO, l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, conclusosi da pochi giorni in Portogallo, Washington ha ottenuto tutto ciò che pretendeva dall’Unione Europea, dalla Russia e dai suoi 27 alleati nella NATO, che aumenteranno i loro contingenti di truppa per la guerra in Afghanistan.

L’Alleanza Nord Atlantica controllata dagli Stati Uniti ha confermato, senza riserve e perfino senza dibattito e alcun deliberato, i piani usamericani di ingabbiare l’Europa intera nel sistema di intercettazione missilistica su scala mondiale del Pentagono e della sua Agenzia di Difesa Missilistica.

La dichiarazione finale del summit afferma: “La NATO conserverà un appropriato mix di forze di difesa convenzionali, nucleari e missilistiche. La difesa missilistica diverrà parte integrante della nostra posizione difensiva globale.” [1]
Inoltre, adottando questo nuovo Concetto Strategico, vengono autorizzate operazioni idonee ad uno stato di cyberguerra da estendersi in modo analogo a tutto il continente, in stretta collaborazione con il nuovo Cyber Comando del Pentagono e, a tutti gli effetti pratici, sotto la direzione degli Stati Uniti. [N.d.tr.: con il termine “cyberguerra” si indica l’insieme delle attività di preparazione e conduzione di operazioni militari atte ad alterare e a distruggere i sistemi di comunicazione, di informazione e di intelligence del nemico]
È stato riaffermato l’impegno dell’Alleanza ribadito nell’Articolo 5 per rendere collettiva l’assistenza militare ad ogni Stato membro sottoposto ad un presunto attacco ed è stato allargato oltre i limiti il concetto di attacco, per includervi categorie non propriamente di natura militare, come minacce terroristiche mediante mezzi informatici o energetici.

[N.d.tr.: Articolo V: Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali.]

Il Concetto Strategico “riconferma i vincoli fra le nostre nazioni per la difesa reciproca contro ogni aggressione, e contro le nuove minacce alla sicurezza dei nostri cittadini.” [2]

“I membri della NATO forniranno reciproca assistenza contro ogni attacco, in accordo con l’Articolo 5 del Trattato di Washington. Questo impegno rimane fermo e vincolante. La NATO scoraggerà ed alzerà difese contro ogni minaccia di aggressione e contro le emergenti sfide alla sicurezza, quando queste compromettessero la sicurezza fondamentale di ogni Alleato o dell’Alleanza nel suo complesso.”

Mentre non esistono minacce militari convenzionali – e tanto meno nucleari – il che corrisponde a negare tutti questi pericoli militari che i membri nordamericani ed europei della NATO dovrebbero affrontare, altre preoccupazioni completamente inventate serviranno da fondamento per l’attivazione dell’Articolo 5.

Queste preoccupazioni comprenderanno timori anche per aggressioni o minacce alle reti informatiche: la NATO sottolinea come “i cyber attacchi…possono raggiungere un livello tale da minacciare la prosperità, la sicurezza e la stabilità nazionale ed euro-atlantica”, e quindi i suoi membri sono obbligati a “sviluppare ulteriormente le possibilità di prevenire, scoraggiare, difendersi e riprendersi da aggressioni cibernetiche, utilizzando anche processi di pianificazione della NATO per intensificare e coordinare le risorse nazionali di cyber difesa, trasferendo tutte le strutture NATO sotto una cyber protezione centralizzata…”
La NATO esprime preoccupazioni anche per la “dipendenza” dell’Europa dal petrolio e dal gas naturale della Russia e per il controllo delle rotte strategiche e dei corridoi marittimi:

“Alcuni paesi della NATO diventeranno ancor più dipendenti dalle risorse energetiche provenienti dall’estero, e in qualche caso da fonti energetiche e da reti di distribuzione straniere per le loro necessità energetiche. Visto che una più larga quota di risorse destinata al consumo globale viene trasportata attraverso tutto il mondo, le forniture di energia sono sempre più esposte a gravi interruzioni dovute ad incursioni aggressive.”
Ed esistono diverse altre questioni, nemmeno lontanamente imparentate a problematiche militari, a destare inquietudini [3]:

“Importanti limiti ambientali e di risorse, come pericoli sanitari, cambiamenti climatici, penuria di acqua e bisogni crescenti di fonti energetiche influenzeranno ulteriormente le future condizioni ambientali di sicurezza nelle aree di interesse della NATO e in modo latente hanno il potenziale di influenzare in modo significativo le operazioni e le pianificazioni della NATO.”

Inoltre, la NATO ha reiterato il suo impegno a mantenere in Europa le bombe nucleari tattiche statunitensi, secondo il Concetto Strategico che afferma “che fintanto che esistono armi nucleari nel mondo, la NATO rimarrà un’Alleanza nucleare.”

E l’Alleanza si è accompagnata con la Casa Bianca e il Pentagono nello spostamento dagli impegni iniziali ad “abbassare” il prossimo anno le truppe degli Stati Uniti e della NATO dall’Afghanistan, a ciò che Washington ha in seguito definito come progetti “sub condicione” e solo “auspicabili” per una strategia “di transizione”, che potrebbe vedere le forze armate dell’Occidente ancora impegnate in un teatro bellico nella nazione asiatica, 15 anni o più dopo il loro primo arrivo.

La Dichiarazione finale del summit di Lisbona ribadisce: “La transizione avverrà sotto condizione, non sarà calendarizzata, e non considererà il ritiro delle truppe dell’ISAF.”

Non esiste nazione, o gruppo di nazioni, che stiano lanciando alla NATO una seria sfida, nessuno costituisce una minaccia per l’unico blocco militare del mondo, e nemmeno esiste qualcuno che fa opposizione al modo in cui avviene la sua espansione globale.

“Comunque, non dovrebbero esistere dubbi sulle risoluzioni della NATO nel caso in cui la sicurezza di qualcuno dei suoi membri dovesse essere minacciata…La deterrenza, basata su un appropriato mix di risorse nucleari e convenzionali, costituisce ancora l’elemento centrale della nostra strategia generale…Fino a quando esisteranno armi nucleari, la NATO resterà un’Alleanza nucleare.”

“La suprema garanzia della sicurezza degli Alleati è provvista dalle forze strategiche nucleari dell’Alleanza, in particolare da quelle degli Stati Uniti; le forze strategiche nucleari indipendenti del Regno Unito e della Francia, che svolgono una funzione di deterrenza in favore del loro territorio, contribuiscono anche alla deterrenza e alla sicurezza generale in favore degli Alleati.”

Formalizzando gli schieramenti internazionali degli ultimi undici anni - in Europa, Asia, Africa e nel Mare Arabico – il nuovo Concetto Strategico della NATO obbliga tutti gli Stati membri e i tanti partner a “sviluppare e conservare forze convenzionali robuste, mobili e dispiegabili per adempiere sia alle nostre responsabilità espresse dall’Articolo 5, che alle operazioni di spedizioni dell’Alleanza, in coordinazione con la Response Force della NATO,” ed “assicurare la più larga partecipazione possibile degli Alleati, la pianificazione dei ruoli nucleari per la difesa collettiva, il dislocamento in tempo di pace delle forze nucleari.”
Facendo riferimento ad una frase fatta, di scarsa sottolineatura, che dal 1989 è stata utilizzata per anticipare e più tardi per ribadire la realizzazione dei progetti atti a subordinare l’Europa intera al comando militare della NATO [4], la scorsa settimana a Lisbona i capi di Stato dell’Alleanza hanno anche confermato la realizzazione completa dei piani di espansione che interessano i Balcani e l’ex Unione Sovietica:

“Il nostro obiettivo di un’Europa unita e libera, e nella condivisione di valori comuni, sarebbe stato meglio realizzato dalla conclusiva integrazione di tutti i paesi europei, che desiderino questo, nelle strutture euro-atlantiche.
Le porte ad un ingresso come membri della NATO rimangono completamente aperte a tutte le democrazie europee che condividano i valori della nostra Alleanza, che abbiano la volontà e siano in grado di assumersi le responsabilità e gli obblighi di un’appartenenza come membri, e la cui inclusione possa contribuire alla comune sicurezza e stabilità.”

In particolare, la NATO continuerà “a sviluppare il partenariato con l’Ucraina e la Georgia all’interno delle Commissioni NATO-Ucraina e NATO-Georgia, sulla base delle decisioni assunte dalla NATO al summit di Bucarest del 2008” e “a facilitare l’integrazione euro-atlantica dei Balcani occidentali.” È stata fatta specifica menzione alla Bosnia, Macedonia, Montenegro e Serbia.
La Commissione NATO-Georgia si era insediata nel settembre 2008, un mese dopo la guerra dei cinque giorni fra la Georgia e la Russia, che era stata scatenata dal governo di Mikheil Saakashvili, una settimana dopo che a Tbilisi 1.000 uomini di truppa degli Stati Uniti avevano completato le esercitazioni tattiche “Immediate Response 2008” nell’ambito del programma della NATO “Partnership for Peace”, e mentre le truppe usamericane e il loro equipaggiamento si trovavano ancora in Georgia.

La decisione presa al summit di Bucarest sul futuro ingresso a pieno titolo come membri della NATO della Georgia e dell’Ucraina e la creazione della Commissione NATO-Georgia hanno dato origine all’“Annual National Program” per accelerare l’integrazione della Georgia nella NATO.

Nel 2008, il protocollo tradizionale di accesso, il “Membership Action Plan (MAP)”, non è stato presentato subito alla Georgia, a motivo di due clausole della NATO: a) gli Stati membri non possono essere coinvolti in dispute territoriali che si protraggono nel tempo (ecco perché a Cipro non può essere assegnato un MAP, prima del suo ingresso nel programma “Partnership for Peace”), e b) non ci possono essere forze militari straniere - vale a dire non-NATO - sul suolo di un potenziale membro.
Il governo della Georgia rivendica la sovranità sulle nazioni ora indipendenti della Abkhazia e della Ossezia del Sud, e afferma che in entrambe le regioni erano presenti due anni fa solo pochi soldati russi appartenenti a contingenti di pace.

La Commissione NATO-Georgia e l’“Annual National Program” – l’unico veicolo per inserire subito la Georgia (e l’Ucraina) nella NATO, bypassando le limitazioni sopra citate del “Membership Action Plan”- vengono integrate dalla Carta Stati Uniti-Georgia con riguardo alla Partnership Strategica, che era stata annunciata concisamente dopo la guerra del 2008 e sottoscritta il 9 gennaio 2009. (La comparabile Carta Stati Uniti-Ucraina con riguardo alla Partnership Strategica era stata firmata il 19 dicembre 2008 fra il Segretario di Stato Condoleezza Rice e il Ministro degli Esteri ucraino Volodymyr Ohryzko.)
È parere di diversi osservatori, compreso il sottoscritto, che l’attacco della Georgia contro l’Ossezia del Sud del 7 agosto 2008, se a buon esito, doveva essere immediatamente seguito da quello contro l’Abkhazia, eliminando in tal modo i suddetti ostacoli alla piena espansione della NATO nel Caucaso meridionale.
La sessione autunnale dell’Assemblea Parlamentare della NATO, che si è tenuta in Polonia fra il 12 e il 16 novembre, promuoveva una risoluzione che dichiarava l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud “territori occupati”, che provocava la risposta del Ministro degli Esteri dell’Abkhazia:

“La NATO è un’organizzazione che da molti anni ha contribuito ad intensificare la militarizzazione della Georgia, provocando la mentalità revanscista della dirigenza georgiana, sola causa dello spargimento di sangue dell’agosto 2008 nell’Ossezia del Sud.” [5]
A margine del summit di Lisbona, il 19 novembre Obama ha tenuto un incontro bilaterale con il georgiano Saakashvili.

I piani della NATO per ulteriori iniziative verso oriente e verso il sud di ciò che molti intendono come Europa non si limitano solo al Caucaso.
Il vertice di Lisbona, nell’approvare la nuova dottrina del blocco, per la prima volta senza mezzi termini ha anche affermato che la sfera di interesse della NATO è tanto ampia quanto il mondo stesso:

“La promozione della sicurezza euro-atlantica è meglio garantita da una vasta rete di relazioni di partenariato con paesi ed organizzazioni di tutto il mondo.”
Il Presidente Obama e gli altri 27 capi di Stato della NATO hanno approvato il nuovo Concetto Strategico, che afferma anche:


“Noi ci impegniamo con decisione allo sviluppo di relazioni, in uno spirito di amicizia e cooperazione, con tutti i paesi del Mediterraneo, e nei prossimi anni intendiamo ulteriormente sviluppare il “Dialogo Mediterraneo”. Noi assegniamo grande importanza alla pace e alla stabilità nella regione del Golfo, e intendiamo rafforzare la nostra collaborazione nell’“Iniziativa per la Cooperazione” di Istanbul.”

Il “Dialogo Mediterraneo” comprende la NATO e sette paesi dell’Africa e del Medio Oriente: Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia.
L’“Iniziativa per la Cooperazione” di Istanbul del 2004 [6] mira a promuovere i partner del Dialogo Mediterraneo allo stesso livello degli associati al programma della NATO “Partnership for Peace”, che ha predisposto 12 nazioni dell’Europa orientale a diventare membri di diritto dal 1999: Albania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia.
Inoltre, questa “Iniziativa” cerca di associare i sei membri del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo - Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – come partner militari della NATO.

La Giordania e gli Emirati Arabi Uniti sono già ufficialmente Nazioni Contribuenti di Truppe (TCN) per la Forza di Assistenza e Sicurezza Internazionale (ISAF) della NATO in Afghanistan, così come lo sono membri del programma “Partnership for Peace”, la Georgia e l’Ucraina per l’area ex sovietica, e la Bosnia, la Macedonia e il Montenegro nella regione dei Balcani.

In questo ultimo fine settimana la NATO ha affermato solennemente di “approfondire la cooperazione con gli attuali membri del Dialogo Mediterraneo e di essere aperta ad includere nel Dialogo Mediterraneo altri paesi della regione” e “di sviluppare una più profonda collaborazione per la sicurezza con i nostri partner del Golfo e di rimanere pronta ad accogliere nuovi partner nella Iniziativa per la Cooperazione di Istanbul.” Questo, per incorporare tutto il Medio Oriente e il Nord Africa in un suo più largo vincolo militare, tenendo ben presenti nazioni come l’Iraq [7], il Libano, lo Yemen, la Libia, la Somalia, Gibuti, l’Etiopia, il Senegal, il Mali, il Niger, il Ciad e perfino il Kenia.

La dichiarazione conclusiva del summit ha confermato la continuazione dell’“Operation Active Endeavour”, “la nostra operazione marittima nel Mediterraneo secondo l’Articolo 5”, la conferma ufficiale dell’“Operation Ocean Shield” al largo del Corno d’Africa, il trasporto aereo di truppe dall’Uganda alla Somalia per fornire sostegno alle azioni militari dell’African Standby Force che combatte in Somalia, e la Missione di addestramento NATO in Iraq.

[N.d.tr.: L’“Operazione Active Endeavour”consiste nel pattugliamento del Mediterraneo da parte delle navi della NATO per contribuire ad individuare e scoraggiare attività terroristiche, creando una rete di protezione marittima. The operation evolved out of NATO's immediate response to the terrorist attacks against the United States of 11 September 2001 and, in view of its success, is being continued.L'operazione è l’evoluzione di una risposta immediata della NATO agli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 e, in considerazione del suo successo, è stata continuata.

La NATO ha lanciato ufficialmente l’operazione “Ocean Shield” contro la pirateria al largo del Corno d’Africa, dopo il via libera del Consiglio Nord-Atlantico. Lo ha annunciato il Comando alleato a Lisbona. “Non è stata fissata alcuna scadenza per questa Operazione a lungo termine, che durerà finché sarà ritenuta necessaria”. Nel quadro di questa nuova missione, che resta incentrata essenzialmente sulle operazioni anti-pirateria, la NATO potrà anche “aiutare gli Stati regionali che ne faranno richiesta a sviluppare una propria capacità di lotta contro le attività dei pirati”, spiega un comunicato. “Questa componente dell’operazione deve completare gli sforzi internazionali in corso e contribuire a stabilire una sicurezza marittima duratura al largo del Corno d’Africa”, aggiunge il testo.]


Oltre ad esporre dettagliatamente i suoi piani di espansione in Europa, Asia e Africa nell’ordine, la NATO ha annunciato di essere ora una formazione internazionale politico-militare. La dichiarazione del vertice ha espresso “profonda gratitudine per la professionalità, la dedizione e il coraggio ai più dei 143.000 uomini e donne dell’Alleanza e delle nazioni partner, che sono stati impegnati in operazioni e missioni della NATO.”
Per di più, la sua nuova dottrina afferma: “Caso unico nella storia, la NATO è un’Alleanza per la sicurezza che mette in campo forze armate in grado di operare insieme in qualsiasi ambiente; che può controllare operazioni in ogni dove, attraverso la sua struttura di comando militare integrata…”
La Forza di Risposta NATO (NRF) “fornisce un meccanismo per generare un blocco di forza di pronto intervento e tecnologicamente avanzato, idoneo ad operare per terra, per aria e per mare, e componenti di forze speciali che possono essere dispiegate rapidamente in operazioni, dove risulti necessario.” [8]
La NRF era stata proposta nel settembre 2002 dall’allora Ministro della Difesa degli Stati Uniti Donald Rumsfeld e formalizzata al summit di Praga della NATO nel novembre dello stesso anno. La NRF conduceva la sua prima esercitazione a fuoco su larga scala, la “Steadfast Jaguar 2006 – Giaguaro risoluto (sic!)”, nell’isola nazione dell’Africa Occidentale di Capo Verde.

Alla fine dell’anno, la NRF veniva dichiarata essere di totale capacità operazionale con più di 25.000 uomini di truppa “idonei ad operare per cielo, per terra e per mare e integrati da componenti di forze speciali…in grado di condurre missioni operative a largo spettro in tutto il mondo.” [9]
Alludendo in parte alla NRF, il nuovo Concetto Strategico stabilisce:

“Nel momento in cui la prevenzione di un conflitto si dimostrasse infruttuosa, la NATO sarà preparata ed in grado di gestire lo sviluppo delle ostilità. La NATO ha potenzialità uniche nella gestione dei conflitti, compresa la capacità senza pari di dispiegare e sostenere robuste forze militari in campo.”

Inoltre, la NATO impegna le sue nazioni membri ad “ulteriormente sviluppare le risorse di saperi professionali e militari per le operazioni di spedizione, tra cui le operazioni contro-insurrezionali, di stabilizzazione e di ricostruzione.”

A Lisbona, Obama e i capi di Stato al suo seguito hanno concordato che:

“Noi, leader politici della NATO, siamo determinati a continuare il rinnovamento della nostra Alleanza, cosicché questa sia in grado di saper affrontare le sfide alla sicurezza del XXI secolo. Noi siamo fermamente impegnati a preservare la sua efficacia, come l’Alleanza politico-militare di maggior successo nel mondo.”

L’unico blocco militare del pianeta non protegge l’Europa da chimeriche minacce missilistiche e nucleari o da più reali preoccupazioni sollevate dalle magistrature per questioni giudiziarie dei suoi rispettivi membri, dalle forze di sicurezza interna e dai ministeri e dipartimenti per problemi ambientali, per l’immigrazione, le fonti di energia, la sanità pubblica e per le questioni climatiche.
Piuttosto, la NATO impiega il continente europeo come base operativa per il dispiegamento e le sue campagne militari, più che in qualsiasi altra parte del globo. Questo ruolo è stato consolidato attraverso l’integrazione militare degli Stati Uniti con la NATO e l’Unione Europea. [10].

Il 19 novembre, a Lisbona, il presidente del Consiglio Europeo dell’Unione Europea, Herman Van Rompuy, si è rivolto ai dirigenti della NATO e ha dichiarato: “La capacità delle nostre due organizzazioni di condividere il nostro ambiente futuro di sicurezza dovrebbe rivelarsi enorme, se lavoreremo insieme. È arrivato il momento di abbattere i muri che si frappongono ancora fra di noi.”[11]

La nuova dottrina della NATO per il XXI secolo afferma:

“L’Unione Europea è un partner unico ed essenziale della NATO. Le due organizzazioni hanno in comune la maggior parte dei membri, e tutti i membri di entrambe le organizzazioni condividono valori comuni. La NATO riconosce l’importanza di una difesa europea più forte e più efficiente. Noi diamo il benvenuto all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che fornisce una cornice per il rafforzamento delle risorse dell’Unione Europea indirizzate ad affrontare le comuni sfide alla nostra sicurezza.
Gli Alleati non appartenenti all’Unione Europea forniscono un contributo significativo a questi sforzi. Per il partenariato strategico fra la NATO e l’Unione Europea, il loro coinvolgimento più completo in questi sforzi è essenziale. La NATO e l’Unione Europea possono e devono ricoprire ruoli complementari e di mutuo rinforzo.”

Inoltre, la NATO ha acquisito un nuovo partner in Eurasia, un paese con il territorio più vasto al mondo, che si estende dal Mar Baltico e il Mar Nero fino all’Oceano Pacifico: la Russia.

Questo sarà l’argomento di un prossimo articolo.


Note

1) North Atlantic Treaty Organization Lisbon Summit Declaration – Dichiarazione del Summit della NATO a Lisbona
  http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_68828.htm?mode=pressrelease

2) Strategic Concept For the Defence and Security of The Members of the North Atlantic Treaty Organisation – Concetto Strategico per la difesa e la sicurezza dei membri della NATO
   http://www.nato.int/lisbon2010/strategic-concept-2010-eng.pdf

3) Thousand Deadly Threats: Third Millennium NATO, Western Businesses
   Collude On New Global Doctrine – Mille minacce mortali: la NATO del terzo millennio, gli interessi dell’Occidente colludono con la nuova dottrina globale
   Stop NATO, 2 ottobre 2009
   http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/02/thousand-deadly-threats-third-millennium-nato-western-businesses-collude-on-new-global-doctrine

4) Berlin Wall: From Europe Whole And Free To New World Order – Muro di Berlino: dall’Europa unita e libera al nuovo ordine mondiale
   Stop NATO, 9 novembre 2009
   http://rickrozoff.wordpress.com/2009/11/09/berlin-wall-from-europe-whole-and-free-to-new-world-order

5) Agenzia russa di informazioni Novosti, 18 novembre 2010

6) NATO In Persian Gulf: From Third World War To Istanbul – la NATO nel Golfo Persico: dalla terza guerra mondiale a Istanbul
   Stop NATO, 6 febbraio 2009
   http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/nato-in-persian-gulf-from-third-world-war-to-istanbul

7) Iraq: NATO Assists In Building New Middle East Proxy Army – Iraq: la NATO favorisce la costruzione di un nuovo esercito per procura nel Medio Oriente
   Stop NATO, 13 agosto 2010
   http://rickrozoff.wordpress.com/2010/08/14/iraq-nato-assists-in-building-new-middle-east-proxy-army

8) North Atlantic Treaty Organization Allied Command Operations – Operazioni del Comando alleato della NATO
   http://www.aco.nato.int/page349011837.aspx

9) North Atlantic Treaty Organization; The NATO Response Force
   http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49755.htm

10) EU, NATO, US: 21st Century Alliance For Global Domination – EU, NATO, US: Alleanza del XXI secolo per il dominio globale
    Stop NATO, 19 febbraio 2009
    http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/eu-nato-us-21st-century-alliance-for-global-domination

11) EUobserver, 21 novembre 2010

Stop NATO
http://groups.yahoo.com/group/stopnato

Blog sito:
http://rickrozoff.wordpress.com/


=== 2 ===


Source: http://gazeta-pravda.ru/content/view/6249/34/
Data di pubblicazione dell’articolo originale: 15/11/2010

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NATO: un lupo nella pelle di agnello 

Perché la Russia dovrebbe aderire all’Alleanza Nord Atlantica?


di Gennady Zyuganov

Segretario generale del Partito Comunista della Federazione Russa


(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

Sullo sfondo della crisi globale, in cui è stata coinvolta la Russia anche più profondamente di altri importanti paesi, si possono osservare nuovi pericolosi fenomeni nella politica della dirigenza del nostro Paese.

Mi riferisco ai progetti di ulteriore messa in liquidazione di imprese strategiche, di privatizzazione commerciale dell’istruzione, della sanità e della cultura, e alla spinte per trascinare la Russia nell’ambito del WTO, World Trade Organization, l’Organizzazione mondiale del commercio.

Di recente, le lunghe trattative per l’ingresso della Russia nella NATO, che erano giunte ad una posizione di stallo, improvvisamente sono state riprese. Esperti e giornalisti filo-governativi si sono tanto impegnati per dimostrare che questo è un passo necessario.

Ad un forum internazionale tenutosi in settembre a Yaroslav, il presidente del Direttivo dell’Istituto per un Moderno Sviluppo (INSOR), il signor Yurgens, ha pubblicamente ventilato l’idea di trascinare la Russia all’interno della NATO. Il presidente del Consiglio di amministrazione dell’INSOR è il Presidente della Russia, Dmitrij Medvedev.

Questo potrebbe significare che il signor Yurgens ha lanciato la sua iniziativa con il tacito consenso dell’Amministrazione presidenziale? Lo stesso Presidente russo intende prendere parte [N.d.Tr.: e vi ha preso parte] al vertice NATO di Lisbona, fra il 19 e il 20 novembre. Nel corso di un recente incontro con il Segretario generale della NATO Anders Rasmussen, Dmitry Medvedev ha affermato che il summit di Lisbona potrebbe non solo “dare un brillante avvio alle relazioni fra NATO e Russia, ma contrassegnare la modernizzazione di mutue relazioni.”

Non vi è nulla di nuovo rispetto a questo “brillante avvio”. Il percorso di riavvicinamento con l’Occidente in termini di capitolazione è stato aperto da Mikhail Gorbachev con i suoi “valori umani universali”. L’amoreggiare con gli Stati Uniti e i loro alleati ha prodotto conseguenze nefaste per il nostro paese. Tuttavia, i dirigenti della Russia hanno mancato di trarre utili insegnamenti da tutto ciò. 

Yeltsin aveva permesso la prima ondata espansiva della NATO verso i confini della Russia. Aveva spalleggiato l’aggressione della NATO contro la Jugoslavia, nostro personale alleato in Europa. Ma verso la fine del regime, a Yeltsin, diveniva più chiaro che i “partners” ci avevano cinicamente menato per il naso. Irritato, Yeltsin autorizzava la famosa marcia di una compagnia di truppe aerotrasportate russe verso Pristina, la capitale del Kosovo, ma non era dato di più. Dopo poco tempo, il signor Putin riportava ogni cosa alla situazione iniziale. 

Uno dei primi passi del nuovo Presidente è stato quello che la Duma ratificasse l’infame Trattato START-II, che avrebbe portato allo smantellamento dei nostri missili pesanti. Le forze nucleari strategiche della Russia sono state salvate solo perché il Congresso degli Stati Uniti si è rifiutato di ratificare il Trattato. In seguito, le autorità russe hanno dato di fatto il loro consenso alla seconda ondata di espansione della NATO, questa volta a raggiungere i paesi del Baltico.

Subito dopo, con il pretesto di prendere parte alla coalizione internazionale contro il terrorismo, il signor Putin contribuiva in buona sostanza all’insediamento di basi NATO nell’Asia Centrale. Contemporaneamente, venivano liquidate basi essenziali russe a Cuba e nel Vietnam.

 

Tuttavia, dopo sei anni di inesauribili sforzi concentrati a rafforzare le relazioni con la NATO, il signor Putin improvvisamente ha scoperto che l’Occidente non aveva alcuna intenzione di ricambiare, ma continuava a presentare sempre nuove richieste, minacciando di trascinare la dirigenza russa davanti alla Corte internazionale per le azioni belliche della Russia in Cecenia.

Perciò, nel febbraio 2007, a Monaco il Presidente russo pronunciava il suo famoso discorso anti-NATO, in cui esprimeva profonda indignazione per la perfidia e slealtà dei “partners”.

Ora, il Presidente Medvedev viene istigato a seguire il medesimo percorso. Alcuni importanti passi preparatori sono stati presi alla vigilia della sessione di Lisbona della NATO. È stato sottoscritto un altro trattato di “disarmo” con gli Stati Uniti. Mosca ha sostenuto sanzioni più severe contro l’Iran e ha stracciato il contratto per la fornitura a Teheran di sistemi di difesa anti-aerea. Sono stati lanciati in modo sconsiderato alcuni attacchi verbali contro la Corea del Nord. I rapporti con la Bielorussia si sono aggravati senza una precisa causa. Un grande regalo è stato presentato alla Norvegia, il più stretto alleato degli Stati Uniti nella NATO, a cui è stato concesso il controllo su gran parte del Mare di Barents, sul quale il nostro paese non ha mai riconosciuto la sovranità straniera.

Attualmente, sembra che le relazioni tra la Russia e la NATO stiano per arrivare ad un nuovo livello, ad un passo verso l’adesione della Russia a questo blocco aggressivo.

  

NATO: Da poliziotto europeo a poliziotto globale

Bisogna ricordare che l’Alleanza era stata creata il 4 aprile 1949, presumibilmente per proteggere l’Europa contro l’invasione delle “orde rosse” provenienti dall’Oriente. Eppure, al momento, uno dei dirigenti della NATO ammetteva che lo scopo vero del blocco era quello “di proteggere l’America, di controllare la Germania, e di escludere e reprimere la Russia.”

L’Unione Sovietica è stata distrutta. Allora, potrebbe sembrare che non vi sia alcuna ragione perché la NATO debba esistere ancora. Ma l’Alleanza continua a vivere, e anzi è in espansione e mostra i suoi muscoli potenziati. Il vero significato del mantenimento della NATO è stato messo in luce dagli interventi sfrontati contro la nazione amica Jugoslavia, e poi contro l’Iraq e l’Afghanistan.

È diventato chiaro che la NATO è ancora uno strumento per promuovere le ambizioni globali degli Stati Uniti e dei loro alleati. È un dato oggettivo che strateghi occidentali concordano sul fatto che il ruolo della NATO è sempre più importante.

L’equilibrio delle forze nel mondo sta rapidamente mutando. Nel 1999, quando i membri della NATO adottavano entusiasticamente il nuovo Concetto Strategico, che trasformava la NATO da alleanza per la difesa dell’Europa in un blocco offensivo con un raggio di azione esteso al mondo, a tutto questo non si sono verificate resistenze, e nemmeno ne venivano previste. La Russia giaceva fra le rovine delle “riforme”, mentre la Cina doveva ancora affermare il proprio potere politico ed economico.

Oggi, come la crisi ha dimostrato, l’ordine dell’oligarchia mondiale, tutto centrato sul Nord America e l’Europa, è in fase di arretramento. Sotto l’influenza della Cina comunista, i paesi asiatici, la cui funzione fino a poco tempo fa era stata quella di rifornire di risorse naturali e di lavoro a buon mercato l’Europa e gli Stati Uniti, stanno emergendo come fattori chiave nelle politiche mondiali. Processi consimili stanno prendendo piede in America Latina. I paesi del “Continente nero”, campo sconfinato per il saccheggio da parte delle imprese transnazionali (TNC), stanno unendosi nell’Unione Africana contro il colonialismo. Il Medio Oriente e il mondo islamico, come un tutt’uno, costituiscono un blocco ben saldo in un duro scontro con l’Occidente.

La lotta per la leadership si sta intensificando. La crisi economica indebolisce ulteriormente il sistema capitalista. L’oligarchia internazionale è composta dalle persone più ricche del pianeta, alla direzione di più di 500 potenti imprese transnazionali, che gestiscono un capitale di 16 miliardi di dollari e incidono su più del 25% della produzione industriale mondiale. Questa “élite” non ha alcuna intenzione di rinunciare alla propria egemonia sul pianeta, acquisita attraverso secoli di guerre di conquista. Da qui la nuova serie di conflitti militari, l’atteggiamento aggressivo nei confronti dell’Iran e della Corea del Nord e la crescente pressione sulla Cina.

 

L’Occidente è alla ricerca di un maggiore consolidamento al fine di perpetuare il proprio dominio. Mentre negli anni ’90 la questione se la NATO avesse ancora un qualche significato era oggetto di dibattito, oggi l’oligarchia, preoccupata per il mutato equilibrio di forze nel mondo, sta energicamente imponendo la costruzione della NATO come gendarme del mondo. Si prefigge il compito di implementare sistemi di controllo globale su tutte le superfici delle terre emerse e dei mari e di essere in grado di scatenare attacchi in qualsiasi punto del pianeta. La NATO sta risultando come una struttura sovranazionale che tenta di sovvertire il sistema del diritto internazionale, che aveva preso forma dopo la Seconda Guerra mondiale e a cui erano soggette le Nazioni Unite. 

Tornando al 1993, Zbigniew Brzezinski nel suo libro “Il mondo fuori controllo” dichiarava apertamente che, se gli Stati Uniti pretendevano il controllo del mondo, per ottenere ciò dovevano affermare la loro preminenza sull’Eurasia, in modo particolare sulla “periferia dell’Occidente” (l’Unione Europea), sulla sua zona centrale (la Russia), sul Medio Oriente, sull’Asia Centrale e sulle sue riserve petrolifere.

Secondo l’illustre analista usamericano John Kaminski, le truppe statunitensi non stanno combattendo per la libertà. La loro è una battaglia per i profitti delle corporation…l’esercito esiste per conquistare e saccheggiare altri paesi e popoli.  

Al vertice di Lisbona, i suoi partecipanti vanno per approvare un nuovo Concetto Strategico della NATO, che deve sostituire quello adottato nel maggio 1999, quando il blocco aveva dichiarato di avere il diritto di intervento globale. Verosimilmente, il nuovo Concetto confermerà l’espansione continua della NATO verso oriente. Verranno mantenute in Europa le bombe nucleari tattiche degli Stati Uniti. Sarà creato un sistema di difesa missilistica europeo in collaborazione con gli Stati Uniti, che ovviamente verrà diretto contro la Russia. 

Il capitale oligarchico, consapevole della minaccia alla sua egemonia mondiale proveniente da Asia, America Latina e Medio Oriente, sta cercando di contrattaccare. Ma le sue risorse continuano a ridursi.


La Russia sta per essere trascinata nella guerra in Afghanistan

Qual è la preoccupazione più grande per la NATO? Il fatto di non avere abbastanza “carne da cannone” per le sue spedizioni coloniali. La NATO sta febbrilmente guardandosi in giro nel campo degli alleati. Attualmente, in Afghanistan sono dispiegati 150.000 uomini da 47 nazioni. Molte ex repubbliche sovietiche sono state coinvolte: l’Estonia ha inviato 160 uomini, la Lettonia 170, la Lituania 245, l’Azerbaijan 90, l’Armenia 40, l’Ucraina 15 e la Georgia 925.

Ai nostri alleati dell’ultimo Patto di Varsavia sono state presentate richieste di aumentare i loro contingenti. Così, la Polonia ha impegnato in Afghanistan 2630 uomini, la Romania 1750, l’Ungheria 360, la Bulgaria 540, la Repubblica Ceca 500 e la Slovacchia 300. Perfino la Mongolia ha inviato quasi 200 soldati. Esiste forse qualche dubbio sul fatto che alla Russia verrà chiesto di dare un contributo più “degno” per la “lotta per la democrazia” in Afghanistan? 

Qual è il significato dell’Articolo 5 della Carta della NATO? L’Articolo recita che tutti i membri del blocco devono accorrere in difesa di ognuno dei membri, quando questo fosse soggetto ad un’aggressione. La natura dell’attacco non viene chiaramente esplicitata. Potrebbe benissimo corrispondere alla “minaccia terroristica”, che sta assumendo un ruolo di così grande importanza in Occidente. Coloro che stanno trascinando a forza la Russia all’interno della NATO devono capire che la Russia sarà obbligata a proteggere gli interessi collettivi dell’Alleanza. E non solo in Afghanistan…

Con tutta evidenza Washington ritiene “ragionevolmente” inammissibile che il governo russo stia ancora sottraendosi dal fare quello che è il “sacro dovere” di tutti i partner degli Stati Uniti, ossia la lotta per gli interessi usamericani. A Washington si sentono sempre più voci assillanti che invocano un intervento in Iran. Quindi, sarà necessaria sempre più “carne da cannone”.

L’opinione pubblica occidentale respinge la guerra senza senso in Medio Oriente, soprattutto dopo che i “nobili” obiettivi della “lotta contro il terrorismo internazionale” stanno rapidamente perdendo la loro lucentezza, e il costo e il numero di bare di ritorno dall’Afghanistan stanno spiccando il volo.

Quindi, per i leader della NATO è estremamente importante creare l’impressione che questa guerra abbia il più largo consenso internazionale. In generale, questo è uno degli espedienti favoriti dagli Statunitensi: ripartire fra tutti i loro alleati le responsabilità delle loro avventure colonialiste. Questo è stato il caso in Corea negli anni ’50 e in Vietnam negli anni ’60. Questo è quello che sta accadendo in Afghanistan.

Il Segretario Generale della NATO parla apertamente dell’invio di piloti di elicotteri russi in quella regione, e in un incontro di pochi mesi fa al Pentagono con il signor Serdyukov, Ministro della Difesa russo, il Ministro della Difesa degli Stati Uniti ha sollevato la questione dell’invio in Afghanistan di reparti speciali ed aviotrasportati russi. Fino ad ora, non abbiamo sentito notizia di un deciso rifiuto da parte russa di fare questo. 

D’altro canto, sappiamo che i legami tra le forze armate della Russia e della NATO sono stati completamente ristabiliti in occasione della visita al quartier generale dell’Alleanza a Bruxelles del capo di Stato Maggiore Generale N. Makarov, all’inizio di quest’anno. Sono stati sottoscritti diversi accordi su esercitazioni regolari a livello di stati maggiori per rendere operative la compatibilità e l’interoperabilità delle truppe e per lo scambio di militari per la formazione e altre attività volte a integrare le forze armate russe nelle strutture della NATO. 

Gli strateghi occidentali decidono di ammettere la Russia nell’Alleanza solo come un membro della truppa, di rango inferiore, mettendo in chiaro che il blocco ha un solo padrone, gli Stati Uniti. La Russia si trasformerebbe da un rivale pericoloso, tale da essere tenuto fuori dall’Europa, in un vassallo docile.

In altre parole, la formula sta cambiando. Ora l’obiettivo principale della NATO è di “mantenere in posizione prominente gli Stati Uniti e in posizione sottomessa la Germania e la Russia”.


Conseguenze dell’entrata della Russia nella NATO

Se il nostro paese aderirà all’Alleanza, la nostra indipendenza nell’affrontare le questioni mondiali verrà drammaticamente compromessa. La Russia dovrà coordinare le sue azioni con gli alti ufficiali della NATO, o, in termini pratici, cercherà di ottenere il loro permesso per ogni sua iniziativa internazionale. Avremo “nemici comuni”. Noi tutti dovremmo renderci conto che, nell’eventualità di un’adesione della Russia alla NATO, le nostre frontiere meridionali e dell’Estremo Oriente potrebbero diventare per la prima volta zone di alta tensione e quindi campi di battaglia.

Similmente a tutti gli altri membri dell’Alleanza, la Russia dovrà affrontare “l’occupazione amichevole” con la comparsa sul nostro territorio di basi NATO e forze di intervento rapido, e i trasporti senza controllo delle forniture militari della NATO attraverso il nostro territorio. Come risultato di questa trasformazione, il ruolo geopolitico eurasiatico della Russia muterà. Quindi, l’adesione della Russia alla NATO rappresenterà il prologo della sua autodistruzione.

Per l’economia russa questa mossa potrebbe suonare come la campana a morto per il nostro complesso militare-industriale, che è stato a lungo il motore di spettacolari risultati scientifici e tecnologici e ha utilizzato le forme più avanzate di organizzazione del lavoro.

Inevitabilmente, saremo costretti ad assumere gli standard della NATO e ad acquistare strutture militari straniere. Il processo è in pieno svolgimento. Noi abbiamo già acquisito fucili inglesi, droni israeliani, veicoli corazzati italiani e il “contratto del secolo” vedrà la Marina russa acquistare navi portaelicotteri francesi, assolutamente non necessarie. Il generale Ivashov stima che nei prossimi anni la Russia si procurerà almeno il 30% dei suoi armamenti dai paesi della NATO e da Israele.

Nel frattempo, il blocco effettivo della produzione degli aerei TU-2004 e IL-96 significa che non stiamo solo diventando totalmente dipendenti dall’Occidente per gli aerei passeggeri, ma anche che presto non saremo in grado di produrre i nostri aerei da trasporto militare.

In caso di conflitto non avremo i pezzi di ricambio o la capacità di riparare gli aerei passeggeri, che sono stati da sempre una riserva di emergenza.

La distruttiva “riforma” delle Forze Armate rientra nel medesimo disegno. È da associarsi sempre al nome del signor Serdyukov. Ma, a quanto pare, la sua attività ha il sostegno della dirigenza del nostro Paese.

Esiste già la triste esperienza di tali “riforme”. Gli eserciti, una volta validi, dei paesi del precedente Patto di Varsavia - Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria e Romania - sono stati trasformati in “contingenti” totalmente inidonei a difendere i loro paesi e le loro popolazioni, ma che forniscono mercenari per le guerre coloniali degli Stati Uniti d’America.

La stessa sorte ha dovuto subire quello che una volta era il potente Esercito Popolare di Jugoslavia. Dopo il colpo di stato del governo nell’ottobre del 2000, quando le forze filo-occidentali si sono impadronite del potere a Belgrado, una serie di “riforme” dell'Esercito jugoslavo lo hanno trasformato nella pallida ombra della forza armata tanto efficace che solo di recente era stata in grado di respingere l’invasione da terra della NATO.

Le autorità russe hanno distrutto la scienza e l’industria di difesa, che avevano ereditato dall’Unione Sovietica, a tal punto che abbiamo perso la capacità di produrre in modo bastante i nostri stessi armamenti, per non parlare della potenzialità di svilupparne di nuovi. L’Esercito, che una volta era temuto dai suoi nemici, demoralizzato e disarmato dai “riformatori”, non è più in grado di difendere la Russia.

La riorganizzazione della struttura delle Forze Armate, l’adozione del sistema di brigata, gli acquisti di attrezzature militari straniere, le esercitazioni congiunte negli Stati Uniti e in Europa, il rifiuto di ammettere cadetti e allievi negli istituti di istruzione superiore militare non è altro se non la piattaforma di lancio per preparare un modulo militare per far aggangiare ciò che resta dell’Armata e della Marina russa alle forze di spedizione degli Stati Uniti e della NATO. 

Il messaggio è chiaro: la Russia volontariamente rinuncia al suo status di leader mondiale e diventa subordinata alle forze più aggressive.

Il nostro popolo vittorioso merita di subire un simile trattamento?


È possibile fidarsi dell’atteggiamento amichevole della NATO?

I fatti sono refrattari a questo. Attestano che la NATO sta in tutta tranquillità continuando a preparare l’invasione della Russia. Le nostre truppe sul teatro europeo sono surclassate per 10-12 volte da quelle della NATO. Nella sola Europa la NATO può dispiegare 36 divisioni, 120 brigate, 11.000 carri armati, 23.000 pezzi d’artiglieria e 4.500 aerei da guerra. Qual è lo scopo di disporre di una tale enorme potenza militare? Per combattere il terrorismo internazionale, che oggi è presentato come la principale giustificazione dell’esistenza della NATO? 

Nel frattempo, gli specialisti ritengono che il 70% di tutte le attività operative, le esercitazioni, i piani di guerra elaborati a livello degli alti comandi dalla NATO costituiscono le prove di ingresso in un periodo iniziale di guerra su vasta scala, prove intraprese per guadagnare la superiorità aerea e per mettere in esecuzione operazioni offensive.

Attualmente, la NATO non ha altri potenziali nemici contro cui scatenare operazioni su larga scala, fatta eccezione della Russia. Si può senza dubbio affermare quindi che la NATO desidera occuparci! 

La NATO sta imponendo la sua presenza ovunque. La Russia è strategicamente circondata. Attorno alla Russia è stata creata una cintura di stati ostili. Basi statunitensi stanno spuntando in Polonia, Bulgaria e in Romania sulla costa del Mar Nero. I Paesi Baltici sono già sotto il controllo della NATO. In queste regioni, sono stati modernizzati basi navali e aeroporti militari in grado di ospitare fino a 200 aerei da guerra in qualsiasi momento. E l’Estonia si trova nel raggio di 200 km da Leningrado! L’aviazione NATO può lanciare i suoi missili perfino senza invadere il nostro spazio aereo.

L’Ucraina e la Moldavia stanno facendo anticamera per essere ammesse nella NATO. La Georgia è già stata guadagnata dalla NATO. L’Azerbaigian è progressivamente orientato verso la NATO. Basi aeree del blocco si trovano in Tagikistan e Kirghizistan.

I nuovi membri dell’Alleanza, compresi i Paesi Baltici, non hanno limitazioni nel dispiegamento di armi nucleari sul loro territorio, non sono condizionati dalle limitazioni previste dal Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa (CFE), fattore che rende possibile la creazione di gruppi di attacco nei loro territori.

C’è un’azione costante per stabilire il controllo sulla nostra Flotta del Nord, il più potente raggruppamento di forze nucleari marittime della Russia. La NATO utilizza stazioni di monitoraggio in Norvegia e nei Paesi Baltici, e posti di controllo radio elettronico su Spitzbergen (un’isola della Norvegia). Boe acustiche, satelliti e aerei da ricognizione Orion mettono sotto traccia tutti i movimenti dei nostri sottomarini nucleari. La ricognizione aerea della NATO, lungo le nostre frontiere, sta diventando di giorno in giorno sempre più attiva.

 

Cosa ci sta dietro ai tentativi di trascinare la Russia all’interno della NATO?

L’élite russa già da lungo tempo tenta di andare a far parte dell’oligarchia mondiale. Ma le è stato fatto capire che l’unico permesso per entrare al “club” passa attraverso l’organizzazione militare della NATO. Il messaggio insito a questo, che per noi costituisce primario motivo di conflitto, è: “Versate il sangue dei vostri cittadini in nome dei valori occidentali, e poi valuteremo se ammettervi al club”.

 L’impennata “improvvisa”di interesse ad aderire alla NATO è una prova ulteriore del fatto che le élite della Russia e dei paesi della NATO hanno la stessa natura di classe. Il gruppo che oggi governa la Russia è ritenuto così modernista da “occidentalizzare” la Russia. E la preparazione all’“occidentalizzazione” è in atto da tempo.

L’élite filo-occidentale della Russia continua a dire che la Russia non ha nemici. Fatta eccezione per i fantomatici “terroristi internazionali”. Gli artefici della nostra politica estera rifiutano di ammettere il fatto evidente che gli obiettivi storici dell’Occidente non sono cambiati e che la Russia è vista ancora come fonte di risorse a buon mercato e come un mercato di beni occidentali di scarsa qualità, sopravvissuti alla loro data di scadenza. 

La sfilata di reparti incolonnati della NATO sulla Piazza Rossa il Giorno della Vittoria, il 9 maggio 2010, un giorno sacro per tutti i Russi, ha dimostrato che le élite della Russia e della NATO si stanno muovendo a diventare “anime gemelle”. Stanno tentando di inculcarci che il nostro popolo, che per primo ha inviato un suo figlio - Yuri Gagarin – nello spazio, è solo capace di raccogliere le briciole dalle tavole occidentali.

Stiamo assistendo alla rivincita del liberismo rabbioso, quando più di 900 imprese, tra cui alcune di interesse strategico, stanno per essere privatizzate, e questo significa che la sicurezza nazionale del Paese è sacrificata per smania di guadagno e di interessi egoistici.


Per inciso, l'élite russa continua a mostrare incoerenza. Mentre si sta opponendo con fermezza all’ammissione nella NATO di Ucraina e della Georgia, Mosca improvvisamente dichiara che intende lei aderire all’Alleanza! La Dottrina Militare della Russia indica la NATO come il principale avversario. Ma allora, stiamo per integrarci nell’organizzazione del nostro principale avversario?

Naturalmente, secondo la Costituzione della Russia di Yeltsin, è il Presidente che determina la politica estera del Paese. Allo stesso tempo, i dirigenti della Russia non dovrebbero dimenticare il principio costituzionale che afferma come la fonte del potere in Russia sgorga dal suo popolo. In termini evidenti, un cambiamento così netto del corso della storia del Paese richiede il consenso del popolo. Il meccanismo per verificare tale consenso è ben noto. Questo è il referendum. Se le autorità della Russia attuale ritengono di essere infallibili, poniamo loro il quesito dell’ingresso nella NATO in un referendum. Ma sono scarse le possibilità che lo faranno!

Loro sanno benissimo che il popolo conserva nei suoi geni il ricordo di precedenti “visite” alla Russia da parte dei suoi vicini europei, sia nella forma di intervento polacco durante il Periodo dei Torbidi [N.d.Tr.: con il nome di Periodo dei Torbidi si intende quel periodo di interregno nella Russia dominato da un’anarchia assoluta seguente alla fine della Dinastia dei Rurik (1598) e precedente alla Dinastia dei Romanov (1613). Fu uno dei periodi più foschi e torbidi della storia russa, e nello stesso tempo più importanti insieme alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917], sia di invasione da parte del grande esercito di Napoleone o delle orde di Hitler con legioni di SS, che vedevano nei loro ranghi rappresentanze di quasi tutti i paesi membri attuali della NATO. 

La Russia ha già pagato per la sua sicurezza con milioni di vite nella Seconda Guerra mondiale ed ha contribuito così a liberare l’Europa dal fascismo. Per rafforzare la sicurezza della Russia, non dobbiamo chiedere di essere ammessi alla NATO, ma dobbiamo sviluppare la nostra industria, l’istruzione e la scienza. Dobbiamo rivitalizzare le nostre Forze Armate. Dobbiamo recuperare la cerchia dei nostri amici ed alleati fra i Paesi membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e dell’Organizzazione del Patto per la Sicurezza Collettiva.

Soprattutto, dobbiamo cercare di ricreare una unione fra Russia, Bielorussia e Ucraina, che riporti insieme le potenzialità dei tre popoli slavi. Questa è la migliore garanzia per la nostra sicurezza. Questo è avvenuto per secoli in un nostro Stato comune. Così sarà anche in futuro.


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Fonte: http://ericwalberg.com/index.php?option=com_content&view=article&id=291:russia-and-nato-not-a-piece-of-furniture&catid=37:russia-and-ex-soviet-union-english&Itemid=90
Data di pubblicazione dell’articolo originale: 24/11/2010
URL di questa pagina: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=2649

La Russia e la NATO: “Non un pezzo d’arredamento”


di Eric Walberg
giornalista canadese che scrive per il settimanale Al-Ahram Weekly



Da: Claudia Cernigoi

Oggetto: commemorazione di Pinko Tomažič e dei suoi compagni

Data: 14 dicembre 2010 21.02.21 GMT+01.00


Domani, 15 dicembre cade l'anniversario della fucilazione di  di Pinko Tomažič e dei suoi compagni Ivan Vadnal, Simon Kos, Viktor Bobek e Ivan Ivančič, avvenuta nel 1941.
Domenica 19 alle ore 15 al poligono di Opicina (strada per Vienna, verso Fernetti) si terrà la consueta commemorazione. Parleranno Claudia Cernigoi e Marisa Škrk.
 
siete invitati a partecipare
Claudia
 
nota storica

L’inchiesta del 1940 (nel corso della quale in conseguenza delle torture era morto Slavko Škamperle, Adolf Ursič impazzì ed Edvard Mlekuž riportò danni fisici permanenti) si concluse con quello che è noto come “il secondo processo di Trieste”, celebrato nel 1941, che vide imputati 60 antifascisti < di varia natura: comunisti, nazionalisti sloveni, terroristi, cattolici, demo-liberali > (così nella sentenza del 14/12/41). < Gli imputati sono arrestati per motivi diversi, ma vengono raggruppati in un unico processo affinché la repressione risulti spietata contro tutti gli oppositori del regime. I più colpiti sono comunque i comunisti e i nazionalisti sloveni, cui vengono attribuiti, senza alcuna prova, i casi che la polizia non è riuscita a risolvere nel corso di dieci anni... > (in Da Pont A., Leonetti A., Maiello F., Zocchi L., “Aula IV. Tutti i processi del tribunale speciale fascista”, La Pietra 1976, p. 454). Il processo si concluse con 9 condanne a morte, di cui 5 eseguite il 15/12/41 presso il poligono di Opicina. Furono fucilati Pinko Tomažič, Ivan Vadnal, Simon Kos, Viktor Bobek e Ivan Ivančič.

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Il 15 dicembre sono 69 anni da che Pino (Pinko) Tomazic cadeva,ucciso dal piombo fascista, nel poligono di tiro di Opicina, 24 ore dopo l'iniqua sentenza del Tribunale  speciale per la Sicurezza dello Stato riunitosi a Trieste contro i patrioti arrestati nella primavera dell'anno prima, sentenza che lo condannava a morte mediante fucilazione alla schiena. Nove condanne a morte,di cui 4 commutate in ergastolo,23 condanne a 30 anni di reclusione ed altre a pene minori.Durante l'istruttoria alcuni detenuti morirono per le percosse subite. Era l'anno 1941, anno che segnò la folle e vile aggressione alla Yugoslavia,e poi alla Russia, la proclamazione della regione di Lubiana come provincia italiana,e quella città serena e pacifica venne trasformata in un campo di concentramento, circondata tutta dal filo spinato, come una enorme trincea . Durante il permesso,i soldati italiani uscivano armati,perchè la zona era considerata di alto  rischio causa quelle che venivano definite "bande",ma in realtà rappresentavano la Resistenza di patrioti che difendevano il suolo della propria terra occupata dall'invasore fascista. Persino il giornale "Il Piccolo" riportava,al suo interno ,la cronaca di  Lubiana, come di una città italiana,quale Udine o Gorizia e la farsa durò fino al 1943. Tutto sembrava,allora,inevitabilmente perso, sconfitti lo spirito di libertà ed indipendenza delle genti slave, inutile il ribellarsi. Ma  Pinko non si arrese, ed insieme ad altri compagni  continuò la lotta,tesse le reti per una Resistenza  combattiva ed efficace,propagandò gli ideali di libertà e preparò il riscatto, predispose ed organizzò la iniziale guerra partigiana, quella che poi ,espandendosi,alla fine, riuscì vittoriosa. Ma, inevitabilmente, incontrò avversità , disagi, ostilità anche interne,dubbi e perplessità, infine la repressione. E fu ,da ultimo ,catturato e imprigionato,  sottoposto al processo del Tribunale speciale insieme ad altri suoi compagni di lotta. Durante il dibattimento, di fronte ad una folla ostile ed ai giudici tesserati al PNF ,mantenne un comportamento dignitoso ed anche di sfida quando,ad un certo punto, salutò con il pugno ed il braccio alzato,gesto rivoluzionario allora ,che destò una reazione di sdegno ma al contempo di timore da parte degli astanti ,stupiti da cotanto coraggio.Qualche attimo prima che lo portassero al cospetto del plotone di esecuzione,salutò i suoi compagni con calma e tranquillità, come di chi sa di aver compiuto il proprio" dovere  verso l'umanità"  (così egli  diceva),di patriota e militante ideologicamente schierato e difensore di giusti ideali . "Zdravo" urlo'  con calma unita anche alla rabbia di chi non può fare altro(salve,ciao),rivolto ai suoi . La tua vita terrena finiva allora,Pinko, all'alba di quel giorno livido e gelido del 15 dicembre dell'anno 1941, ucciso con i tuoi compagni,giorno di guerra come tanti altri che dovevano succedersi, ma che segnò una spinta di passione e di rivolta contro il fascista invasore ,che divenne travolgente fino alla liberazione ed alla vittoria . Voglio ricordare ,con questa mia, un uomo ,a 69 anni di distanza, dicembre 2010 ,che lottò per gli ideali di giustizia sociale e per la libertà di noi tutti. Ciao,Pinko,compagno di lotta giusta e di riscatto, ti ricorderemo domenica 19 dicembre , alle 15 ,al poligono di tiro di Opicina ,con le tue bandiere e con le insegne della libertà. Grazie da tutti noi.

Claudio Cossu 


(deutsch / english.
L'ambiguo rapporto tra Francia e Germania, che negli ultimi venti anni appare essere stato stravolto a seguito della violenza con cui la Germania ha imposto lo squartamento della Jugoslavia a tutti gli altri paesi europei, Francia inclusa, è preso in esame nella seguente analisi apparsa sul sito german-foreign-policy.com)

--- deutsch ---


Kein Tandem
 
06.12.2010

PARIS/BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Frankreich bleibt im europäischen Einflusskampf in wichtigen Zielregionen seiner Außenpolitik deutlich hinter Deutschland zurück. Dies bestätigt eine Serie von Untersuchungen, die die Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) in den vergangenen Monaten veröffentlicht hat. Gleichzeitig hat Paris die Prioritäten der Berliner Außenpolitik weithin übernommen und leistet - anders als noch in den 1990er Jahren - in grundlegenden Fragen keinen Widerstand mehr gegen Berlin. Wie etwa eine Analyse der Pariser Südosteuropa-Politik zeigt, hat Frankreich schon vor Jahren seine traditionelle proserbische Haltung aufgeben müssen. Der damit einhergehende Einflussverlust dauert bis heute an. In Russland, heißt es bei der DGAP, sei Paris in den 1990er Jahren in großen Rückstand geraten. Bis heute kann es daher in Moskau nicht ernsthaft mit Berlin konkurrieren. Ähnlich verhält es sich in Südamerika, wo Frankreich für die Kooperation mit seinem traditionellen Partner Brasilien nicht genügend Kapazitäten bereitstellen kann - ganz im Unterschied zu Deutschland. Frankreichs politischer Einflussverlust gegenüber Berlin korreliert mit seinem wachsenden wirtschaftlichen Rückstand gegenüber der Bundesrepublik.

Große Vorbehalte

Besonders deutlich lässt eine Analyse der französischen Südosteuropa-Politik, die die Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) kürzlich veröffentlicht hat, den Einflussverlust Frankreichs gegenüber Deutschland hervortreten. Wie die Analyse in Erinnerung ruft, verfolgte Paris in Südosteuropa traditionell eine proserbische Politik, die es jedoch seit der Mitte der 1990er Jahre nicht mehr aufrecht erhalten konnte - unter dem Druck Washingtons und, was bei der DGAP allerdings unerwähnt bleibt, der Bundesrepublik. So hatte, wie der Autor der Analyse berichtet, Staatspräsident Jacques Chirac noch unmittelbar vor dem Überfall auf Jugoslawien im Frühjahr 1999 "bekanntlich große Vorbehalte gegen die Bombenangriffe". Während der Chef der OSZE-Beobachtungsmission im Kosovo, US-General William Walker, "die klare Aufgabe hatte, das Terrain für eine militärische Operation vorzubereiten", habe sein französischer Stellvertreter Gabriel Keller sich bemüht, "den Dialog mit Belgrad aufrechtzuerhalten" - vergeblich. Die traditionelle Nähe zwischen Frankreich und Serbien diente zuletzt der NATO, um den Widerstand gegen die Okkupation des Kosovo zu schwächen: Französische Soldaten besetzten den serbischsprachigen Teil der Provinz, da man hoffte, dort werde "die Präsenz französischer Soldaten (...) leichter akzeptiert (...) als die Stationierung amerikanischer, britischer oder deutscher Soldaten".[1]

Kriegspropaganda

Wie aus der DGAP-Analyse hervorgeht, rief der äußere Druck auf Paris dort in den 1990er Jahren erhebliche innere Differenzen hervor. So hätten zu Beginn der 1990er Jahre führende Zeitungen wie Le Monde, Le Figaro und Libération "noch Wert darauf" gelegt, in Sachen Jugoslawien "eine vorsichtige Neutralität zu wahren". Bald habe sich allerdings "eine ausgesprochen belgradfeindliche Haltung" durchgesetzt, die während des Kosovokrieges eskaliert sei. "Kritische Stimmen verhallten, die Albaner wurden zu Ikonen des universellen Leids stilisiert", heißt es in der Analyse: "Diese außergewöhnliche Mobilisierung der Presse passte in den Rahmen einer wahren Kriegspropaganda der NATO". Staatspräsident Nicolas Sarkozy habe mit seiner Wende zu einer mehr proatlantischen Haltung das Ruder auch in der Südosteuropa-Politik herumgerissen: "Im Februar 2008 unterstützte Frankreich leidenschaftlich die Unabhängigkeitserklärung des Kosovo, und der französische Botschafter in Pristina gehörte zu den Ersten, die den neuen Staat anerkannten."[2] Damit befindet die Pariser Außenpolitik sich endgültig auf der Linie, die Deutschland vorgegeben hat.

Rein rhetorischer Natur

Den französischen Einflussverlust in Südosteuropa konnte jedoch auch dieser Schwenk nicht aufhalten. "Von einigen wenigen Ausnahmen abgesehen", urteilt der Autor der DGAP-Analyse, "sind französische Unternehmen in den meisten Ländern der Region (...) gar nicht vertreten". "In Wirklichkeit" seien die südosteuropäischen Staaten "weitgehend von der politischen Agenda Frankreichs verschwunden". Sogar der Gebrauch der französischen Sprache gehe "überall in der Region stark zurück", obwohl mehrere Länder (Albanien, Mazedonien, Serbien) sich inzwischen der Organisation französischsprachiger Staaten (Organisation Internationale de la Francophonie, OIF) angeschlossen haben. "Frankreich dient sein Engagement für die Frankophonie als Aushängeschild", heißt es illusionslos in der DGAP-Analyse, "doch diese Politik ist oftmals rein rhetorischer Natur."[3]

Hinter Deutschland

Ein günstigeres Zeugnis stellt die DGAP der Stellung Frankreichs in Russland aus. Zwar habe Paris auf die Umbrüche in den 1990er Jahren "zögerlich reagiert" und sei dadurch in großen Rückstand geraten. Seit der Jahrtausendwende jedoch würden die Beziehungen zwischen den beiden Staaten wieder "dichter geknüpft", heute gebe es einen "ständigen Austausch auf höchster Ebene". Wie die DGAP festhält, stellt sich Frankreich in den Auseinandersetzungen um die Russland-Politik der EU zuverlässig "an die Seite Deutschlands" und setzt sich - wie Berlin - für die weitere Annäherung an Moskau ein. Dennoch habe Paris den französischen Rückstand bis heute nicht wettmachen können: Ungeachtet der politischen Kooperation bleibe "Frankreich als Handelspartner hinter seinen wichtigsten europäischen Partnern, vor allem hinter Deutschland und Italien zurück".[4]

Erlahmt

Auch in Südamerika kann Frankreich laut einer DGAP-Analyse nicht ernsthaft mit Deutschland konkurrieren. Demnach sind die Beziehungen Frankreichs zu Brasilien, die einst als besonders eng galten, "im Laufe der letzten Jahrzehnte erlahmt". Zwar habe Paris im Jahr 2005 eine "strategische Partnerschaft" mit Brasilia geschlossen - ein Schritt, der den Ausbau der Kooperation, wie ihn auch Deutschland anstrebt, zum Ziel hat. Dennoch geht aus der DGAP-Analyse hervor, dass Paris in Brasilien heute über eine deutlich schwächere Stellung verfügt als Berlin.[5] Damit ähnelt die innereuropäische Konkurrenzlage dort der Lage in Russland und in Südosteuropa: Frankreich verfolgt im Großen und Ganzen dieselbe außenpolitische Linie wie Deutschland und hat - wo sie zuvor vorhanden waren - abweichende Ansätze aufgegeben, liegt aber deutlich hinter der europäischen Hegemonialmacht zurück.

Der tatsächliche Hegemon

Dabei korreliert der politische Einflussverlust Frankreichs mit dem wachsenden wirtschaftlichen Rückstand gegenüber Deutschland. Die Bundesrepublik hat in den vergangenen Jahren mit harten Einschnitten bei Löhnen und Sozialausgaben ihre Konkurrenzvorteile gegenüber dem Nachbarland vergrößert (german-foreign-policy.com berichtete [6]). 2009 stieg der deutsche Handelsüberschuss gegenüber Frankreich auf einen neuen Rekordwert von 27,38 Milliarden Euro an. Eine Umkehr in der Tendenz ist nicht zu erkennen; vielmehr spitzen sich die innereuropäischen Ungleichgewichte, die auch im Verhältnis zwischen Deutschland und Frankreich immer offener zu erkennen sind, in wachsendem Maße zu. Die offiziöse Phrase vom "deutsch-französischen Tandem", das in der EU die Führung innehabe, kann angesichts des zunehmenden außenpolitischen und wirtschaftlichen Rückstands Frankreichs immer weniger über die tatsächlichen Herrschaftsverhältnisse täuschen - über die kaum noch verhüllte deutsche Hegemonie.

[1], [2], [3] Jean-Arnault Dérens: Die schwindende Präsenz Frankreichs auf dem Balkan; DGAPanalyse Frankreich No. 9, November 2010
[4] Laure Delcour: Frankreich und Russland. Neue Dynamik für eine besondere Beziehung; DGAPanalyse Frankreich No. 6, Juli 2010
[5] Martine Droulers, Céline Raimbert: Vom Leitbild zur Partnerschaft. Eine Analyse der französisch-brasilianischen Asymmetrie; DGAPanalyse Frankreich No. 8, November 2010
[6] s. dazu Die Frage der Führung und Die Macht in Europa


--- english ---


No Tandem
 
2010/12/06

PARIS/BERLIN
 
(Own report) - France is clearly lagging behind Germany in important targeted regions of its foreign policy. This has been confirmed in a series of studies published over the past few months by the German Council on Foreign Relations (DGAP). At the same time, Paris has, for the most part, adopted Berlin's foreign policy priorities and - contrary to the 1990s - puts up no resistance to Berlin on basic issues. Paris' policy toward Southeast Europe shows, for example, that Paris had to give up its pro-Serbian policy years ago. The loss of influence that accompanied this fact is still to be felt today. According to the DGAP, in the 1990s, Paris lost much ground in Russia and, therefore even today is no serious competition to Berlin. A similar situation reigns with South America, where France, unlike Germany, does not have the necessary capacity for cooperation with its traditional partner, Brazil. France's loss of political influence vis à vis Berlin is in correlation with its growing economic loss of ground vis à vis Germany.

Great Reservations

An analysis of French policy toward Southeast Europe, published recently by the German Council on Foreign Relations (DGAP), clearly shows France's loss of influence, in relationship to Germany. The analysis recalls that - under pressure from Washington and, what the DGAP does not mention, from Germany as well - Paris had been unable to maintain its traditionally pro-Serb policy in Southeast Europe since the mid-90s. For example, the author of the analysis reports that, immediately preceding the aggression against Yugoslavia in the spring of 1999, President Jacques Chirac, "as is well known," had had, "great reservations toward the bombing attack." Whereas the head of the OSCE observation mission in Kosovo, (US) General William Walker, "clearly had the job of preparing the terrain for a military operation", his French second in command, Gabriel Keller, sought to "keep open the dialogue with Belgrade" but to no avail. France's traditional affinity to Serbia was used, in the end, by the NATO to weaken resistance to the occupation of Kosovo. French soldiers were the occupation troops in the Serb-speaking sector of the province, because it was hoped that "the presence of French soldiers would be (...) easier accepted (...) than the stationing of US, British or German soldiers."[1]

War Propaganda

The analysis published by the DGAP explains that the external pressure applied to Paris in the 90s elicited serious domestic differences. At the beginning of the 90s, for example, leading dailies, such as Le Monde, Le Figaro and Liberation "still found it important" to "maintain a careful neutrality" in the Yugoslav question. Soon thereafter "a pronounced anti-Belgrade position" became predominant, that escalated during the war for Kosovo. "Critical voices were smothered, the Albanians became the icons of universal suffering" according to the DGAP analysis. "This extraordinary media mobilization fitted into the framework of a true NATO war propaganda." With President Nicolas Sarkozy's transformation to a more pro-atlanticist position, France has changed course also in its Southeast Europe policy: "In February 2008, France effusively supported the Kosovo declaration of independence, and the French ambassador in Pristina was among the first to recognize the new nation,"[2] which places Paris' foreign policy clearly in line with the policy prescribed by Germany.

Merely Rhetoric

But not even this shift in policy could stop the decline of French influence in Southeast Europe. "Aside from a few exceptions, according to the author of the DGAP analysis, "in most countries of that region (…) there is no representation of French companies. "In fact, southeast European countries "are no longer on the French political agenda. Even the use of the French language has been "sharply receding throughout the region, even though some countries (Albania, Macedonia, Serbia) have joined the Organization of French speaking Nations (Organisation Internationale de la Francophonie, OIF). "France’s engagement for French speaking communities has simply served as a figurehead, the DGAP analysis states without any illusions, "but this policy is often merely rhetoric".[3]

Lagging Behind Germany

France's position in relations with Russia is more favorable, assesses the DGAP. Even though France reacted very "hesitantly to the changes taking place in the 90s and therefore lagged behind, the relations between the two countries have "grown closer since the turn of the century, today with "regular exchanges at the highest levels. According to the DGAP, France is firmly on „Germany's side" in the EU's Russia policy dispute and - like Berlin - is pleading for further rapprochement with Moscow. Still France has not been able to catch up. In spite of its political cooperation, "as a commercial partner, France is lagging behind its most important European partners, especially Germany and Italy.[4]

Grown Weary

Also in South America, France cannot seriously compete with Germany, according to the DGAP analysis. France's relations with Brazil, which had been particularly close in the past, have "grown weary over the past few decades. Even though France had concluded a "strategic partnership agreement with Brazil in 2005 - a move aimed at enhancing the cooperation pursued also by Germany, Paris, today, is in a much weaker position than Germany in its relations with Brazil, analyzes the DGAP.[5] The inner-European competition in relationship to Brazil can therefore be compared to that in relationship to Russia and to Southeast Europe: Overall, France is pursuing the same line of foreign policy as Germany and has given up previous deviating approaches. But France is clearly lagging behind the European hegemonic power.

The Real Hegemon

France's loss of political influence is in correlation with the growing economic distance with which it is trailing behind Germany. With its important cuts in salaries and social spending, Germany has been enhancing its advantages over the neighboring countries. (german-foreign-policy.com reported.[6]) In 2009, the German trade surplus in relation to France reached a new record of 27.38 billion Euros. A reversal of this tendency is not in sight, but the increasingly evident inner-European imbalance - also in German-French relations - is becoming more prevalent. In light of the growing foreign political and economic distance with which France is lagging behind Germany, the unofficial characterization of a "German-French tandem" leading the EU, cannot disguise the true leadership relations - the hardly veiled German hegemony.

[1], [2], [3] Jean-Arnault Dérens: Die schwindende Präsenz Frankreichs auf dem Balkan; DGAPanalyse Frankreich No. 9, November 2010
[4] Laure Delcour: Frankreich und Russland. Neue Dynamik für eine besondere Beziehung; DGAPanalyse Frankreich No. 6, Juli 2010
[5] Martine Droulers, Céline Raimbert: Vom Leitbild zur Partnerschaft. Eine Analyse der französisch-brasilianischen Asymmetrie; DGAPanalyse Frankreich No. 8, November 2010
[6] see also Die Frage der Führung and Die Macht in Europa




DA CHI NE HA ESPERIENZA DIRETTA


<< Come si potrebbe far cessare il terrorismo islamico nel mondo?

"Lo si deve chiedere a coloro che hanno creato queste correnti islamiste, come Al Qaeda. Chi le ha create? Gli Stati Uniti d'America e l'Arabia Saudita che in Afghanistan, negli anni '80, quando sostenevano i mujaheddin locali contro l'occupazione sovietica. Si deve risalire all'origine di di questa situazione, che è una politica degli Stati Uniti". >>

Da L'Arena di Verona, 30/11/2010: intervista a mons. Athanase Matti Shaba Matoka, arcivescovo cattolico di Baghdad
(segnalato da Fabio M., che ringraziamo)

(english / srpskohrvatski / italiano)

Il Beogradski Forum al Congresso degli antimilitaristi tedeschi

A Kassel (Germania) il movimento antimilitarista tedesco ha appreso della "situazione esplosiva" in Kosovo attraverso l'intervento di Zivadin Jovanovic del Forum di Belgrado (in inglese, vedi sotto; Galleria fotografica: http://picasaweb.google.com/beoforum/UcesceBeogradskogForumaNaKongresuSavetaZaMirNemacke ).

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Космет извор дугорочне нестабилности - На 17. конгресу Савета за мир Немачке говорио председник Београдског форума Живадин Јовановић


На позив Проф. Петера Штрутинског, председника Савета за мир Немачке, Живадин Јовановић, председник Београдског форума за свет равноправних, учествовао је на 17. конгресу немачких мировњака одржаном 4. и 5. децембра 2010. на Универзитету у граду Каселу.
На скупу од око 400 делегата из свих делова Немачке Јовановић је говорио о актуелним процесима и проблемима на Балкану са посебним освртом на проблеме које изазивају једнострано, илегално проглашење независности Косова и Метохије, друге сепаратистичке тенденције, притисци усмерени на ревизију Дејтонско-париског споразума о миру у Босни и Херцеговини као и велики социјално-економски проблеми. Јовановић је оценио да ће Балкан, посебно подручје раније СФРЈ, још дуго времена трпети последице оружане агресије НАТО од 1999. године и продужене подршке сепартистичким тенденцијама које угрожавају стабилност Србије. Он је указао да Запад, истовремено, врши велике притиске у циљу унитаризације Босне и Херцеговине  одузимањем надлежности Републике Српске које су јој гарантоване Дејтонско-париским уговором. У томе очекује „коперативност“ српског руководства којом ће плаћати подршку на „европском путу“.
Поред излагања у пленуму, Јовановић је говорио и на посебном семинару где су кроз питања и дијалог ближе разрађене поједине тезе из уводног излагања.
Интегрално излагање Ж. Јовановића в. сајт Форума на енглеском језику

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Kosovo the prime cause of instability in the Balkans - by Živadin Jovanović

Mr. Chairman,
Ladies and Gentlemen,
Dear Friends,

Allow me, first of all, to thank you for your kind invitation and for the warm hospitality accorded to me by your leaders and activists. I am honored indeed by the opportunity to speak to this friendly audience on the issues of common interest. As this is my first opportunity to address delegates of German Peace Council from the whole of Germany, I would like also to thank you for your enormous efforts in spreading the truth about real causes and consequences of the Yugoslav crisis and real objectives of 1999 NATO aggression.

Belgrade Forum for a World of Equals is an independent, nonpartisan and non-profit association founded eleven years ago. We share similar values and objectives: we are devoted to peace, justice and truth. We want Europe of peace and stability, Europe of equal nations, equal human beings, and equal opportunities, Europe without nuclear armament and foreign military bases, Continent of justice and prosperity for all. We strive against militarization and any kind of hegemony. So called new concept of the NATO strategy adopted at the recent Lisbon Summit new one. It is only codification of precedent of NATO aggression on Serbia (Yugoslavia) in 1999, Afghanistan of 2001, Iraq of 2003. So called new strategy is new attempt military complex to justify  expansion of a war machinery. NATO is imposing itself as a global aggressive Alliance ready to engage its war machinery any time, in any corner of the globe, contrary to the basic principles of the international law and the role of the UN Security Council. Instead of removing military arsenal, especially nuclear, NATO has adopted plans to develop and deploy the new ones in Europe and elsewhere. Implementation of such plans would undoubtedly provoke a new arms race depriving peoples of decent life and jeopardizing peace and stability. We are disturbed by the fact that there are more military bases in Europe today, than at the peak of the Cold War era.

Dear Friends,

Stable and prosperous Balkan is of the paramount interest of the Balkan peoples as well as of Europe. The situation in the region, however, remains complex with political, security and socio-economic problems which, least in carry potential for new problems and even conflicts.
It should be noted that in the period of the last twenty years the Balkan has been testing ground for new doctrines, the region of the most dramatic changes and precedents in international relations:
- Second Yugoslavia (SFRY) was destroyed in 1992, the third Yugoslavia in 2006, both in conjunction of internal an external factors;
- NATO aggression against Serbia (Yugoslavia) in 1999 was the first war on Europe’s soil after the Second World War, presented as “humanitarian intervention”, contrary to basic principles of International Law, without approval of UN SC, 
- Unilateral proclamation of Independence of Kosovo and Methija in 2008, while the Provence was under UN mandate, again, without UN SC approval, and contrary to the Constitution of Serbia;

Seven new hardly sustainable states have been created, some even through severe civil wars consequences of which will be felt over decades to come 1. In spite of some progress in the process of normalization of relations, mistrust is still there limiting the efforts to revive economic, social, cultural and other links. After over 70 years of common life, these links were abruptly cut during the secessions and conflicts. There is great need to remove all politically motivated obstacles and encourage widest possible cooperation based on recognition of mutual interests. Free flow of goods, people, ideas, culture and capital would certainly push ahead overall development, diminish dependence on foreign assistance and help dealing with consequences of the global economic and financial crisis.
New international borders while not general problem, in a number of instances are still to be defined, including parts of Serbia-Croatian border on Danube and Serbia-Bosnian border on the Drina River. The best way in resolving these issues is to apply international standards. 
New national minorities have appeared in addition to old ones. Balkan renown through history as mixture of nations, cultures and religions and conflicts, of course, after further territorial fragmentation during the last two decades, has “enriched” itself by producing even more national minorities, more languages, and even more religions. For good? It is doubtful. Standards of their human, political and national rights in a number of instances are not respected.  
Serbia is still hosting about 220.000 displaced persons from Kosovo and Metohija, mainly Serbs, and about 300.000 Serb refugees from Croatia and Bosnia and Herzegovina. This is the highest figure of refugees and displaced persons in one European country. This causes not only serious socio-economic but political problems, too. Members of neither of the two groups are permitted to return to places of their origin freely and safely. Serbs in Croatia although promised territorial autonomy, are deprived even of some basic individual rights such as right to private ownership of their houses, apartments and farms. 
One of the potential sources of destabilization is Bosnia and Herzegovina which is occasionally termed “failed state”. Constitutional set up of Bosnia and Herzegovina is defined by the Dayton-Paris Peace Agreement (1995) guaranteeing sovereign equality of the three constituent peoples (Moslems, Serbs and Croats) and equality of the two entities – Bosnia and Herzegovina federation (Moslems and Croats) and Republika Srpska. Attempts, channeled through High Representative, to change the con-federal and impose unitary system contrary to what was established by Dayton-Paris Peace Agreement, to annul consensus in decision making and introduce majorization are counter productive, to say, at least. They tend to return the stabilization process back to the beginning of 90-ies and, therefore, are very dangerous for the very existence of Bosnia and Herzegovina as a state. In closing this chapter of my speech, I would like to draw your attention to the fact that after the recent elections in Bosnia and Herzegovina Croat Community came to openly ask for creation of own, third entity. This reveals that both, Serbs and Croats have same fear – of being discriminated Moslems dominated Bosnia. 
In my opinion, Serbia does not and cannot recognize illegal secession of Kosovo and Metohija. Therefore, this remains an open issue yet to be resolved. Solution should be sought respecting basic principles of the international law, UN decisions and Constitution of Serbia as a sovereign state. Such a position is supported by major part of International community, including some of the permanent members of UN SC (Russia and China) as well as some members of EU (Spain, Greece, Romania, Slovak Republic and Cyprus). New negotiations on the status seem to be unavoidable. Any expectation on further softening the official Serbia Government’s position could turn to be counterproductive. Perhaps not so much because of the Government’s firmness in defending territorial integrity and sovereignty, but first of all because compromise is the only away to to guarantee Serbia’s internal stability which, in turn, is important for the lasting peace and stability of the Balkan.  
It has been repeatedly noted that the future of the Balkan lies in the hands of the Balkan countries. This is true, but mainly theoretically. In real life one of the general problems in the region is excessive involvement of out-of-the-region power centers. Considering that Bosnia and Herzegovina and the Province of Kosovo and Metohija continue to be international protectorates, that the governments in the most of the countries in the region owe their loyalty to the West which helped them various ways to come to power (“colored revolutions”), it is rather unclear what the regional factors can do themselves, what are real margins for them to work out needed compromises.
International community, essentially being limited to NATO and EU, lacks capacity and political will for compromised solutions and continue to impose own solutions which, sooner or later, appear not to be sustainable. This, perhaps explains, why NATO and EU maintain substantial military, police and civil presence in Bosnia and Herzegovina, FYR Macedonia and particularly in the Province of Kosovo and Metohija where about 10.000 NATO troops are deployed including one of the biggest military base in the world (Bondstil). 
No doubt that the key source of destabilization of the Balkan today remains Kosovo and Metohija. Aparent massive violation of human rights of Albanians in Kosovo and Metohija was just excuse for NATO aggression against Serbia. In my opinion, NATO aggression in 1999, was a historic mistake of the West, especially of Western Europe and Germany. It was a precedent, first ring in a chain of aggressions and occupations which ensued after. Ever since Europe has been obliged to take part in other military interventions away of its zone of defense. With recent Lisbon documents such a practice has been codified and formalized. The aggression was a blunder towards the United Nations particularly towards Security Council and its role in maintaining peace in the world. It gave a push to separatist tendencies in the region, Europe and the World. New military bases mushroomed from Kosovo to Bulgaria, Rumania, Baltic states. Economic destructions, including some of the strategic European corridors, have been valued over 100 billions of US dollars. 
Unilateral secession of Kosovo and Metohija in February this year was also a dangerous precedent. As to whether it encouraged independence of Abkhazia and South Ossetia may be disputable, but the general effect of Kosovo’s “unique case” should not be disputable. 
Last month, representatives of Albanians from Kosovo and Metohija, FYROM, Greece, Montenegro and three southern districts of Serbia (Presevo, Bujanovac and Medvedja) gathered in Tirana to announce their devotion to the “natural Albania”. This gathering was preceded by repeated declarations of highest Albanian officials that Albanians have the right to live together and followed by the declaration of former chief of OSDE Kosovo Verification Mission, American ambassador William Walker that Albanians have the right to unite. 
“Side” effects of Prishtina’s unilateral secession may be summed up in one word - divisions – divisions within EU, UN, OSCE, between EU/NATO – Russia, divisions in the Balkan and divisions within Serbia itself.
Appart from the fact that the Province is faced with dramatic socio-economic problems, unemployement at the same time, it is a safe heaven and a jumping board for extremists and clans of organized crimes whose real aim is to operate in the EU area. It is assesed that over 60 percent of the total marketing of heroin in Europe is controlled by Albanian mafia. Trafiking of human beings, their vital organs and smugling of armaments is also under their control.

Putting an end to the protectorate status of Bosnia and Herzegovina would be important step in good direction. After 15 years of peace and international governance, local institutions and politicians must be given a chance of working together, compromising and running the country without almighty so called High Representative. Reopening negotiations on the status of Kosovo and Metohija after the opinion of the International Court of Justice is announced later this year is quite reasonable expectation. Compromise based on the respect of International Law, particularly. The UN SC resolution 1244 (1999) must be considered a lasting legal document, starting point and coroner stone of any future solution for Kosovo and Metohija problem. This is the most important precondition to peace and stability in the Balkan. Foreigners come and go, their interests vary but the Balkan nations will stay here for ever. For this reason they should relay on compromises of their long term interests.
EU appears to be key partner of the Balkan states. How long will last the current financial, economic and institutional crisis in EU? What conclusions Brussels drew from up to now enlargements of the EU membership? Answering these questions would certainly help to asses realistically prospects for EU membership of a number of Balkan countries. To continue submitting to endless demands of Brussels bureaucracy in exchange for repeated promises of “European perspectives”, may turn to be loss of time and vital interests.
Democratization and transition has left, among others, profound social divisions and tensions, extremely high rate of unemployment, corruption, and organized crime. These tendencies are not assets for peace and stability. To alleviate the roots of these tendencies require political will, strategies, recourses, including financial, and – time.  
Western benevolence towards obvious rise of separatism and territorial fragmentation, especially affecting Serbia and Serbian nation, in one hand, and clear support for centralization, unitarization of certain other countries, notably Bosnia and Herzegovina, are examples of double standards policy. Putting aside motives and interests of the West, it must be noted that such a policy would definitely hinder prospects of peace and stability today, up to 2020 and beyond.
Proliferation of puppet sates with unsustainable economies, national minorities with uneven level of their rights, political parties based on ethnic and religious criteria and refugees and displaced persons with the lack of political will to scure conditions for free and safe return to their homes;
Expansion of Islamism not as a religion or culture, but as overall social and governmental system. Some Islamite leaders do consider Balkan as a spring board for further expansion. (Vehabist groups, Islamic extremist organizations have been uncovered recently in a number of Balkan countries);
In my opinion, Serbia with its geostrategic position and resources is capacitated and willing to play its role in achieving sustainable stability, peace and development in the Balkans. But Serbia is faced with serious problems. First of all, stagnation of the socio-economic development, about one million of unemployed, 700.000 people billow the bottom line of poverty, disregard of her legitimate national interest. 
Serbia’s territorial integrity and sovereignty is not jeopardized by illegal unilateral secession of Kosovo and Metohija only, but such tendencies are present in some other parts (Vojvodina, Raska, Southern districts). 
Recently “The Group of Friends of Sandzak” (Raska) was established in Belgrade composed of the ambassadors of USA, Germany, Britain and Italy! What would be real political objective of such a move? These ambassadors surely have been welcomed to Belgrade as friends of Serbia and they are expected to behave as such. Forming “Group of friends” of same states is known practice at the UN Headquarters in New York, usually, to show strong support to a country with certain problems usually pending consideration within UN. But, forming a “Group of Friends” of any particular part (region) of a sovereign country by diplomats accredited to such a country is neither diplomatic nor respecting partnership nor hospitality of particular country and nation. 
Serbian public and civic society should like to see everybody investing into mutual understanding and respect so that the Balkan becomes region of integration, peace and stability leaving behind divisions, distrust and confrontation.

Dear friends,
I am aware that aforesaid is more a list of open problems, with some suggestions, than a list of solutions. Our answers should be close cooperation and coordination, , to find ways to mass media – conventional and new ones, ability to foresee developments.

In closing, let me congratulate you for great success of your Congress.
Thank you.


Zivadin Jovanovic
President of the Belgrade Forum for a World of Equals,
Former Federal Minister of Foreign Affairs of FR of Yugoslavia



1 Kosovo and Metohija’s self-proclaimed secession from Serbia has not been recognized in the region by Serbia, Bosnia and Herzegovina, Greece, Cyprus


Photo Galleryhttp://picasaweb.google.com/beoforum/UcesceBeogradskogForumaNaKongresuSavetaZaMirNemacke




(deutsch / italiano / english / srpskohrvatski)

The Nobel Peace Prize and Liu Xiaobo

1) Carta 08 dei “diritti umani”: un tentativo di controrivoluzione in Cina (Heinz Dieterich / www.rebelion.org)
2) China: Friedensnobelpreis läuft ursprünglichem Ziel zuwider (Radio China International)
3) The Nobel Peace Prize and Liu Xiaobo (Deirdre Griswold / WW)
4) Un manifesto di guerra (Domenico Losurdo)
5) Der Nobelpreiskampf (german-foreign-policy.com)


Links:

Der Kriegsnobelpreis. Die Herrschaften, die den »Friedensnobelpreis« vergeben, verdienen eine Auszeichnung
von Domenico Losurdo

Nicht hart genug. Hintergrund: Wer ist Liu Xiaobo?
von Domenico Losurdo

Abolire il "premio Nobel per la Pace"
(testi di Losurdo ed altri - english / italiano)

La Serbia è uno dei 19 paesi di cui era stata resa nota in anticipo la non-partecipazione alla cerimonia del conferimento del Premio Nobel per la Pace / Srbija je među 19 zemalja koje neće prisustvovati dodeli Nobelove nagrade za mir u petak 10. decembra u Oslu, potvrdio je Nobelov komitet


=== 1 ===


Carta 08 dei “diritti umani”: un tentativo di controrivoluzione in Cina

di Heinz Dieterich*

su www.rebelion.org del 09/12/2010


Traduzione di l'Ernesto online

*Heinz Dieterich, sociologo e analista politico tedesco attualmente residente in Messico, collabora a diversi giornali in Europa e America Latina ed è autore di una trentina di volumi sull'America Latina, la società globale, le controversie ideologiche del XX secolo ed altre questioni di carattere filosofico e sociologico. 

Contenere e distruggere la Cina

Quanto più insistono Hillary Clinton e Barack Obama sul fatto che non cercherebbero di contenere la Cina, tanto più vengono contraddetti dall'evidenza della loro stessa politica, ad esempio: la campagna dei “diritti umani” per l'incarcerato premio Nobel della pace Liu Xiaobo; il tentativo di creare un blocco politico-militare anti-cinese intorno ai conflitti del Mar Cinese Meridionale; i tentativi di guerra monetaria e di isolamento di Pechino al vertice del G-20 di Seul e le prove di alleanza strategica con Indonesia e India.

La classe politica statunitense aveva sfruttato nel 1990 la “vittoria di A. F. Kerenski” sul Partito Comunista dell'Unione Sovietica. Nei suoi documenti confidenziali si afferma che non oltre il 2025, 
Chiang Kai shek trionferà sul Partito Comunista Cinese. Non è senza fondamento questo calcolo. Oggi, circa il cinquanta per cento degli intellettuali cinesi appoggerebbe questo progetto.

L'imprigionamento di Liu Xiaobo e Carta 08

Dietro l'imprigionamento del premio Nobel della pace, Liu Xiaobo, intelligentemente promosso nell'apparato mediatico dal peruviano-spagnolo Mario Vargas Llosa e dal Comitato Nobel del Parlamento norvegese, c'è la cosiddetta Carta 08, un manifesto reso noto nel dicembre 2008, da circa 300 intellettuali e attivisti cinesi, che chiedono in diciannove punti riforme politiche, diritti umani e “la democratizzazione” della Repubblica Popolare Cinese. L'autore principale è lo scrittore Liu Xiaobo.

La Carta 08 ricorda la Carta 77 della Cecoslovacchia che rappresentò il modello ideologico per il successo della “Rivoluzione di velluto” e l'installazione alla presidenza dello scrittore Vaclav Havel. Havel, il principale autore di Carta 77, è in questo momento, insieme ad Aznar, uno dei nemici più feroci di stati socialisti, come Cuba e Cina (“regime tirannico”), e di governi popolari come quello venezuelano. La cosa più rilevante non è, certamente, l'eventuale carattere reazionario degli intellettuali che hanno scritto e promosso Carta 08, ma il carattere politico del documento. Il suo contenuto classista è la resurrezione di un regime capitalista neoliberale, con sovrastruttura parlamentare e multipartitismo borghese.

Tutto il potere alla borghesia

Il punto 14 della Carta, “Protezione della proprietà personale”, chiede che si debba “stabilire e proteggere il diritto alla proprietà personale e promuovere un sistema economico di mercato libero e onesto. Dobbiamo abolire i monopoli governativi sul commercio e l'industria, e garantire la libertà di creare nuove imprese. Dobbiamo avviare una riforma agraria che favorisca la proprietà privata della terra, che garantisca il diritto di comprare e vendere la terra, al vero valore della proprietà privata di riflettersi sul mercato”.

La Democrazia deve essere una “democrazia parlamentare”, quindi retta da molti partiti politici. Ciò significa la fine del ruolo dirigente e del monopolio politico del Partito Comunista Cinese (PCC), “attraverso l'abolizione di tutti i Comitati politici e legali che permettono oggi alle alte cariche del Partito Comunista di decidere in merito a tutte le questioni di fondo fuori da un contesto giuridico”. I militari, a loro volta, “devono prestare giuramento alla costituzione” e “rimanere neutrali”.

La risposta della Cina e il pericolo per la Patria Grande

E' evidente che la Carta 08 pretende di abolire l'ordine politico esistente in Cina. E', pertanto, anticostituzionale e sovversiva. Il governo cinese ha risposto a questa minaccia con la forza della legge, con argomenti e con il suo potere economico-politico. Ha proibito a due noti attivisti dei diritti umani cinesi, di partecipare alla cerimonia della consegna del premio Nobel, il 10 dicembre a Oslo; Ha spiegato alla popolazione all'interno della Cina che la consegna del premio Nobel a Liu Xiaobo è una manovra della Nuova Guerra Fredda Asiatica (NGFA) di Obama/Clinton, e che molte delle richieste (ambiente, lotta alla corruzione, uguaglianza città-campagna, ecc.) fanno parte della stessa politica del governo; infine, sul piano internazionale ha ammonito i governi borghesi a non assecondare il circo di Oslo per non “patirne le conseguenze” (Cui Tiankai, sottosegretario agli Affari Esteri).

Il governo cinese ha affrontato l'imperialismo di Washington anche di fronte al vertice del G-20, abbassando la qualità del credito (credit rating) di Washington, a causa della “decrescente capacità degli Stati Uniti a ripagare i suoi debiti” e i “seri difetti nel suo modello di sviluppo economico e nel management”. Sono risposte dignitose e necessarie a tenere in riga il pericoloso complesso militare-industriale statunitense. Purtroppo, Cuba e Venezuela non possono difendersi allo stesso modo dalla Nuova Guerra Fredda, che con la vittoria del fondamentalismo repubblicano presto si farà sentire nell'emisfero occidentale. Il nuovo potere della mafia cubana (Dip. Ileana Ross-Lethinen), e l'accresciuto peso della reazionaria imperiale Hillary Clinton, preannunciano tempi estremamente difficili per i governi popolari dell'America Latina. Occorrerà vedere fino a dove la Cina è disposta ad appoggiarli, davanti alla crescente pressione di Washington.

Just a joke

It is just a joke, ha definito recentemente Noam Chomsky il premio Nobel della pace: “non è che uno scherzo di cattivo gusto”. E ha tutte le ragioni. Speriamo che la Sinistra mondiale capisca questo dirty joke e che non si unisca ai pagliacci scandinavi della Nuova Guerra Fredda di Obama/Clinton: peones del Complesso Militare-Industriale statunitense. Il governo cinese, nel frattempo, dovrà sviluppare la democrazia partecipativa e l'economia di equivalenze del post-capitalismo, come unica blindatura duratura contro questo tipo di sovversione dell'Occidente.

Dovrà creare, in una parola, l'indistruttibile Muraglia Cinese del Socialismo del XXI Secolo.



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http://german.cri.cn/1565/2010/12/09/1s148815.htm

China: Friedensnobelpreis läuft ursprünglichem Ziel zuwider

2010-12-09 17:16:15  cri

Bald wird der Friedensnobelpreis 2010 verliehen. In diesem Jahr wird dies weltweit mit großer Aufmerksamkeit verfolgt, weil der Preis dem Chinesen Liu Xiaobo erteilt wird, der von chinesischen Justizbehörden verurteilt wurde.

In den letzten Jahren hat Liu Xiaobo in mehreren Artikeln und Äußerungen Chinas Zentralregierung und das sozialistische System attackiert. Im Internet hat er andere Menschen dazu aufgehetzt, das politische System des Staates zu verändern und Chinas Regierung zu stürzen. Wegen seiner verfassungs- und gesetzeswidrigen Taten wurde Liu Xiaobo zu einer 11-jährigen Freiheitsstrafe verurteilt. Gerade dies ist zugleich die Ursache für das Erlangen des Preises. Das Nobelpreis-Komitee begründete die Auszeichnung folgendermaßen: "Liu Xiaobo hat konstant auf gewaltlose Weise für die grundlegenden Menschenrechte in China gekämpft und sich für die Demokratisierung der Volksrepublik eingesetzt."

Der chinesische Außenministeriumssprecher, Ma Zhaoxu, erläuterte dazu klar Chinas Standpunkt:

"Das Nobel-Preiskomitee hat den Friedenspreis einem Verbrecher verliehen, der mittlerweile verbüßt, was eine große Mißachtung des chinesischen Justizsystems ist. Wer versucht, auf diese Weise Chinas politisches System zu verändern, wird zweifellos scheitern."

Der Friedensnobelpreis wurde 1901 ins Leben gerufen. Mit diesem Preis sollen Personen ausgezeichnet werden, die sich für nationale Harmonie, Freundschaft aller Staaten, Abrüstung sowie Friedenskonferenzen einsetzen. Tian Dewen, ein Europa-Experte der chinesischen Akademie der Sozialwissenschaften, meinte:

"Der Friedensnobelpreis ist eine nichtoffizielle Auszeichnung. Er hat einen politischen Charakter, aber ist kein Benehmen der Regierung. Frieden soll über ideologische Wertvorstellungen gehen. Allerdings von der Verleihung des Friedensnobelpreises her betrachtet, ist der Preis mit Ideologien der westlichen Welt eng verbunden. Während des Kalten Kriegs wurde versucht, westliche Anschauungen zu popularisieren. Nach Ende des Kalten Krieges ist in der westlichen Welt eine ideologische Hegemonie aufgetreten, und diese Tendenz ist immer stärker geworden."

Ferner kritisierte Tian, der Preis laufe dem ursprünglichen Ziel zuwider und sei zu einem politischen Werkzeug der westlichen Länder zur Einmischung in innere Angelegenheiten anderer Staaten geworden.

Mittlerweile haben weltweit bereits mehr als 100 Länder und internationale Organisationen klar Chinas Standpunkt unterstützt, Liu Xiaobos Preiserlangen abzulehnen. China, Russland, Kuba, Kasachstan, Marokko und der Irak haben bereits angekündigt, dass sie die Verleihungszeremonie des Friedensnobelpreises absagen werden.


=== 3 ===


The Nobel Peace Prize and Liu Xiaobo

By Deirdre Griswold 

Published Nov 23, 2010 10:12 PM

Who is Liu Xiaobo and why was he given this year’s Nobel Peace Prize? To understand this, it’s necessary to know the history of the prize and how it came about.

Alfred Nobel was a Swedish chemist, engineer and the inventor of dynamite, who made a fortune in the 19th century, becoming known as “The Merchant of Death.” He willed that his huge fortune be used to set up a number of prizes, one of them for peace.

Nobel decreed that a five-person committee set up by the Norwegian Parliament should pick the recipients of the annual Peace Prize. Norway, a founding member of NATO, today houses several U.S. air bases and has troops in Afghanistan.

The first Nobel Peace Prize was awarded in 1901. Since that time, the people of the world have suffered from devastating wars that together have killed more than 100 million civilians and combatants and laid waste entire countries. The underlying cause of these wars and the rise of the military-industrial complex has been the ravenous appetite of the vying imperialist powers to conquer new markets and territories for superexploitation and profits.

So naturally the people of the world want peace. They come out in demonstrations again and again protesting current wars and new terror weapons. What do the imperialists do about that? They talk peace and democracy while they mobilize the cannon fodder and money needed for new wars.

Nothing better illustrates this corruption of the popular yearning for peace than the annual Nobel Peace Prize. The prize has been given many times to the very individuals responsible for the horror of imperialist wars.

In 1906 the prize was given to U.S. President Theodore Roosevelt. His slogan, “Speak softly and carry a big stick,” fit his own career as leader of the Rough Riders, who stormed into Cuba in 1898 during the Spanish-American War. The war was supposedly to free Cuba, Puerto Rico and the Philippines from Spain, but its real purpose was to bring them under U.S. imperialist domination — as exposed by Mark Twain, a member of the Anti-Imperialist League at the time.

In 1912 the prize went to Elihu Root, who had been secretary of war under Presidents William McKinley and Theodore Roosevelt. Root established neocolonial governments in the three countries mentioned above. He then became president of the Carnegie Endowment for International Peace, set up with money from one of the richest robber baron capitalists and strike breakers of that time, Andrew Carnegie.

In 1919 the Peace Prize went to U.S. President Woodrow Wilson, who had led the U.S. into World War I in 1917 in spite of broad opposition. That same year, a U.S. socialist and leader of the working class, Eugene V. Debs, was sentenced to 10 years under the Sedition Act for having opposed the war. Debs ran for president from his jail cell in 1920 and got nearly a million votes, but the Nobel committee wouldn’t think of giving him the Peace Prize.

In the years that followed, the prize went to such luminaries of U.S. imperialist diplomacy as Cordell Hull (secretary of state during World War II), Gen. George Marshall (Army chief of staff, World War II; secretary of defense, Korean War), Henry Kissinger (secretary of state, Vietnam War), President Jimmy Carter and, last year, President Barack Obama, whose election promise to get U.S. troops out of Afghanistan has been abandoned.

When, facing criticism for ignoring the mass movements against war and ruling-class violence, the Nobel committee did recognize popular figures, it almost always coupled them with enemies of the people. Thus, the prize went jointly to Kissinger and Vietnamese leader Le Duc Tho in 1973 (Tho refused it!); to African National Congress leader Nelson Mandela and apartheid South African President Frederik Willem de Klerk in 1993; and to Palestinian leader Yasser Arafat but also Israelis Shimon Peres and Yitzhak Rabin in 1994.

Once the Cold War began, the Peace Prize was given to figures in the Soviet Union and Eastern Europe who facilitated the return of capitalism and imperialism: Andrei Sakharov (1975), Lech Walesa (1983) and Mikhail Gorbachev (1990).

It is in this tradition that the Nobel Peace Prize for 2010 was given to Liu Xiaobo. It is not because Liu is in any way a man of peace. In fact, he has been an ardent supporter of U.S. wars.

Defending George W. Bush and the war in Iraq, Liu wrote on Oct. 31, 2004, in “The Iraqi War and the U.S. Election,” that the U.S. “led the fight against communist totalitarianism in the Vietnam and Korean wars, ... helped Egypt to achieve independence, and has consistently protected Israel, surrounded as it is by Arab nations.”

Saying that John Kerry, who ran against Bush in that year’s election, condoned “evil governments,” Liu added: “In response to existential threats to civilization such as terrorism, the U.S. should not hesitate to use force. Only resolute determination will prevent another 9/11, reduce international terrorism, and reduce the threat of WMDs.” (chinastudygroup.net)

How could the Nobel committee even think of giving Liu the Peace Prize, after everything that is known about the Bush administration deliberately deceiving the world about “weapons of mass destruction” in order to invade Iraq?

For the same reasons they chose Sakharov, Walesa and Gorbachev. Liu is a leading advocate for overthrowing the Communist Party of China, privatizing the entire economy, including all the land, and returning China to the arms of the Western imperialists, whom he sees as the great liberators of humanity.

Liu is the main author of Charter 08, which openly declares its counterrevolutionary goals, even as it embellishes them in the language of “democracy” and “human rights” used so deceptively by capitalist bloodsuckers in the West.

Liu is not popular in China. Even those on the left who criticize the government’s reliance on the market want nothing to do with him, recognizing him as an enemy of the workers and of China’s hard-won sovereignty. He is strictly a creature of imperialism — and of an overblown, completely undemocratic organization that owes its prestige and power to blood money.


Articles copyright 1995-2010 Workers World. Verbatim copying and distribution of this entire article is permitted in any medium without royalty provided this notice is preserved. 

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=== 4 ===


Un manifesto di guerra

di Domenico Losurdo

su Junge Welt del 10/12/2010

Sul Premio Nobel a Liu Xiaobo

Trasmesso in diretta da tutte le più importanti reti televisive del mondo, il discorso pronunciato dal presidente del Comitato Nobel in occasione del conferimento del premio per la pace a Liu Xiaobo si presenta come un vero e proprio manifesto di guerra. Il concetto fondamentale è chiaro quanto sgangherato e manicheo: le democrazie non si sono mai fatte guerra e non si fanno guerra tra di loro; e dunque per far trionfare una volta per sempre la causa della pace occorre diffondere la democrazia su scala planetaria. Colui che così parla ignora la storia, ignora ad esempio la guerra che tra il 1812 e il 1815 si sviluppa tra Gran Bretagna e Usa. Sono due paesi «democratici» e per di più fanno entrambi parte del «pragmatico» e «pacifico» ceppo anglosassone. Eppure tale è il furore della guerra che Thomas Jefferson paragona a «Satana» il governo di Londra e giunge persino a dichiarare che Gran Bretagna e Usa sono impegnati in una «guerra eterna» (eternal war), la quale è destinata a concludersi con lo «sterminio (extermination) di una o dell’altra parte».

Identificando causa della pace e causa della democrazia, il presidente del Comitato Nobel abbellisce la storia del colonialismo, che ha visto spesso paesi «democratici» promuovere l’espansionismo, facendo ricorso alla guerra, alla violenza più brutale e persino a pratiche genocide. Ma non si tratta solo del passato. Col suo discorso il presidente del Comitato Nobel ha legittimato a posteriori la prima guerra del Golfo, la guerra contro la Jugoslavia, la seconda guerra del Golfo, tutte condotte da grandi «democrazie» e in nome della «democrazia».

Ora, il più grande ostacolo alla diffusione universale della democrazia è rappresentato dalla Cina, che dunque costituisce al tempo stesso il focolaio più pericoloso di guerra; lottare con ogni mezzo per un «regime change» a Pechino è una nobile impresa al servizio della pace: questo è il messaggio che da Oslo è stato trasmesso e bombardato in tutto il mondo, ed è stato trasmesso e bombardato mentre la flotta militare Usa non cessa di «esercitarsi» a poca distanza dalle coste cinesi.

A suo tempo, un illustre filosofo «democratico» e occidentale, John Stuart Mill, ha difeso le guerre dell’oppio contro la Cina come un contributo alla causa della libertà, della «libertà «dell'acquirente» prima ancora che «del produttore o del venditore». E’ sulla scia di questa infausta tradizione colonialista che si sono collocati i signori della guerra di Oslo. Il manifesto lanciato dal presidente del Comitato Nobel deve suonare come un campanello d’allarme per tutti coloro che hanno realmente a cuore la causa della pace.


Il Premio Nobel per la guerra e Chi è Liu Xiaobo, "Junge Welt", 10 dicembre 2010:


Der Kriegsnobelpreis. Die Herrschaften, die den »Friedensnobelpreis« vergeben, verdienen eine Auszeichnung
http://www.jungewelt.de/2010/12-10/034.php

Nicht hart genug. Hintergrund: Wer ist Liu Xiaobo?


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Der Nobelpreiskampf
 
10.12.2010

BERLIN/WASHINGTON/BEIJING
 
(Eigener Bericht) - Mit starkem Druck reagieren Berlin und Brüssel auf den Boykott der Friedensnobelpreis-Verleihung durch mehrere verbündete Staaten. Es gehe nicht an, dass Serbien der heutigen Zeremonie fernbleibe und sich damit auf der Seite Chinas positioniere, verlautbart die EU-Kommission. Die außenpolitische Unbotmäßigkeit stelle Belgrads EU-Beitrittsprozess in Frage. Nach neuen Interventionen aus der EU hat die Ukraine, die zunächst ebenfalls nicht teilnehmen wollte, am gestrigen Donnerstag diesen Entschluss revidieren müssen. Die Verleihung des Preises an Liu Xiaobo, dessen politische Forderungen auf den Umsturz der Volksrepublik China hinauslaufen, schließt an frühere Fälle der Nutzung von Nobelpreisen für strategische Zwecke der westlichen Mächte an. Zuletzt hatte Ende 2009 die Vergabe des Friedensnobelpreises an den erst kurz zuvor ins Amt gelangten US-Präsidenten Barack Obama weltweit Spott hervorgerufen. Angesichts des internationalen Widerstands gegen die Nutzung des Nobelpreises durch den Westen verschärfen die deutschen Medien ihren Ton und stellen China in die Nähe des NS-Regimes.

Menschenrechte und Demokratie

Die heutige Verleihung des diesjährigen Friedensnobelpreises an den Chinesen Liu Xiaobo sorgt für heftige internationale Auseinandersetzungen. Die Bundesrepublik Deutschland hat die Vergabe des Preises an Liu von Anfang an begrüßt; Bundeskanzlerin Angela Merkel forderte persönlich die Freilassung des Preisträgers aus chinesischer Haft. Anlässlich der heutigen Verleihung bekräftigt die Bundesregierung ihre Unterstützung für den chinesischen Dissidenten. So erklärt der Menschenrechtsbeauftragte der Bundesregierung, Markus Löning, die "Teilnahme Deutschlands", der EU-Staaten "und zahlreicher weiterer Länder an der Zeremonie" sei "ein selbstverständliches Zeichen des Respekts" gegenüber "allen, die sich gewaltfrei für Menschenrechte und Demokratie einsetzen".[1]

Umsturzkonzept

Tatsächlich dienen die politischen Forderungen, die Liu mit seiner "Charter 08" vertritt, westlichen Interessen. PR-wirksam setzt sich die "Charter 08" zunächst ausführlich für Menschenrechte sowie Demokratie ein. Die politischen Kernelemente finden sich in den hinteren Paragraphen des Papiers, lassen aber keinen Zweifel über die Absichten der Verfasser zu. Gefordert werden eine umfassende Privatisierung nicht nur der Staatsbetriebe, sondern auch von Grund und Boden und der Umbau der Volksrepublik zu einer "Bundesrepublik China". Insbesondere die letzte Forderung bricht mit allen Traditionen chinesischer Staatlichkeit seit mehreren Tausend Jahren. Insgesamt läuft die "Charter 08" damit auf einen kompletten Umsturz der Volksrepublik China hinaus. Darin unterscheidet sie sich von den Forderungen zahlreicher chinesischer Menschenrechtler, die sich für Veränderungen innerhalb Chinas einsetzen, ohne gleich den Umsturz des Systems zu verlangen. Lius Plädoyer für Marktliberalismus und einen instabileren Bundesstaat kommen jedoch westlichen Wünschen nach einer Schwächung des chinesischen Rivalen entgegen.[2]

Geheimdienstliche Interventionen

Die Vergabe des Friedensnobelpreises an Liu schließt mit ihrer prowestlichen Stoßrichtung an die Verleihung anderer Nobelpreise seit dem Zweiten Weltkrieg an. Dabei entspringt es durchaus nicht Erfindungen der chinesischen Regierung, dass die USA direkten Einfluss auf Entscheidungen der Nobelpreis-Komitees nehmen. Seit mehreren Jahrzehnten sind die geheimdienstlichen Interventionen bekannt, denen sich Nobelpreisorganisatoren gerne zur Verfügung stellten - für Geld oder in der Münze ideologischer Gemeinsamkeiten. So deckte die britische Historikerin Francis Stonor Saunders 1999 auf, wie die Nobelpreise für Literatur in den 1960er Jahren zustande kamen: nach gezielten Propagandamaßnahmen einer CIA-Abteilung.[3] Die kulturell kostümierte Geheimdienstorganisation [4] hatte aus dem innersten Zirkel des Preiskomitees in Erfahrung gebracht, dass der chilenische Dichter Pablo Neruda zu den aussichtsreichen Anwärtern der Verleihung im Jahr 1963 gehörte. CIA-Zuträger war der Sekretär des Preiskomitees. Daraufhin investierten die klandestinen US-Behörden ausreichende Geldmittel für Buchproduktionen und Literaturanalysen, die unter falscher Flagge belegen sollten, dass Neruda nicht preiswürdig sei - weil er Kommunist war. Das Material wurde unter den Einflussnotabeln in Stockholm und Oslo gestreut. Die "vehemente Kampagne" [5] hatte Erfolg. Neruda erhielt den Nobelpreis 1963 nicht.[6] Umgekehrt durfte sich der deutsche Schriftsteller Heinrich Böll der Unterstützung seiner CIA-Bekannten sicher sein, als er 1972 den Nobelpreis entgegennahm - wissentlich oder unwissentlich hatte Böll jahrelang eben jener CIA-Abteilung zugearbeitet, die in Stockholm gegen Neruda zu Felde gezogen war.[7]

Internationaler Widerspruch

Neu ist gegenwärtig, dass die Verleihung des Friedensnobelpreises im Sinne und zum Nutzen westlicher Interessen international auf erheblichen offenen Widerspruch stößt. Neben China selbst teilten bereits im November Russland, Kasachstan, Kuba, Marokko und der Irak mit, die heutige Verleihungszeremonie boykottieren zu wollen. Diesem Boykott haben sich nun zahlreiche weitere Staaten angeschlossen. Unter ihnen befinden sich nicht nur Länder, die ohnehin heftigen Streit mit dem Westen austragen - wie etwa Venezuela, Sudan oder Iran -, sondern auch engere Verbündete, etwa Kolumbien, Ägypten, die Ukraine oder Serbien.[8] Besonders die Verbündeten des Westens, die in der Presse inzwischen als "Allianz der Ängstlichen" [9] gebrandmarkt werden, sind heftigem Druck ausgesetzt. Die EU-Kommission hat vor allem Serbien scharf für seine Weigerung kritisiert, sich mit einer Unterstützung für die Nobelpreisverleihung in die inneren Angelegenheiten Chinas einzumischen. Belgrad müsse, wenn es der EU beitreten wolle, die "europäischen Werte" achten, zu denen "die Menschenrechte" gehörten, verlautbart Brüssel. Im Herbst nächsten Jahres sollten die Beitrittsverhandlungen beginnen; bleibe Serbien bei seiner "starren Haltung", könne sich dies "negativ auswirken". Auch Ägypten, die Ukraine und Marokko wurden von der EU aufgerufen, ihre Haltung zu "überdenken". Alle drei Länder unterhalten Nachbarschaftsprogramme mit der EU. Die Ukraine konnte ihre Position am gestrigen Donnerstag nicht mehr halten und knickte ein.

"Auf Hitlers Spuren"

Unter dem Eindruck der Tatsache, dass der Westen seine Hegemonie im Falle des Nobelpreises nicht mehr vollständig aufrecht erhalten kann, gleitet die Berichterstattung der deutschen Medien noch tiefer in propagandistische Kampagnenführung ab. Jüngste Spitze ist das Bemühen, China in die Nähe der NS-Diktatur zu stellen. So heißt es in Leitmedien und Provinzblättern gleichermaßen, die Weigerung Beijings, Liu zur Preisverleihung aus der Haft zu entlassen, gleiche der Weigerung des Naziregimes, den Friedensnobelpreisträger Carl von Ossietzky 1936 zur Preisverleihung reisen zu lassen. Die staatsfinanzierte Deutsche Welle spricht offen von "Erinnerungen an (die) Nazizeit" [10], die Schweizer Boulevardpresse titelt: "China auf Hitlers Spuren" [11].

Erfolgreich

Dabei sind sich zumindest einflussreiche Teile der deutschen Eliten durchaus bewusst, dass ihre antichinesische Propaganda rein gar nichts mit der Lebensrealität in der Volksrepublik zu tun hat. So berichtete die Frankfurter Allgemeine Zeitung kürzlich von "Hintergrundgesprächen", die ein hochrangiger deutscher Politiker "mit in China lebenden Deutschen" führte. "Anders als bei den Themen Umweltschutz und soziale Gerechtigkeit" interessiere "der Kampf um Menschenrechte und ein Mehrparteiensystem", wie Liu Xiaobo ihn führe, "nur eine Minderheit von Intellektuellen". Im Westen werde hingegen "fast gar nicht (...) zur Kenntnis genommen, dass jedes Jahr in China annähernd 1.000 Demonstrationen mit mehr als jeweils 500 Teilnehmern stattfänden".[12] Dabei prangerten die Menschen Umweltskandale an oder protestierten "gegen Großprojekte wie eine Transrapidstrecke durch ihre Region". Während hierzulande Proteste gegen ein Großprojekt der Bahn vom Staat erfindungsreich, aber unerbittlich niedergeschlagen werden, waren sie in China dem Bericht der Frankfurter Allgemeinen zufolge "erfolgreich".

[1] Menschenrechtsbeauftragter Löning zur Verleihung des Friedensnobelpreises; www.auswaertiges-amt.de 09.12.2010. S. auch Deutschland gegen China (III) und Bundesrepublik China
[2] Aus der Charter 08: "(...) 14. (...) We should do away with government monopolies in commerce and industry and guarantee the freedom to start new enterprises. We should establish a Committee on State-Owned Property, reporting to the national legislature, that will monitor the transfer of state-owned enterprises to private ownership in a fair, competitive, and orderly manner. We should institute a land reform that promotes private ownership of land, guarantees the right to buy and sell land, and allows the true value of private property to be adequately reflected in the market. (...) 18. A Federated Republic. (...) We should aim ultimately at a federation of democratic communities of China." China's Charter 08; www.nybooks.com/articles/archives/2009/jan/15/chinas-charter-08/
[3] Francis Stonor Saunders: Who paid the piper? The CIA and the Cultural Cold War. London 1999. Deutsche Ausgabe: Wer die Zeche zahlt. Berlin 2001
[4] Es handelt sich um den Kongress für kulturelle Freiheit.
[5] Francis Stonor Saunders: Who paid the piper? The CIA and the Cultural Cold War. London 1999. Deutsche Ausgabe: Wer die Zeche zahlt. Berlin 2001
[6] Erst nachdem die CIA-Umtriebe durch Berichte der New York Times aufgeflogen waren und die geheimdienstliche Frontorganisation auseinanderbrach, wagte sich das Stockholmer Nobelpreiskomitee erneut an einen Preis für Neruda, den er 1971 erhielt.
[7] Benutzt und gesteuert - Künstler im Netz der CIA. TV-Dokumentation, arte, 27.11.2006. S. auch Heinrich Böll: "Staatlich gesteuert"Diamant in der Sammlung der CIAHeinrich Böll: Im GeheimdienstgestrüppHeinrich Böll u. Co.: "Manche CIA-Wässerchen" und Beliebte TV-Persönlichkeiten
[8] Ursprünglich lehnten außer China Afghanistan, Ägypten, Irak, Iran, Kasachstan, Kolumbien, Kuba, Marokko, Pakistan, die Philippinen, Russland, Saudi-Arabien, Serbien, Sudan, Tunesien, die Ukraine, Venezuela und Vietnam die Teilnahme an der heutigen Verleihungszeremonie ab. Weitere Staaten schieben angebliche Unabkömmlichkeiten vor. Die Ukraine musste ihren Boykott gestern zurückziehen.
[9] Allianz der Ängstlichen boykottiert Nobelpreisverleihung; www.tagesschau.sf.tv 07.12.2010
[10] China wirft US-Kongress Arroganz vor; www.dw-world.de 09.12.2010
[11] China auf Hitlers Spuren; www.20min.ch 08.12.2010
[12] Ganz nah bei den Menschen in der Ferne; Frankfurter Allgemeine Zeitung 01.11.2010



( The first part of this essay can be read at:  http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=22140
The "Great Game" and the Conquest of Eurasia: Towards a World War III Scenario? Mackinder's Geo-Strategic Nightmare )


The US-NATO March to War and the 21st Century "Great Game"

Part II

by Mahdi Darius Nazemroaya

Global Research, December 5, 2010

Part II The Conquest of Eurasia: The Multiple Fronts of the 21st Century “Great Game”

The Caucasus, the Balkans, the Middle East, East Africa, Central Asia

The following text is PART II of The "Great Game" and the Conquest of Eurasia. The first text gave an overview of the global counter-alliance forming against the U.S. and NATO. In this second portion, the various fronts of the global rivalry between these two sides will be examined.


The Multiple Fronts of the 21st Century “Great Game”

The globe is gripped with a series of arenas where the struggle between the U.S. and its allies against the triple entente of Eurasia — Russia, China, and Iran — and their other allies are taking place. The struggles in these fronts vary in shape and dimension, but are all inter-linked and aimed against incorporation into a central entity controlled by the U.S. and its allies. These fronts are the Caucasus, the Balkans, East Africa, the Middle East (including the Eastern Mediterranean), the Indian Ocean, Central Asia, South Asia or the Indian sub-continent, Southeast Asia, East Asia, Latin America and the Caribbean, and the Arctic Circle.

Eastern Europe, the South China Sea, Korea, Central Asia, and the Middle East have been abuzz with military operations and war games by all sides. China, Russia, and Iran are all developing new weapons and asymmetrical war tactics, including expanded space projects and aircraft carriers. In occupied Iraq, NATO-garrisoned Afghanistan, and Israeli-occupied Palestine the non-state resistance movements continue their battles for national liberation with the support of the governments of Eurasia in some cases.

Russia’s strategic bombers have resumed their Cold War practice of flying long-distance missions to territories patrolled by the U.S. and NATO. [6] Russia and Belarus have armed their joint air defence systems in Eastern Europe in response to the missile threat from the U.S. and NATO in Europe. Both Belarus and Russia have also been making preparations, through military drills called “West 2009,” for a naval, land, and air assault against them by NATO that simulates a NATO invasion from Poland, Lithuania, Latvia, and Estonia. [7]

Myanmar (Burma), China’s ally, is also constructing a port and naval facilities to allow Beijing to secure its energy lifeline in the Indian Ocean by circumventing the Straits of Malacca and the Straits of Taiwan, which are guarded by the naval forces of the U.S. and its allies. To further secure the Indian Ocean for the Eurasians, Sri Lanka (Ceylon) has also become an associate member of the SCO through becoming a dialogue partner. [8] It is in this framework that Russia, China, and Iran supported the Sri Lankan government against the Liberation Tigers of Tamil Eelam (LTTE), or simply Tamil Tigers, during the Sri Lankan Civil War

North Korea has been priming itself for a possible war with the U.S., South Korea, and Japan. Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Ecuador, and Cuba have prepared themselves for what they call wars of resistance through political, economic, and armed preparations. Likewise, Syria and Lebanon with the support of Iran have prepared themselves for an anticipated conflict with Israel. Oil-rich Sudan has also been bracing itself for internal strife and for the possibility of a future conflict, led by the U.S. and based on the pretext of “humanitarian intervention.” 

The Caucasus Front: Russo-Georgian Tensions and War Preparations

Caucasia or the Caucasus is the region between the Black Sea and the Caspian Sea that straddles the Caucasus Mountains. Like the Ural Mountains, the Caucasus forms the dividing borders of the politically defined continents of Europe and Asia. The Caucasus region itself, which can also be considered an extension of the Middle East, is divided into two sub-regions. These two sub-regions are the North Caucasus, which exclusively includes the Caucasian constituent republics of the Russian Federation, and the South Caucasus, which includes Georgia, Armenia, and the Republic of Azerbaijan (Azarbaijan). Northern Iran and the eastern portions of Turkey, which were annexed from Georgia and Armenia under the 1921 Treaty of Kars, can also be considered as being part of the South Caucasus and by extension the entire Caucasus region.

Caucasia has been the scene of an intensive struggle between the local republics, internal actors, and external forces. These conflicts are as follows;

(1) The conflict between the Republic of Azerbaijan and the breakaway state of Nagorno-Karabakh;
(2) The conflict between Georgia and the breakaway state of South Ossetia;
(3) The conflict between Georgia and the breakaway state of Abkhazia;
(4) The conflicts between the Russian Federation and the separatist movements of the North Caucasus, specifically in Chechnya and Dagestan; 
(5) The conflict between Armenia and the Republic of Azerbaijan over Nagorno-Karabakh;
(6) And the conflict between Georgia and Russia over South Ossetia and Abkhazia.

For decades tensions have existed in this ethnically diverse region. Although steps have been taken by the Turks for strategic cooperation with Moscow and Tehran, a regional axis between Russia, Armenia, and Iran in the Caucasus has existed against Georgia, the Republic of Azerbaijan, and Turkey. The aim of the Moscow-Yerevan-Tehran Axis in the Caucasus is to prevent external forces, specifically the U.S. and its NATO allies, from moving into the Caucasus and the energy-rich Caspian Sea Basin.

The primal conflict in the region has turned out to be the one between Georgia and Russia, replacing the one between Russia and Chechnya. This conflict has seen both sides supporting one another’s separatist movements and covert operations. Tensions between Tbilisi and the Kremlin have resulted in a war that, unlike most the previous Caucasian wars, was of wide concern to outside powers. The conflict has also been played out in Ukraine, where both sides also supported rival political fractions.

Behind Georgia lies the support of the U.S. and NATO. This is part of a strategy that has seen indigenous players ally themselves with U.S. geo-strategic interests in Eurasia. In fact, the entire war between Russia and Georgia was premeditated and both sides were preparing for it well in advance. The Times (U.K.) inadvertently reported about this on September 5, 2008: “In the months leading up to the doomed [Georgian] military operation to seize control of the breakaway region of South Ossetia, Russian fighter jets had flown into Georgian airspace on several occasions.” [9] The Russian violation of Georgian airspace was conducted, because the Russians were aware that a war was coming and their forces were conducting reconnaissance missions.

In the months leading up to the Russian-Georgian War over South Ossetia the Georgian press was continuously talking about a coming war. [10] Rezonansi, one of Georgia’s top newspapers, had front-page headlines about the imminent dangers of a war: “Will war in Abkhazia begin tomorrow?” [11] In May 2008, only a month before the Russo-Georgian War, Moscow without notification deployed 500 Russian troops into the southern Tkvarchel region of Abkhazia under a peacekeeping mandate from the Commonwealth of Independent States (C.I.S.), which raised its troop contingent to 2,542. [12] Before the deployment of additional Russian troops, on April 20, 2008, the Russians had shot down a Georgian unmanned aerial vehicle (UAV) spying over Abkhazia. [13]

In a move that was one step short of official recognition, Moscow also ended its agreement to sanction Abkhazia and in a move towards bolstering the Abkhazian government began open communication with it at official levels. [14] These Russian and Georgian moves were made in preparation for the coming Caucasian war. The Kremlin even openly accused Georgia of mobilizing troops to attack Abkhazia, whereas the Georgians accused Russia of planning to annex Abkhazia and South Ossetia. [15]

On May 8, 2008 Mikheil Saakashvili, Georgia’s president, publicly stated: “I think that a few days ago, we were very close [to war] and this threat is still real.” [16] On May 7, 2010, a day before President Saakashvili’s statement, the U.S. House of Representatives passed a resolution that condemned Russia for its “provocative and dangerous statements and actions” in Georgia, and the E.U. followed suit. [17] A day after the U.S. House of Representatives passed their resolution against Russia and on the same day as Saakashvili’s statements about war, the foreign minister of Abkhazia, Sergei Shamba, went on the record saying that Abkhazia wanted a military pact with Moscow. [18]

The Institute for War and Peace Reporting (IWRP) clearly documented the Russian preparations for the coming war with Tbilisi. The IWPR report depicted the tense environment:

The situation on the ground in the conflict zone remains tense. The head of the de facto administration in Gali region in southern Abkhazia, Ruslan Kishmaria, said Tbilisi had resumed unmanned reconnaissance flights over Abkhazia. He added that the Abkhaz authorities had decided not to shoot the planes down. The Abkhaz say they have shot down several Georgian drones on previous occasions, while Tbilisi denied that most of the alleged incidents took place. In late May, a United Nations report concluded that a drone shot down over Abkhazia on April 20 was hit by a Russian fighter plane. [19]

What is very revealing about the IWPR report are the clear steps that Russia took in preparation for a Georgian attack. The report highlighted the secret deployment of Russian anti-tank missiles into Abkhazia: 

Georgian security forces have again had a confrontation with Russian peacekeepers on the border with Abkhazia, leading to a tense telephone conversation between the two presidents [of Georgia and Russia]. The detention of a Russian army truck by Georgian police appears to be part of a war of nerves over the disputed territory of Abkhazia. Tbilisi claims the Russians are engaged in annexing Abkhazia and insists their peacekeeping forces must be disbanded, while Moscow says the troops are operating under an international mandate and are providing vital security for the Abkhaz. Georgian television channels showed pictures of local police stopping a truck carrying Russian peacekeepers near the village of Rukhi on June 17. They reported that it was carrying weapons illegally through the conflict zone, close to the administrative border with Abkhazia. The four soldiers on board the vehicle were released after seven hours in detention. On June 19, the truck was handed back but the Georgians said they were holding onto 20 anti-tank missiles pending an investigation. The Georgians said that the Russians had not asked permission to transport the missiles as they were required to do under the terms that govern the peacekeeping presence. Colonel Vladimir Rogozin, commander of the southern zone of the peacekeeping operation – which comes under the mandate of the Commonwealth of Independent States, CIS, but is entirely manned by Russian troops – said he had simply failed to inform the Georgians about the arms shipment in time. “They were normal weapons permitted by our mandate, and I don’t understand why the Georgians detained our soldiers,” said Rogozin. [20]

The Russian military breached its peacekeeping mandate in Georgia. The anti-tank missiles were intended for use against Georgian tanks. The deployment of the anti-tank missiles were (deliberately) not announced as part of Moscow’s war preparations. In part, the Russian position in Abkhazia and South Ossetia has been intended to prevent Georgia from joining NATO, because NATO cannot accept new members unless all their internal disputes are settled and their boundaries fixed. In effect, Russian support of Abkhazia and South Ossetia has protected Russia from further NATO encroachment.

The war in 2008 has been described as a proxy war in which Georgia acted on behalf of the U.S. against Russia by Sergey A. Markov, a co-chair of the National Strategic Council of Russia. In this context, Russia was attacked by the U.S. and NATO. The Georgians could not have known about the deployment of Russian anti-tank missiles without intelligence reports from the U.S. and NATO. In 2008, NATO even made a revealing move about its intentions in the Caucasus. Despite the fact that Georgia was not a NATO member, NATO began to quickly integrate the Georgian air defences with NATO air defences. [21]

After the 2008 war, the U.S. and Tbilisi even revealed that they were making preparations to construct military bases in Georgia. [22] The U.S. military presence would not only have been used to aid the Georgian military against Russian interests, but could have sent a threatening message to Moscow about war with the U.S. if Russia confronted Georgia over South Ossetia and Abkhazia. The U.S. bases could also have been used to launch attacks against Russia’s strategic ally Iran. It was revealed that during the Russo-Georgian War the Russian military had attacked Georgian bases that were planned for use in future U.S. and NATO operations against Iran. [23]

Georgia is one of the fastest militarizing states. To counter Georgian militarization and NATO’s agenda for the Caucasus, the Kremlin has beefed up Russian units in the North Caucasus and expanded its military presence in Armenia. In August 2010, Russia and Armenia signed a bilateral military agreement that committed Russia to protecting Armenia and insuring Armenian security. [24] The new Russo-Armenian military agreement has formally allowed Russia to project its military power from Armenia towards Georgia and the Republic of Azerbaijan, whereas the old mandate of Russian troops in Armenia was to provide border security for the Armenian-Turkish and Armenian-Iranian borders. These strategic steps taken by Moscow and Yerevan are in preparation for further crises in the Caucasus.


The Balkans Front: Treachery against Yugoslavia and Moldova

The Balkans has been galvanized by two different forces, those aligned with the Eurasia Heartland and those aligned with the Periphery. This animosity is similar to those that are dividing Lebanon, the Palestinian Territories, Georgia, Latin America, and the Ukraine. The largest camp of opposition to the U.S. and NATO is in Serbia. This Serbian camp, along with its allies in Bosnia-Herzegovina and Montenegro, wants either entry into the orbit of Russia and the Eurasians or cooperation with them. The opposing and dominate political camp wants Serbia and the Balkans to enter the orbit of the U.S., the E.U., and NATO. The Serbian Radical Party was formed originally as a member of the first group, while Boris Tadić and his Democratic Party represent the later group in Serbia and the Balkans.

The Balkans is a hub for military operations in Eastern Europe and the Middle East. The position of the former Yugoslavia was very important in this context. The Socialist Federal Republic of Yugoslavia was an independent geo-political player. Like the present role of Iran in the Middle East, the Socialist Federal Republic of Yugoslavia could have prevented the U.S. and NATO from consolidating their control of the Balkans, which would have been a major setback to the implementation of the U.S. and NATO roadmap for control of Eurasia. This is why the U.S. and its Western European allies helped spark ethnic tension, specifically between the Serbs and Croats, in Yugoslavia.

Yugoslavia has fallen, but in the Balkans there is still a pending geo-strategic game. This “game of chess” is over the fate of the Serbian province of Kosovo, which is a self-declared republic supported by the E.U. and America, and for the fate of the Serbian Republic itself, as a whole. The people of Serbia have not forgotten the NATO bombardment of their country, whereas most the corrupt political elites in Belgrade have been cooperating with the U.S. and NATO.

The so-called Twitter Revolution in Moldova was also an extension of this struggle in the Balkans and tied to the events in the former Yugoslavia and the issue of Kosovo. Moldova could be used by Russia to reinforce the Russian position, and by extension the Eurasian position, in Serbia and Eastern Europe. Serbia has been flirting with both the E.U. and the U.S. on one side and Russia on another. Both sides want to bring Serbia fully into their orbits.

Serbia is a landlocked nation in terms of not having direct access to the open seas. Serbia, however, does have guaranteed access to the Black Sea through the Danube River. The Danube River is actually an international body of water that large merchant ships can sail. By international treaty right, Serbian ships can freely sail the Danube. Belgrade could always turn to the Danube if Serbia were to be embargoed through the denial of land or airspace usage by its neighbours under orders from the U.S. and the European Union. If international laws were followed the Danube River would give the Serbs a form of lifeline access to the Black Sea and Russia. To prevent this all the states that the Danube River flows through need to be controlled.

The only other nations that the Danube River goes through that are not within the orbit of the E.U. and the U.S. are Moldova, which itself is landlocked too in the same sense as Serbia, and Ukraine. Ukraine is a case in question, but the control of both Moldova and Ukraine could effectively cut off Russian aid to Serbia through the Black Sea and the Danube River in the future if Russia was denied the usage of the airspace around Serbia. It is both in this context and the context of forced integration into the E.U. that Moldova’s neutrality has been ostracized by the U.S. and NATO through Romania.

Yet, there is more to the efforts to isolate Serbia. The Autonomous Province of Vojvodina is where the Serbian coast on the Danube River is located and is home to Serbia’s ports. About one-third of the population in Vojvodina are non-Serbs with Hungarians (Magyars) being the largest of these non-Serb minorities. Tacitly efforts to divide Vojvodina from Serbia have also been underway. The Balkans is a front that has become quiet for now, but Kosovo and Vojvodina could easily light it up. 

The Middle East Front: The Resistance Bloc versus the Coalition of the Moderate

The Middle East is the energy centre of the global economy.  Along with Central Asia, it is one of the two most strategically important areas on the world map. It is through control of the Middle East that the U.S. and its NATO partners hope to contain China, the anchor of the global counter-alliance to the U.S. and NATO.  

In terms of regional power, Iran is the Yugoslavia of the Middle East. Tehran has worked with its regional allies to resist U.S., NATO, and Israeli control over the entire region. Thus, the Iranians and their regional allies have provided a layer of insulation for the Russians and the Chinese against U.S. and NATO encroachment into Eurasia through resistance in the Middle East. In other words, Iran and the Middle East are vital pillars of Russian and Chinese resistance to trans-continental encirclement.

William Arkin, one of America’s top security correspondents, stated in 2007 that the White House and Pentagon had started the process of creating a NATO-like military alliance in the Middle East against Iran and Syria. [25] According to Arkin this alliance was to be comprised of the member states of the Gulf Cooperation Council or GCC (Saudi Arabia, Kuwait, Bahrain, Oman, Qatar and the United Arab Emirates) and both Egypt and Jordan. [26] Following the 2006 Israeli blunder in Lebanon, the U.S. and its main NATO partners started sending, either directly or indirectly, massive arms shipments to their clients in the Middle East: Egypt, Jordon, Israel, the Palestinian collaborators Mahmoud Abbas in the West Bank and Mohammed Dahlan in the Gaza Strip, Saudi Arabia, and the Arab petro-sheikhdoms.

The Lebanese militias belonging to the leaders of the March 14 Alliance in Lebanon also received secret weapons shipments to combat Hezbollah and the Lebanese National Opposition. [27] Despite their arms and U.S. support, the Arab collaborators in both the Gaza Strip and Lebanon lost in internal fighting that broke out respectively in June 2007 and May 2008. In Lebanon this resulted in the formation of a national unity government after the Doha Accord. It also caused Walid Jumblatt and the Progressive Socialist Party to realign themselves with Hezbollah and to leave the March 14 Alliance.

It was by the end of 2006 that Mahmoud Abbas, the March 14 Alliance, Saudi Arabia, the U.A.E., Bahrain, Egypt, Jordon, and Kuwait began to be called the “Coalition of the Moderate” by U.S. and British officials. These countries have helped the U.S., NATO, and Israel in intelligence operations against fellow Arabs, against the Lebanese Resistance, and against the Palestinians.

The regime of Mohammed Husni (Hosni) Mubarak in Cairo has helped enforce the Israeli siege against the Palestinians in the Gaza Strip. Cairo has also been in several vocal rows against the Palestinians, Hezbollah, members of the Iraqi Resistance, Syria, and Iran. Mubarak has tried to justify working against the Palestinians in Gaza by demonizing Hamas as an Iranian client and as a threat to Egypt. There is even talk about some form of Egyptian and Jordanian military intervention in Lebanon after the Special Tribunal for Lebanon releases its findings about the Hariri Assassination.

During the 2008 Israeli siege of Gaza, Secretary-General Hassan Nasrallah of Hezbollah made a direct plea to the Egyptian people, asking them to demand that their government open the borders for relief to the Palestinian people. Nasrallah’s plea, which made it a point to say that it was not asking for a coup in Cairo, was met by anger from Egyptian officials who had tried every means to publicly justify Israeli actions against the Palestinians. Ahmed Abul Gheit, the foreign minister of Egypt, responded by telling reporters in Turkey that Nasrallah wanted chaos in Egypt like in Lebanon and that the Egyptian military could be used against Nasrallah and people like him.

Mustafa Al-Faqi, the head of the Egyptian parliamentary foreign relations committee, has been quoted as saying that Cairo will not accept an Islamic emirate on its border. [28] This language is part of the campaign to portray Hamas as a Taliban-like organization, when the leadership of Cario and the Arab World know fully that Hamas is nothing like the Taliban government of pre-invasion Afghanistan. In 2010, a high-ranking Egyptian intelligence officer was caught spying and collecting information in the Gaza Strip by the Hamas-led Palestinian government there. [29] The regime in Egypt has also allowed Israel to send its German-built submarines with nuclear cruise missiles across the Suez Canal to head into the Persian Gulf towards Iranian waters in an effort to militarily threaten Tehran through a permanent deployment. [30] 

The extent of Egyptian ties with Tel Aviv is best described by a news report quoting Amos Gilad, an Israeli military official:

Egypt-Israel relations are “a cornerstone in Israel’s national security,” said Amos Gilad, head of the Defense [sic.] Ministry’s Security-Diplomatic Bureau, at a ceremony marking 30 years to Israel's peace agreement with Egypt on Thursday. “We have very profound dialogue with them. It’s important for Israel to know how to preserve these relations and deepen them,” he said, while mentioning Egypt’s “tolerant stance during [Israel’s] recent [2008] military offensive in Gaza.” [31]

Saudi Arabia too has been very actively involved in assisting the U.S., Britain, and Israel in their operations in the Middle East. The mega-sized weapons sales the U.S. has made to Saudi Arabia, without any objections from Tel Aviv and its lobbyists, is directed against Iran, Syria, and any revolts and democracy movements in the Arabian Peninsula, such as the Houthis in Yemen. The Saudi arms deals that the U.S. has made are a vital part of its strategic aims to control the energy resources of the Middle East. [32]

Saudi-owned media consistently spews sectarian hatred and propaganda against any forces resisting the U.S., Israel, NATO, and their local clients and allies in the Middle East and the Arab World. This has reached a point where most rational adults do not take Saudi-owned media, like Asharq Al-Aswat and its editor-in-chief, seriously. For exampleAsharq Al-Aswat has systematically and falsely accused Hezbollah of torturing Sunni Muslims in Lebanon and of occupying Beirut and has continuously targeted Iran at every chance, claiming that the Iranians are an imminent danger to the Arab World, while downplaying the actions of the U.S. and Israel against Arab countries.

In opposition, the Coalition of the Moderate is commonly described and thought of as nothing more than as Arab collaborators or traitors. Its leaders, from the U.A.E. to Egypt, say one thing in public and decide something entirely different behind closed doors. The Coalition of the Moderate is a catch phrase designed by those who coined the terms “Shia Crescent” and “Sunni Triangle” to demonize the forces of resistance in the Middle East. [33] These terms serve the war, balkanization, and finlandization agendas in the Middle East.

On the other side of the chasm stand Iran and all the forces opposed to foreign intervention in the Middle East; these forces have been called the “Radicals” by the White House. In reality, Iran and these independent and indigenous forces form the “Resistance Bloc” in the Middle East. The Resistance Bloc is not a formal alliance nor is it organized as a genuine bloc, but its members all share a common interest against foreign control of their societies. The members of the Resistance Bloc are as follows;

(1) The democratically-elected Hamas-led Palestinian government in the Gaza Strip and all the Palestinians groups, including Hamas, the Popular Palestinian Struggle Front, the Popular Front for the Liberation of Palestine-General Command, and Palestinian Islamic Jihad, the Marxist Democratic Front for the Liberation of Palestine, and the Marxist Popular Front for the Liberation of Palestine, that are opposed to Israel, the U.S., and Mahmoud Abbas; 
(2) Lebanon, more or less as a state, as well as Hezbollah, the Free Patriotic Movement, the Amal Movement, the El Marada Movement, the Lebanese Communist Party, the Lebanese Democratic Party, the Lebanese Islamic Front, the Armenian Revolutionary Federation (Tashnaq), the Syrian Social Nationalist Party of Lebanon, and their political allies in Lebanon;
(3) The multitude of various political and combative Iraqi groups that form the Iraqi Resistance;
(4) Sudan; 
(5) Syria;
(6) The rebel groups in Yemen, which are Shiite Muslims in the north and west and include Sunni Muslims in the south and east; 
(7) And Iran.

Qatar and Oman closely coordinate with the Resistance Bloc. Oman is also considered an Iranian ally in Tehran. Both Qatari and Omani leaders exercise flexible foreign policies and realize that it would be against their national interests to contain themselves in any regional alliance against Iran and the Resistance Bloc or, by the same token, even against the U.S. and its regional clients. This is why Qatar and Oman are used as intermediaries between Iran and the Resistance Bloc on one side and the U.S. and the Coalition of the Moderate on the other side.

Since 2009 and 2010, the position of Turkey is not clear. Ankara has begun to publicly criticize its Israeli ally and is beginning to be touted by Iran and Syria as a member of their Resistance Bloc. Turkey has also entered into agreements with Syria, Iran, Lebanon, and Russia that look like the seeds for the creation of a common market and political bloc in the Middle East that would mirror the European Union.

U.S. influence in the Middle East is said to be ending. It appears that many American allies and clients in the Middle East are also looking at switching camps to protect their interests. This could be the case within the March 14 Alliance in Lebanon and in regards to Ankara.

In the Middle East, the frontlines for Eurasia are the Palestinian Territories, Lebanon, occupied Iraq, and Yemen. Yemen, situated on the southernmost tip of the Arabian Peninsula, is the newest of these frontlines in the Middle East and is geo-strategically located on an important point on the map. The maritime corridor running past Yemen is internationally the most important in terms of shipping. The Red Sea connects to the Indian Ocean through the Gate of Tears (Bab al-Mandeb) that runs through the Gulf of Aden.

The danger of a catastrophic global war igniting from the Middle East exists. The front in the Middle East is central to the U.S. strategy in Eurasia. Since 2001, this front has been fluctuating between cold and hot wars that are now aimed at containing Iran and its allies. The region is both a powder keg and geo-political volcano.


The Central Asian Front: A War for Control of the Heartland of Eurasia

Central Asia is the heart of Eurasia and at the centre of the Eurasian Heartland. The U.S. and NATO push into Eurasia is aimed at control of this region in its entirety. The region is a major geo-strategic hub that conveniently flanks Iran, China, Russia, the Caspian Sea, and the Indian sub-continent. From a military and spatial standpoint, Central Asia is an ideal place to create a wedge between the major Eurasian powers and to establish a military presence for future operations in Eurasia.

Central Asia, as the bulk of an area called the “Eurasian Balkans” (the other portions include Georgia, Armenia, the Republic of Azerbaijan, the Caucasian constituent republics of the South Federal District and the North Caucasian Federal District of the Russian Federation, Iran, and Turkey to a limited extent), can also be used to destabilize the areas it flanks and Eurasia. The NATO occupation of Afghanistan is tied to this objective. Atollah Loudin, an Afghan official who is the chair of the Justice and Judiciary Committee of Afghanistan, has gone on the record to say that the U.S. is using Afghanistan as a military and intelligence base to infiltrate and pursue its strategic objectives in Pakistan, Central Asia, Russia, Iran, and China. [34]

Central Asia also has vast oil, natural gas, and mineral resources. The energy resources of the region rival those of the Middle East. In the words of Zbigniew Brzezinski: “As an overlay to all this, Central Asia now witnesses a very complicated inter-play among the regional states and Russia, the United States (especially since September 11, 2001), and China.” [35] The 2001 invasion of Taliban-controlled Afghanistan was initiated with the objective of establishing a foothold in Central Asia and a base of operations to isolate Iran, divide the Eurasians from one another, to prevent the construction of pipelines going through Iran, to distance the Central Asian countries from Moscow, to take control of the flow of Central Asian energy, and to strategically strangle the Chinese.

Most importantly, control over Central Asia would disrupt the “New Silk Road” being formed from East Asia to the Middle East and Eastern Europe. It is this “New Silk Road” that will make China the next global superpower. Thus, the U.S. strategy in Central Asia is meant to ultimately prevent the emergence of China as a global superpower by preventing the Chinese from having access to the vital energy resources they need. The U.S. and E.U. rivalry with Russia over energy transit routes has to be judged alongside preventing the construction of a trans-Eurasian energy corridor from reaching China from the Caspian Sea Basin and from the Persian Gulf.

Central Asia has been the scene of war and colour revolutions. An active war still rages in Afghanistan, which has spread into Pakistan. The instability in Kyrgyzstan could spill over into becoming a civil war. Any future conflict against Iran, Syria, and Lebanon also threatens to engulf Central Asia.


The South Asia and Indian Ocean Fronts: Pakistan, India, Sri Lanka, and the Waves

South Asia or the Indian sub-continent is comprised of Pakistan, India, Bangladesh, Nepal, Bhutan and the island states of Sri Lanka and the Maldives. Afghanistan is sometimes considered a part of South Asia. Similar to Central Asia, the northern portion of South Asia, which is Pakistan and the northern states of the Republic of India, serves as a transit land route between the Middle East and East Asia. This northern area also straddles Central Asia. The southern portions of South Asia is also centrally located in regards to the Indian Ocean and both the southern portion of South Asia, which is the southern tip of India, Sri Lanka, and the Maldives, and the Indian Ocean littoral serve as a transit maritime route from the Middle East and Africa to East Asia

In South Asia, the aims of the U.S and NATO are to prevent the creation of a secure energy route to China and to control the flow of energy resources and the territories they would go through. India also shares an interest in this. Indian cooperation with the U.S. and NATO, however, comes at the expense of Indian national security. The instability in Kashmir is an example. 

The instability in Pakistan is a direct result of the goal of preventing the creation of a secure energy route to China. The U.S. and NATO do not want a strong, stable, and independent Pakistan. They would rather see a divided and feeble Pakistan that can easily be controlled and would not take orders from Beijing or ally itself within the Eurasian camp. The instability in Pakistan and the terrorist attacks against Iran that have been originating from the Pakistani border are meant to prevent the establishment of a secure energy route to China.

Moreover, U.S and NATO objectives in South Asia also include using India as a counter-weight against China. This is the same strategy that Britain applied on the European continent between various European powers and the same strategy the U.S. used in the Middle East in regards to Iran and Iraq during the Iraq-Iran War. In this context, after the 2010 NATO Summit in Lisbon, NATO has asked for military ands security dialogue with New Delhi. [36]

The rivalries between the U.S., China, and India have had a direct bearing on the militarization of the Indian Ocean. A naval arms race has been underway in the Indian Ocean. Both India and China are racing to procure and build as many naval ports as possible while they expand their navies.

The maritime shipping route that passes the territorial waters of Sri Lanka is vital to Chinese energy security. In this context, geo-politics also has had a direct impact on the nature of the Sri Lankan Civil War. In 2009, the Chinese and their allies supported the Sri Lankan government in the hope of seeing a stable political environment on the island state so as to secure the Chinese naval presence and the cooperation of Sri Lanka. After the end of the Sri Lankan Civil War, Colombo joined the SCO as a “dialogue partner” like Belarus.

The militarization of the Indian Ocean has not stopped and is merely underway. Internal tensions in Pakistan and India, the regional tensions in South Asia between its states, and the tensions between New Delhi and Beijing all are threats to Eurasian cohesion and security.


The East Africa Front: Somalia, Ethiopia, and Sudan

In East Africa the U.S. and NATO strategy is to block China from access to regional energy resources and to setup a choke point to control international shipping. Like Central Asia, U.S. aims in East Africa, as well as the entire African continent, are to hinder China from superpower status. Military control over East Africa and its geo-strategically important waters has been intensifying since the 1990s. A large NATO naval armada permanently sails in the waves off the Horn of Africa and off the coast of East Africa ready to cordon the seas. The involvement of the U.S. military in Yemen is directly tied to the U.S. geo-strategy in East Africa and plans to control the maritime waterways there, as well as East African energy and the movement of international shipping. The piracy problem off the coast of Somalia and the demonization of Sudan are consequences of these strategic objectives.

Looking at Somalia, the conditions that have led to the piracy problem were nurtured to give the U.S. and NATO a pretext for militarizing the strategic waterways of the region. The U.S. and NATO have wanted anything except for stability in the Horn of Africa. In December 2006 the Ethiopian military invaded Somalia and overthrew the Islamic Courts Union (I.C.U.) government of Somalia. The Ethiopian invasion took place at a point in Somalia when the I.C.U. government had relatively stabilized Somalia and was close to bringing a state of lasting peace and order to the entire African country.

U.S. Central Command (CENTCOM) coordinated the 2006 invasion of Somalia. The Ethiopian land invasion was synchronized with the U.S. military and saw the joint intervention of the U.S. military alongside the Ethiopians through U.S. Special Forces and U.S. aerial attacks. [37] General John Abizaid, the commander of CENTCOM, went to Ethiopia and held a low-profile meeting with Prime Minister Meles Zenawi on December 4, 2006 to plan the attack on Somalia. Approximately three weeks later the U.S. and Ethiopia both attacked and invaded Somalia. [38]

The Somali I.C.U. government was defeated and removed from power and in its place the Somalian Transitional Government (STG), an unpopular government subservient to U.S. and E.U. edicts, was brought to power under the Ethiopian and U.S. military intervention. Marshall law was also imposed in Somalia by the Ethiopian military. At the international level, the I.C.U. government was demonized and the invasion was justified by the U.S., Britain, Ethiopia, NATO, and the Somalian Transitional Government as a part of the “Global War on Terror” and a war against sympathisers and allies of Al-Qaeda.

The Somalian Transitional Government and its leaders were immediately accused of collaborating in the dismantling of Somalia and being clients of the U.S. and other foreign powers by Somali parliamentarians and citizens. [39] The Speaker of the Transitional Somali Parliament, Sharif Hassan Sheikh Adan, accused Ethiopia of deliberately sabotaging “any chance of peace in Somalia.” [40] The Somali Speaker and other Somali parliamentarians who were taking refuge in Kenya were immediately ordered to leave Kenya by the Kenyan government for opposing the Ethiopian invasion of their country. [41] Their expulsion was ordered at the behest of the U.S. government.

The extent of U.S. influence over Ethiopia and Kenya and of the U.S. role in directing the invasion of Somalia can also be understood by the testimony of Saifa Benaouda:

At the Kenyan border, she was detained by soldiers, including three Americans, who had American flag patches on their uniforms, she said. She was then, by turns, imprisoned in Kenya, secretly deported back to Mogadishu, then spirited to Ethiopia, where she was fingerprinted and had her DNA taken by a man who said he was American. She was interrogated by a group of men and women, who she determined by their accents to be Americans and Europeans, she said. [42]

Ethiopia deliberately sabotaged the peace talks in next-door Somalia under American orders. The country is now divided and in the north, Puntland and Somaliland are virtually independent states. Instead of the stability and peace that the I.C.U. government was bringing, bands of pirates, militias, and a group called Harakat Al-Shabaab al-Mujahideen or simply Al-Shabaab have been allowed to take control of Somalia. Al-Shabaab is the equivalent of the pre-2001 Taliban in Afghanistan. [43]

The instability brought about by Ethiopia and the U.S. has helped justify the militarization of East Africa by the military forces of the U.S. and NATO. The Russian, Chinese, and Iranian navies have also deployed their warships into the region on anti-piracy and maritime security missions. [44] These naval deployments, however, are also strategically symmetric counter-moves to the U.S. and NATO naval build-up in the waters of East Africa, from the Red Sea to the Gulf of Aden.

Sudanese oil goes to China and the trade relations of Khartoum are tied to Beijing. This is why Russia and China oppose U.S., British, and French efforts to internationalize the domestic problems of Sudan at the U.N. Security Council. Moreover, it is due to Sudan’s business ties to China that Sudanese leaders have been targeted by the U.S. and E.U. as human rights violators, while the human right records of the dictators that are their clients and allies are ignored.

Although the Republic of Sudan is not traditionally considered to be in the Middle East, Khartoum has been engaged as a member of the Resistance Bloc. Iran, Syria, and Sudan have been strengthening their ties and cooperation since the invasion of Iraq in 2003. The Israeli war against the Lebanese and the subsequent deployment of international military forces, predominately from NATO countries, onto Lebanese soil and water did not go unnoticed in Sudan either. In is in context of this resistance that Sudan has also been deepening its military ties with Tehran and Damascus.

Sudanese leaders have sworn to resist the entrance of NATO or any international forces into their country. Sudan has made it clear that they will see these forces as invaders who want to plunder the national resources of Sudan. Second Vice-President Ali Osman Taha of Sudan has vowed that the Sudanese government would maintain its opposition to any foreign intervention under the pretext of peacekeeping forces for Darfur (Darfour) and has hailed Hezbollah as a model of resistance for Sudan. [45] In a show of solidarity for Sudanese resistance, Dr. Ali Larijani on behalf of Iran has also led an international parliamentary delegation to Khartoum, in March 2009, when a politically-motivated arrest warrant was issued by the International Criminal Court (I.C.C.) for Omar Hassan Ahmed Al-Basher, the Sudanese president.

Khartoum has been under intense U.S. and E.U. pressure. While there is a humanitarian crisis in Darfur, the underlying causes of the conflict have been manipulated and distorted.  The underlying causes are intimately related to economic and strategic interests and not ethnic cleansing. Both America and its E.U. partners are the main authors behind the fighting and instability in Darfur and Southern Sudan. The U.S., the E.U., and Israel have assisted in the training, financing, and arming of the militias and forces opposed to the Sudanese government in these regions. They lay blame squarely on Khartoum’s shoulders for any violence while they themselves fuel conflict in order to move in and control the energy resources of Sudan.

Tel Aviv has boasted about militarily intervening in Sudan to upset weapons transactions between Hamas and Iran going through Sudan and Egypt, but Israeli activities have really been limited to sending weapons to opposition groups and separatist movements in Sudan. Israeli arms have entered Sudan from Ethiopia for years until Eritrea became independent from Ethiopia, which made Ethiopia lose its Red Sea coast, and bad relations developed between the Ethiopians and Eritreans. Since then Israeli weapons have been entering Southern Sudan from Kenya. The Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) in Southern Sudan has also been helping arm the militias in Darfur. The Uganda People’s Defence Force (UPDF), a U.S. client, has also been sending arms to both the militias in Darfur and the SPLM.

The extent of Israeli influence with Sudanese opposition groups is significant. The Sudan Tribune reported on March 5, 2008 that separatist groups in Darfur and Southern Sudan had offices in Israel:

[Sudan People’s Liberation Movement] supporters in Israel announced establishment of the Sudan People’s Liberation Movement office in Israel, a press release said today.

“After consultation with the leadership of SPLM in Juba, the supporters of SPLM in Israel have decided to establish the office of SPLM in Israel.” Said [sic.] a statement received by email from Tel Aviv signed by the SLMP secretariat in Israel.

The statement said that SPLM office would promote the policies and the vision of the SPLM in the region. It further added that in accordance with the Comprehensive Peace Agreement the SPLM has the right to open in any country including Israel. It also indicated that there are around 400 SPLM supporters in Israel. Darfur rebel leader Abdel Wahid al-Nur said last week he opened an office in Tel Aviv. [46]

There is a power sharing arrangement between Omar Al-Basher and the SPLM, which has a strong grip over Southern Sudan. The leader of the SPLM, Salva Kiir Mayardit, is the First Vice-President of Sudan and the President of Southern Sudan. The SPLM has strong ties with Israel and its members and supporters regularly visit Israel and Sudan’s other enemies. It is due to this that Khartoum removed the Sudanese passport restriction on visiting Israel in late-2009 to satisfy the SPLM. [47] Salva Kiir Mayardit has also said that Southern Sudan will recognize Israel when it separates from Sudan.

The events in Sudan and Somalia are linked to the international thirst and rivalry for oil and energy, but are also part of the aligning of a geo-strategic chessboard revolving around control for Eurasia. The militarization of East Africa is part of the preparations for a confrontation with China and its allies. East Africa is an important front that will heat up in the coming years.


The East Asia Front: The Shadow War against China

In this current century, all roads lead to East Asia and China. This will become more and more so as this century progresses. In East Asia a shadow war is being waged against the Chinese. If the globe were a chessboard and the rivals and opponents of the U.S. and NATO were chess pieces, China would be the king piece, while Russia would be the queen piece. The U.S. and NATO march to war will ultimately lead to East Asia and the borders of the Chinese. From the eyes of America, in the words of Brzezinski, “China is unfinished business.” [48]

In East Asia, the U.S. and its allies support the breakaway republic of Taiwan, officially the Republic of China, and use it as a strategic base against mainland China. Taiwan also administers some of the small islands in the South China Sea, which along with Taiwan Island or Formosa, overlook the strategic shipping lanes to China. A missile shield project, similar to the one in Europe directed against Russia and its CSTO allies, has also been in the works in East Asia for years that includes the use of Taiwan.

The U.S. and its allies are also interested in North Korea and Myanmar as a means of encircling the Chinese. Both North Korea, in Northeast Asia, and Myanmar, in Southeast Asia, are close Chinese allies. The pretext of a threat from North Korea is being used to justify the elements of the missile shield project being built in Northeast Asia. Of special importance in Southeast Asia is the port and naval facilities that Myanmar is constructing to give the Chinese a far more secure energy lifeline in the Indian Ocean that circumvents Malacca and Taiwan.

There have also been internal operations underway against Beijing. In Chinese Turkistan, where Xinjiang Autonomous Region is located, the U.S. and its allies have been supporting Uyghur separatism based on a matrix of Uyghur ethnic nationalism, pan-Turkism, and Islam to weaken China. In Tibet the aims are the same as in Xinjiang, but the U.S. and its allies have been involved in far more intensified intelligence operations there.

Breaking Xinjiang and Tibet from China would heavily obstruct its rise as a superpower. The estrangement of both Xinijang and Tibet would take vast resources in these territories away from China and the Chinese economy. It would also deny China direct access to the ex-Soviet Republics of Central Asia. This would effectively disrupt the land route in Eurasia and complicate the creation of an energy corridor to China. 

Any future governments in an independent Xinjiang or an independent Tibet could act like Ukraine under the Orangists in regards to disrupting Russian gas supplies to the European Union over political differences and transit prices. Beijing as an energy consumer could be held hostage like European countries were during the Ukrainian-Russian gas disputes. This is precisely one of the objectives of the U.S. in regards to stunting the Chinese.

The Latin America and Caribbean Fronts: America versus the Bolivarian Bloc

The struggle in Latin America has spanned from South America to the Caribbean and Central America or Mesoamerica. It has been a struggle between the local or regional countries allied under the Bolivarian Alternative for the Americas or ALBA (Alternativa Bolivariana para las Américas). ALBA has pushed for political and economic self-determination in an area that the leaders of the U.S. have seen as their own “backyard” since 1823 under the Monroe Doctrine. In their struggle for independence, these regional countries in Latin America and the Carribean have become allied with the Eurasians against America and its allies.

With the election of Hugo Chávez in 1998 and the start of his presidency in 1999, Venezuela became the force that would establish the seeds of the Bolivarian Bloc, which is named after Simón José Bolívar, the man who led Venezuela, Bolivia, Peru, Columbia, Ecuador, and Panama to independence in their struggle against Spain. The Bolivarian government in Caracas would go to the aid of Cuba and end the American attempts to isolate Havana by openly declaring solidarity with Cuba and expanding ties. The bilateral agreements signed by Cuba and Venezuela would form the nucleus of the Bolivarian Bloc and the model of the expanded format of the alliance under ALBA.

In 2006, the alliance between Havana and Caracas began to take in new members. In 2006, Evo Morales would become the new president of Bolivia and Bolivia would become allied with both Venezuela and Cuba. In 2007, one year later, Rafael Correa would become the president of Ecuador and Daniel Ortega, the Sandinista leader, would become the president of Nicaragua. Both Ecuador and Nicaragua instantly joined the alliance between Bolivia, Cuba, and Venezuela. In 2008, Honduras under President Manuel Zelaya, who was elected in 2006, would also enter ALBA. In all these countries the Bolivarian leaders would work for economic and constitutional reform to remove the local oligarchies allied with U.S. interests in Latin America.

To reduce their dependency on the U.S., the Bolivarian Bloc has also introduced its own unified regional monetary compensation framework, called the SUCRE (Sistema Único de Compensación Regional). [49] The implementation of the SUCRE follows the same steps as the euro, being used initially on a virtual basis for trade and eventually as a hard currency. This is part of a joint move away from the U.S. dollar by the Bolivarians and the Eurasians. 

The White House, the Pentagon, the U.S. State Department, and the U.S. Congress have viciously attacked the Bolivarian Bloc and its leaders in language that exposes so-called U.S. democratic values as being false pretexts for invasions and international aggression. This U.S. rhetoric has also been in tune with a U.S. program for regime change and covert operations in Latin America. During the course of all these events the U.S. embassies and American diplomats in these Latin American countries would be implicated in supporting violence against the Bolivarian governments.

In 2002, the U.S. supported a failed coup against Chávez by elements of the Venezuelan military. In Bolivia, since 2006, the leadership of the energy-rich eastern departments of Santa Cruz, Beni, Pando, and Tarija started pushing for autonomy with the help of U.S. funding from the Office of Transition Initiatives of the United States Agency for International Development (USAID). In 2008, civil strife began when the leaders of the eastern departments started to seize local government buildings, energy facilities, and infrastructure as part of an attempt to separate from Bolivia. The American-supported failed attempts to divide Bolivia were part of the attempt by the U.S. government to retain control over Bolivian natural gas.

In Honduras, the weakest link in the Bolivarian Bloc, a military coup d’état supported by the U.S., under the cloud of a constitutional crisis, would replace Manuel Zelaya in 2008. The outcry and clamour against the military coup in Honduras would be so strong that the U.S. government would publicly act as if it were opposed to the American-engineered coup in Honduras. A United Nations General Assembly meeting under the presidency of Father Miguel d’Escoto Brockmann, a Christian priest of the Roman Catholic Church, would unanimously condemn the coup in Honduras.  In 2010, the U.S. would also support an attempted coup in Ecuador by police units against Rafael Correa and his government.

The U.S. has been militarizing the Caribbean and Latin America to regain its control of the Americas. The Pentagon has been arming Columbia and deepening its military ties with Columbia to counter Venezuela and its allies. On October 30, 2009 the Columbian and U.S. governments would also sign an agreement that would allow the U.S to use

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(francais / srpskohrvatski)

=== francais ===


Danas

Une minorité négligée : les « Yougoslaves », citoyens apatrides d’un pays disparu


Traduit par Jovana Papović

Publié dans la presse : 26 novembre 2010

Le 29 novembre, des milliers de citoyens des Etats post-yougoslaves ont fêté l’ancienne fête nationale de la Yougoslavie socialiste. En Serbie, plus de 80.000 personnes se déclarent toujours de « nationalité yougoslave », refusant de se définir comme « serbes » ou membres d’une autre communauté nationale. Certains d’entre eux se considèrent comme les « Kurdes d’Europe », d’autres comme des « rescapés de l’Atlantide »...

Par Vesela Laloš


Les Yougoslaves constituent aussi le groupe le plus diffus sur le territoire, car il n’y a aucune région de Serbie où ils ne soient pas représentés, à l’exception de Preševo. C’est en Voïvodine qu’ils sont les plus nombreux : près de 50.000 citoyens de la province se déclarent comme tels. Vient ensuite la ville de Belgrade, où ils sont près de 22.000. La ville la plus « yougoslave » est Subotica : on y compte près de 8.500 habitants de nationalité yougoslave, c’est-à-dire que s’y regroupent près de 10% des « Yougoslaves » de tout le pays.Lors du dernier recensement, 80.721 citoyens de Serbie ont choisi de se déclarer de nationalité « yougoslave ». Ce chiffre en fait la quatrième « minorité nationale » du pays par importance numérique, après les Hongrois, les Bosniaques et les Rroms.

La raison pour laquelle les « Yougoslaves » sont si nombreux en Voïvodine est évidente : plus de vingt nationalités vivent dans la région. Les origines s’entremêlent et beaucoup de personnes choisissaient donc de se dire « yougoslaves », ce qui était un choix logique dans l’ancien pays commun. La définition d’un « sentiment d’appartenance nationale » a été ressentie par cette partie de la population comme un véritable dilemme personnel, à la limite de la crise identitaire. L’absurde et le tragique dans la recherche de son identité nationale s’illustre très bien à travers l’exemple d’une école de Subotica ou quelques élèves, dont les parents mais aussi les grands-parents étaient de nationalités diverses, répondirent qu’ils n’en n’avaient pas quand leur maitresse leur demanda leur nationalité.

La plupart des Yougoslaves ne vivent cependant pas cette affirmation comme une fuite. Ils ont choisi leur appartenance identitaire librement et avec fierté - en assumant aussi la nostalgie qui les lie toujours à l’ancien pays, le seul auquel ils se sentent appartenir.

Les « Yougoslaves » de Serbie sans reconnaissance officielle

Ceux qui se disent « Yougoslaves » estiment que ce choix est pleinement légitime, mais il n’a toujours pas reçu de régulation légale. Les associations yougoslaves demandent leur reconnaissance en tant que minorité nationale, mais cette requête n’a toujours pas été prises en compte par l’État. Le ministère des Droits de la personne et des minorités explique que le problème tient au fait que la communauté qui prétend former une minorité nationale spécifique doit avoir une langue, un pays de référence, des symboles nationaux, une culture et une histoire spécifique. Les Yougoslaves répliquent que leur pays d’origine a existé mais qu’il a été détruit, ce qui ne veut pas dire qu’eux-mêmes n’existent plus. Comme « langue maternelle », ils évoquent le serbe, le croate, le macédonien et le slovène.

Une requête officielle à tout de même été déposé auprès du ministère en avril dernier, mais la situation n’a pas évolué. « Le secrétaire d’État du ministère, Petar Antić, nous a conseillé d’attendre l’année prochaine, au moment du nouveau recensement, car nous seront surement moins nombreux et nous aurons donc besoin de moins de signatures. Nous allons tous de même chercher à intensifier nos démarches pour disposer enfin d’une reconnaissance officielle », explique Mikloš Olajoš Nađ, l’un des initiateurs de la demande de reconnaissance de la minorité yougoslave. « Beaucoup de gens pensent qu’il s’agit là de la création d’une nation artificielle, mais ce n’est pas le cas. Nos requêtes sont réelles et fondées. Beaucoup de gens aimaient la Yougoslavie et la considèrent toujours comme leur pays disparu. Après tous les drames que nous avons connus, heureusement qu’il y a encore des gens qui voient encore les choses de cette façon », poursuit Mikloš Olajoš Nađ.

Les premiers pas vers la collecte des signatures de citoyens ont été bloqués par des obstacles et des problèmes administratifs surprenant : par exemple, le ministère explique que les formulaires indispensables ne peuvent pas être envoyés avant que des élections pour les conseils nationaux ne soient organisées.

Snežana Ilić, coordinatrice du programme pour les minorités religieuses et ethniques du Centre pour le développement de la société civile, avance l’hypothèse d’autres raisons à ce blocage. « Comment les autres minorités nationales et l’État pourraient-il accepter une telle approche ? On suppose qu’ils l’accepteraient avec beaucoup de méfiance, de résistance et même avec de la moquerie. Même si elle n’est que d’ordre subjectif, une réaffirmation de l’idée commune de la Yougoslavie, pourrait mettre en danger l’identité nationale des Serbes, des Croates, des Bunjevcis, des Bosniaques et des autres minorités de Serbie… Elle rendrait insensée l’histoire des deux dernières décennies dans les Balkans occidentaux, elle montrerait le caractère dérisoire de guerres sanglantes menées par des groupes ethniques fortement liés entre eux. La question de l’identité yougoslave est peut-être avant tout une question de responsabilités. Elle rend les conflits passés insensés et montre qui en a profité, et qui en a payé et continue d’en payer le prix », explique Snežana Ilić.

Elle estime que la création d’un conseil national permettrait de créer une nouvelle dynamique dans le domaine des droits des minorités. « Si on regarde la question de manière hypothétique, de quoi cela aurait-il l’air ? En ayant accès aux droits prévus pour les minorités nationales, les Yougoslaves pourraient faire un choix spécifique parmi la variété d’identités existantes qui pourraient être utilisées pour légitimer leurs actions pratiques dans leur lutte pour préserver leur spécificité culturelle. On peut facilement imaginer que les Yougoslaves pourraient, par exemple, demander la création d’un institut pour la conservation de la culture yougoslave ou bien la création de médias spéfiques... Par contre, ils ne pourraient pas revendiquer le droit à une éducation spécifique dans leur langue serbo-croate ou bien l’utilisation officielle de cette langue et l’utilisation égale de ses deux alphabets. Le droit à l’usage officiel des deux langues yougoslaves sous-entendrait l’accélération vers la fin des authentiques systèmes de création culturelle, ethniquement et culturellement fermés, des systèmes d’éducation et d’information qui utilisent principalement ou exclusivement un seul alphabet », poursuit Snežana Ilić.

Une identité en voie de disparition ?

Dans quelle mesure cette idée ou plutôt ce sentiment d’appartenance à quelque chose qui n’existe plus, est-il durable et réel ? Le temps le montrera certainement. L’identité yougoslave est-elle anachronique ou bien en avance sur son temps ? Cette question est importante aux yeux de ceux qui se sentent yougoslaves.

Se déclarer « yougoslave » revient surtout à affirmer que l’ancien pays était meilleur que ceux qui lui ont succédés. C’est aussi une manière de refuser les identités nationales exclusives. Par conséquent, la reconnaissance nationale de ce groupe d’apatride sans État, de ce peuple sans terre, pourrait remettre en cause la définition même des nationalités et des minorités nationales.

Les opposants à l’idée de la Yougoslavie la perçoivent surtout en lien avec la Yougoslavie de Tito et avec l’idéologie communiste. Il s’agit, en réalité, d’une ignorance de l’histoire. L’idée yougoslave s’est affirmée dès le début du XIXe siècle, et ses premiers partisans durent les Slaves du Sud les plus instruits.

Les Yougoslaves sont véritablement « nés » en même que la création de la Yougoslavie, en 1929, quand ils se définirent comme « une nation regroupant trois tribus [les Serbes, les Croates et les Slovènes, NdT] ». Ils ont été reconnus comme groupe démographique distinct pour la première fois lors du recensement de 1961. C’est en 1981 que le plus grand nombre de « Yougoslaves » a été recensé : ils étaient alors 1.220.000 – un chiffre important, même si par rapport à la population totale du pays, cela ne représentait encore qu’un petit pourcentage.

La plupart d’entre eux, 36% des Yougoslaves recensés en 1981, se trouvaient à cette époque en Serbie. Leur nombre a progressivement diminué, parallèlement à l’augmentation du nombre de citoyens se déclarant serbes, croates, slovènes ... Certains théoriciens expliquent ce phénomène d’identification yougoslave de masse par un rejet de l’identification nationale, car toute une partie de l’ex-Yougoslavie s’identifiait plus volontiers à la citoyenneté commune qu’à l’origine ethnique.

Du Vardar au Triglav

Il est intéressant de noter que dans les opinions publiques post-yougoslaves l’idée de l’identité yougoslave a souvent fait face à un rejet considérable, d’une façon presque égale dans tous les pays ayant participé à la guerre, et cette identité est souvent considéré comme la cause même du conflit. L’identité yougoslave a aussi ses partisans dans chacun de ces pays – plus ou moins nombreux selon les cas. C’est ainsi qu’a été formé à Zagreb, au début de l’année, l’Alliance des Yougoslaves, dont le but est de « faire reconnaitre la nationalité yougoslave comme nationalité officiellement reconnue dans tous les pays nés de la dislocation de la Yougoslavie. » L’Alliance a été fondée avec la conviction que les Yougoslaves ont eux aussi le droit de préserver leur identité et leur patrimoine culturel. Elle s’efforce d’unifier tous les Yougoslaves et de surmonter les divisions ethniques.

Snežana Ilić rappelle que la reconnaissance des droits des minorités ethniques yougoslaves réparerait une grande injustice, et serait à l’avantage de tout le monde, sauf ceux qui utilisent la justice comme un voile transparent pour justifier la xénophobie et le maintien des barrières ethniques.

« Qui a abandonné le monde de la culture nationale et de la démocratie nationale, n’a plus d’endroit ou revenir », écrivait, il y a quelques années, un célèbre Yougoslave. Aujourd’hui, l’identité yougoslave ne peut bien entendu pas se comprendre comme un nationalisme yougoslave ou comme une identité majoritaire parmi les habitants des pays slaves des Balkans. L’identité yougoslave pourrait cependant représenter, en raison de son caractère inclusif, un facteur important sur la route de l’intégration (pas seulement) européenne des pays des Balkans et des pays de l’Europe du sud-est.

La cyber-yougomania mondialisée

« Voici la Cyber-Yougoslavie, la maison virtuelle des Yougoslaves. Nous avons perdu notre pays et nous sommes devenus des citoyens de l’Atlantide »... Tels sont les premiers mots de la « Constitution de la Yougoslavie virtuelle », proclamée en 1999 sur le site Internet www.juga.com.

De nombreux sites Internet promouvant l’idée d’un Etat commun des Slaves du Sud et cherchant à relier tous ceux qui se sentent Yougoslaves ont été créés, mais la Yougoslavie virtuelle de www.juga.com a suscité un intérêt incroyable à travers le monde entier. De nombreux médias internationaux s’y sont intéressés, et les demandes de citoyenneté ont afflué auprès de l’administrateur du site. Il est intéressant de noter que la citoyenneté a été demandée non seulement par d’ancien citoyens yougoslaves, mais aussi par des ressortissants d’une centaine de pays à travers le monde – d’Australie, d’Hollande, de France, d’Allemagne, d’Ecosse, du Bangladesh, de Corée du Sud, du Qatar, des Bahamas, d’Oman, de Hong Kong ...

La Cyber-Yougoslavie, qui a proclamé dans sa Constitution la citoyenneté multiple, la diversité des langues officielles et des alphabets, l’égalité totale de tous ses membres, qui n’a ni ministre ni gouvernement, a commencé à collecter des signatures pour son adhésion à l’ONU. Lors de la création de cet État virtuel, BBC News a estimé qu’il s’agissait de la création la plus sophistiquée dans son genre.

Cependant, même si l’idée initialement basée sur la nostalgie des diasporas yougoslaves, a été acceptée avec un enthousiasme incroyable, elle est resté au niveau d’un simple divertissement, sans conséquences concrètes. Cependant www.juga.com transmet un message fort, l’idée démontre que de nombreux citoyens de cette planète sont favorables à la diversité interculturelle, sur laquelle repose l’idée yougoslave.

Le pouvoir subversif des Yougoslaves

La question de l’identité yougoslave dans la Serbie d’aujourd’hui n’est pas seulement une question de minorité, mais pose la question de la façon de surmonter le passé et les guerres des années 1990. Il n’est donc pas étonnant qu’il n’y ait pas de volonté politique pour donner à cette minorité les droits qui lui reviennent... Le caractère changeant et la multiplicité des identités de groupe, ou plutôt leur constante (re)définition en fonction du contexte politique, s’illustre à merveille par l’exemple des Yougoslaves. Entre deux recensements de population, de 1991 à 2002, plus de 75% des Yougoslaves déclarés en Serbie ont disparu. Dans les autres pays, ils sont devenus invisibles : ils ont été officiellement effacés en croatie ; en Bosnie, ils sont officieusement indésirables.

La Serbie se définit comme un pays multiculturel et met en avant la protection qu’elle accorde aux différentes minorités. Les spécialistes du multiculturalisme estiment pourtant qu’il n’ya pas de véritable respect si l’environnement social et culturel dans lequel les gens sont socialisés n’est pas reconnu. Cela s’applique-t-il aux Yougoslaves, qui insistent sur une réalité disparue et affirment leur identité transnationale ?

Apparemment non, parce que ceux-ci « ne forment pas un groupe ethnique distinct, qu’ils sont originaires de mariages mixtes (...) qu’ils n’ont pas une langue qui leur soit propre (...) qu’ils n’ont pas de conseil national qui montrerait un intérêt pour la préservation de leur spécificité »... Et même « qu’ils n’ont pas de langue, d’alphabet ni de littérature », affirment les fonctionnaires du gouvernement en Serbie.

Cette négation de la spécificité culturelle, bel et bien réelle, des Yougoslaves que prône l’Etat serbe, met en valeur l’éventuel potentiel destructeur de cette minorité, pour les autres minorités, mais aussi pour tous les citoyens du pays.

Seuls les « Yougoslaves » ne voient pas l’adhésion à une nation ethnique comme le fondement primordial du pouvoir politique ou comme une base à la participation à la concurrence ethnique autour de ressources qui se font de plus en plus rares. L’identité yougoslave dans la Serbie d’aujourd’hui est une critique productive et une affirmation sans équivoque du multiculturalisme.

C’est un critique productive, car elle démolit le modèle tribal balkanique qui repose sur les cultures ethniques des Slaves du Sud, qui cherchent chacune à définir leur propre chemin vers l’Europe, sans coopération avec les pays voisins auxquels ils ressemblent tant.

C’est une affirmation du multiculturalisme, parce que cette identité est inclusive. La force de l’identité culturelle yougoslave ne réside pas seulement dans son potentiel créatif, mais aussi dans sa capacité à inclure et à percevoir de façon significative les contenus et les inspirations venant de la culture et de la production mondiale, ce qui n’est le cas d’aucune des sept nations ethniques des slaves du Sud.


=== srpskohrvatski ===


26/11/2010

Jugosloveni, narod bez zemlje


APATRIDI

AUTOR: VESELA LALOŠ


Neki od njih tvrde da su evropski Kurdi, drugi se upoređuju sa Atlantiđanima, a sasvim je izvesno da spadaju u moderne apatride. No, ta ih činjenica ne obeshrabruje da sebe i dalje smatraju Jugoslovenima. Takvih koji su za svoju nacionalnu pripadnost na poslednjem popisu stanovništva izabrali nekadašnje državljanstvo, u Srbiji ima čak 80.721, a to ovu zajednicu građana i građanki svrstava na četvrto mesto po brojnosti, posle Mađara, Bošnjaka i Roma (izuzimajući, naravno, većinski narod, u kojem je dosta onih koji su ne tako davno i sami pripadali narečenoj grupi. Pretpostavlja se, po sopstvenom izboru i volji, mada mnogi tvrde da se tada nisu smeli „izjasniti“).


Po jednom drugom kriterijumu, Jugosloveni su u demografskoj statistici na prvom mestu - kao najrasprostranjenija grupacija, jer osim Preševa, nema opštine u Srbiji u kojoj ih nema. Najbrojniji su u Vojvodini, gde ih živi oko 50.000, a zatim sledi Beograd sa oko 22.000. Najjugoslovenskiji grad je Subotica, koja ima 8.500 građana jugoslovenske nacionalnosti, odnosno deset odsto od ukupno proklamovanih Jugoslovena u zemlji.

Razlog zbog kojeg su Jugosloveni najbrojniji u Vojvodini je očigledan - mnogi potomci više od dvadeset nacija u pokrajini svoje mešovito poreklo najlakše definišu kroz jugoslovenstvo, što je u prethodnoj državi bilo logičan izbor. Eksploziju „osećanja nacionalne pripadnosti“ ovaj deo stanovništva je doživeo kao veliku ličnu dilemu, ponekad čak sa dimenzijama krize identiteta. Apsurd i svojevrsnu tragiku traženja svog nacionalnog određenja u takvoj situaciji ilustruje slučaj iz jedne subotičke škole u kojoj je nekoliko učenika, čiji su roditelji, kao i roditelji njihovih roditelja, bili različitih nacionalnosti, na pitanje svoje profesorice kako će se izjasniti na popisu, odgovorilo da će reći da su - ništa.

Mnogi Jugosloveni ipak svoj izbor ne doživljavaju kao bekstvo od ništavila, već su svoje jugoslovenstvo odabrali dobrovoljno i s ponosom, bolje reći s nostalgijom koja ih veže za nekadašnju državu i koju jedino osećaju kao svoju. No, dok je onima koji su se izjasnili kao Jugosloveni to opredeljenje sasvim legitimna stvar, ono još uvek nije dobilo i svoju zakonsku potvrdu. Zahteve udruženja Jugoslovena da ih se prizna kao nacionalna manjina država još nije uvažila. Odgovori iz Ministarstva za ljudska i manjinska prava navode da je prepreka u tome što zajednica koja pretenduje na nacionalnost mora imati zvaničan jezik, državu, nacionalne simbole, svoju kulturu i istoriju. Jugosloveni na to odgovaraju da je njihova matična država postojala, ali da je razorena, što ne mora značiti da oni više ne postoje, dok kao maternji jezik priznaju srpski, hrvatski, makedonski, i slovenački.

Zahtev je Ministarstvu (ipak) predočen još u aprilu, ali dosad se nije pomerio s mrtve tačke. „Državni sekretar u Ministarstvu Petar Antić predložio nam je da je možda bolje da sačekamo narednu godinu, kada je novi popis stanovništva jer će nas tada verovatno biti manje, pa će nam biti potrebno manje potpisa za to. Mi ćemo, međutim, taj proces intenzivirati, kako bismo ga dovršili ipak pre nove godine“, kaže Mikloš Olajoš Nađ, jedan od inicijatora zahteva za priznavanje Jugoslovenima statusa nacionalne manjine.

- Mnogi misle da je ovo stvaranje veštačke nacije, ili nadnacije, ali to nije tačno. Naši zahtevi su potpuno realni ako znamo da ima mnogo ljudi koji su voleli onu državu i doživljavaju je kao svoju i dalje. Dobro je što posle svega što se dešavalo na ovim prostorima ovde ima ljudi koji tako razmišljaju - navodi Nađ.

Dosadašnji pokušaji da se krene makar sa prikupljanjem potpisa građana bili su blokirani i besmislenim administrativnim preprekama i problemima, kao što je recimo stav Ministarstva da se formulari neophodni za taj posao ne mogu dobiti pre nego što se okončaju izbori za nacionalne savete.

Snežana Ilić, koordinatorka programa za etničke i verske manjine Centra za razvoj civilnog društva, navodi pretpostavku da bi formiranje nacionalnog saveta nailazilo i na druge otpore.

- Kako bi druge manjinske zajednice, a i sama država Srbija prihvatili ovakav pristup? Za pretpostaviti je, sa puno otpora, podozrenja i čak podrugljivosti. Jer, makar i subjektivno, ponovna afirmacija zajedničke južnoslovenske ideje i njenih tvorevina mogla bi ugrožavati i Srbe i Hrvate i Bunjevce i Bošnjake... Ona bi u velikoj meri obesmislila istoriju poslednje dve decenije na zapadnom Balkanu kao istoriju nepotrebnih ratova krajnje srodnih etničkih grupa. Pitanje jugoslovenstva je, pored ostalog, a možda i više nego nešto drugo, pitanje odgovornosti. Ono obesmišljava ovdašnje sukobe i ratove i pokazuje ko je iz njih profitirao i ko je platio i još uvek plaća njihovu cenu - kaže Snežana Ilić.

Ona ocenjuje da bi formiranje nacionalnog saveta unelo novu dinamiku u polje manjinskih prava.

- Hipotetski gledano, kako bi to moglo da izgleda? Jednim moguće relaksiranim, nedogmatskim pristupom uživanju manjinskih prava Jugosloveni bi mogli napraviti specifični odabir iz mnoštva postojećih identitetskih sadržaja koji bi poslužili za legitimizaciju njihovog praktičnog delanja u borbi za očuvanje kulturne posebnosti. Lako je zamisliti da bi Jugosloveni mogli, na primer, tražiti osnivanje Instituta za očuvanje jugoslovenske kulture ili osnivanje nekog medija, ali ne i obrazovanje na svom, srpsko-hrvatskom jeziku ili službenu upotrebu svog jezika i ravnopravnu primenu oba njegova alfabeta. Pravo na službenu upotrebu oba jugoslovenska pisma značilo bi ubrzavanje kraja etnički samosvojnih i kulturno zatvorenih sistema kulturnog stvaralaštva, obrazovanja i informisanja pre svega ili isključivo na jednom alfabetu, navodi Snežana Ilić.

Koliko je čitava ideja ili bolje reći osećaj pripadanju nečemu čega više nema održivo i realno, svakako će pokazati vreme. Ono će možda dati i odgovor na pitanje da li je jugoslovenstvo po svojoj suštini anahrona pojava, ili je pak ispred svog vremena. Ukoliko je to uopšte važno onima koji se osećaju Jugoslovenima. Taj stav je svakako i poruka da je ona bivša država bila bolja od svih potonjih, ali i način da se čovek odbrani od nametanja nacionalnih koncepata. Zbog toga bi možda priznavanje statusa nacije ovoj grupi apatrida, narodu bez zemlje, dalo novu boju čitavoj ideji, možda i nove pristalice, ali i donelo gubitak nekih drugih.

Jugosloveni stariji od Tita

Protivnici ideje jugoslovenstva vide je uglavnom u kontekstu Titove Jugoslavije i uz komunističku ideologiju. Reč je očito o nepoznavanju istorije jugoslovenstva, koje je mnogo starije od najstarijih pristalica i protivnika te ideje. Ona se sasvim definisana javlja još početkom XIX veka, a njene pristalice su najpre najobrazovaniji južni Sloveni.
Jugosloveni su faktički „nastali“ zajedno sa stvaranjem Jugoslavije, 1929. godine, kada se definišu kao „nacija sa tri plemena“. Prvi put se kao posebna demografska grupa priznaju na popisu 1961, a najviše proklamovanih Jugoslovena ubeleženo je 1981. godine - ukupno milion dver stotine dvadeset hiljada, mada je u odnosu na broj stanovnika tadašnje države to ipak bio mali procenat. Najviše ih je u to vreme bilo u Srbiji, 36 odsto od ukupnog popisanog broja, da bi se njihov broj postupno smanjivao, recipročno u odnosu na povećanje broja Srba, Hrvata, Slovenaca... Pojedini teoretičari ovu pojavu masovnog jugoslovenstva objašnjavaju neprihvatanjem nacionalne identifikacije, jer se deo stanovništva bivše Jugoslavije radije identifikovao sa državljanstvom nego sa etničkim poreklom.

Savezi na ex-ju prostoru

Zanimljivo je da u postjugoslovenskim javnostima ideja jugoslovenstva neretko nailazi na popriličan odijum gotovo podjednako na svim stranama učesnicama ratnih sukoba, pri čemu se ona doživljava kao uzrok tih sukoba. Jugoslovenstvo takođe ima i svojih pristalaca - nije baš izvesno da li u istom obimu - na svim tim stranama. Tako je u Zagrebu početkom godine osnovan Savez Jugoslovena, čiji je cilj „da se nacionalnost Jugosloven uvrsti u red zvanično priznatih nacija u svim zemljama nastalim na području nekadašnje SFRJ“. Savez je nastao na uverenju da i Jugosloveni imaju pravo na očuvanje identiteta i svoje kulturne baštine, a nastojaće se na objedinjavanju svih Jugoslavena, te prevazilaženju nacionalnih podela i približavanju zavađenih naroda na prostorima bivše države.

Faktor u evropskim i drugim integracijama

Snežana Ilić podseća da bi priznavanje prava pripadnika nacionalne manjine etničkim Jugoslovenima uklonilo jednu veliku nepravdu, a koristilo bi svima, osim onima kojima pravo služi jedino kao prozirni prekrivač za politiku sile, ksenofobije i etničkog zatvaranja.
„Ko je jednom napustio svet nacionalne kulture i nacionalne demokratije, danas se nema više gde vratiti“, pisao je pre par godina jedan poznati, živi Jugosloven. Osim kao sumnjiva, sve manja i manja manjina, dodajemo. Jugoslovenstvo je danas, naravno, nemoguće kao jugoslovenski nacionalizam ili kao integralno jugoslovenstvo za najveći deo stanovništva dominantno balkanskih slovenskih zemalja. Ali jugoslovenstvo i Jugosloveni predstavljaju, zbog svoje inherentne inkluzivnosti, važan činilac na putu (ne samo) evropskih integracija balkanskih zemalja i država sa krajnjeg juga srednje Evrope.

Planetarna sajber jugomanija

Ovo je Sajber Jugoslavija, domovina sajber Jugoslovena. Mi smo izgubili svoju zemlju i postali smo građani Atlantide... Ovako počinje ustav Sajber Jugoslavije, formirane 1999. na prostoru Interneta, na adresi www.juga.com. Dosad je oformljeno mnogo veb-sajtova na kojima se promoviše ideja zajedničke južnoslovenske države i povezuju oni koji se osećaju Jugoslovenima, ali je virtuelna Jugoslavija Juga.com izazvala neverovatno zanimanje moglo bi se reći širom planete. Njome su se bavili mnogi svetski mediji, a prijave za državljanstvo u ovoj državi ubrzo posle osnivanja zatrpale su veb-administratora. Zanimljivo je da su to državljanstvo želeli da dobiju ne samo građani nekadašnje stvarne države, već među vlasnicima pasoša Juge.com ima stanovnika iz stotinak država sveta - od Australije, Holandije, Francuske, Nemačke, Škotske do Bangladeša, Južne Koreje, Katara, Bahama, Omana, Hong Konga...
Sajber Jugoslavija, koja je u svom ustavu proklamovala višestruko državljanstvo, bezbroj zvaničnih jezika i pisama i potpunu ravnopravnost svih njenih članova, bez vlade i premijera, započela je čak i prikupljanje potpisa za prijavu za članstvo u UN. Na samom nastanku ove virtualne države BBC News ju je ocenio kao najsofisticiraniju tvorevinu te vrste.
No, iako je čitava ideja, nastala uglavnom kao posledica nostalgije među jugoslovenskim iseljenicima, prihvaćena sa neverovatnim entuzijazmom, ona je više ostala na nivou zabave, bez dalje interakcije njenih virtuelnih stanovnika. Ali, takođe, Juga.com istovremeno nosi i snažnu poruku da je mnogo građana ove planete privrženo interkutluralnom povezivanju, što jugoslovenstvo u osnovi i zagovara.

Subverzivna moć Jugoslovena

Pitanje jugoslovenstva i jugoslovenskog identiteta danas u Srbiji nije samo manjinsko pitanje, već pre svega pitanje prevladavanja prošlosti i ratova 90-ih. Otuda ne postoji politička volja da se ovoj manjini daju manjinska prava koja joj pripadaju... Procesualnost, nestatičnost pa i višestrukost grupnih identiteta, odnosno njihovo stalno iz(raz)građivanje u zavisnosti od političkog konteksta, nigde nije očitije nego na primeru Jugoslovena. Između dva poslednja popisa stanovništva, od 1991. do 2002, nestalo je 75 odsto Jugoslovena u Srbiji. Preostali su nevidljivi; u Hrvatskoj su zvanično izbrisani, u Bosni nezvanično nepoželjni.
Zastupnici multikulturalne teorije (a Srbija sebe stalno promoviše kao multikulturalno društvo i državu sa razvijenim manjinskim politikama) smatraju da nema uvažavanja ljudi ukoli

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Sul recente libro di Domenico Losurdo - "La non-violenza. Una storia fuori dal mito" (Laterza 2010) - e sul dibattito attorno ad esso e attorno alle posizioni dell'autore si veda anche il blog: http://domenicolosurdo.blogspot.com/



La non-violenza e le sue astratte agiografie dal «Piccolo gioco» del PRC al «Grande gioco» internazionale


di Leonardo Pegoraro



La “svolta non-violenta” del PRC e le sue resistenze interne

Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito all’interno della sinistra radicale e in particolare, del PRC ad un aspro dibattito sulla non-violenza che vale la pena ripercorrere brevemente. Come si ricorderà, il dibattito si sviluppò a partire dalle dichiarazioni che Fausto Bertinotti rilasciò in occasione di un convegno sulle foibe svoltosi a Venezia nel dicembre del 2003. Per la maggioranza del PRC si trattava di imprimere al partito una una vera e propria “svolta” non-violenta, a ribadire la quale sarebbe intervenuto poi un altro convegno ad hoc, tenutosi il 28 e 29 febbraio del 2004 sempre a Venezia, nell’isola di San Servolo1. Ma non tutti i compagni del PRC apprezzarono questa “innovazione”. Essa sarebbe infatti assurta a oggetto di critica da parte delle minoranze interne del partito, a partire da quella de l'Ernesto che si impegnò così a promuovere nel giro di un mese un terzo convegno (plurale e aperto a diverse posizioni) presso la Casa della Cultura di Milano2.

In questa sede molti compagni sollevarono anzitutto un problema di metodo, in relazione al fatto che il convegno di San Servolo era stato organizzato “a senso unico” e aveva volutamente rifiutato un confronto tra tesi diverse3. Misero poi in luce la confusione derivante da un continuo cambiamento dell’oggetto del dibattito che, a seconda dell’esigenza della polemica, passava da un’assolutizzazione nel tempo e nello spazio dell’ideologia e della pratica non-violente a «considerazioni politiche abbastanza ovvie sulla necessità di rifiutare l’uso della violenza “qui ed ora”». Il tutto accompagnato da un confuso intreccio tra il tema della violenza e quello del potere, come se l’una coincidesse automaticamente con l’altro e viceversa4.

Ma a risultare, se possibile, ancora più oscuro e surreale era l’urgenza con cui la maggioranza del PRC voleva imprimere al partito questa “innovazione” culturale, come se in Occidente fosse all’ordine del giorno la presa del “Palazzo d’inverno” da parte degli oppressi. E rivendicando oltretutto «come originali» risultati che in realtà erano stati «da tempo acquisiti» e «come proprie pensate» temi che erano ormai «a dir poco classici», da tempo ampiamente metabolizzati «dalla cultura del movimento operaio» grazie anche alla preziosa lezione gramsciana5. Al convegno de l'Ernesto, l’urgenza di questa “svolta” ideologica veniva così interpretata da molti interventi come il frutto di una strumentale esigenza politica: la maggioranza bertinottiana stava cercando di operare da un lato un «aggiustamento della collocazione» del partito rispetto al movimento no global e, dall’altro, di lanciare ai settori moderati del paese un visibile segnale di «omologazione», «in vista di un accordo organico di governo nel 2006» (con la conseguente integrazione subalterna del partito nell’Ulivo). Finalità tattiche, queste, che avrebbero però potuto sconfinare sul piano della dimensione strategica, con il rischio di aprire la strada ad un cambiamento genetico del partito e, di conseguenza, ad una «nuova identità, con tutto ciò che ne deriva in termini di interlocutori sociali, modalità di lotta politica e retroterra culturale». Un’identità politica non più volta a un radicale superamento del capitalismo ma compatibilmente volta, tutt’al più, a contrastarne gli effetti, per così dire, più «odiosi» e selvaggi6. Insomma, questa “innovazione” si preannunciava come una tappa fondamentale di un (forzato) processo di decomunistizzazione in atto nel PRC ad opera della sua stessa maggioranza.


Due diverse scuole di pensiero a confronto: idealismo vs. materialismo storico

Le differenze tra le varie scuole di pensiero aumentavano quando ci si addentrava nel merito della discussione. Per i teorici della non-violenza si trattava di ribadire l’argomento principe di quest’ideologia: per dirla con Marco Revelli, è «inevitabile» che il mezzo dell’azione politica «assuma, nel corso del tempo, un’importanza crescente fino a prevalere sul prodotto stesso» dell’azione7. Non c’è dubbio, conferma Bertinotti, che il fine è già contenuto nel mezzo e anzi «vive nel mezzo stesso»8; di conseguenza, se si vuole superare il capitalismo per costruire una società migliore e pacifica, occorre innanzitutto non perdere mai di vista la coerenza, l’omogeneità e la convergenza tra i due elementi, pena l’eterogenesi dei fini. Si tratterebbe infatti di un «principio pragmaticamente dimostrato dalla storia»9. Un’argomentazione inaccettabile per i critici dell’ideologia non-violenta, ai quali risultava piuttosto facile dimostrare come questa regola generale rivelasse tutta la sua inconsistenza e il suo dottrinarismo di fronte all’esperienza storica; a partire da quella a noi più vicina: «la resistenza italiana fece ad esempio abbondantemente uso della forza, senza per questo, nella nuova Repubblica, prendere d’assalto il Parlamento e imporre il dominio dei social-comunisti con la forza»10.

Del tutto idealistico risultava essere l’approccio degli ideologi della non-violenza nel momento in cui postulavano che era sempre e ovunque possibile scegliere tra mezzi violenti e mezzi nonviolenti, come se gli uomini siano, per così dire, storicamente indeterminati, avulsi dalla realtà concreta in cui vivono e agiscono. È vero il contrario: per dirla con Karl Marx, «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». È a partire da questo presupposto che anche la «leniniana “analisi concreta della situazione concreta”, la conoscenza il più possibile oggettiva dello stato di cose presente, della machiavelliana “verità effettuale”, dei gramsciani “rapporti di forza” ci spiegano che non è sempre possibile scegliersi il terreno dello scontro»11.

Qualche anno più tardi, e su questa stessa lunghezza d'onda (cioè sempre all'interno di un approccio materialistico), Toni Muzzioli avrebbe elaborato a tal proposito una sorta di “regola generale” che vale la pena citare nella sua interezza:

la lotta per la giustizia sarà anche domani una lotta “in situazione, storicamente circostanziata; dunque non sarà – come non è stata mai in passato – solo la volontà dei soggetti coinvolti a decidere come si esprimerà e con quali mezzi, ma anche il peso delle circostanze esterne. In linea del tutto teorica non si può non convenire che sarebbe bene che i mezzi prefigurassero il fine – e possiamo senz’altro adottare questa come “linea di condotta” generica -, ma un simile argomento non può essere assolutizzato, se non in una situazione “da laboratorio”; nella realtà in qualche misura i mezzi saranno sempre influenzati dal contesto entro il quale sono stati scelti e adottati.12

Tutto ciò, va ribadito, non significa che sia giusto ritenere «che si possa fare qualunque cosa in vista della santità del Fine». Ma non ha senso neppure «l’estremo opposto»: e cioè l’«attenzione estrema per il “mezzo”, per il qui ed ora dell’agire, per la qualità etica delle azioni […], al prezzo di sacrificare tranquillamente il fine». Saremmo in questo ultimo caso in presenza, continua Muzzioli, di una «forma di “manicheismo etico” con la quale si comprime l’agire storico e politico sulla sua immediata conformità a norme morali»13


Un Gandhi fuori dal mito

Ad offrirci altri spunti di riflessione utili ad una critica sistematica dell’ideologia non-violenta e del suo irriducibile dottrinarismo è intervenuto di recente Domenico Losurdo (La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Editori Laterza, 2010, pp. 287, euro 22,00) 14. Dopo il breve excursus sul dibattito interno al PRC nell’anno della “svolta”, conviene così passare in rassegna i contenuti del suo ultimo libro.

Entrando subito nel merito, è chiaro che uno studio sulla non-violenza non poteva evitare di fare i conti con una grande personalità storica quale è Mohandas Gandhi, che, infatti, riveste un ruolo centrale in tutto il ragionamento di Losurdo. Ma già a partire dal secondo capitolo del libro ci si accorge facilmente che ci troviamo in presenza di un ritratto del leader indiano a dir poco differente rispetto a quello a cui siamo da sempre abituati.

L’Autore, infatti, inizia subito facendo notare che, in una prima fase, Gandhi aspira a conseguire per l’India lo statuto di dominion e non la piena indipendenza del paese. Un desiderio di cooptazione (anche razziale) che lo conduce di conseguenza ad appoggiare le guerre dell’Impero britannico nella speranza di ottenere la sua riconoscenza: prima la repressione spietata (le cui infamie vengono denunciate da Lenin senza mezzi termini) della rivolta anticoloniale dei Boxer in Cina; poi la guerra contro i Boeri in Sudafrica; e infine la repressione della rivolta degli Zulù nel Natal. Ma a far riflettere (e indignare) è soprattutto il comportamento tenuto dal presunto campione della non-violenza in occasione della Grande guerra: al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi è impegnato per sua stessa entusiastica ammissione come «reclutatore capo» di mezzo milione di indiani per l’esercito britannico. Il tutto accompagnato da una retorica celebrazione della guerra e della violenza in virtù della sua funzione pedagogica. Gandhi ritiene infatti che la violenza, indipendentemente dagli obbiettivi perseguiti, è di per se stessa sinonimo di eroismo, coraggio e virilità! (pp. 28-37).

Un tema, quello della «virilità» e del maschio coraggio, che si ritrova più volte negli scritti di Gandhi (pp. 98-99, 159) e che, tornando alle tesi del convegno di San Servolo, cozza clamorosamente con il tentativo degli ideologi della non-violenza di coniugare il gandhismo con il femminismo15. Essi rimuovono inoltre il fatto che l’austera etica sessuale di Gandhi - parte integrante di una dottrina volta a conservare un sistema comunitario di tipo feudale e ostacolare qualsiasi forma di industrializzazione – è in netta antitesi con l’emancipazione della donna e con la sua libertà (anche sessuale) (pp. 107-108)16.


Il “secondo” Gandhi e la non-violenza come espediente tattico

In una seconda fase della sua evoluzione Gandhi inizia invece a lottare per il riconoscimento e l’emancipazione degli indiani identificandosi appieno nel movimento anticolonialista mondiale. A maturare questa consapevolezza contribuiscono sostanzialmente due eventi: da un lato, spiega Losurdo, «la rivoluzione d’ottobre e la diffusione dell’ideologia comunista nelle colonie e nella stessa India» che «costituiscono un formidabile colpo di piccone all’ideologia della piramide razziale e fanno apparire obsoleta l’aspirazione alla cooptazione nella razza bianca o ariana»; dall’altro lato, il massacro di Amritsar nella primavera del 1919, «che non solo costa la vita a centinaia di indiani inermi, ma comporta altresì una terribile umiliazione nazionale e razziale, con l’obbligo per gli abitanti della città ribelle di doversi trascinare a quattro zampe per tornare a casa o uscirne» (pp. 86-88).

Ma è bene osservare che il passaggio, per così dire, dal primo al secondo Gandhi non comporta affatto una svolta sul tema della non-violenza. Si pensi a tal proposito alla «piena collaborazione allo sforzo bellico» che Gandhi offre al governo di Londra nel 1944 in cambio dell’immediata indipendenza dell’India (pp. 122-123). O all’invito che Gandhi rivolge al suo popolo a resistere passivamente alla repressione delle forze dell’ordine in occasione delle manifestazioni e anzi di offrirsi in sacrificio (bambini compresi). Ecco allora che, continua Losurdo, «piuttosto che essere ispirata da preoccupazioni puramente morali, la non-violenza di Gandhi rivela una consumata abilità politica»: essa va cioè considerata come una formidabile tecnica di produzione dell’indignazione morale (pp. 92-95). Un «problema etico» in cui ci si imbatte di nuovo osservando il comportamento che assumerà in situazioni simili un grande protagonista del movimento antirazzista e pacifista statunitense (Martin Luther King): «è il problema relativo a una non-violenza incline a stimolare, in modo più o meno indiretto, la violenza dell’avversario contro vittime innocenti e indifese e a produrre così l’indignazione morale necessaria per screditare e isolare l’avversario» (p. 140).

Losurdo non manca poi di rivelarci altri aspetti di Gandhi a dir poco indigeribili, dovuti alla sua incapacità di orientarsi nel corso delle grandi crisi storiche e di gerarchizzare le diverse forme di violenza che le caratterizzano. È solo così che possiamo comprendere meglio la simpatia che a tratti il leader indiano mostra nei confronti di personalità quali Benito Mussolini e Adolf Hitler, definendo il primo «salvatore della nuova Italia» e dicendo del secondo: «non credo che Hitler sia così cattivo come lo dipingono. Sta dimostrando un’abilità stupefacente, e sembra che ottenga le sue vittorie senza grandi spargimenti di sangue» (pp. 109-110, 120-124). Ma nonostante l’Autore si impegni a smontare la mitizzazione in chiave apologetica di Gandhi è bene osservare come, nel complesso, dal suo studio non emerga affatto un ritratto di Gandhi esclusivamente negativo o la volontà di liquidarlo buttando via, per così dire, il bambino con l’acqua sporca. E non si tratta solo di riconoscere il ruolo storico che il leader indiano ha giocato nella fase più matura della sua vita nel movimento anticolonialista internazionale. C’è dell’altro: il «merito di aver cercato di conciliare gli elevati principi morali con l’azione politica concreta» o, visti i modesti risultati conseguiti per questa via, di aver comunque sollevato questo problema (p. 113). E ancor più simpatetico risulta il giudizio complessivo che Losurdo esprime nei confronti di un altro ideologo della non-violenza e cioè il grande scrittore russo Lev Tolstoj, il cui notevole contributo alla condanna del militarismo e del connesso colonialismo non può comunque essere ignorato (p. 54).


Il marxismo-leninismo come sinonimo di violenza e il gandhismo come sinonimo di non-violenza?

Privo di senso è quel luogo comune oggi molto diffuso secondo cui il marxismo-leninismo, al contrario del liberalismo, sarebbe sinonimo di culto della violenza. È opportuno allora ricordare che se in Marx, Engels e Lenin è assente la visione salvifica del sangue e la celebrazione della violenza in chiave esistenziale ed estetica non si può certo dire lo stesso di autori entrati a far parte del Pantheon dell’Occidente: basti pensare a questa affermazione di Alexis de Tocqueville: «Non voglio affatto parlare male della guerra; la guerra apre quasi sempre la mente di un popolo e innalza il suo animo» (pp. 70-75). Siamo in presenza di un mito surreale e ingiusto sia sul piano logico che su quello morale anche quando al presunto primato della violenza di cui godrebbe il movimento comunista, viene contrapposto un presunto primato della non-violenza cui spetterebbe invece al movimento guidato da Gandhi. È infatti insostenibile, afferma Losurdo, la «tesi che indica nell’atteggiamento assunto nei confronti della violenza il discrimine tra il partito di Gandhi e quello di Lenin» (indicando con questa espressione l’insieme delle personalità, dei partiti e delle organizzazioni che, traendo ispirazione dalla rivoluzione d’ottobre e dallo statista russo, sono impegnati anche loro nella rivoluzione anticoloniale e comunista) (p. 83).

A questo riguardo, tutti dovrebbero sapere che, mentre Gandhi è impegnato, come si ricorderà, a reclutare nuova carne da cannone al servizio dell’Impero britannico, i protagonisti del movimento comunista esprimono una condanna senza appello della prima guerra mondiale. Preso atto del voto a favore dei crediti di guerra da parte del movimento socialista, Lenin denuncia infatti il «tradimento perpetrato dai capi del socialismo europeo» e «gli orrori della guerra» e della «carneficina» che ne conseguono e, a guerra scoppiata, invita alla «fraternizzazione» i soldati dei diversi fronti. Si tratta senza dubbio di una condanna della guerra in chiave morale, oltre che politica, ben presente anche negli altri dirigenti del movimento comunista internazionale: Bucharin parla di «orrida fabbrica di cadaveri», Stalin di «sterminio di massa delle forze vive dei popoli», Trotskij di «barbarie cieca e svergognata» e infine Luxemburg e Liebknecht di «genocidio» (pp. 80-83).

Un altro mito corrente, scrive Losurdo, vorrebbe inoltre attribuire al partito di Gandhi «il merito di aver conseguito i suoi obbiettivi senza passare attraverso il bagno di sangue delle rivoluzioni promosse dal partito di Lenin». Ma è giusto considerare l’indipendenza dell’India dal giogo coloniale esclusivamente come il prodotto dell’agitazione non-violenta di Gandhi? In realtà un’analisi delle grandi campagne indiane di disobbedienza civile dimostra come esse - pur importanti per il «merito storico di aver riscattato dal letargo e dalla reclusione sociale e di aver condotto all’azione politica grandi masse di popolo» - abbiano conseguito risultati piuttosto modesti. Non si può quindi comprendere l’indipendenza dell’India se si prescinde da quei «colossali processi» che hanno agito alle spalle della rinuncia dell’Inghilterra al suo Impero, quali la prima e la seconda guerra mondiale e, soprattutto, la rivoluzione d’ottobre e il conseguente e connesso risveglio dei popoli coloniali su scala planetaria (pp. 126-130).

Un ragionamento simile, “a tutto campo”, ci aiuta a spiegare meglio anche altri avvenimenti storici relativamente recenti quali «il processo di desegregazione e la liquidazione dello Stato razziale negli Usa», che non possono essere compresi del tutto se vengono «separati da un contesto internazionale che vede il paese guida dell’Occidente sfidato in particolare sul tema dell’eguaglianza razziale dall’Urss e dal divampare della rivoluzione anticoloniale al livello mondiale» (p. 171).

Detto questo, non regge affatto alla prova della storia la regola generale elaborata dagli ideologi della non-violenza quali Johan Galtung: «Non stiamo ipotizzando che la non-violenza funzioni sempre, che sia una panacea, ma ci sono molte argomentazioni a favore dell’ipotesi che la violenza non funzioni mai!»17. Nel momento in cui apportano come esempi utili a convalidare questa regola proprio la campagna di Gandhi per l’indipendenza dell’India e la campagna di King contro l’apartheid in Usa, Galtung e l’autore che lo cita con entusiasmo (Alberto L’Abate) dimostrano come l’ideologia della non-violenza sia spesso schiava di semplificazioni e astratte agiografie.


Lenin e Bonhoeffer: l’etica della responsabilità come alternativa all’eterogenesi dei fini

Per dirla con Losurdo, «la condanna incondizionata e di principio della violenza presuppone una visione dottrinaria delle grandi crisi storiche, come se esse consentissero una ponderazione a freddo dei vantaggi e degli svantaggi della lotta armata o della via pacifica, mentre in realtà si tratta di scegliere tra due forme diverse di violenza» (p. 241). Si pensi a tal proposito ai dilemmi angosciosi che vivono i dirigenti bolscevichi in occasione della prima guerra mondiale, dove si trattava infatti di optare non già tra violenza e non-violenza, bensì tra violenza bellica e violenza rivoluzionaria. Dilemmi paragonabili a quelli dei pacifisti e abolizionisti statunitensi che, di fronte al varo della legge sulla cattura degli schiavi fuggiaschi e della Guerra di secessione, anche in questo caso non sono nelle condizioni di poter scegliere liberamente tra lotta violenta e lotta non-violenta ma solo tra due diverse forme di violenza: quella intrinseca dell’istituto della schiavitù e quella della guerra contro gli stati schiavisti (pp. 61-64). Ma ecco che per salvare la coerenza formale alcuni pacifisti statunitensi procedono alla deumanizzazione del nemico e dunque ad un prolungamento e inasprimento della violenza. Come fa notare più volte Losurdo, si profila così un paradosso: il rifiuto di principio della violenza professato dai pacifisti statunitensi si rovescia talvolta nella consacrazione teologica della violenza stessa (pp. 15-24). La medesima eterogenesi dei fini - il cui rischio, sia detto per inciso, per loro stessa ammissione sembra non interessare affatto a personalità “non-violente” quali Lidia Menapace!18 – che, a ben guardare, non risparmiò neppure l'azione di Gandhi. Il grande impegno profuso da Gandhi per definire l’identità indiana a partire dalla religione induista fu di certo alla base della rottura dell’unità tra la comunità induista e quella musulmana, suggellando così il capitolo più tragico dell’India britannica. Avrebbe avuto inizio una vera e propria «guerra di sterminio» che avrebbe a sua volta portato alla formazione di India e Pakistan e che comportò, a detta di storici quali Michelguglielmo Torri, la «più grande migrazione forzata a livello mondiale del secolo» (pp. 244-246).

In conclusione, scrive Losurdo, se dal punto di vista dell’«etica della convinzione» gli ideologi della non-violenza possono autodefinirsi coerentemente non-violenti sulla base delle proprie intenzioni e dichiarazioni, dal punto di vista dell’«etica della responsabilità», come dimostrano gli esempi appena visti, non possiamo certo attribuire loro il merito di aver evitato o limitato il divampare della violenza nel corso della storia e, in particolare, delle sue crisi più acute (pp. 242-244). Anzi.

È a questo proposito che Losurdo invita a riflettere sulle parole di un grande teologo protestante (Dietrich Bonhoeffer), che pur essendo stato a sul tempo un ammiratore di Gandhi e un suo fedele seguace, di fronte al profilarsi della barbarie nazista, cospira per attentare alla vita di Hitler. Bonhoeffer giustificherà il suo gesto polemizzando così con il non-violento per principio che «sceglie l’asilo della virtù privata»: egli, «solo ingannando se stesso può mantenere pura la propria irreprensibilità privata ed evitare che venga macchiata agendo responsabilmente nel mondo» (pp. 115-116). In altre parole, citando liberamente Lenin, il ripiegamento intimistico, teso esclusivamente all’«autoperfezionamento morale» (p. 53), è un atteggiamento egoistico e opposto all’assunzione di responsabilità che gli uomini devono sobbarcarsi con altruistico senso del dovere.


Un Dalai Lama fuori dal mito

Venendo ora ai giorni nostri, l'Autore fa notare come l’Occidente liberale sia recentemente passato dalla critica e anzi demonizzazione dell’ideologia non-violenta alla sua (strumentale) apologia. Le odierne guerre dell’Impero statunitense e dei suoi alleati e l’escalation di violenza nel mondo che ne deriva, dimostrano però che si tratta di un passaggio che avviene purtroppo solo sul piano della propaganda, utile cioè all’ideologia dominante per autorappresentarsi nella sua presunta superiorità morale e, al contempo, screditare i suoi nemici. Ecco spiegato perché oggi Gandhi, Tolstoj e King assurgano al ruolo di martiri della non-violenza in antitesi ai violenti e sanguinari Mao Zedong, Ho Chi Minh, Fidel Castro, Yasser Arafat e Patrice Lumumba (pp. 182-186). Si tratta, scrive Losurdo, di un’operazione oggi utile anche - e soprattutto - ad un’ulteriore mossa all’insegna della Realpolitik: la santificazione di quello che viene descritto a destra e a manca come il più grande erede di Gandhi vivente, ossia il XIV Dalai Lama (p. 187). Ma chiediamoci: ha fondamento o è inventata di sana pianta la “tradizione” non violenta tibetana? Nel corso dell’ottavo capitolo del suo libro l'Autore affronta questo tema impegnandosi a decostruire gli stereotipi positivi e le leggende che avvolgono tutt’ora la storia di questa vasta regione cinese. A partire da una rivolta scoppiata in Tibet nel 1660 e repressa nel sangue (compresi donne, bambini e i figli e i nipoti dei rivoltosi) per ordine del V Dalai Lama, e passando per un’analisi volta a mettere in luce come la violenza investisse tutti i settori della tradizionale società tibetana (caratterizzata da una rigida struttura gerarchica, schiavitù, servaggio e leggi antimiscegenation), Losurdo ha buon gioco a dimostrare il carattere tutt’altro che pacifico e felice del Tibet lamaista oggi tanto rimpianto anche dai non-violenti nostrani.

E che dire del XIV Dalai Lama? È davvero un non-violento? Per rendersi conto della costruzione mitologica che avvolge questa personalità basta considerare il suo appoggio entusiasta alla partecipazione degli Usa alla seconda guerra mondiale e alla guerra di Corea. Così come non va perso di vista l’atteggiamento bellicoso che Sua Santità assume nel 1972, passando in rassegna e arringando la Special Frontier Force (un corpo speciale di guerriglieri tibetani). O ancora, si pensi a come nel 1998 il Dalai Lama rivendicasse per New Delhi il diritto di dotarsi di un arsenale nucleare in funzione anticinese («Anche loro hanno diritto all’atomica»)! Tacendo ovviamente «del ben più poderoso arsenale nucleare statunitense, per difendersi dal quale è pensato il modesto arsenale nucleare cinese» (pp. 196-199).

Ma allora che cosa si nasconde dietro la celebrazione di Sua Santità quale cantore della libertà del popolo tibetano e della non-violenza? Come documenta un libro scritto da un ex-funzionario della Cia, secondo l’Autore siamo in presenza di un «Grande gioco» che si è servito (e continua a farlo) della retorica della non-violenza come di uno «schermo» utile a celare il carattere bellico della rivolta del 1959 guidata dal Dalai Lama e condotta grazie ai finanziamenti e agli arsenali provvisti generosamente dagli Usa. Si tratta di una vera e propria «guerra psicologica» che gioca sull’artificiosa e strumentale contrapposizione tra i monaci buddisti dipinti quali non-violenti, amanti della pace e della meditazione e il comunismo bollato invece come violento ed espansionistico (p. 202). Non c’è dubbio: l’incondizionato appoggio armato, finanziario, diplomatico e mediatico che l’Occidente e i suoi circoli più aggressivi garantiscono alla richiesta di indipendenza del Tibet (da secoli parte integrante della Cina) da parte di Sua Santità e alle sue false accuse contro il governo cinese rivela così il suo vero obiettivo: lo smembramento e l’amputazione della Cina, pericoloso rivale economico e geopolitico (pp. 210-219).


Dagli incidenti di Piazza Tienanmen alle “rivoluzioni colorate”

«La parola d’ordine della non-violenza ha finito col seguire la sorte delle altre “grandi narrazioni” del Novecento: non c’è ideale, per nobile che sia, che non possa trasformarsi in un’ideologia della guerra o in una parola d’ordine per rivendicare l’egemonia». Ecco allora che, continua Losurdo, «Nell’ambito del Grande gioco, se i concorrenti dell’Occidente sono l’incarnazione della violenza, i suoi amici diventano i nuovi Gandhi». Degno di nota è a tal proposito l’atteggiamento tenuto dalla stampa occidentale in occasione delle recenti e numerose contestazioni in Iran. Come si può leggere in più testate giornalistiche, Mir Hussein Mousavi, leader dell’opposizione al regime inviso all’Occidente, viene infatti definito all’unisono come il «Gandhi dell’Iran», glissando ovviamente sul fatto che nel corso delle manifestazioni del «movimento democratico gandhiano» da lui guidato anche tra le forze dell’ordine vi sono state alcune vittime (p. 224). Tornando ora alla Cina, considerazioni analoghe possono essere fatte per le dimostrazioni svoltesi a Pechino e in altre città del gigante asiatico nella primavera del 1989: è nota la denuncia che l’Occidente fece del massacro a danno dei manifestanti pacifici di cui si rese responsabile l'amministrazione cinese. Ma oggi è possibile contestare o comunque problematizzare tale versione dei fatti sulla base dei cosiddetti Tienanmen Papers, pubblicati nel 2001 ad opera di curatori statunitensi. Si tratta di documenti riservati, che ci consentono oggi di conoscere il dibattito interno al governo cinese di allora e la sua tormentata decisione di proclamare la legge marziale per reprimere la manifestazione. È opportuno far notare che l’autenticità di questi rapporti segreti messa in discussione dai dirigenti cinesi, viene invece garantita dai curatori statunitensi. Ma anche a dar ragione a questi ultimi, dalla lettura dei Tienanmen Papers emerge un quadro diverso da quello propagandato dai media occidentali (e assurto a verità anche da parte dei nostri ideologi della nonviolenza intervenuti al convegno di San Servolo)19: vediamo, da un lato, l’ordine di mantenere l’autocontrollo che il governo impone all’esercito e, dall’altro, alcuni gruppi di manifestanti tutt’altro che pacifici scagliarsi violentemente contro le forze dell'ordine e incendiare i camion dell’esercito picchiando a morte i conducenti. Non manca poi il ricorso da parte di questi sedicenti “dissidenti” ad armi vietate dalle convenzioni internazionali quali gas asfissianti e velenosi. Tutti elementi che, assieme all’edizione pirata del «Quotidiano del popolo» distribuita a piene mani dai manifestanti, dovrebbero farci capire che gli incidenti di piazza Tienanmen dell'89 non possono essere considerati solo come una vicenda interna alla Cina. Si è trattato infatti, conclude Losurdo, di un vero e proprio tentativo di colpo di Stato, dal cui fallimento l’Occidente avrebbe comunque appreso una lezione importante, come dimostrano gli strumenti ben più sofisticati (ma, s’intende, sempre all'insegna della non-violenza!) utilizzati in occasione delle cosiddette «rivoluzioni colorate» (pp. 225-228). Ma che cos'è una «rivoluzione colorata»? E come si fa? Ad insegnarlo dettagliatamente è un libro statunitense tradotto in numerose lingue e diffuso gratuitamente - il cui autore (Gene Sharp), per inciso, piace tanto agli ideologi della non-violenza qui già citati (Alberto L’Abate e Nanni Salio). Dalla lettura di questo libro, fa però notare Losurdo, emerge che, piuttosto che di un manuale che insegna a lottare contro i regimi autoritari seguendo il principio della non-violenza con coerenza, siamo invece in presenza di una sorta di «Istruzioni per il colpo di Stato». Ecco allora che la nonviolenza, da principio morale a cui attenersi severamente, diviene, più realisticamente, uno strumento di indignazione morale utile a screditare i regimi invisi ai paesi occidentali. Il manuale invita infatti questi ultimi a spalleggiare, grazie al loro potere mediatico e alle loro fondazioni (Soros ecc.), le sedicenti «rivoluzioni colorate», aiutando i “rivoluzionari” ad inventare e diffondere notizie false per screditare il regime che mirano a rovesciare. Emblematica, a tal proposito, la georgiana «rivoluzione delle rose» (pp. 228-239).


Per una pars costruens: democratizzazione dei rapporti internazionali e superamento del capitalismo

Non c'è dubbio: «Un ciclo è giunto a termine». La storia della non-violenza ha cioè subito una svolta epocale: «Per tutto un periodo storico la critica della violenza risulta strettamente intrecciata, sia pure in modo talvolta contraddittorio, alla critica dell’espansionismo coloniale e quindi alla critica della pretesa dell’Occidente di ergersi a maestro e signore del globo terrestre». Ciò vale per l’American Peace Society e la Non-Resistance Society, così come per Tolstoj, Gandhi, King e anche per gli italiani Aldo Capitini e Danilo Dolci. «Ora invece la proclamazione dell’ideale della non-violenza va di pari passo con la celebrazione dell’Occidente, che si erge a custode della coscienza morale dell’umanità e si ritiene pertanto autorizzato a scatenare destabilizzazioni e colpi di Stato, nonché embarghi e guerre “umanitarie”, in ogni angolo del mondo». Da Gandhi è stata così ereditata la non-violenza quale tecnica per la produzione dell’indignazione morale, ma dalla «forza nella verità» il principio caro a Gandhi del Satyagraha si è rovesciato nella «forza della manipolazione» (pp. 239-240). Insomma, per calcolo realpolitico la non-violenza si è trasformata da ideologia dell’antimilitarismo e della pace a ideologia della guerra!

Dopo aver dato ampio spazio alla decostruzione dei falsi miti che accompagnano la storia di quest’ideologia dai suoi esordi fino ad arrivare ai giorni nostri, Losurdo non manca, nelle riflessioni a conclusione del saggio, di offrirci utili spunti anche per una pars costruens. Di fronte all’intensificazione della guerra, della minaccia di guerra, della corsa al riarmo e del proliferare delle basi militari e di strumenti genocidi quali l’embargo, è necessario cioè riprendere e rilanciare la preziosa lezione antimilitarista che collega «la lotta contro i pericoli di guerra alla lotta contro lo sciovinismo e per la democrazia nei rapporti internazionali». Va quindi contrastata la pretesa odiosa di un gruppo ristretto di paesi (la sedicente comunità internazionale) di arrogarsi il diritto di decidere unilateralmente una spedizione militare punitiva. Tale pretesa, continua Losurdo, «è sul piano delle relazioni internazionali l’analogo di quello che il colpo di Stato rappresenta all’interno di un singolo paese. In questo senso, l’interventismo democratico e umanitario è il contrario della democrazia (e della pace)» (pp. 256-263).

In conclusione, il saggio di Losurdo ci offre senz’altro un’utile controstoria della non-violenza. Ma ci offre anche una controstoria della volontà strumentale dell’Occidente di autorappresentarsi e anzi autocelebrarsi come naturale difensore e custode legittimo di questo nobile principio. Dalle sue pagine emerge infatti, in tutta la sua irriducibile contraddittorietà e irrazionalità, lo sforzo inutilmente profuso dall'ideologia dominante di conciliare la difesa teorica della non-violenza con la realtà intrinsecamente violenta dei rapporti politici, sociali e internazionali di un sistema economico protrattosi oltre il suo significato storico.

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Note

1              Cfr. AA. VV., Agire la nonviolenza. Prospettive di liberazione nella globalizzazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2004.
2              Cfr. AA. VV., Il potere, la violenza, la resistenza. Confronto a più voci sulle forme del conflitto politico, Editrice Aurora, Milano 2004.
3              C. Grassi, Che il dibattito prosegua, senza precipitazioni a fini di lotta politica interna, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., p. 33. A San Servolo F. Bertinotti aveva liquidato la questione con questa circonlocuzione: «Prima di questo convegno, ci siamo chiesti se dovessimo portare nella nostra discussione anche approcci diversi da quello principale della nonviolenza, invitando anche relatori della tesi opposta. Abbiamo preferito di no. Non per un atteggiamento illiberale, ma per marcare una pista di ricerca giacché questo è il campo che abbiamo scelto». F. Bertinotti, in AA.VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 267.
4               P. Bernocchi, Violenza, potere, ricorso alla forza. Ma qual è l’oggetto di questo strano dibattito?, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., p. 22.
5              A. Burgio, Non per concludere ma per rilanciare, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., pp. 219-220, 225.
6              G. Pegolo, Dibattito sulla non violenza: tatticismo e discutibili caratteri strategici, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., pp. 170-1, 174, 176.
7              M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001, p. 254.
8              F. Bertinotti, in AA. VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 279.
9              N. Salio, L’efficacia della nonviolenza, in AA. VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 140.
10             P. Bernocchi, Violenza, potere, cit., p. 24.
11             A. Catone, Movimento operaio e teoria della violenza. Alcune note per un excursus storico-teorico, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., p. 108.
12             T. Muzzioli, Spettri del potere e fughe dalla storia: per una critica del paradigma della non-violenza, Marxismo oggi, Teti Editore, Milano, n° 3, 2007, p. 63.
13             Ivi, p. 60.
14             Riporterò fra parentesi e direttamente nel testo le pagine del libro alle quali farò riferimento.
15             Cfr. ad esempio B. Bianchi, Introduzione al pensiero della non-violenza (1830-1968), in Agire la nonviolenza, cit., p. 66.
16             Sugli aspetti più reazionari della dottrina gandhiana cfr. anche L’essenza di classe del gandhismo, Biblioteca Multimediale Marxista.

17           J. Galtung, cit. in A. L’Abate, Marxismo e nonviolenza nella transizione al socialismo. Riflessioni a partire da un dibattito iniziato trent’anni fa., in AA. VV., Agire la nonviolenza, cit., pp. 98-99.
18           L. Menapace, Nonviolenza, opzione etica e azione politica, in AA.VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 130. Scrive la Menapace: «Chiamo […] azione nonviolenta la posizione politica di chi traduce nella prassi sociale una opzione, che è certamente morale al suo inizio, ma che diventa culturale e politica, in modo da progettare, costruire e avviare una alternativa, rischiando anche l’eterogenesi dei fini, ma rimanendo aperti alla novità e all’incognita» (corsivo mio).

19           Cfr. A. L’Abate, Marxismo e nonviolenza nella transizione al socialismo. Riflessioni a partire da un dibattito iniziato trent’anni fa., in AA. VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 98. L’Abate si spinge ancora oltre affermando addirittura che la repressione della rivolta di piazza Tienanmen è stata in realtà appoggiata «dagli Usa e dalla Cia», «contro la volontà del Partito Comunista Cinese che si era invece dichiarato a favore degli studenti manifestanti» (sic!), p. 107.





E' finalmente disponibile la mostra fotografica

“TESTA per DENTE”
CRIMINI FASCISTI IN JUGOSLAVIA 1941/1945

IMMAGINI, DOCUMENTI, LETTERE DAI TERRITORI OCCUPATI
e dai campi di deportazione italiani per civili slavi
scelti e presentati da Pol Vice
grazie ai contributi di Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan, Sandi Volk, Coord. Naz. per la Jugoslavia ONLUS, Giancarlo Feriotti e altri.

La Mostra didattico - documentaria in 18 pannelli è costituita dalle seguenti sezioni:

Introduzione 2 pannelli:
1 LE TERRE CONTESE - fascismo di frontiera  /  2 1941 L’ INVASIONE - I PROGETTI dei “Boni Taliani”

Occupazione 6 pannelli:
1 FACCE DIVERSE DEL POTERE  /  2A,  2B,  2C  ORDINI militari e “civili”  /  3A, 3B  ESECUZIONI dall’Isonzo al Montenegro

Slovenia («La travagliata strada verso la libertà») 7 pannelli:
1 Lubiana  /  2 MVAC – partigiani – processo di Preserje  /  3 Azioni militari...  /  4 Rappresaglie sugli ostaggi  /  5 Offensiva estate ’42  /  6 La “Mano Nera”  /  7 Le atroci follie...

Internamento 2 pannelli:  
1 I LAGER ITALIANI  /  2 Vita (e morte) da internati

Appendice 1 pannello:
FONTI principali e CONSIGLI DI LETTURA.

Scopo della mostra è di fornire  uno strumento didattico e culturale che serva da stimolo per colmare un grave “vuoto” di in-formazione nella  memoria storica collettiva, soprattutto quella dei nostri giovani. Pur essendo note da tempo presso gli studiosi più attenti, le verità sulle tragiche vicende che hanno accompagnato e seguito le avventure imperialiste del fascismo italiano (in particolare quelle verso la sponda orientale dell'Adriatico) sembrano essere state rimosse (per non dire censurate) da parte degli organi più o meno “ufficiali” di informazione e di divulgazione, praticamente dal dopoguerra fino ad oggi. 

Gli autori, impegnati da diversi anni in approfondite  ricerche su questi argomenti, sono convinti che sia quanto mai necessario e urgente provvedere a risvegliare e a far ri-crescere nella società civile italiana (e non solo) la coscienza che i valori della Resistenza antifascista (al di là della retorica ufficiale) non sono mai stati realmente e coerentemente perseguiti dalla classe di governo della nostra Repubblica – a partire dai mancati processi ai criminali di guerra -. La storia recente infatti ha visto non l’affermarsi in Italia di una democrazia sostanziale, ma l’occupazione dello Stato da parte di diversi “blocchi di potere”: da quello “democristiano”, a quello “massonico” (prima deviato e golpista, poi normalizzato con l’attuazione del «piano di rinascita democratica»), fino all’attuale gestione bipartisan e neocorporativa della crisi generale di accumulazione capitalista, con segnali di degenerazione sempre più evidenti.  
    
Sarà bene precisare che nella mostra non c'è nulla che possa essere paragonato a una “fiction”. Il forte impatto emotivo di alcuni contenuti è legato esclusivamente alla loro funzione documentaria. Le immagini e gran parte dei testi sono tratti da pubblicazioni e documenti originali dell'epoca (cfr. elenco delle fonti e bibliografia completa). Senza pretendere una completezza e una profondità di analisi impossibili da ottenere con un tale mezzo divulgativo, la cura nella ricerca e nella scelta del materiale è tale da non temere critiche fondate sul piano storico e metodologico. 

(a cura di Pol Vice)

Il formato consigliato per i pannelli è 60x80 cm. Su richiesta verrà inviato un CD contenente i pannelli in formato pdf per riprodurli a proprie spese.
Il curatore e CNJ-onlus sono disponibili per fornire suggerimenti tecnici, partecipare o contribuire alla promozione delle iniziative di presentazione.
Per informazioni e per ordinare la mostra rivolgersi a Pol Vice - pol.vice@... - o alle Edizioni Kappa Vu - info@....
Per altro aiuto tecnico (ad es. per la stampa) e per l'aiuto nella promozione di presentazioni pubbliche rivolgersi a CNJ-onlus:jugocoord@....


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11 dicembre 2010
in vista delle prossime iniziative che precederanno la "Giornata del Revisionismo di Stato" (10 febbraio)
il CAAT fiorentino organizza

APERITIVO ANTIREVISIONISTA

presentazione della mostra TESTA PER DENTE
presentazione del Dossier sulla Fondazione RSI di Terranuova Bracciolini
proiezione del documentario "12 Dicembre" sulla strage di Piazza Fontana






03.12.2010

Srbija Ante Portas


Nas i mikroba deset miliona!


Astrobiolozi su trijumfalno objavili svetu – posle dugotrajnih istraživanja možemo da kažemo da smo pronašli oblik život kakav svet do sada nije poznavao. Nisu morali godinama da gacaju po tom jezeru, mogli su da sednu na avion i da slete na Surčin. Naučno posmatranje bi trajalo kraće, bilo bi jeftinije i imali bi mnogo više uzoraka za proučavanje

U američkoj svemirskoj agenciji NASA naučnici su saopštili da su na Zemlji otkrili organizam koji se razlikuje od svih do sada poznatih oblika života na Zemlji. On ne samo što preživljava u okolini bogatoj arsenom, jednom od najotrovnijih supstanci, nego je taj mikrob inkorporirao arsen u svoj organizam, u svoj DNK. Taj prilagodljivi organizam je pronađen u jednom jezeru u Kaliforniji, u kome postoji velika koncentracija arsena, pa je naš mikrob rešio da prestane da pruža otpor otrovu i da je jednostavnije i lakše da ga ugradi u svoju supstancu. Ovaj čudovišni organizam i njegova prilagodljivost se jednim delom objašnjavaju i činjenicom da je njegovo stanište, jezero Mono, suviše dugo izolovano od izvora sveže vode.

SRPSKI MIKROB: Dok sam čitala ovu vest, prva asocijacija mi je bila Srbija. Suviše dugo izolovani od spoljnog sveta, sveže vode, svežeg vazduha i svežih ideja, okruženi velikom koncentracijom otrova sa kojim više nemamo snage da se izborimo, rešili smo da ga proglasimo sastavnim delom našeg nacionalnog, kulturnog, partijskog i individualnog DNK. Postoji ona životna filozofija – ako ne možeš da ga pobediš, prilagodi mu se, ali ovaj mikrob i mi smo otišli korak dalje.

Astrobiolozi su trijumfalno objavili svetu – posle dugotrajnih istraživanja možemo da kažemo da smo pronašli oblik života kakav svet do sada nije poznavao. Nisu morali godinama da gacaju po tom jezeru, mogli su da sednu na avion i da slete na Surčin. Naučno posmatranje bi trajalo kraće, bilo bi jeftinije i imali bi mnogo više uzoraka za proučavanje.

Možda bi se već na Surčinu sreli sa prebledelim predsednikom vlade, čiji avion za malo da se sruši dok je leteo za Sofiju, predsednikom vlade koja po cenu života neće da proda nacionalnu kompaniju, iako ima više pilota nego ispravnih delova na avionima, iako je JAT mnogo više izvor prihoda političkih stranaka nego sredstvo za prevoz putnika. Astrobiolozi bi možda sreli i Cecu koja beži u Australiju, predsednika koji iz Dagestana, Uzbekistana ili gde je već bio, sa margina sastanka preti prekidom pregovora sa Prištinom, koji nisu ni počeli, a koje će u ime Srbije voditi čuveni diplomata Borko Stefanović, našoj i američkoj javnosti poznat kao čovek koji je imao velikog udela u bekstvu Miladina Kovačevića iz Amerike... Dakle, predsednik sleće, seda u kola i brže bolje u Ljuboviju i Prijepolje da posavetuje seljake kako da ispumpavaju vodu iz štala...

BEOGRAD, OAZA LJUBAVI I MIRA: Predsednik se na Surčinu sudara sa francuskim teniserima koji dolaze na finale Dejvis kupa u pratnji francuskih specijalaca iz elitne antiterorističke jedinice koja čuva nuklearna postrojenja, Lamanš, i sada Monfisa i Žila Simona od gostoljubivih srpskih navijača. Teniseri i specijalci sedaju u blindirana kola i u koloni beže u hotel Hajat.

Novinari se čude neobično velikom obezbeđenju, na prijemu u francuskoj ambasadi priređenom uoči današnjeg meča, predsednik teniskog saveza Slobodan Živojinović kaže kako je Beograd grad ljubavi i mira, potvrdno klima glavom ministarka sporta, a iz ugla sobe ih gleda majka Brisa Tatona, koja se danima vuče po holovima Palate pravde u kojoj se sudi ubicama njenog sina, gde je sve manje svedoka; odjednom niko nije video nikoga ko je u sred dana do smrti prebio čoveka koji je došao u Beograd, grad ljubavi i mira, da gleda fudbalsku utakmicu.

Juče je u tom istom gradu, samo nekoliko metara od mesta smrti Brisa Tatona, prebijen i pevač Džej Ramadanovski, koga su pre napada neke srpske delije vređale zato što je Rom.

SMRT JUGOSLOVENIMA: Nestale su sve Jugoslavije, a sada i Jugoslovenima hoće da zatru seme. U Srbiji će od 1. do 15. aprila sledeće godine biti održan popis stanovništva, na kojem niko neće moći da se izjasni kao Jugoslovenka ili Jugosloven. Naš ministar za ljudska i manjinska prava, Svetozar Čiplić, odlučio je da Jugosloveni ne mogu imati status nacionalne manjine, niti dobiti svoj nacionalni savet, „jer im nedostaju jezik, pismo i književnost“. Ministar Čiplić je time bezbrižno prekršio prava deklarisanih Jugoslovena, kojih je, po poslednjem popisu stanovništva iz 2002, bilo 80.721, što ih čini trećom po veličini manjinskom zajednicom u Srbiji.

Ministar Čiplić u stvari zna šta radi. Njegove razloge je lepo objasnila Snežana Ilić iz Centra za razvoj civilnog društva: Južnoslovenska ideja ugrožava Srbe, a i Hrvate i Bošnjake, jer dovodi u pitanje smisao ratova devedesetih i definiše poslednje dve decenije na zapadnom Balkanu kao istoriju nepotrebnih ratova. Tako pitanje jugoslovenstva danas u Srbiji nije samo manjinsko pitanje, već i pitanje prevladavanja prošlosti.

Sada postaje jasnije zašto ministar Čiplić neće ni da čuje za Jugoslovene. On nema problem sa 814 Egipćana, 584 Aškalija i 572 Grka, koje država Srbija bez problema i sasvim ispravno uvažava kao nacionalne manjine. Ali Jugosloveni ne dolaze u obzir, iako ih, po popisu iz 2002, ima u svakoj opštini u Srbiji, sem u Preševu. Najbrojniji su u Vojvodini, gde ih živi oko 50.000, a zatim sledi Beograd sa oko 22.000. Najjugoslovenskiji grad je Subotica, koja ima 8.500 građana jugoslovenske nacionalnosti, odnosno 10 odsto od ukupno proklamovanih Jugoslovena u zemlji.

Jugosloveni su nastali zajedno sa stvaranjem Jugoslavije, 1929. godine, kada su definisani kao „nacija sa tri plemena“. Prvi put se kao posebna demografska grupa priznaju na popisu 1961, a najviše proklamovanih Jugoslovena ubeleženo je 1981. – ukupno milion dve stotine dvadeset hiljada, što je u stvari malo u odnosu na broj stanovnika tadašnje države. Od te 1981. godine, Jugosloveni polako nestaju, pretvarajući se u Srbe, Hrvate, Bošnjake, Slovence, Makedonce, Crnogorce i ostale.

ČIPLIĆ, VLADINO ORUŽJE ZA MASOVNO UNIŠTENJE: Između dva poslednja popisa stanovništva, od 1991. do 2002, nestalo je 75 odsto Jugoslovena u Srbiji. Preostali su nevidljivi; u Hrvatskoj su zvanično izbrisani, u Bosni nezvanično nepoželjni. Rađanje i izumiranje Jugoslovena u stvari je školski primer izgrađivanja i razgrađivanja grupnog identiteta u zavisnosti od politike.

Naš cinični ministar za ljudska i manjinska prava, koji kaže da Jugosloveni nemaju jezik, pismo i književnost, vrlo dobro zna da oni od Novosadskog dogovora 1954. svoj jezik nazivaju srpsko-hrvatskim ili hrvatsko-srpskim, da su među 89 potpisa na tom dogovoru bili i potpisi Ive Andrića, Miloša Đurića i Miroslava Krleže, da Jugosloveni kao izrazito fini ljudi danas nemaju problem da taj jezik zovu bošnjačko-hrvatsko-srpskim, da oni imaju dva pisma, latinicu i ćirilicu, i vrhunsku književnost stvaranu na tom jeziku, za koju je jedan pisac koji se izjašnjavao kao nacionalno deklarisani Jugosloven dobio Nobelovu nagradu, kojom Srbi, a ni ostale nacionalne većine u regionu, ne mogu da se pohvale.

Ono što ministar možda ne zna jeste da je arbitrarnim ukidanjem jugoslovenske manjine on prekršio odredbe iz niza članova Zakona o zaštiti prava i sloboda nacionalnih manjina i Zakona o zabrani diskriminacije, član 26 Zakona o ministarstvima, odredbe Deklaracije Ujedinjenih nacija o pravima pripadnika nacionalnih ili etničkih, verskih i jezičkih manjina i Okvirne konvencije Saveta Evrope za zaštitu nacionalnih manjina.


* Tekst objavljen na Peščaniku

IZVOR: Zajedno u noć (SVETLANA LUKIĆ)
Najava za emisiju 03.12.2010.