Informazione


STEFANO DISEGNI SU GIAMPAOLO PANSA

A volte non servono quintali di analisi serie per demolire un opportunista scribacchino di regime, privo di ogni serietà scientifica e pieno di boria ed odio ideologico. Una risata lo seppellirà... basta aprire questo indirizzo del più acuto commentatore politico e culturale dell'Italia contemporanea, Stefano Disegni:


(segnalazione di G. L. Bettoli via http://it.groups.yahoo.com/group/storia_e_conflitto/ )



Paul Polansky sull'attuale sterminio dei Rom in Kosovo

1) 30 settembre 2010: Paul Polansky a Milano

2) Negligenza mortale (XIV puntata)

Si veda anche la nutrita documentazione sull'avvelenamento da piombo dei Rom kosovari, riportata al sito Mahalla:


=== 1 ===


Un gradito ritorno!

Giovedì 30 settembre 
ore 21.00 - 23.30
Circolo ARCI Martiri di Turro
via Rovetta 14 - Milano

L'Associazione La Conta in collaborazione con Mahalla - Rom e Sinti in tutto il mondo, organizza un incontro con

Paul Polansky

Ingresso gratuito[//] con tessera Arci

Paul Polansky è nato a Mason City, Iowa, nel 1942. Poeta, fotografo, antropologo, operatore culturale e sociale, è diventato negli anni un personaggio importantissimo per il suo impegno a favore delle popolazioni Rom. Le sue poesie descrivono le atrocità commesse da cechi, slovacchi, albanesi ed altri contro quelle popolazioni. Ha anche svolto studi accurati sui campi di concentramento nazisti, in particolare quello ceco di Lety, nei quali venivano trucidate, insieme a quelle ebraiche, intere comunità Rom. E' stato il primo a presentare al mondo il dramma dei rifugiati del Kosovo, lasciati morire nei campi di accoglienza avvelenati dal piombo. Ha pubblicato diversi libri, realizzato esposizioni fotografiche e film video.

ALLA FINE

"Alla fine,
tutti
scapperanno dal
Kosovo", mi
disse la zingara
chiromante.

"Anche Dio"

(Poesia di Paul Polansky innalzata sui cartelli di una manifestazione di Rom del Kosovo in Germania)


=== 2 ===

Negligenza mortale

testo di Paul Polansky sulle responsabilità dei governatori coloniali del Kosovo nell'avvelenamento e nell'apartheid della popolazione rom  (2010)

le tredici puntate precedenti:

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Negligenza mortale (XIV puntata)

by Paul Polansky [continua]


Mercy Corps


[(immagine da oregonlive.comIl nuovo quartier generale di Mercy Corps a Portland, Oregon, USA. Non ci sono stati ritardi nel costruire il loro quartier generale.]


IL PREMIO PROCRASTINAZIONE: disonora quella OnG di Portland, Oregon, premiata con un contratto di 2,4 milioni di $ nel settembre 2008 per costruire 50 case per le famiglie dei campi zingari e fornire loro cure mediche contro l'avvelenamento da piombo. Ad oggi (17 mesi dopo) Mercy Corps non ha posto ancora un mattone né ha curato nessuna persona, nei termini del loro contratto USAID.

Ci si meraviglia di quanto denaro vada perso. Immediatamente dopo aver ottenuto il loro contratto da USAID, Mercy Corps stabilì un ufficio ed uno staff a tempo pieno, ma non fece niente per gli alloggi e per curare gli zingari dei campi. Naturalmente, Mercy Corps da la colpa alle vittime. L'ultima scusa che ho sentito dall'ufficio di Mercy Corps è stata: "E' difficile lavorare con gli zingari." Ma è ovvio che Mercy Corps non sta correndo per salvare questi esseri umani.

Ho vissuto e lavorato con zingari per quindici anni. Se vuoi fare progetti per i Rom e gli Askali, aiuta conoscere la loro cultura e mentalità. Il Consiglio Rifugiati Danese (DRC ndr) ha lavorato con questi zingari dei campi dal 1999 e ognuno ha potuto imparare dall'altro. Il legame tra loro è stato il migliore che abbia mai visto nei miei dieci anni in Kosovo. Quindi, perché è stata Mercy Corps che non aveva mai lavorato con gli zingari del Kosovo ad aver ottenuto il contratto, e non DRC che pure aveva fatto un'offerta per il progetto?

Naturalmente, non molte OnG e meno di tutte Mercy Corps stanno correndo per salvare questi Rom e Askali che l'ONU ha messo su terreni contaminati circa undici anni fa. Quindi, dov'è la "misericordia" in Mercy Corps (mercy  in inglese significa misericordia ndr). Perché non stanno cercando di essere fedeli al loro nome?

Forse non è solo l'anima umanitaria che fa loro difetto. Forse i loro direttori e staff stanno anche perdendo ingegno e senso comune. Oltre un anno dopo aver ricevuto il loro contratto per costruire 50 case, MC decise di testare il suolo per vedere se potevano costruirci sopra o se anche quello era contaminato. La maggior parte degli architetti controlla il terreno prima di stendere il progetto. Mercy Corps fa sempre le cose col culo? O solo quando si tratta di salvare degli zingari?

A settembre dell'anno scorso visitai gli uffici di Mercy Corps a Mitrovica sud, in quanto ero parte della squadra OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). OMS aveva recentemente rilasciato un comunicato stampa dove nuovamente chiedeva "l'immediata evacuazione [dei campi] appena fossero stati organizzati i piani di rilocazione".

Il capo regionale dell'OMS chiese al capo di Mercy Corps in Kosovo perché non avevano iniziato le costruzione? E quale fosse il piano medico che dicevano di avere nel progetto?

Anche se si suppone che tutti i progetti USAID sostenuti dai dollari dei contribuenti americani siano trasparenti, Mercy Corps ritiene che ogni cosa nel loro progetto USAID sia un segreto di stato. Cominciare a costruire? Forse a ottobre (intanto siamo già a febbraio e niente è iniziato). Soluzione medica? Sarà rivelata in futuro. Quando? In futuro. Gli zingari dei campi non hanno il diritto a conoscere ciò che li riguarda? In futuro.

Anche se Mercy Corps, KAAD, ACNUR ed il governo del Kosovo hanno promesso ad ogni famiglia di ritorno nel loro vecchio quartiere che sarebbero stati curati dall'avvelenamento da piombo, nessuno è stato curato. Non molto tempo fa un neonato è morto, un anno dopo che i suoi genitori erano tornati nel loro vecchio quartiere. La madre aveva lasciato Osterode con alti livelli di avvelenamento da piombo. Non venne curata, come invece le era stato promesso alla partenza. Il neonato è morto, come la maggior parte dei bambini avvelenati da piombo nell'utero.

Quindi, chi sta facendo qualcosa per salvare queste persone? Sono persone, non è così? Forse dovremmo chiedere a Mercy Corps di definirsi. Con le loro azioni. Di sicuro MC pensa che non ci sia nessuna urgenza di salvarli. Forse Mercy Corps pensa che non valga la pena salvare degli zingari musulmani.

Quante scuse si devono aspettare prima che qualcuno interrompa questo gioco di insensibile compiacenza? Oppure Mercy Corps sta cercando di vedere quanti zingari moriranno intanto che loro aspettano? Naturalmente, se aspettano abbastanza non ci saranno più zingari da salvare. Ciò significa che Mercy Corps può intascarsi i soldi e richiederne sempre più?

ULTIME NOTIZIE: L'Unione Europea ha appena annunciato che finanzierà altre 90 case cosicché tutti gli zingari dei campi possano risistemarsi. Whoops! La UE ha anche annunciato che Mercy Corps ha ottenuto l'incarico pure per queste 90 case.

ULTIMISSIME NOTIZIE: Mercy Corps ha appena confermato che il loro nuovo partner di sviluppo per queste 140 case sarà KAAD (che non può permettersi di spendere sette euro al giorno per salvare due bambini zingari che stanno morendo)!



Patricia N. Waring-Ripley


[(immagine da saputnik.net)]


IL PREMIO LACRIME DA COCCODRILLO: disonora quell'incaricata ONU incaricata nel 2005 di "evacuare" gli zingari di Mitrovica dai loro campi tossici. Dopo aver preso ufficio come vice SRSG, questa signora canadese pianse davanti alle telecamere della televisione, proclamando che nessuno zingaro dei campi sarebbe morto sotto il suo sguardo. Ne sono morti ventinove.

Quando intervistai Patricia Waring nel 2006 con un ex giornalista della TV canadese, Waring non smetteva di raccontare come avesse salvato le vite di circa 1.200 Albanesi dal villaggio di Hade all'aeroporto di Pristina. Anche se le loro case mostravano crepe per le gallerie delle miniere sotto il loro villaggio, nessuno voleva lasciare la propria terra ancestrale. Nessuno era stato offeso. Ma Waring era determinata a salvarli. Quando si rifiutarono di andarsene, ordinò ai poliziotti dell'ONU di portarli via forzatamente. Furono mandati a Pristina dove erano stati affittati per loro degli appartamenti. Più tardi Waring offrì loro l'opzione che il governo del Kosovo costruisse loro una casa nuova in un altro villaggio, o che ogni famiglia ricevesse 45.000 euro per trovare da sé una soluzione. Waring era così orgogliosa di questa storia che pianse per diversi minuti di fronte alla nostra videocamera.

Waring smise di piangere quando le chiesi perché non avesse fatto la stessa offerta ai nostri zingari nei campi le cui vite erano davvero in pericolo. C'erano soltanto 600 zingari in fuga dalle devastazioni dell'avvelenamento da piombo, così sarebbe costato solo la metà di quanto aveva pagato per "salvare gli Albs".

Waring rifiutò di rispondere. Mi guardò come se fossi proprio naif. Allora le chiesi come intendeva salvare i nostri Rom ed Askali (non c'erano Egizi nei campi). Disse che aveva da leggere molto prima di poter affrontare la questione. Le diedi una copia del mio libro, UN-Leaded Blood. Scosse la testa come se non fosse nella sua lista.

L'offerta di Waring per salvare i nostri zingari risultò di spostarli da due campi inquinati da piombo in quello che chiamo un campo "libero da piombo" dove potessero essere curati con medicine pagate dall'Ufficio USA (e poi dall'ambasciata USA) a Pristina. Sfortunatamente, non prevalse il buon senso. Il suo campo "libero da piombo" era l'ex base francese chiamata Osterode, che i Francesi avevano abbandonato a causa della contaminazione da piombo.

Poco prima di lasciare il Kosovo, a Waring venne chiesto quale fosse il suo più importante successo nella sua posizione ONU. Dichiarò: "...il mio più grande privilegio è stato di lavorare con la squadra che ha accelerato la chiusura dei campi rom contaminati a Mitrovica." Ci sono voluti sette anni per chiudere due dei campi; due sono ancora aperti.

Patricia N. Waring-Ripley lasciò il Kosovo nel 2007. Il suo contratto come capo dell'Amministrazione Civile in Kosovo non venne rinnovato, dopo che spedì lettere alla polizia ONU del Kosovo ordinando di riferirle di ogni attacco cono le minoranze. Si ritirò ad Halifax, NS, Canada, ad insegnare a cucinare.

Fine quattordicesima puntata





(Di nuovo sugli etno-secessionismi promossi dalla Germania, e con riferimento diretto al caso UniCredit... 


Kapitale Destabilisierung
 
24.09.2010

BERLIN/BOLZANO/ROM
 
(Eigener Bericht) - Zum wiederholten Mal widmen sich deutsche Geographen sogenannten Raumplanungsproblemen in Norditalien und erforschen die Sezessionskraft "ethno-linguistischer Minderheiten". Das Gebiet im Speckgürtel zwischen Mailand und der Grenze zu Österreich gehört zu den traditionellen Einflusszonen deutscher Großraumpolitik und war jahrzehntelang Ziel terroristischer Aktivitäten. Forum der wissenschaftlich verbrämten Untersuchungen ist eine Zeitschrift des "Leibniz-Instituts für Länderkunde", die aus Haushaltsmitteln des Berliner Verkehrsministeriums finanziert wird. Das in Leipzig publizierte Blatt ("Europa Regional") ist wegen seiner "Raum"-Forschungen berüchtigt. In der jüngsten Ausgabe begründen die Autoren ihre Untersuchungen über Norditalien mit den "weltweit zunehmenden ethnischen Konflikte(n), der Beeinflussung bilateraler Beziehungen durch nationale Minderheiten sowie (...) die Auswirkung von ungelösten Ethnizitätsfragen auf das politische und soziale Klima". Sogenannte Ethnizitätsfragen gehören zu den Spezialitäten der oberitalienischen Lega Nord, deren offener Rassismus die Ethnopolitik ihrer Vorwände entkleidet. Lega Nord und deutsche Ethnospezialisten ergänzen sich, aber verfolgen unterschiedliche Territorialziele. Jetzt dringt die Lega Nord in Reservate der italienischen Bankeneliten ein und wird zu einer ernsthaften Bedrohung für den italienischen Nationalstaat. Dies führt zu Umstrukturierungen bei der UniCredit, der größten italienischen Privatbank mit Ablegern in Österreich, Deutschland und Osteuropa.
Angesichts des politischen Drucks, den die Lega Nord über ihre Regionalinstitutionen in Oberitalien ausübt, trat am Dienstag der Chef der UniCredit zurück. Alessandro Profumo hatte UniCredit im vergangenen Jahrzehnt mit den italienischen Banken kommunaler oder regionaler Trägerschaft verschmolzen und damit erreicht, was Privatbanken in Deutschland anstreben, aber bisher nicht durchsetzen konnten: den Zugriff auf das Massengeschäft der Sparkassen. Den italienischen Sparkassenträgern wurde zugestanden, ihre örtlichen Interessen in Kontrollgremien der UniCredit zu wahren. Mit dem Kapital der Kleinanleger expandierte UniCredit weltweit. Das Unternehmen kaufte die Bank Austria (Wien) und stieg damit an führender Stelle in das lukrativeOsteuropageschäft ein. In Deutschland fusionierte UniCredit mit der die Hypo-Vereinsbank (München). Der deutsche Vorstandschef der Hypo wurde Aufsichtsratspräsident von UniCredit. Die Personalie bringt zum Ausdruck, dass deutsche Kapitalbeteiligungen (unter anderem Allianz und Daimler) bei UniCredit eine wesentliche Rolle spielen.

Sonderrechte

Seitdem die Lega Nord in Venetien den Regionalpräsidenten stellt und ihren landesweiten Einfluss kommunal unterfüttern kann, sind ihre Repräsentanten in den Kontrollgremien der früheren Sparkassenträger bei UniCredit aktiv. Ziel ist die von der Rassisten-Partei angestrebte Restrukturierung der Finanzströme, die dem italienischen Süden weitgehend entzogen werden sollen, um bevorzugt nach Oberitalien zu fließen. Die regionale Maskierung ("Venetien zuerst!") [1] möchte verdecken, dass es um politische und wirtschaftliche Sonderrechte der Eliten zwischen Mailand, Verona und Venedig geht.

Territorialer Bruch

Vorwand für Rücktrittsforderungen an den bisherigen Chef der UniCredit war der Vorwurf, er habe die Kapitalerhöhung eines libyschen Anteilseigners begünstigt und die übrigen Aktionäre nicht ausreichend unterrichtet. Die Anschuldigung hat mit tatsächlichen Einflussverschiebungen nichts zu tun, da die libysche Beteiligung lediglich um 0,5 Prozent gewachsen ist. Vielmehr geht es um nationalistische Stimmungsmache, die afrophobe Rassismen bedient - ganz nach Art der Lega Nord. Die tatsächlichen Ziele belegt ein Zitat des Lega Nord-Führers Bossi: "Wir greifen uns jetzt die großen Banken".[2] UniCredit-Chef Profumo stand diesen Absichten im Weg, weil er die lokalen Kontrollgremien der Bank zugunsten internationaler Beteiligungen zurückdrängen wollte. Mit dem Abgang Profumos ist die Lega Nord den materiellen Zielen ihrer Politik bedeutend näher gekommen: den oberitalienischen Speckgürtel von Rom wirtschaftlich unabhängig zu machen - selbst um das Risiko eines territorialen Bruchs mit der italienischen Einheit.

Raumbindung

Bossis rassistisch gefärbter und wirtschaftlich fundierter Separatismus wird um gleichgerichtete Bemühungen ergänzt, die jedoch nach Norden weisen. Auch nördlich von Mailand bestehen territoriale Begehrlichkeiten, die im Alto Adige ("Südtirol") beheimatet sind und einen Besitzwechsel in ausländische Hände anstreben. Das mehrsprachige Alto Adige, das in Bolzano (Bozen) unter Kontrolle deutschsprachiger Großunternehmen steht, gehört zu den Lieblingsobjekten germanozentrischer Ethnopolitik.[3] Neuen Niederschlag finden entsprechende Bemühungen in der Zeitschrift "Europa Regional" [4], die vom Berliner Bundesministerium für Verkehr, Bau und Stadtentwicklung finanziert wird.

Blutsmischung

Den Regionalisierungsautoren geht es um "Fragen der ethnischen Identität bzw. der ethnisch-emotionalen Bindung an den Raum" [5] im italienischen Alpengebiet. Gemeint ist die territoriale Abgrenzung nichtitalienischsprachiger Minderheiten Oberitaliens. Ihr "Schutz" sei in "Südtirol", dem Stammland der 300.000 "Deutschen", am besten gewahrt, befindet das Blatt. Gewarnt wird vor einer "ethnische(n) Vermischung (...) mit der italienischsprachigen Majorität". Zur Verwissenschaftlichung ihres rassistischen Blutsgebots ziehen die Autoren einschlägige Quellen heran. Dazu gehört der Wiener Verlag Braumüller, bei dem die NS-Elite der völkischen Ethnopolitik in der Nachkriegzeit Unterschlupf fand.[6] Selbst der frühere Nazi-Autor Heinz Kloss [7] ist in "Europa Regional", dem offiziösen Organ aktueller deutscher "Raum"-Politik, literarischer Gewährsmann.

Geputscht

Die in Deutschland und Österreich andauernden Versuche, Italien "ethnisch" zu destabiliseren, bedienen sich ähnlicher Mittel, wie sie die Lega Nord anwendet. Dabei verfolgt die rassistische Lega ein territoriales Ziel, das inneritalienisch und regional beschränkt ist, während germanozentrische Kräfte auf eine europäische Lösung unter deutscher Führung hinarbeiten. In Gestalt deutscher Anteilseigner (Daimler, Allianz) sind diese Kräfte bei UniCredit seit längerem aktiv. Sie sehen vor, die wirtschaftliche Einbindung Norditaliens in einen Alpen-/Adria-"Raum" zu komplettieren und das Territorium föderal zu verwalten, so dass der Einfluss Roms oberflächlich gewahrt, aber ökonomisch weitgehend außer Kraft gesetzt und nach Berlin verschoben werden kann. Beide Ansätze haben in dem jetzt gesäuberten Vorstand der UniCredit gegen einen dritten Weg geputscht, der unter Alessandro Profumo die transnationale Verteilung der Kapitalflüsse anstrebte.

[1] s. dazu Deutsche Größe
[2] UniCredit-Chef Profumo tritt zurück; Kölner Stadt-Anzeiger 22.09.2010
[3] s. dazu Europa der VölkerDas deutsche Blutsmodell (III) und Grenzland-Verbünde
[4], [5] Autochthone ethno-linguistische Minderheiten in den italienischen Alpen im Lichte des aktuellen demographischen Wandels; Europa Regional 4/2010
[6] Theodor Veiter und andere
[7] Heinz Kloss: Grundfragen der Ethnopolitik im 20. Jahrhundert, Wien 1969


(srpskohrvatski / english.

Sulla insulsa risoluzione ONU, approvata lo scorso 10/9 a New York a proposito della secessione kosovara, gli articoli che di seguito riportiamo esprimono un giudizio negativo, per il cedimento del governo serbo che può compromettere la sovranità sulla provincia, cuore della storia e della cultura serba.
In italiano, con toni non altrettanto critici ma a titolo di mera cronaca dei fatti, segnaliamo l'articolo al link: 

Dobbiamo notare per inciso che, nella stessa sessione ONU, quelle stesse potenze che da venti anni si prodigano per strappare il Kosovo alla Serbia hanno appoggiato il progetto di risoluzione dell'Azerbaijan che afferma la propria sovranità sulla regione del di Nagorny-Karabach, notoriamente a maggioranza armena... E' la solita, squallida storia dei "due pesi e due misure". Un paragone tra le due risoluzioni è stato tentato dal socialista serbo Milorad Vucelic - si veda http://www.pecat.co.rs/2010/09/milorad-vucelic-dan-posle/ , in rosso sono evidenziati i testi delle risoluzioni di Serbia e di Azerbaijan.)

Serbia Surrenders to the EU

1) Serbia Surrenders to the EU (Diana JOHNSTONE)

2) Прозападни компромис на косовској крви (Петар ИСКЕНДЕРОВ)


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Inizio messaggio inoltrato:

Da: Johnstone Diana
Data: 18 settembre 2010 17.28.55 GMT+02.00
Oggetto: My article, "Serbia Surrenders to the EU"

My latest article, "Serbia Surrenders to the EU", is now on CounterPunch [*], and also, with a well-chosen illustration, on Electric Politics.

http://www.electricpolitics.com/2010/09/serbia_surrenders_to_the_eu.html

I also attach the original to this message.

Diana


Serbia Surrenders to the EU

By Diana Johnstone

September 15, 2010


On September 10, at the UN General Assembly, Serbia abruptly surrendered its claim to the breakaway province of Kosovo to the European Union. Serbian leaders described this surrender as a “compromise”. But for Serbia, it was all give and no take.

In its dealings with the Western powers, recent Serbian diplomacy has displayed all the perspicacity of a rabbit cornered by a rattlesnake. After some helpless spasms of movement, the poor creature lets itself be eaten.

The surrender has been implicit all along in President Boris Tadic’s two proclaimed foreign policy goals: deny Kosovo’s independence and join the European Union. These two were always mutually incompatible. Recognition of Kosovo’s independence is clearly one of the many conditions – and the most crucial – set by the Euroclub for Serbia to be considered for membership. Sacrificing Kosovo for “Europe” has always been the obvious outcome of this contradictory policy.

However, his government, and notably his foreign minister Vuk Jeremic, have tried to conceal this reality from the Serbian public by gestures meant to make it seem that they were doing everything possible to retain Kosovo.

Thus in October 2008, six months after U.S.-backed Kosovo leaders unilaterally declared that the province was an independent State, Serbia persuaded the UN General Assembly to submit the following question to the International Court of Justice for an (unbinding) advisory opinion: “Is the unilateral declaration of independence by the Provisional Institutions of Self-Government of Kosovo in accordance with international law?’”

This was risky at best, because Serbia had more to lose by an unfavorable opinion than it had to gain by a favorable one. After all, most of the UN member states were already refusing to recognize Kosovo’s independence, for perfectly solid reasons of legality and self-interest. At best, a favorable ICJ opinion would merely confirm this, but would not in itself lead to any positive action. Serbia could only hope to use such a favorable opinion to ask to open genuine negotiations on the status of the province, but the Kosovo Albanian separatists and their United States backers could not be forced to do so.

One must stop here to point out that there are two major issues involved in all this: one is the status and future of Kosovo, and the other is the larger issue of national sovereignty and self-determination within the context of international law. If so many UN member states supported Serbia, it was certainly not because of Kosovo itself but because of the larger implications. Nobody objected to the splitting of Czechoslovakia, because the Czechs and the Slovaks negotiated the terms of separation. The issue is the method. There are literally hundreds, perhaps thousands, of potential ethnic secessionist movements within existing countries around the world. Kosovo sets an ominous precedent. An armed separatist movement, with heavy support from the United States, where an ethnic Albanian lobby had secured important political backing, notably from former Senator and Republican Presidential candidate Bob Dole, carried out a campaign of assassinations in 1998 in order to trigger a repression which it could then describe as “ethnic cleansing” and “genocide” as a pretext for NATO intervention.

This worked, because US leaders saw “saving the Kosovars” as the easy way to save NATO from obsolescence by transforming it into a “humanitarian” global intervention force. Bombing Serbia for two and a half months to “stop genocide” was a spectacle for public opinion. The only people killed were Yugoslav citizens out of sight on the ground. It was the lovely little war designed to rehabilitate military aggression as the proper way to settle conflicts.

The reality of this cynical manipulation has been assiduously hidden from Americans and most Europeans, but elsewhere, and in certain European countries such as Spain, Greece, Cyprus and Slovakia, the point has not been missed. Separatist movements are dangerous, and whenever the United States wants to subvert an unfriendly government, it has only to incite mass media to portray the internal problems of the targeted government as potential “genocide” and all hell may break loose.

So Serbia did not really have to work very hard to convince other countries to support its position on Kosovo. They had their own motivations – which were perhaps stronger than those of the Serbian government itself.


What did Serb leaders want?


The question put to the ICJ did not spell out what Serb leaders wanted. But it had implications. If the Kosovo declaration of independence was illegal, what was challenged was not so much independence itself as the procedure, the unilateral declaration. And indeed, there is no reason to suppose that Serb leaders thought they could reintegrate the whole of Kosovo into Serbia. It is even unlikely that they wanted to do so.

There are very mixed feelings about Kosovo within the Serb population. It is hard to know how widespread is the sense of concern, or guilt, regarding the beleaguered Serb population still living there, vulnerable to attacks from racist Albanians eager to drive them out. The sentimental attachment to “the cradle of the Serb nation” is very strong, but few Serbs would choose to go live there, even if the province were returned to them. In former Yugoslavia, the province was a black hole that absorbed huge sums of development aid, and would certainly be a heavy economic burden to impoverished Serbia today. Economically, Serbia is probably better off without Kosovo. Nearly twenty years ago, the leading Serb author and patriot Dobrica Cosic was arguing in favor of dividing Kosovo along ethnic and historic lines with Albania. Otherwise, he foresaw that the attempt to live with a hostile Albanian population would destroy Serbia itself.

Few would admit this, but the proposals of Cosic, echoed by some others, at least suggest that in a world with benevolent mediators, a compromise might have been worked out acceptable to most of the people directly involved. But what made such a compromise impossible was precisely the US and NATO intervention on behalf of armed Albanian rebels. Once the Albanian nationalists knew they had such support, they had no reason to agree to any compromise. And for the Serbs, the brutal method by which Kosovo was stolen by NATO was adding insult to injury – a humiliation that could not be accepted.

By taking the question to the UN General Assembly and the ICJ, Serbia sought endorsement of a reopening of negotiations that could lead to the sort of compromise that might have settled the issue had it been taken up in a world with benevolent mediators.


International Court of No Justice


On July 22, the ICJ issued its advisory opinion, concluding that Kosovo’s “declaration of independence was not illegal”. In some 21,600 words it evaded the main issues, refusing to state that the declaration meant that Kosovo was in fact properly independent. The gist was simply that, well, anybody can declare anything, can’t they?

Of course, this was widely interpreted by Western governments and media, and most of all by the Kosovo Albanians, as endorsement of Kosovo’s independence, which it was not.

Nevertheless, it was a shameful cop-out on the part of the ICJ, which marked further deterioration of the post-World War II efforts to establish some sort of international legal order. Perhaps the most flagrant bit of sophistry in the lengthy opinion was the argument (in paragraphs 80 and 81) that the declaration was not a violation of the “territorial integrity” of Serbia, because “the illegality attached to [certain past] declarations of independence … stemmed not from the unilateral character of these declarations as such, but from the fact that they were, or would have been, connected with the unlawful use of force or other egregious violations of norms of general international law…”

In short, the ICJ pretended to believe that there has been no illegal international military force used to detach Kosovo from Serbia, although this is precisely what happened as a result of the totally illegal NATO bombing campaign against Serbia. Since then, the province has been occupied by foreign military forces, under NATO command, which both violated the international agreement under which they entered Kosovo and looked the other way as Albanian fanatics terrorized and drove out Serbs and Roma, occasionally murdering rival Albanians.

The ICJ judges who endorsed this scandalous opinion came from Japan, Jordan, the United States, Germany, France, New Zealand, Mexico, Brazil, Somalia and the United Kingdom. The dissenters came from Slovakia, Sierra Leone, Morocco and Russia. The lineup shows that the cards were stacked against Serbia from the start, unless one actually believes that the judges leave behind their national mind-set when they join the international court.


Digging Itself Deeper Into a Hole


Probably, the Tadic government had expected something better, and had planned to follow up a favorable ICJ opinion with an appeal to the General Assembly to endorse renewed negotiations over the status of Kosovo, perhaps enabling Serbia to recover at least the northern part of Kosovo whose population is solidly Serb.

Oddly, despite the bad omen of the ICJ opinion, the Tadic government went right ahead with plans to introduce a resolution before the UN General Assembly. The draft resolution asked the General Assembly to state the following:


Aware that an agreement has not been reached between the sides on the consequences of the unilaterally proclaimed independence of Kosovo from Serbia,
Taking into account the fact that one-sided secession cannot be an accepted way for resolving territorial issues,
1. Acknowledges the Advisory opinion of the ICJ passed on 22 July 2010 on whether the unilaterally proclaimed independence of Kosovo is in line with international law,
2. Calls on the sides to find a mutually acceptable solution for all disputed issues through peaceful dialogue, with the aim of achieving peace, security and cooperation in the region.
3. Decides to include in the interim agenda of the 66th session an item namely: "Further activities following the passing of the advisory opinion of the ICJ on whether the unilaterally proclaimed independence of Kosovo is in line with international law.”


The key statement here was “the fact that one-sided secession cannot be an accepted way for resolving territorial issues”. This was the point on which the greatest agreement could be attained. The United States made it known that it was totally unacceptable for the General Assembly to hold a debate on such a resolution. The main Belgrade daily Politika published an interview with Ted Carpenter of the Cato Institute in Washington saying that the Serbian draft resolution on Kosovo was "irritating America and the EU's leading countries". American diplomats were “working overtime” to thwart the resolution, he said. Carpenter said that the Serbian resolution was seen in Washington as an unfriendly act that would lead to a further deterioration in relations, and that as a result of its Kosovo policy, Serbia’s EU ambition could suffer setbacks that would have negative consequences for the Serbian government "and the Serb people".

Carpenter conceded that this time around, the country would not be threatened militarily, but noted that the United States was influential enough to "make life very difficult" for any country that stood up against its policies. He concluded that Serbia would "have to accept the reality of an independent Kosovo", and that Washington would thereupon leave it to Brussels to deal with the remaining problems.

The American stick was accompanied by a dangling EU carrot. Carpenter expressed his hope that the EU would consider various measures, "including adjustment of borders, regarding Kosovo, and the rest of Serbia", but also, he noted, Bosnia-Herzegovina, suggesting that Serbs could be satisfied if a loss of Kosovo were compensated by a unification with Bosnia's Serb entity, the Republika Srpska. Giving his own opinion, Carpenter said such a solution would at least be much better than the current U.S. and EU policy, “which seems to be that everyone in the region of the former Yugoslavia, except Serbs, has a right to secede”.
Carpenter, who was a sharp critic of the 1999 NATO bombing of Serbia, and who warned that secessionist movements around the world could use the Kosovo precedent for their own purposes, said that such a solution was possible “in the coming decades”… a fairly distant prospect.

The decisive arm twisting was perhaps administered by German foreign minister Guido Westerwelle on a visit to Belgrade. Whatever threats or promises he made were not disclosed, but on the eve of the scheduled UN General Assembly debate, the Tadic government caved in entirely and allowed the EU to rewrite the resolution.

The resolution dictated by the EU made no mention of Kosovo other than to “take note” of the ICJ advisory opinion, and concluded by welcoming “the readiness of the EU to facilitate the process of dialogue between the parties.”

According to this text of the resolution, which UN General Assembly adopted by consensus; “The process of dialogue by itself would be a factor of peace, security and stability in the region. This dialogue would be aimed to promote cooperation, make progress on the path towards the EU and improve people's lives.”

By accepting this text, the Serbian government abandoned all effort to gain international support from the many nations hostile to unilateral secession, and threw itself on the mercy of the European Union.


Still More to Lose


In a TV interview, I was asked by Russia Today, “What does Serbia stand to gain?” My immediate answer was, “nothing”. Serbia implicitly abandoned its claim to Kosovo in return for nothing but vague suggestions of “dialogue”.

A usual aim of all policy is to keep options open, but Serbia has now put all its eggs in the EU basket, in effect rebuffing all the member states of the UN General Assembly which were ready to support Belgrade as a matter of principle on the issue of unnegotiated unilateral secession.

Rather than gain anything, the Tadic government has apparently chosen to try to avoid losing still more than it has lost already. After the violent breakup of Yugoslavia along ethnic lines, Serbia remains the most multiethnic state in the region, which means that it includes minorities which can be incited to demand further secessions. There is a secession movement in the ethnically very mixed northern province of Voivodina, which could be more or less covertly encouraged by neighboring Hungary, an increasingly nationalist EU member attentive to the Hungarian minority in Voivodina. There is another, more rabid separatist movement in the southwestern region of Raska/Sanjak led by Muslims with links to Bosnian Islamists. Surrounded by NATO members and wide open to NATO agents, Serbia risks being destabilized by the rise of such secession movements, which Western media, firmly attached to the stereotypes established in the 1990s, could easily present as persecuted victims of potential Serb genocide.

Moreover, no matter how the Serbs vote, the US and UK embassies dictate the policies. This has been demonstrated several times. Little Serbia is actually in a position very like the Pétain government in 1940 to 1942, when it governed a part of France not yet occupied but totally surrounded by the conquering Nazis.

It would take political genius to steer little Serbia through this geopolitical swamp, infested with snakes and crocodiles, and political genius is rare these days, in Serbia as elsewhere.


EU to the rescue?


Under these grim circumstances, the Tadic government has in effect abandoned all attempt at independence and entrusted the future of Serbia to the European Union. Serb patriots quite naturally decry this as a sell-out. Indeed it is, but Russia and China are far away, and could not be counted on to do anything for Serbia that would seriously annoy Washington. The fact is that much of the younger generation of Serbs is alienated from the past and dreams only of being in the EU, which means being treated as “normal”.

How will the EU reward these expectations?

Up to now, the EU has responded to each new Serb concession by asking for more and giving very little in return. At a time when many in the core EU countries feel that accepting Rumania and Bulgaria has brought more trouble than it was worth, enlargement to include Serbia, with its unfairly bad reputation, looks remote indeed.

In reality, the most Belgrade can hope for from the EU is that it will muster the courage to take its own policy line on the Balkans, separate from that of the United States.

Given the subservience of current EU leaders to Washington, this is a long shot. But it has a certain basis in reality.

United States policy toward the region has been heavily influenced by ethnic lobbies that have pledged allegiance to Washington in return for unconditional support of their nationalist aims. This is particularly the case of the rag tag Albanian lobby in the United States, an odd mixture of dull-witted politicians and gun-running pizza parlor owners who flattered the Clinton administration into promising them their own statelet carved out of historic Serbia. The result has been “independent” Kosovo, in reality occupied by a major US military base, Camp Bondsteel, NATO-commanded pacifiers and an EU mission theoretically trying to introduce a modicum of legal order into what amounts to a failing state run by clans and living off various criminal activities. Since Camp Bondsteel is untouchable, and the grateful hoodlums have erected a giant statue to their hero, Bill Clinton, in their capital, Pristina, Washington is content with this situation.

But many in Europe are not. It is Europe, not the United States, that has to deal with violent Kosovo gangsters peddling dope and women in its cities. It is Europe, not the United States, that has this mess on its doorstep.

The media continue to peddle the 1999 fairy tale in which heroic NATO rescued the defenseless “Kosovars” from a hypothetical “genocide” (which never took place and never would have taken place), but European governments are in a position to know better.

As evidence of this is a letter written to German Chancellor Angela Merkel on October 26, 2007 by Dietmar Hartwig, who had been head of the EU (then EC) mission in Kosovo just prior to the NATO bombing in March 1999, when the mission was withdrawn. In describing the situation in Kosovo at a time when the NATO aggression was being prepared on the pretext of “saving the Kosovars”, Hartwig wrote:

“Not a single report submitted in the period from late November 1998 up to the evacuation on the eve of the war mentioned that Serbs had committed any major or systematic crimes against Albanians, nor there was a single case referring to genocide or genocide-like incidents or crimes. Quite the opposite, in my reports I have repeatedly informed that, considering the increasingly more frequent KLA attacks against the Serbian executive, their law enforcement demonstrated remarkable restraint and discipline. The clear and often cited goal of the Serbian administration was to observe the Milosevic-Holbrooke Agreement to the letter so not to provide any excuse to the international community to intervene. … There were huge ‘discrepancies in perception’ between what the missions in Kosovo have been reporting to their respective governments and capitals, and what the latter thereafter released to the media and the public. This discrepancy can only be viewed as input to long-term preparation for war against Yugoslavia. Until the time I left Kosovo, there never happened what the media and, with no less intensity the politicians, were relentlessly claiming. Accordingly, until 20 March 1999 there was no reason for military intervention, which renders illegitimate measures undertaken thereafter by the international community. The collective behavior of EU Member States prior to, and after the war broke out, gives rise to serious concerns, because the truth was killed, and the EU lost reliability.”

Other official European observers said the same at the time, and in 2000, retired German general Heinz Loquai wrote a whole book, based especially on OSCE documents, showing that accusations against Serbia were false propaganda. While the public was fooled, government leaders have access to the truth.

In short, EU governments lied then, for the sake of NATO solidarity, and have been lying ever since.

Now as then, there are insiders who complain that the situation in reality is very different from the official version. Voices are raised pointing out that Republika Srpska is the only part of Bosnia that is succeeding, while the Muslim leadership in Sarajevo continues to count on largesse due to its proclaimed victim status. There seems to be a growing feeling in some leadership circles that in demonizing the Serbs, the EU has bet on the wrong horse. But that does not mean they will have the courage to confront the United States. In Kosovo itself, the most radical Albanian nationalists are ready to oppose the EU presence, by arms if necessary, while feeling confident of eternal support from their U.S. sponsors.


The Betrayal of Serbia


If the latest self-defeat at the UN General Assembly can be denounced as a betrayal, the betrayal began nearly ten years ago. On October 5, 2000, the regular presidential election process in Yugoslavia was boisterously interrupted by what the West described as a “democratic revolution” against the “dictator”, president Slobodan Milosevic. In reality, the “dictator” was about to enter the run-off round of the Yugoslav presidential election in which he seemed likely to lose to the main opposition candidate, Vojislav Kostunica. But the United States trained and incited the athletically inclined youth organization, Otpor (“resistance”), to take to the streets and set fire to the parliament in front of international television, to give the impression of a popular uprising. Probably, the scenarists modeled this show on the equally stage-managed overthrow of the Ceaucescu couple in Rumania at Christmas 1989, which ended in their murder following one of the shortest kangaroo court trials in history. For the generally ignorant world at large, being overthrown would be proof that Milosevic was really a “dictator” like Ceaucescu, whereas being defeated in an election would have tended to prove the opposite.

Proclaimed president, Kostunica intervened to save Milosevic, but not having been allowed to actually win the election, his position was undermined from the start, and all power was given to the Serbian prime minister, Zoran Djindjic, a favorite of the West who was too unpopular to have won an election in Serbia. Shortly thereafter, Djindjic violated the Serbian constitution by turning Milosevic over to the International Criminal Tribunal for Former Yugoslavia (ICTY) in The Hague – for one of the longest kangaroo court trials in history.

Pro-Western politicians in Belgrade labored under the illusion that throwing Milosevic to the ICTY wolves would be enough to ensure the good graces of the “International Community”. But in reality, the prosecution of Milosevic was used to publicize the trumped up “joint criminal enterprise” theory which blamed every aspect of the breakup of Yugoslavia on an imaginary Serbian conspiracy. The scapegoat turned out to be not just Milosevic, but Serbia itself. Serbia’s guilt for everything that went wrong in the Balkans was the essential propaganda line used to justify the 1999 NATO aggression, and by going along with it, the “democratic” Serbian leaders undermined their own moral claim to Kosovo.

In June 1999, Milosevic gave in and allowed NATO to occupy Kosovo under threat of carpet bombing that would destroy Serbia entirely. His successors fled from a less perilous battle – the battle to inform world public opinion of the complex truth of the Balkans. Having abandoned all attempt to assert its moral advantage, Serbia is counting solely on the kindness of strangers.


Diana Johnstone is author of Fools’ Crusade: Yugoslavia, NATO and Western Delusions.

She can be reached at diana.josto@...


[*] http://www.counterpunch.org/johnstone09172010.html



=== 2 ===

Izvori: 
(SNN@...http://lists.antic.org/mailman/listinfo/snn)

Петар ИСКЕНДЕРОВ
 
Прозападни компромис на косовској крви
 
Резолуције Генералне скупштине ОУН по одређењу су  документа са карактером препоруке. То није у вези само са непостојањем јасних овлашћења и механизама Генералне скупштине за реализацију сопствених одлука – за разлику од Савета безбедности ОУН – већ и са самом процедуром доношења одлука.  За пролазак документа довољан је већи број гласова „за“ у односу на гласове „против“, а при том се уздржани не рачунају. Такав механизам омогућава да се одобре документи, према којима већина земаља-чланица исказује привидну или искрену индиферентност.  То се, поред осталог, догодило са захтевом Србије Међународном суду ОУН по питању легитимитета самопроглашене независности Косова – против кога су октобра 2008. године децидно гласале једино Сједињене Државе, Албанија и низ пацифичких држава, док се већина земаља-чланица Европске уније уздржала. Осим тога, у арсеналу Генералне скупштинм ОУН постоји још и такав механизам, као што је консолидовано одобрење – уколико су документ унапред усагласили принципијелни актери овог или оног процеса, догађаја или конфликта.
 
Управо се последњи случај догодио у ноћи између четвртка и петка (10. септембра) по московском времену – када је Генерална скупштина одобрила заједничку резолуцију Србије и Европске уније о Косову. Документ је  презентирао шеф српског Министарства спољних послова Вук Јеремић и  тим се документом позива на апстрактни „мирни дијалог“ о косовском проблему између Београда и Приштине, који би „био фактор мира, безбедности и стабилности у региону“. Међутим,  дату резолуцију – без обзира на све споља гледано испоштоване принципе преговора, компромиса и усаглашавања – нипошто не можемо  сматрати подједнаким дипломатским успехом партнера. Ради се о фактичкој капитулацији једног од њих – власти Србије – које су се током последњих дана повлачиле са  својих позиција  тачку по тачку, да би  у коначном резултату разматрање косовског проблема у ОУН претвориле у театар политичког апсурда.
 
Коначни текст документа, који је српско руководство разрадило још у јулу, након негативне по Србију одлуке Међународног суда ОУН, испеглан је  до те мере, да је на парадоксалан начин  задовољио и власти Србије, и главне архитекте косовске независности у лику САД и Европске уније. То је  омогућило да се  документ једногласно одобри, али је с друге стране  у значајној мери девалвирало његову међународно-правну тежину. Западне државе су по козна који пут оствариле све своје циљеве, не жртвујући при том Србима ништа сем нове порције похвала и расплинутих обећања.
 
Међутим, првобитни нацрт резолуције омогућавао је  макар спровођење „мониторинга“ у сали Генералне скупштине ОУН, како би се установио однос снага међу присталицама и противницима независности Косова. Документ је  садржао апсолутно  правичне одреднице о „недопустивости“ независности Косова (нарочито са аспекта коришћења косовског преседана у другим конфликтним зонама Балкана и целокупног евроазијског простора) и  неопходности нових преговора „о свим преосталим отвореним питањима“, а то значи и о статусу покрајине. Сличне констатације давале су могућност ОУН да изрази макар и необавезни за спровођење  (таква је, како је већ горе речено, природа резолуција Генералне скупштине), али бар какав такав јасан став.
 
Међутим, притисак Запада, подржан од стране Организтације Исламска конференција, на Србију са захтевом или да повуче нацрт резолуције, или да из ње избаци неповољне за албанске власти Косова формулације, одрадио је своје. Своју ауторитетну реч изрекли су и гости у Београду, министри иностраних послова Немачке и Велике Британије Гвидо Вестервале и Виљам Хејг, као и Врховни комесар Европске уније за међународне односе и политику безбедности Кетрин Ештон, која је у Бриселу примила  председника Србије Бориса Тадића. И без обзира не све бучне речи господина Тадића и његових истомишљеника о праву Србије да поднесе на разматрање Генералне скупштине ОУН своје виђење  и косовске независности, и саме одлуке Међународног суда ОУН, коначна резолуција добила је толико компромисни и расплинути карактер, да већ и уопште чак ни теоријски никог и ни на шта не обавезује. У замену за одредницу о „недопустивости“ косовске независности документ подвлачи да „Србија никада и ни на који начин неће признати независност своје  јужне провинције“, а такође говори о значају  апстрактног „мирног дијалога“.
 
Главни проблем се, међутим,  не своди на терминологију најновијег документа, већ на његов значај за даљи развој ситуације у региону. Несумњиво да  неодређеност око међународно-правног статуса Косова, која још увек траје, представља додатни фактор у корист активнијег деловања босанских Срба у правцу сопственог самоопределења. Премијер босанске Републике Српске Милорад Додик већ је  навео приближне рокове самоопределења босанских Срба по косовском обрасцу – „наредних четири године“. Много тога ће зависити од резултата предвиђених за 3. октобар у Босни и Херцеговини  свеопштих избора. У  случају ако Савез независних социјал-демократа Милорада Додика потврди своје лидирајуће позиције у Републици Српској, вероватноћа понављања косовског сценарија у том региону Балкана ће се суштински повећати. Тим пре што  и друге српске странке у Босни и Херцеговини заузимају сличне ставове. Лидер Демократског народног савеза Марко Павић позива да се у сопственом интересу искористи не само косовски преседан као такав, него и конкретна одлука Међународног суда ОУН за подршку независности Косова. Он верује да  „мишљење Суда показује, којим путем треба ићи“.
 
Компромиси које је председник Тадић постигао са руководством Европске уније као такви,  апсолутно могу довести и до заоштравања унутарполитичке ситуације у самој Србији, где опозиција критички прати сваки корак власти у вези са Косовом и јавно, не и без основа, сумњичи ту власт за њихове тајне намере да пристану на независност покрајине.
 
Незадовољни су и косовски Срби. Уочи заседања Генералне скупштине ОУН председник Српског националног већа Северног Косова Милан Ивановић је изјавио, да последњи потези Бориса Тадића приморавају његове сународнике да се поуздају у Русију.  Он је припретио да уколико   се договором Београда и Европске уније о Косову  буду кршила права косовских Срба и  реализују „без сагласности Русије“, тада ћемо „ми  покренути иницијативу да се  одобри руско држављанство Србима на Косову и Метохији“.  „Русија ће умети да заштите своје грађане ма где они живели“ – подвукао је Милан Ивановић, очигледно  имајући у виду војни конфликт на Кавказу августа 2008. године и признавање независности Абхазије и Јужне Осетије.  Он се позвао на   декларацију о заштити Косовске покрајине као „неотуђивог дела Србије“, коју су усвојили делегати  скупштине општина Косова и Метохије 7. септембра у граду Звечану. У том се документу подвлачи, да нико нема право да разрађује документ у коме се“директно или индиректно доводе у опасност суверенитет и територијална целовитост Србије“ – што је  транспарентна алузија на компромисе Тадића са Европском унијом.
 
Што се тиче нада Београда у што скорију интеграцију у ЕУ – тешко да су оне постале изгледније нaкон најновије одлуке Генералне скупштине ОУН. Брисел у резерви има још низ полуга за притисак на Србију – од изручења генерала Ратка Младића, до регионализације земље и преиспитивања њених споразума са Русијом. Према томе,  процес дипломатског „завртања руку“ српском руководству  тешко да ће  се зауставити – тим пре када он доноси тако очигледне резултате. А речима које је у Њујорку изговорио Вук Јеремић – „не сумњајте да ће Србија и даље заузимати одлучан став“ – подсећају не чак на  добру мину у лошој  игри, већ на потпуно одсуство било какве „мине“ у односу на колевку српске државности.
 
_________________
 
Петар Ахмедович ИСКЕНДЕРОВ - старији научни сарадник Института славистике РАН, магистаристоријских наука, међународни коментатор листа «Времја новостјеј» и радиостанице «Глас Русије».
 
 

Превод: Рајко ДОСКОВИЋ





Nell'ambito del SETTEMBRE DANTESCO 2010 
XVI rassegna di conversazioni e letture internazionali
LA DIVINA COMMEDIA NEL MONDO

Basilica di San Francesco/Tomba di Dante - Ravenna, Italia 

Venerdì 24 settembre 2010 
ore 21 (durata 1 ora e 30’)

Conversazione sulla presenza di Dante in Serbia 
e sull’ultima versione della Divina Commedia in lingua serba (2007), 
a cura e traduzione del poeta Kolja Mićević. 

Partecipano le esperte: 
Maria Rita Leto, dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara; 
Mirka Zogovic, dell’Università di Belgrado.
A conclusione, lettura in italiano e serbo del XII canto del Purgatorio con Alessandro Sorrentino e il traduttore Kolja Mićević.
Conduce le conversazioni Alessandro Gentili
a cura di Walter Della Monica
A conclusione consegna del “Lauro dantesco” ai partecipanti e all’Ospite d’onore
All’organo Paola Dessì Fabrizio Galeati

Ingresso libero

Fonte: Società Dante Alighieri
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Kolja Mićević è forse l'unico al mondo ad aver tradotto la Divina Commedia in due lingue: dapprima in francese e poi in serbo.
La traduzione francese - pubblicata in una edizione privata dallo stesso Mićević - è in rima, laddove i traduttori francesi avevano sempre creduto che questo fosse impossibile da realizzare. 
La traduzione serba, in terzine "intrecciate" secondo quando è solito dire lo stesso traduttore, è stata pubblicata dalla casa editrice "Rad" di Belgrado due anni fa.
Una interessante intervista a Kolja Mićević, dove tratta anche della poesia di Dante, è visionabile su YouTube:


(a cura di DK e AM)



Strategia della tensione giornalistica in Italia / 2: I terroristi della carta stampata



La bufala dell’attentato al papa rimette a nudo la pochezza del giornalismo italiano


di Gennaro Carotenuto, domenica 19 settembre 2010, 08:01

La vicenda dei sei spazzini nordafricani che si sono presi un grosso spavento a Londra, brevemente arrestati e poi rilasciati con tante scuse, non ha fatto il giro del mondo per manifesta inconsistenza (la BBC ha parlato al massimo di “possibile minaccia”, altro che piani omicidi), ma ha messo sull’attenti con poche eccezioni, Avvenire, Osservatore Romano, Manifesto, l’intera stampa italiana. E’ l’ennesimo caso da studiare di pressapochismo, manipolazione e uso strumentale delle (false) notizie per fomentare paura, odio e razzismo.


“Erano pronti a colpire il papa” titola [  http://www.gennarocarotenuto.it/img/Labufaladellattentatoalpaparimetteanudol_8E99/Corriere.jpg ] a tutta pagina il più autorevole (sic) quotidiano italiano, il Corriere della Sera, che millanta addirittura l’esistenza di una “cellula” della quale nessuna fonte ufficiale britannica ha mai parlato. “Volevano uccidere il Papa” fa eco il Messaggero, il più venduto quotidiano regionale della capitale, inventando totalmente la scoperta di un piano omicida. E’ lo stesso virgolettato che troviamo anche sulla prima del Giornale. Dov’è questo piano? In quale dichiarazione di Scotland Yard si parla di un piano omicida?

Sui nostri giornali il titolo sul falso attentato al Papa compete solo con la morte del soldato delle truppe speciali in Afghanistan Alessandro Romani. A dire il vero la storia sulla “Task Force 45” (i corpi d’elite del nostro esercito alle dirette dipendenze della NATO usati in azioni di eliminazioni di nemici) alla quale apparteneva il Rambo caduto, sarebbe una vera notizia che aprirebbe l’ennesimo dibattito sull’ipocrisia retorica della “missione di pace”. I giornali lo sanno e scelgono di bucare la notizia.

Anche chi sceglie di aprire su Romani pubblica la notizia sui falsi attentati in grande evidenza: “Volevano assassinare il Papa. I fermati sono islamici” sparacchia Repubblica. Praticamente uguale il titolo della Stampa con quella parola ISLAMICI strillata con un corpo enorme e che campeggia anche sul Resto del Carlino. Libero mette la cosa in taglio basso (si sa che Elisabetta Tulliani è il sogno erotico di Maurizio Belpietro) ma specula: “Volevano ammazzare il Papa. Ci riproveranno”. WWWWW? Chi? Cosa? Quando? Dove? Perché? Sai qualcosa? E’ un tuo pregiudizio? O stai semplicemente diffamando? Islamici, islamici, islamici, il pericolo islamico rappresentato perfino da una mamma velata che va a prendere i figli a scuola.

Quindi i più grandi giornali italiani, ovvero i più grandi veicoli di razzismo, allarme sicurezza e islamofobia, hanno coscientemente deciso di non fare opportune verifiche e, trattandosi di papa da santificare e musulmani da demonizzare, pur nell’assoluta mancanza di qualunque fatto concreto e, nonostante abbiano avuto tutto il giorno per pensarci, hanno infine deciso di sparare la notizia infondata in prima pagina, quasi sempre in apertura. Non solo: hanno inventato di sana pianta dettagli per rendere il falso più clamoroso.

Eppure fin dall’inizio la notizia era sembrata scarsamente fondata, figlia di quegli elevatissimi standard di sicurezza nella Londra colpita davvero dal terrorismo di matrice islamista nel 2005 e che portarono all’assassinio del cittadino brasiliano Jean Charles de Menezes crivellato di colpi perché aveva carnagione scusa e fretta di prendere la metropolitana. I sei avevano fatto qualche battuta ad alta voce al pub (troppa birra, la bevanda preferita dei talebani?), erano stati ascoltati e la polizia londinese aveva preferito levarli di torno per qualche ora. Già al TG7 di venerdì sera Enrico Mentana sottolineava come la cosa fosse destinata a rivelarsi infondata, senza armi, senza piani, senza niente. Volete che quello che sapeva Enrico Mentana alle otto di sera non fosse noto alla chiusura, varie ore più tardi, ai direttori dei grandi giornali, ai Ferruccio de Bortoli o agli Ezio Mauro?

La cosa notevole, e che rende ancora più basso il comportamento dei grandi giornali è che proprio i quotidiani cattolici, l’Avvenire, l’Osservatore romano pur aprendo sul viaggio del pontefice, hanno dato un rilievo minimo alla cosa. Evidentemente sapevano (come gli altri) che la notizia era una bufala, sapevano che non c’è bisogno di riverire in questa squallida forma il papa e sapevano e sanno che è infame pescare nel fango di una notizia falsa per rilanciare ancora più odio antislamico. Adesso i sei cittadini nordafricani dovrebbero chiedere di rettificare e il Corriere, se fosse un giornale serio, dovrebbe titolare a tutta pagina: “la cellula islamica era nella nostra testa malata di odio”.

Scotland Yard, nello scusarsi con i sei spazzini, ha parlato di “minaccia non credibile”. Anche i nostri giornali sono “non credibili”. Ma sono “una minaccia”.




La Germania e il separatismo in Italia

1) Grandezza tedesca (GFP 13/9/2010)
2) Conversazione con Pierre-Marie Gallois (Limes 4/1997)
3) Note per un profilo di Pierre-Marie Gallois


Le attuali polemiche attorno all'allontanamento di Alessandro Profumo dal Gruppo Unicredit, a causa delle pressioni provenienti dalla Germania ed in un contesto in cui la Lega assume un peso determinante nelle scelte politico-finanziarie (a), riportano in primo piano il ruolo che l'imperialismo tedesco esercita nei confronti dell'economia italiana, specialmente nel Nord-Est dove esso alimenta spinte separatiste. All'argomento è dedicato l'articolo "Deutsche Größe", da noi già diffuso nell'originale tedesco (b) e qui presentato in lingua italiana nella traduzione di Curzio Bettio.

Il tema non è certo nuovo (c). La rivista LIMES già in tempi "non sospetti" dedicava interi fascicoli (si vedano ad esempio i numeri 3/1996 e 2/1997) ai "leghismi" europei di marca tedesca. Qui riproponiamo sul tema una conversazione con il generale Pierre-Marie Gallois curata da Jean Toschi Marazzani Visconti, pubblicata proprio su LIMES n.4/1997. 
E' per noi questo anche un modo per ricordare Gallois, già stretto collaboratore di De Gaulle, indefesso difensore della sovranità francese e degli altri Stati europei e soprattutto - per noi - autorevolissimo critico dello squartamento della Jugoslavia voluto in primis da Germania e USA. Gallois è scomparso poche settimane fa, all'età di 99 anni. Come ci ha scritto Jean T. Marazzani Visconti, che ha avuto modo di conoscerlo, di intervistarlo e di stimarlo, "gli uomini come lui stanno sparendo come dinosauri". 

(c) Sul nostro sito si veda anche "Europa. Unione e disgregazione": https://www.cnj.it/documentazione/europaquemada.htm 


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GRANDEZZA TEDESCA

Roma/Berlino/Veneto (13 settembre 2010)

Le élite del mondo economico italiane celebrano il modello di potere tedesco e si propongono come seguaci del potere egemonico europeo. La causa risiede nell’ulteriore declino della performance economica italiana, che va ad accrescere il divario dell’Italia dalla Repubblica federale. La “locomotiva tedesca è tornata nuovamente a correre e questo deve essere assunto come modello politico”, così si esprime la stampa liberista italiana. “Il motivo principale per il successo dell’economia tedesca è la docilità dei sindacati, che si sono dedicati ad una assoluta cooperazione fra capitale e lavoro”, dichiara Giuseppe Vita, presidente del Gruppo Banca Leonardo, vicepresidente di Allianz Italia e presidente del comitato di sorveglianza di Axel Springer AG.
Vita concepisce l’economia italiana in “simbiosi” con la Germania. La situazione desolante delle finanze di Roma attiva forze centrifughe, che mirano ad una frammentazione del territorio italiano. Il carico del debito pubblico italiano aumenta di mese in mese. Il debito pubblico dell’Italia aumenta di continuo dai 1.787 miliardi di euro in gennaio e ha raggiunto in maggio il valore di 1.827 miliardi. Il deficit di bilancio del commercio con l’estero nei primi cinque mesi del 2010 ammonta a 11 miliardi di euro con un trend stabile. Con ciò, comunque, l’Italia occupa ancora una posizione di favore rispetto alla Francia, la cui bilancia commerciale rispetto allo stesso periodo registra un differenziale negativo di 25 miliardi di euro (la Repubblica federale di Germania un plus di 60 miliardi!). Nell’Italia centrale e meridionale, l’ordinaria attività edilizia si è considerevolmente ridotta e questo ha fortemente contribuito alla disoccupazione regionale. Insoddisfazioni riguardanti la situazione economica portano a scompaginare l’alleanza di governo romano, e si prospettano nuove elezioni.

Un ruolo speciale

Le irritazioni danno la stura a lodi sperticate dell’economia tedesca e del suo modello politico fondativo.
“Per il resto dell’anno, ci si aspetta una crescita tedesca al ritmo cinese”, ha scritto il Corriere della Sera, una specie di “FAZ” italiano. [1]
In un’intervista, Giuseppe Vita mette al corrente i lettori sulla “ricetta segreta” [2] della politica industriale di Berlino. Gli attuali consigli di amministrazione di numerose imprese tedesche, la Schering ha spianato la strada verso l'Italia e conosce i vantaggi della situazione tedesca, danno risalto al ruolo speciale recitato dai sindacati tedeschi.

Corporativi

Il loro concorso positivo alla competitività internazionale delle imprese tedesche dura ancora “dalla caduta del Muro” ed è aumentato fino alla “massima collaborazione” all’apparire della crisi del 2003, come rilevato da Vita.[3]
“Il capitale e il lavoro sanno di trovarsi sulla stessa barca e cercano insieme di stare a galla. Perfino perdite di reddito dovute alla riduzione dell’orario di lavoro sarebbero accolte senza contrasti dai sindacati tedeschi, se ciò risultasse di utilità per le imprese.”
Il modello aziendale così delineato da Vita consente all’economia tedesca di reagire “in modo molto più flessibile” rispetto ad altri paesi europei, dove la crisi ha generato licenziamenti di massa e la ripresa si rivela faticosa.

Identità

Le difficili condizioni italiane incoraggiano forze separatiste, che da anni puntano ad una scomposizione della società italiana. Così il movimento di destra della Lega Nord ha avuto successo non solo nel territorio che ha visto le sue origini, l’area del Milanese, il centro della ricchezza della borghesia italiana, ma anche cerca di aprirsi a nuovi strati di elettori in tutto il Nord Italia.
Il Duce della Lega Umberto Bossi, considerato dai suoi oppositori politici come un razzista, di recente si è esibito a Venezia, dove ha dato inizio allo scatenarsi di una campagna separatista: “Prima di tutto, il Veneto!” [4] L'obiettivo è il riconoscimento di una speciale “identità” della regione Veneto, che dovrebbe essere consacrata mediante emendamenti allo Statuto regionale. Sarebbe necessario che il Veneto disponesse di uno Statuto di autonomia, “al pari della Catalogna”.

Annessione territoriale

Dato che la Lega Nord minaccia l’integrità dello Stato centralizzato italiano attraverso delimitazioni territoriali, alla maniera spagnola, ritiene conveniente cedere alle particolari esigenze economiche delle classi medie del Nord-Italia.[5] Si pretende che la fonte diffusa di gettito fiscale generato nel Nord Italia non venga più messa a disposizione del Sud economicamente più debole.
Modello della campagna resta la politica delle élite di lingua tedesca in Alto Adige (“Südtirol”). Continue minacce di secessione, che vengono messe in gioco con una eventuale annessione all’Austria, trovano risposta da Roma con sovvenzioni milionarie. Il territorio intorno a Bolzano (Bozen) appartiene alle zone tra le più ricche in Italia ed è il trampolino di lancio dell’espansione economica tedesca, a cui il bilinguismo in Alto Adige offre un significativo vantaggio competitivo.

Simbiosi

Come afferma il manager italiano dell’Axel Springer Giuseppe Vita, l’economia italiana deve sperare che la sua funzione al servizio delle grandi imprese tedesche continui ad essere riconosciuta – come “principale fornitrice” [6] per la leadership delle esportazioni tedesche in tutto il mondo. Le attività periferiche delle piccole e medie imprese italiane sono indirizzate ad una “Simbiosi”: la grandezza tedesca unita ai... seguaci italiani.


Note:
[1] La locomotiva Germania riprende la corsa; Corriere della Sera 14.08.2010
[2] La ricetta segreta di Berlino; Corriere della Sera 14.08.2010
[3] Vita: il capitalismo renano? Ha anticipato l’Europa con le ristrutturazioni; Corriere della Sera 14.08.2010
[4] "Veneto come la Catalogna", bufera zu Zaia; Republica 13.08.2010
[5] s. dazu Zukunft als Volk [ http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/56053?PHPSESSID=o4f32goo63481v6ok5aeai6mb5 ], Sprachenkampf [ http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/57034?PHPSESSID=o4f32goo63481v6ok5aeai6mb5 ], Europa der Völker [ http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/57038?PHPSESSID=o4f32goo63481v6ok5aeai6mb5 ] und Das deutsche Blutsmodell (IV) [ http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/57685?PHPSESSID=o4f32goo63481v6ok5aeai6mb5 ] Unsere Berichterstattung Spanien
[6] Vita: il capitalismo renano? Ha anticipato l’Europa con le ristrutturazioni; Corriere della Sera 14.08.2010

(trad. a cura di C. Bettio, Padova)


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PERCHÉ TEMO LA GERMANIA (E LA TELEVISIONE)

Conversazione con Pierre-Marie GALLOIS
(Presentazione di Jean Toschi Marazzani-Visconti)

su LIMES n.4, 1997

IL 4 DICEMBRE 1996 A FLENSBURG, nel Nord della Germania, viene presentato ufficialmente il nuovo European Center for Minority Issues, Ecmi (Centro europeo per le questioni delle minoranze) dal suo direttore, Stefan Troebst, uno storico. Fra il pubblico presente alla cerimonia di presentazione si notano un’altezza reale e alte personalità. Gli obiettivi del Centro, secondo il testo di presentazione, sarebbero quelli di studiare le relazioni fra minoranze e maggioranze, creare la documentazione corrispondente, organizzare seminari e conferenze, intervenire per prevenire conflitti o per aiutare a risolverli.
Nello spiegare a cosa si riferisce la lettera i nella sigla Ecmi, Stefan Troebst dice: «(...) La scelta del termine, specificamente neutro, “ issues” (questioni) al posto di “problemi delle minoranze” è dovuta al fatto che in molti casi non sono le minoranze ad avere assurde pretese o a creare problemi, ma al contrario la pressione che i governi centrali tendono a mettere sulle loro minoranze produce richieste, problemi e di conseguenza tensioni e conflitti etnici».
Nella presentazione si legge ancora: «Il panorama geografico primario della nuova istituzione è l’Europa più in qualche caso le aree adiacenti, come l’Artico, la regione del Mar Nero o il Caucaso. Una speciale attenzione sarà posta, naturalmente, all’Europa orientale, dove, al risveglio del 1989, molte zone etnopolitiche calde sono riemerse. Ma, ricordando i titoli dei giornali di quest’anno (1996) sull’Irlanda del Nord, le province basche, la Corsica e Cipro, non dobbiamo dimenticare che non sono solo le regioni dietro la vecchia Cortina di ferro quelle in cui violenti conflitti etnici sono ancora irrisolti. Quando si tratta di diritti delle minoranze, anche alcune nazioni occidentali sono rimaste arretrate».
Ed ancora: «Lasciatemi citare un ammonimento di Max van der Stoel, dopo uno sguardo ai suoi primi quattro anni di servizio come Alto commissario delle minoranze nazionali dell’Osce, rivolto recentemente agli Stati membri dell’Osce: “Dobbiamo tenere gli occhi aperti per uno sviluppo a lungo termine, con attenzione ad anticipare le crisi future e non solo ai conflitti già esistenti”. Come storico, sono per principio riluttante a prevedere il futuro, ma per quanto riguarda le questioni delle minoranze, penso che la conoscenza della storia europea ci insegna che il processo di formazione delle nazioni non è – come noi occidentali tendiamo a presumere – finito. Al contrario, continua, e l’emergere di nuovi attori è altamente possibile». E infine: «Uno Stato, come sappiamo, non è solo simboli, corpi esecutivi e cittadini, ma prima di tutto un territorio. Se il numero di nazioni in Europa è infinito, il territorio decisamente non lo è. Ed è precisamente qui che si trova il nostro problema principale. Il politologo americano Samuel Huntington osservava che nel XX secolo la tendenza contro il divorzio politico, la secessione, è altrettanto forte di quella del XIX secolo contro il divorzio. Come tutti sappiamo oggi nella nostra società urbana ed industriale il divorzio è perfettamente accettato».
Poco dopo la presentazione del Centro di Flensburg, un diplomatico ed un sociologo tedeschi, Walter von Goldenbach e Hans-Rudiger Minow, scrivono il libro Von Krieg zu Krieg (Da guerra a guerra), sottotitolo: La politica estera tedesca e il frazionamento etnico dell’Europa. I due autori si recano a Parigi dal generale Pierre-Marie Gallois, uno dei maggiori esperti internazionali di geopolitica, e gli chiedono una prefazione. Presa visione della documentazione, Gallois li accontenta. Dopo l’uscita del libro, i due autori incominciano ad avere numerosi problemi, il sociologo Minow subisce anche un’aggressione fisica, al punto di desiderare di trasferirsi all’estero.
Uomo colto e raffinato, il generale Pierre-Marie Gallois ha una storia personale interessante. Prima di frequentare l’Ecole de l’Air di Versailles voleva diventare architetto e giovanissimo aveva lavorato in uno studio di architettura d’interni e luminarie esterne, famoso per aver creato le decorazioni luminose di Natale per i grandi magazzini Louvre e Galeries La Fayette negli anni Venti. Da questa esperienza il generale ha appreso l’arte del trompe-l’oeil, nella quale è tutt’ora molto abile. Pilota nella seconda guerra mondiale, aveva combattuto nella Royal Air Force, quale membro del contingente francese France Libre in Inghilterra. Come consigliere di numerosi presidenti, aveva convinto Charles de Gaulle a fare della Francia una potenza atomica.
Visionata la documentazione del Centro di Flensburg, il generale Gallois scrive un articolo sul numero di aprile ’97 di Balkans Infos – una lettera d’informazione mensile, nata nel 1996 a Parigi dall’incontro di giornalisti, scrittori, intellettuali, appartenenti ad un largo panorama politico, dalla destra alla sinistra, sotto la direzione di Louis Dalmas. Il suo intervento, dal titolo «Rivelazioni sul Centro che prepara sottobanco l’egemonia tedesca», svela che Ecmi dispone già di un organismo operativo, l’Unione federalista delle comunità europee (Ufce), anche questo a Flensburg, finanziato dal governo di Bonn e da quello regionale dello Schleswig-Holstein. Questa Unione federalista conterebbe oltre tre milioni di membri associati fra alsaziani, baschi, bretoni, catalani, corsi e probabilmente belgi e italiani. Nell’articolo, il generale Gallois sottolinea come proprio la diplomazia preventiva tedesca, auspicata da Stefan Troebst, ha fortemente contribuito allo smembramento della Jugoslavia.
Incontrato a Parigi, il generale Gallois risponde ad alcune domande sull’argomento, inserendolo in un più ampio panorama dell’attuale situazione internazionale.


LIMES Nel leggere la presentazione di questa nuova istituzione tedesca, lo European Center for Minority Issues, si ha l’impressione di una lodevole impresa.

GALLOIS Vi sono delle frasi nel testo che sono estremamente pericolose. In particolare sullo sviluppo delle aspirazioni delle minoranze, che potrebbero finire per frammentare l’Europa. La costruzione politica dell’Europa non è terminata e le sue frontiere non sono immutabili, si tratta di una costante evoluzione. Ieri i grandi imperi occupavano un vasto spazio, dove l’autorità si esercitava facilmente, poi questi spazi sono stati frazionati con l’avvento degli Stati nazionali. Oggi, secondo il Centro di Flensburg, questo momento dell’evoluzione della società europea sarebbe sorpassato e bisognerebbe arrivare ad un maggiore spezzettamento per favorire l’avvicinamento del potere alla popolazione. In Francia, per esempio, ci sono i baschi, i savoiardi, i bretoni che vogliono esprimersi in bretone, gli alsaziani che parlano tedesco. Per il Centro di Flensburg, la lingua sarebbe un elemento determinante, tanto che la frammentazione della Francia sarebbe possibile. Domani, potrebbero esserci uno Stato bretone, uno alsaziano e via di seguito.
Nel XVIII secolo, la Germania era composta da circa 350 piccoli Stati, fra ducati, marchesati, contee, vescovati, città libere e progrediva faticosamente verso l’unità, all’epoca in cui la Francia era fortemente centralizzata. Oggi, sarebbe in corso la tendenza inversa: una Germania federale, ma dal potere fortemente centralizzato, senza movimenti regionali separatisti, mentre la Francia, l’Italia, la Spagna, l’Inghilterra sarebbero composte di «etnie linguistiche» diverse, quindi portate alla divisione. Lo smembramento di questi Stati, su tutto il territorio europeo fino alle frontiere della Russia, potrebbe creare un’Europa in cui la Germania unificata, con più di 80 milioni di abitanti, ancora di più se si aggiunge l’Austria, uniti per lingua, passato e razza, dirigerebbe un vasto insieme di piccoli Stati, di regioni, di province sprovviste di attribuzioni politiche, diplomatiche e militari. Non resterebbe loro che un ruolo di amministrazione locale, di gestione della popolazione. Questo è inquietante.
I tedeschi sono eccellenti cartografi. I popoli che non hanno confini naturali cercano sulle carte dove fissare le frontiere. Presumo che, come il Centro di Geopolitica di Haushofer – consigliere di Hitler ed anche di Stalin, nel 1937-’38 – vi siano, oggi, dei gruppi di studio tedeschi che lavorino nell’ombra per preparare un grande futuro alla Germania. Sanno di non poter più speculare sulla supremazia della letteratura o della lingua, per cui rimangono loro l’economia – il culto del marco – e la regionalizzazione. Secondo uno di questi centri, uno Stato di 60 milioni di abitanti non è vitale, mentre una Regione di 3-4 milioni di persone può rispondere alle attese delle popolazioni. Se si arrivasse a convincere quelle popolazioni a «regionalizzarsi» – fuori dai confini della Germania, naturalmente – tutta l’Europa sarebbe sottoposta a Berlino. Allora ci si potrebbe domandare se il sacrificio degli sfortunati che sono morti nel corso delle due guerre mondiali per bloccare le ambizioni della Germania non sia stato inutile. In vent’anni, arriveremo allo stesso risultato, come se non ci fossero state guerre. Da questo punto di vista, il testo del Centro di Flensburg mi sembra molto interessante. 

LIMES Pensa che il mondo ebraico, dopo aver subìto l’Olocausto e le persecuzioni in tutta Europa, potrebbe accettare la realizzazione di un progetto assimilabile a quello del Terzo Reich?

GALLOIS Una delle caratteristiche della nostra epoca, comune a tutti i popoli, è la potenza dell’immagine televisiva. Grazie all’apertura sul mondo, l’immagine televisiva a livello planetario ha un immenso potere di convinzione. Questa immagine non ha frontiere. La scrittura ha un limite linguistico, oltre che culturale. Ma tutti possono comprendere il messaggio di un’immagine. Si tratta di un’importantissima svolta della nostra società.
Il potere esplicativo, ma anche di indottrinamento e di disinformazione, dell’immagine planetariamente diffusa è così grande che gli avvenimenti, i fatti, esistono solo se passano sugli schermi. Un esempio. Quando ha avuto luogo la crisi della Somalia, la televisione americana ha diffuso le immagini di gruppi di gente affamata, quasi scheletrica, e la rappresentazione di questa miseria, vista in tutto il mondo, ha mobilitato quarantamila uomini. Ma a qualche centinaio di kilometri da quella zona di indigenza, in Sudan, la popolazione animista e cristianizzata era caduta nella stessa miseria e per la stessa causa. Nessuno si è preoccupato per loro, perché le loro sofferenze non erano state riprese televisivamente. Le loro crudeli tribolazioni non esistevano e non esistono tutt’ora. Nessuna immagine, nessun fatto, un non-avvenimento.
L’immagine crea il fatto. Insisto su questo elemento per rispondere alla sua domanda. Oggi, quando si detiene il controllo della diffusione dell’immagine, si può far credere al pubblico ciò che si vuole che creda. Ho letto sul quotidiano Le Monde che cinque «saggi» si erano riuniti per rivedere la Costituzione francese e proporre un ricorso più frequente ai referendum, come era stato previsto da Charles de Gaulle. Ma questi «saggi» non hanno capito che un referendum popolare, oggi, non ha più senso, perché il potere detiene il controllo delle immagini televisive, farà diffondere dunque quelle che gli convengono e proibire quelle contrarie alle sue idee. Di conseguenza il referendum sarà affossato da una disinformazione intenzionale. Questo è un fenomeno importante.
Non si tratta più di una guerra aperta, ma di una penetrazione insidiosa attraverso la disinformazione. Ci si può sollevare contro l’invasore armato, con i suoi armamenti, la sua brutalità, le sue imposizioni di vincitore. Ma l’invasione dell’economia, della propaganda non è mobilitante. Se la Germania, ora superpotenza europea, vi facesse ricorso, riuscirebbe con simili mezzi dove aveva fallito con la guerra.
A lato della televisione, esiste un altro strumento d’indottrinamento, ugualmente importante perché è favorito dallo sviluppo economico. Si tratta della pubblicità. Supporto della quasi totalità delle attività economiche. Tutti i media, la stampa, la radio, la televisione si sviluppano grazie alla pubblicità di cui sono il supporto, collegando le imprese commerciali al pubblico dei consumatori. La pubblicità è uno dei motori dell’economia. Non c’è pubblicitario – ed è normale – che rinuncerebbe a una campagna pagante, dispiacendo un potenziale inserzionista con testi, argomenti, immagini che possano essere contrari alle tesi a cui tiene, o al suo paese se è straniero. Così disinformazione volontaria o pubblicità commerciale convergono nei loro effetti, per orientare in un certo senso il pubblico praticando il culto dell’immagine con quello dei media parlati o scritti. Qualsiasi sia la formazione intellettuale media, gli strumenti del condizionamento ormai esistono. Fra qualche anno forse, l’afflusso di informazioni fornito al pubblico neutralizzerà il potere d’indottrinamento dei media. Fino ad allora il mondo ebraico non obietterà alla germanizzazione dell’Europa, se verrà proposta in modo politicamente accettabile.

LIMES Effettivamente, lo statunitense Noam Chomsky nel suo saggio Illusioni necessarie sul rapporto tra mass media e democrazia, sostiene: «Nel sistema democratico, le illusioni necessarie non possono essere imposte con la forza. Devono essere istillate nella mente delle persone con mezzi più raffinati. In uno Stato totalitario è necessario un grado minore di adesione alle verità ufficiali. È sufficiente che la gente obbedisca: quel che pensa ha un’importanza secondaria. Ma in democrazia c’è sempre il pericolo che il pensiero indipendente dia origine a qualche azione politica, quindi è indispensabile eliminare tale pericolo alla base».

GALLOIS Oggi il ricorso al «pensiero unico» – in Francia le istituzioni vi sono inclini – trasforma la disinformazione in dogma, un dogma conforme all’aspettativa del potere politico. Sui media a grande diffusione, possono proporre le loro idee solo coloro che s’inquadrano nell’ordine del «pensiero unico». A poco a poco la democrazia tradizionale, contrapposta alla soluzione di problemi sempre più complessi, è diventata autoritaria nella misura in cui solo il potere è ritenuto detentore della verità. La tecnocrazia dirige una popolazione condizionata dai media controllati dal potere, direttamente o indirettamente, da gruppi finanziari che dipendono essi stessi dagli ordini del potere. In realtà la popolazione è meno libera di quanto lo era quando non esistevano questi metodi di indottrinamento collettivo, per esempio ai tempi delle monarchie che non disponevano per imporre la legge che di mezzi rudimentali, a volte brutali, ma limitati. A mio avviso, un’ora di televisione può avere più effetto di anni di scritti o discorsi.

LIMES Come pensa che l’Ecmi aiuterà i gruppi separatisti europei? Con sistemi ideologici, psicologici o più praticamente con finanziamenti?

GALLOIS Semplicemente suscitando o promuovendo dei sistemi politici che esigano il ricorso alla decentralizzazione. Per esempio, in Francia, incoraggiando la rivendicazione corsa, anche se i corsi, nel loro insieme, non si augurano il distacco completo dalla Francia. Nello stesso modo con i baschi, i bretoni, gli alsaziani, allo scopo di frazionare la nazione. L’Italia del Nord va divisa da quella del Sud. Esiste in questo caso, un procedimento sotterraneo. Se la Germania tende a scartare l’Italia dalla zona-euro – euromarco in verità – è per far intendere che accetterebbe l’Italia del Nord, ma non quella del Sud, al fine di incoraggiare la secessione.
Penso che l’idea di tenere gli italiani fuori dall’Europa monetaria è una politica che non concerne solo l’Italia, ma anche la Spagna, i paesi mediterranei di cui i nordici temono l’esplosione finanziaria. Si tratta per il «Nord» di edificare un’Europa politica «saggia» che condurrebbe a una Federazione europea. In ogni federazione, ci vuole un federatore, e non può essere altro che il componente dominante. Nella Federazione sovietica era la Russia. Nella Federazione jugoslava prevalevano i croati. In quella cecoslovacca, i cechi. Anche nella Federazione americana, per molto tempo, la costa dell’Est fu la culla dell’establishment.
Perché l’azione della Germania possa essere efficace, è necessario indebolire, quindi «sminuzzare» gli Stati europei. Il frazionamento dell’Italia, come quello della Francia, fa parte dello stesso programma. Viene utilizzato un pretesto economico: l’Italia del Nord non sopporterebbe il peso di quella del Sud, come la Croazia non sopportava quello della Serbia. Nel caso della Jugoslavia, tenuto conto delle regole internazionali, la Germania non poteva agire direttamente. Bisognava applicare una strategia indiretta. La creazione del gruppo Adria, precedente alla morte di Tito, aveva degli obiettivi culturali. Si trattava di un gruppo con lo scopo di far rivivere la brillante cultura dell’impero austro-ungarico, riunendo austriaci, ungheresi, sloveni, croati, italiani del Nord e bavaresi. Fintanto che questa organizzazione si occupava di cultura, di folklore, tutto andava per il meglio. Ma la Baviera, la regione più ricca del gruppo Adria, incominciò a finanziare soprattutto le formazioni culturali più sensibili all’indipendenza. Così sono state incoraggiate indirettamente le manifestazioni di separatismo ed è stato creato un sentimento anti-jugoslavo, che è all’origine della rottura. Tutto questo fa pensare che la stessa strategia possa essere utilizzata contro la nazione italiana, francese, spagnola e via di seguito.

LIMES Chi finanzia il Centro europeo per le questioni delle minoranze? Ritiene che sia un progetto realmente solido e che proseguirà nel tempo?

GALLOIS Per quello che so, è finanziato dal ministero degli Esteri tedesco e dal Land dello Schleswig-Holstein.

LIMES Esiste una reale possibilità che la Germania eserciti una totale egemonia in Europa senza alcuna opposizione da parte dei vari governi?

GALLOIS A parte Helmut Kohl, che ha la statura di un grande uomo di Stato, gli altri dirigenti, suoi partner europei, si rivelano piuttosto mediocri. Se i tedeschi non commetteranno sciocchezze, come hanno sovente fatto, la partita è vinta per loro. Guglielmo II non aveva bisogno di fare la guerra nel 1914, la Germania era già la maggiore potenza sul continente. Adolf Hitler avrebbe potuto accontentarsi di una Germania ricostruita, senza fare la guerra. In due riprese un conflitto ha distrutto tutto in Germania.

LIMES Come vede il futuro dell’Europa?

GALLOIS Per ciò che concerne l’Europa, espressione geografica più che collettività di nazioni, temo forti turbolenze socio-economiche. Se, da un lato, le previsioni attuali sullo sviluppo dell’Asia-Pacifico si verificano, e se i paesi europei si rovinano a costruire un’ipotetica Unione europea – certamente non duratura – dall’altro, infine, se l’emigrazione dal Sud verso il Nord prosegue, allora si può temere il peggio. La «mondializzazione», l’apertura delle frontiere, lascia presagire l’invasione dei prodotti a buon mercato delle popolazioni emergenti d’Asia. E anche spostamenti massicci di popolazioni con un aumento conseguente della disoccupazione. Oggi l’Europa è come una cassaforte riempita, ma con lo sportello aperto, attraverso il quale le sue risorse sono bramate e dilapidate. La sua ricchezza, quotidianamente rivelata da reti televisive a diffusione planetaria, attira, ovviamente, le popolazioni sottosviluppate: il protezionismo europeo, battuto in breccia dalla necessità di esportare e dall’etica europea, non difende la produzione europea, e non protegge l’Europa dall’ineluttabile arrivo delle popolazioni di un Sud povero verso un Nord ancora ricco. Ne deriva una trasformazione sociale analoga a quella che subisce l’America del Nord a causa dell’affluenza degli ispanici e degli asiatici e, cosa più grave, con minore capacità d’assorbimento. 
La scomparsa dalla scena internazionale dell’Unione Sovietica, se ha liberato le popolazioni dell’Europa centrale, ha favorito la riunificazione della Germania, che a sua volta ha squilibrato l’Europa occidentale creando nel suo seno una superpotenza dalla quale adesso dipende tutto. Poiché prende le decisioni economiche, conseguentemente sociali, e impone anche il comportamento politico di tutti i suoi partner europei. Il «nocciolo duro», la Germania e la Francia, è ormai uno scherzo. In Europa esiste un solo «nocciolo duro» ed è tedesco. Per riabilitare i Länder dell’Est, Bonn ha mantenuto dei tassi d’interesse elevati, facendo affluire capitali in Germania, ma rovinando l’economia dei suoi partner che, allo stesso tempo, contribuivano ad aumentare ulteriormente il distacco tra la Germania e gli altri paesi della Comunità europea. Gli investimenti si sono esauriti e l’indennità di disoccupazione è aumentata, collocando l’Europa nella categoria delle zone sinistrate, se la si paragona agli Stati Uniti e all’Asia della costa del Pacifico.
La Francia e la Gran Bretagna volevano mantenere l’unità della Jugoslavia e attenersi alle clausole del trattato di pace del 1919-’20, ma Bonn cercava lo smembramento e la punizione della Serbia che, a due riprese, osò tener testa alle armate tedesche. E hanno avuto la divisione. La Francia desiderava un «approfondimento» della costruzione europea prima di un «allargamento». La Germania voleva prima «l’allargamento», e l’ha ottenuto. Conformemente alle decisioni di Maastricht, Parigi desiderava l’ecu, Bonn voleva l’euro e questo è stato adottato. La Bundesbank reclamava un «patto di stabilità» e sanzioni finanziarie per qualsiasi scivolata.
Dopo Maastricht, Bonn comanda e i suoi partner si inchinano. Gli Stati Uniti disapprovano il nazionalismo e gli Stati nazionali, la Germania anche. La decentralizzazione politica e amministrativa assicura la sua egemonia. Oltre-Atlantico si vuole che l’Europa adotti, in tutto il suo rigore, l’economia di mercato. La Germania è l’avvocato degli americani. La Francia recalcitra. I francesi tengono alla loro «arte di vivere» e rifiutano le «americanizzazioni» e la sparizione del ruolo dello Stato nella ripartizione delle risorse nazionali; sono affezionati al servizio pubblico e vogliono conservarlo, cosa incompatibile con un’Europa economicamente capace di rispondere alla sfida americana, ancora meno davanti alla competizione asiatica e ai salari che praticano. Così non è da escludere un irrigidimento della popolazione, anche una rivolta, che annienterebbe quarant’anni d’illusioni europee.

LIMES Come giudica il conflitto bosniaco e come vede il futuro della Bosnia?

GALLOIS La comunità internazionale, in questo caso gli Stati Uniti e la Germania, ha voluto creare in Bosnia, là dove non era mai esistito uno Stato, uno Stato musulmano, a confessione tendenzialmente laica, e dove la religione musulmana è chiamata ad ispirare con la sua legge una popolazione in maggioranza cattolica (croata) e ortodossa (serba), quindi cristiana. Gli Stati Uniti si sono così guadagnati le buone grazie dei paesi dell’islam e la Germania si è assicurata la scomparsa di una Jugoslavia unitaria, creata per effetto delle sue sconfitte militari. È opinabile che questo Stato artificiale possa durare, una volta partite le truppe straniere. Nell’attesa, sono state costituite le condizioni per un lungo periodo di turbolenze e miseria. Questa prevedibile instabilità esclude gli investimenti, più precisamente nella zona dove vive la popolazione serba, che è stata demonizzata al fine di ottenere l’obiettivo mirato dalla Germania e dagli Stati Uniti: sopprimere la Jugoslavia e creare un secondo Stato musulmano in Europa sostenuto dall’Iran e dalle monarchie petrolifere, anticamera di una futura immigrazione legale.
Un’ultima osservazione, ispirata dagli avvenimenti contemporanei: il cammino accidentato dei paesi europei verso l’unione politica conduce al loro allontanamento dalla scena internazionale. Essi stessi reclamano l’allargamento della Nato all’Est, cioè il controllo degli Stati Uniti. Sono stati eliminati dal Medio Oriente, la Gran Bretagna ha suggellato un destino da lungo tempo stabilito con il ritiro da Hong Kong e la Francia è stata estromessa dall’Africa e, economicamente, dall’Europa centrale, dominio della Germania riconcentrata sulla sua Mitteleuropa. Così, nutrendosi d’illusioni, l’Europa esce a piccoli passi dalla Storia.

(a cura di Jean Toschi Marazzani-Visconti)


=== 3 ===

Note per un profilo di Pierre-Marie Gallois

(a cura di JTMV e AM)

Il generale Pierre-Marie Gallois è morto alle 12:30 di lunedì 23 agosto, all'età di 99 anni. 
Negli anni Novanta molti di noi lo hanno apprezzato come autorevole avversario della "nuova" Europa post-89, a guida tedesca e statunitense, e appassionato critico delle sue politiche antijugoslave e antiserbe.
Ma la sua attività di esperto e consigliere geopolitico risale a molti decenni prima, quando da stretto collaboratore di De Gaulle fu tra l'altro un promotore della politica di deterrenza nucleare francese - proprio a difesa della sovranità del suo paese e del nostro continente. E' poi sempre rimasto un capofila della corrente "souveranista", cioè gaullista, della politica francese.

In anni più recenti Gallois è stato particolarmente interessato alla questione balcanica e perciò regolare collaboratore della rivista B.I. Balkans - Infos ( http://www.b-i-infos.com/ ). Nella documentazione che abbiamo fatto circolare in passato lo ritroviamo come sottoscrittore assieme a noi di vari appelli. Un suo breve testo (con la sua opinione sul "Tribunale ad hoc" dell'Aia) si può rileggere qui: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4905

Ci ha scritto Jean Toschi Marazzani Visconti, che lo ha conosciuto personalmente: 

<< Era un uomo di straordinaria lucidità e di grande umanità e coraggio, in lui etica ed estetica erano una condizione di vita obbligatoria. Gli uomini come lui stanno sparendo come dinosauri. (...) 
Era nato a Torino nel 1911. Suo padre muore in guerra e sua madre si risposa con un italiano. Questo signore si occupava di decorazione e luminarie e con lui Gallois ha imparato l'arte del bello, la pittura e il trompe-l'oeil che amava tanto. La grande entrata del suo appartamento era stata dipinta da lui e rappresentava un paesaggio toscano. A Parigi lavora con il padrigno nella sua società che si occupava di illuminazioni pubblicitarie, cosa all'avanguardia per l'epoca. Ho visto le foto delle luminarie dei grandi magazzini Lafayettes a Natale con le renne in movimento. Era il 1930. 
Seguendo le orme del padre entra in aviazione, gli aerei e le grandi imprese erano la sua passione. Negli anni' '40 aveva fieramente rifiutato Vichy e, partito per Londra, era entrato nel reparto d'aviazione di France Libre. Dopo la guerra il suo lavoro presso De Gaulle. E' un uomo che ha lavorato e conosciuto gli uomini politici di tutto un secolo. (...)
L'eleganza in cui viveva corrispondeva all'eleganza interiore dell'uomo, sempre lucido analizzatore degli avvenimenti che denunciava senza paura. Spesso, per questo, tenuto fra parentesi dagli ambienti ufficiali ai quali aveva appartenuto come consigliere di diversi presidenti. Fu Gallois a suggerire a De Gaulle di dotare la Francia della bomba atomica perché questa potesse risedere alla tavola delle decisioni dopo il disastro della guerra. 
Era un ottimo pittore. All'età di 84 anni aveva dipinto la corte del suo palazzo con dei divertenti trompe-l'oeil. Abitava in elegante e sobrio edificio inizio 900 a 50 metri da Parc Monceau al primo piano, all'interno mobili e  oggetti raffinati fra cui una collezione di statuette fiamminghe e napoletane da presepe. 
Ha scritto una sua biografia pubblicata a L'age d'homme: Le sablier du siècle.  E' uno straordinario, lucido percorso storico dell'Europa fra le due guerre e oltre. >>

A seguito delle sue prese di posizione a favore della Jugoslavia, negli anni Novanta, in un contesto di censure e violentissime campagne di senso opposto, i suoi libri sono stati pubblicati solo dall'editrice L'age d'homme. Di seguito un elenco dei libri che lo vedono autore o co-autore:

L'Europe au défi.  Ed.Plon - in collaborazione
L'alliance atlantique.   ED. Berger Levrault in collaborazione
Stratégie de l'age nucléaire. Ed. Calman-Lévy
Europa Schutz. Ed. Condor Verlag
Balance of terror. ED.Houghton Mifflin
Paradoxes dela paix . ED. Presse du temps présent
La grande berne. Ed. Plon
L'Adieu aux armées. Ed. Albin Michel
Le renoncement. Ed. Plon
La guerre de cent secondes. Ed. Fayard
Géopolitique. Les voies de la puissance. Ed. Plon
Livre noir sur la dèfense. Ed. Payot
Pubblicati da L'age d'homme:
Le soleil d'Allah aveugle l'Occident. 1995
Le sang du petrol: Iraq 1 - Bosnie 2. 1996 due tomi
La France sort-elle de l'histoire? 1998
Le sablier du siècle. 1999 autobiografico
L'heure fatale de l'Occident. 2004
Vichy-Algers - Londres 1941-1943. 2006
Revanches. 2009

Sulla sua figura si vedano anche gli omaggi a lui rivolti in queste settimane, in varie lingue:

Télégramme de condoléances à la mort du général de Galois (Beogradski Forum)
http://www.en.beoforum.rs/index.php?option=com_content&view=article&id=124:dsfgfgdfsgsdf&catid=40:konferencijezastampu

Tелеграм саучешћа поводом смрти генерала Галоа
http://www.beoforum.rs/index.php?option=com_content&view=article&id=149:t-&catid=36:saopstenja&Itemid=65




Strategia della tensione giornalistica in Italia / 1: Spezzeremo le reni all'Iran

Se vi siete commossi per Sakineh Ashtiani perché non vi interessa Teresa Lewis?


teresaesakineh


Hanno più o meno la stessa età ed entrambe sono accusate di aver ammazzato il marito. Entrambe sono state condannate a morte nei loro rispettivi paesi, lo squallido regime degli Ayatollah iraniani e la grande democrazia statunitense.

Ma mentre per Sakineh Ashtiani c’è stata una campagna mondiale di solidarietà, che potrebbe averle salvato la vita, Teresa Lewis sarà giustiziata nel silenzio giovedì alle 21 nel carcere di Greensville nella Virginia con un’iniezione letale.

Ciò senza che la sua faccia sia esposta su monumenti ed edifici pubblici, senza raccolte di firme e manifestazioni a comando sui grandi media.

AGGIORNAMENTO DEL 21/9/2010: A 60 ore dall'esecuzione le agenzie oggi ci sono, ANSA, APCOM, Adnkronos…abbiamo fior di inviati negli USA (che hanno di meglio da fare) e nonostante ciò oggi trovo la notizia dell’imminente esecuzione di Teresa Lewis solo in una breve del Secolo XIX di Genova. E’ proprio una scelta... per Sakineh ci commuoviamo, di Teresa ce ne freghiamo. Meditate gente... e commentate online





MUSSOLINI A POLA, 21 SETTEMBRE 1920

Non a caso è stata scelta la data del 21 settembre per la visita di Fini a Zagabria e Pola.
Il 21 settembre del 1920, dunque 90 anni fa, Benito Mussolini arrivò a Pola con i suoi fascisti di Milano e Trieste. Tenne un discorso al teatro "Politeama Ciscutti", pieno di odio verso la popolazione slava. Quando uscì dal teatro un lavoratore gli si avvicinò dandogli due ceffoni e poi scappò. Di questo evento gli storici italiani non hanno scritto mai nulla.
Mussolini si vendicò. Il 23 e il 24 settembre seguenti, i fascisti bruciarono la Camera degli operai e la sede dei Club internazionali, e devastarono la tipografia del giornale "Il proletario".
L'indomani, nel corso degli scontri con i fascisti, fu gravemente ferito un carabiniere. Molti operai furono arrestati e poi rilasciati. Due operai furono condannati: Josip Vukic, croato, nato a Spalato (a 15 anni di carcere) ed Edoardo Fragiacomo, italiano, nato a Pola (a tre anni).

[ Il testo che abbiamo sopra riportato accompagna l'articolo-intervista: "Tomislav Ravnic: Fini nije poželjan u Puli i Istri" (Tomislav Ravnic, presidente dell' Unione dei combattenti antifascisti per l 'Istria: Fini e' indesiderato a Pola e in Istria"), a cura di Armando Cernjul, pubblicato sul sito http://www.parentium.com . Il testo è stato tradotto e inoltrato a cura de La Voce del G.A.MA.DI.: http://www.gamadilavoce.it/lavoce.htm ]

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FINI A POLA, 21 SETTEMBRE 2010

"Fini: ingresso Croazia in UE sanerà tutte le ferite" (APCOM - Nuova Europa, 21/9/2010)

Sull'irredentismo di Gianfranco Fini: flashback all' 8 novembre 1992





ATTENTI AL PUPO!

In “Trieste 1945” (Laterza, 2010 ) lo storico triestino Raoul Pupo ha dedicato un lungo capitolo agli avvenimenti di Basovizza, e prima di parlare della questione della cosiddetta “foiba”, ha trattato della fucilazione dei quattro antifascisti (Bidovec, Marusič, Miloš e Valenčič) avvenuta presso il vecchio poligono di tiro il 6 settembre 1930.
Sulla vicenda vi rimandiamo all’articolo “Martiri di Basovizza” pubblicato in questo stesso sito, così come non riprendiamo qui l’annoso discorso su chi, quanti e come sarebbero stati “infoibati” a Basovizza: ricordiamo solo che nel suo libro Pupo ha concluso il capitolo facendo un paragone (a nostro parere aberrante) tra i due “luoghi della memoria” di Basovizza: sui fucilati di Basovizza, scrive lo storico, aleggia il sospetto del terrorismo, sugli infoibati di Basovizza che vi siano i torturatori dell’Ispettorato Speciale di PS.
Data questa considerazione sui martiri di Basovizza, eravamo quantomeno curiosi di sentire come il professor Pupo avrebbe condotto il suo discorso in occasione delle cerimonia commemorativa per l’80° anniversario dell’episodio, svoltasi sulla gmajna di Basovizza il 12 settembre scorso, alla presenza di alte autorità slovene, nonché della Presidente della Provincia Trieste ed alcuni sindaci della provincia di Trieste (significativa l’assenza del sindaco di Trieste Roberto Di Piazza, nonostante il sito si trovi nel territorio di competenza del suo Comune).
Commenteremo solo in parte l’intervento “storico” del relatore ufficiale in lingua italiana. 
Relativamente alla questione del “terrorismo” il professor Pupo ha affermato che la lotta dei primi antifascisti non era stata di massa ma si era basata su “azioni cospirative e dimostrative”, usando come strumenti di intervento la “propaganda” ed il “terrorismo”, ed ha ribadito che non si deve “avere paura delle parole” perché scelte simili furono tipiche anche di movimenti di unificazione nazionale, aggiungendo che non si deve “caricare la terminologia di significati che non ha”, visto che il termine “terrorismo” può adattarsi sia alle “stragi sunnite nelle moschee sciite”, sia a “tentativi un po’ goffi” come quello di Guglielmo Oberdan (che gettare bombe in mezzo alla folla sia un “tentativo goffo” di fare terrorismo è un’interpretazione che ci lascia un po’ basiti, ma tant’è).
Lo storico ha aggiunto quindi che “il termine è corretto” ma “operativamente come categoria interpretativa non ci fa capire la specificità del fenomeno”.
Osserviamo che di norma il significato che si dà al termine “terrorismo” è quello di un comportamento tale da portare, mediante azioni violente indiscriminate, ad un terrore generalizzato nella popolazione. Così terrorismo è quello che abbiamo vissuto negli anni della strategia della tensione, quando le bombe poste nelle piazze o sui treni, o genericamente in luoghi pubblici, dove avrebbero potuto colpire chiunque si trovasse a passare in quel posto al momento dell’esplosione, incutevano terrore in quanto non si poteva immaginare chi avrebbe potuto essere la prossima vittima. Mentre altri atti (eticamente altrettanto esecrabili, sia chiaro) come l’attentato alla singola persona, individuata come un obiettivo mirato (“gambizzazioni”, rapimenti, omicidi operati dalle Brigate rosse), vengono di solito considerati come azioni di “lotta armata”, e non di “terrorismo”, in quanto non sono finalizzati a creare il “terrore” generalizzato.
Per questo motivo ci permettiamo di dissentire dalla definizione di “terroristi” che il professor Pupo usa a proposito degli attivisti del TIGR fucilati a Basovizza. Le azioni del Movimento erano innanzitutto dimostrative, ed il loro scopo non era quello di fare vittime, è appurato che le bombe venivano posizionate modo che esplodessero quando negli edifici non ci sarebbe stato nessuno. La morte di Guido Neri, che si trovava nei locali della redazione del “Popolo di Trieste” non fu voluta, perché la sua presenza non era prevista nell’ora in cui fu piazzato l’esplosivo. Anche qui, se dal punto di vista etico la questione non fa differenza, perché un morto è sempre un morto, bisogna però distinguere nelle finalità che gli attentatori si erano dati: e dato che il loro fine non era quello di spargere il terrore nella popolazione, ma di colpire i simboli della snazionalizzazione operata dal fascismo e del fascismo stesso, non ha senso, a parer nostro, definirli “terroristi”, visto che il termine ha un significato ben preciso e non ha senso cercarne altri per adattarlo alle proprie interpretazioni e valutazioni.
Un successivo punto del discorso del professor Pupo dal quale dissentiamo è la sua interpretazione di come si sarebbero svolti i fatti in quello che lui definisce “fronte orientale” (dal senso del discorso si suppone che l’oratore intendesse con questo termine il confine orientale dell’Italia), e cioè che negli anni ’40 si sarebbero “confrontati la propensione nazista allo sterminio e l’eredità della rivoluzione bolscevica e delle politiche staliniane”, e che “quanto concretamente successo nelle nostre terre” sarebbe che “alla fase eroica della liberazione” sarebbe “succeduta quella dell’affermazione”, e che “l’ansia di libertà” si sarebbe trasformata in “intolleranza verso chi non appartiene alla comunità nazionale vincente”.
Storicamente ciò che accadde “nelle nostre terre” negli anni ’40 (generalizzazione un po’ azzardata, visto che dal 1940 al 1945 l’Europa era in guerra e dal 1945 in poi gli avvenimenti erano diversi di anno in anno), è che la politica di guerra imperialista nazifascista, finalizzata al genocidio dei popoli considerati “inferiori” (Ebrei, genericamente “Slavi”, Rom…) nonché all’annientamento delle cosiddette “esistenze zavorra” (invalidi, omosessuali ed oppositori politici), fu fermata da un blocco di alleati che andavano dalla Francia e la Gran Bretagna, agli Stati Uniti, all’Unione Sovietica, passando per la Jugoslavia, ed altri minori. Nell’ambito di questa guerra (che non si limitò all’area europea ma coinvolse l’intero pianeta) vi furono massacri indiscriminati, bombardamenti devastanti (sia dall’una che dall’altra parte, citiamo i due esempi speculari di Coventry e Dresda), rappresaglie feroci sulle popolazioni civili, campi di sterminio, e si concluse con il lancio delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
In questo contesto mondiale, gli avvenimenti “nelle nostre terre”, diventano una piccolissima parte della tragedia generalizzata della Seconda guerra mondiale. Se il professor Pupo intendeva dire (ma forse avrebbe fatto meglio a dirlo chiaramente e non con circonlocuzioni di parole) che dopo gli eccidi nazifascisti qui vi fu il cosiddetto “fenomeno delle foibe”, vorremmo ricordargli che regolamenti di conti a fine guerra si ebbero sì in questa zona, ma in misura minore che nel resto dell’Italia del Nord, per non parlare di quello che accadde in Francia, e generalmente in tutta l’Europa, come è normale che accada dopo un’occupazione feroce come fu quella nazifascista (ciò non significa “giustificare”, ma semplicemente prendere atto della realtà dei fatti). 
E se quello che il professor Pupo intendeva dire è che le “foibe” rappresentano “l’eredità della rivoluzione bolscevica e delle politiche staliniane”, dobbiamo ribattere che nessun paragone può essere fatto in questi termini, storicamente e politicamente parlando. Innanzitutto perché la rivoluzione bolscevica e le politiche staliniane sono due eventi del tutto diversi e che non si possono accomunare con tale faciloneria (ma entrare nel merito di questo richiederebbe un’analisi di diverse pagine), e poi perché, anche volendo paragonare le “foibe” con i “gulag”, non ci siamo proprio. Nei “gulag” venivano imprigionati gli oppositori nell’interno dell’Unione sovietica; le “foibe”, anche volendo considerare con questo termine (cosa che però non accettiamo storicamente) la “generalizzazione” che è uso fare il professor Pupo, e cioè le “ violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime”, significano prigionieri di guerra internati e poi deceduti nei campi, criminali di guerra giustiziati dopo processo, regolamenti di conti e vendette personali. Cosa c’entri tutto questo con le “politiche staliniane”, non riusciamo proprio a comprendere.
Infine l’affermazione a proposito dell’“ansia di libertà che si trasforma in intolleranza verso chi non appartiene alla comunità nazionale vincente”: almeno per quanto concerne la politica della “nuova” Jugoslavia, cioè la Jugoslavia uscita vittoriosa dalla guerra di liberazione popolare, è doveroso riconoscere che non vi fu alcuna “intolleranza” di tipo etnico alla fine del conflitto. Vi furono, da parte istituzionale, esecuzioni di collaborazionisti e di criminali di guerra, soprattutto jugoslavi: ma nessuno fu ucciso perché “non appartenente alla comunità nazionale vincente”, cosa che dovrebbe essere quantomeno ovvia se si considera che nell’Esercito di liberazione jugoslavo combatterono, con spirito internazionalista ed antifascista, volontari di decine di etnie (tra cui moltissimi furono anche gli italiani), uniti dal desiderio di creare un mondo migliore.
Non riconoscere questi dati storici in un intervento all’interno di una cerimonia dall’importanza internazionale di quella che si svolge ogni anno a Basovizza per ricordare i quattro fucilati antifascisti, significa voler ridurre quello che dovrebbe essere uno spazio di riflessione storica ad un intervento di mere valutazioni politiche, del tutto fuori luogo in un contesto simile.

settembre 2010



APPUNTAMENTI PER RICORDARE:
- Trieste, 20 settembre 2010, ore 17 in campo S. Giacomo
- Trieste, 8 ottobre 2010, ore 17 in Sala Tessitori, piazza Oberdan 6


Da: Claudio Cossu <claudio.cossu @...>
Oggetto: [antifa-ts] Settembre 1920: barricate e rivolta operaia a S. Giacomo.
A: "coordinamento antifascista" <antifa-ts @...>
Data: Venerdì 17 settembre 2010, 00:06


Oggetto: I: Settembre 1920: barricate e rivolta operaia a S. Giacomo.

Per ricordare la rivolta operaia di S.Giacomo, settembre 1920, come sinteticamente descritto quì di seguito,"I cittadini liberi ed eguali "unitamente al" Coordinamento antifascista "di Trieste renderanno omaggio ai caduti di quelle tragiche giornate alle ore 17 in campo S. Giacomo, a lato della Chiesa, il giorno 20 settembre lunedì. La cittadinanza  e personalità del mondo del lavoro, del Sindacato  e della cultura triestina  sono invitati ad intervenire  PER ONORARE QUEI GIOVANI CADUTI PER  LA LIBERTA' E L'EGUAGLIANZA SOCIALE. L'otto ottobre, inoltre, vi sarà un incontro-dibattito curato da Marina Rossi, storica, Claudio Cossu e Claudio Venza dei Cittadini liberi ed eguali, un operaio della rivolta di S.Giacomo del 1966, che  offrirà una sua personale testimonianza della rivolta spontanea di quell'ottobre 1966.  Inteverrà brevemente la storica Silva Bon.  L' incontro si terrà presso LA   SALA  TESSITORI DEL CONSIGLIO REGIONALE,  il giorno 8 OTTOBRE, VENERDI, ORE 17 , PIAZZA OBERDAN n 6. Saranno ricordati, inoltre, anche i moti di protesta spontanea, sempre di campo S. Giacomo, dell'ottobre 1966, in occasione della chiusura dei Cantieri S.Marco, da parte dei cantierini della  città giuliana. La cittadinanza ed i cultori della materia sono invitati ad intervenire, a 90 anni esatti da quei fatti, a questa Memoria in omaggio a quelle giovani vite di operai stroncate nel settembre 1920, ed a  ricordo di quei  drammatici accadimenti  che costituiscono ormai Storia della Trieste lavoratrice di quegli anni, all'alba dell'avvento della barbarie fascista al potere  in Italia.


----- Messaggio inoltrato -----
Da: Claudio Cossu <claudio.cossu @...>
A: segnalazioni@...
Cc: segreteriaredazione@...
Inviato: Mer 25 agosto 2010, 16:02:11
Oggetto: Settembre 1920: barricate e rivolta operaia a S. Giacomo.

 
Chi erano,ribelli,rivoltosi o che altro coloro che nel settembre 1920 eressero le barricate ,nel Rione di S.Giacomo, per difendersi dal regio esercito inviato dalle autorità al fine di sedare l'insurrezione spontanea ,al canto dell'internazionale e sventolando i drappi rossi , insegne del socialismo contro chi cercava di negare ad essi i diritti  più elementari, una vita dignitosa e una condizione  giusta , con adeguata retribuzione.  Erano in  realtà operai e lavoratori italiani e sloveni , ragazzi e donne del popolo di Trieste, dai tre ai quattro mila ,che protestavano contro un potere opprimente ed autoritario . Poi, dal rione popolare i lavoratori si immettevano nelle vie adiacenti, per arrivare prima nella piazza ora denominata Garibaldi e, in seguito ,fino alla via Malcantòn,per poi giungere fino alla Piazza Grande,divenuta più tardi piazza Unità. E nuovamente intervenne l'esercito ed i regi carabinieri che spararono per intimidire la folla in tumulto. Poi non spararono più a scopo intimidatorio,ma uccisero ,a S. Giacomo, giovani di vent'anni,ragazzi ed operai ed i morti furono in gran numero,forse più di 20 ed anche la reazione fu dura ed adeguata alla violenza dei colpi di cannone della brigata "Sassari" fatta intervenire brutalmente. Si spararono colpi di pistola , per resistere  a quegli attacchi, anche dalle finestre ed una giovane guardia regia, Giovanni Giuffrida il suo nome, rimase  a terra, vittima della reazione  popolare alla violenza dei militari sopraggiunti nelle strade circostanti.
Gli scontri,duri e violenti ,durarono dal sei al nove settembre,nell'aria vagamente autunnale che stava sopraggiungendo,in quel mese di fine stagione. Giorni tragici e funesti per la città.  Ma perchè si arrivò a tale tragedia, a questo sangue versato dalla classe operaia triestina? Diversamente dal resto del Paese, non si arrivò , a Trieste, ad un'occupazione delle fabbriche, ma ci fu ,in quel settembre ,lo sciopero generale. Nel novembre del 1918,dopo l'arrivo festante delle truppe italiane, a ridimensionare quella gioia ci pensò il famigerato decreto 29 novembre 1918 che per alcuni reati, tra cui il vilipendio alla bandiera, prevedeva pesanti condanne a parecchi anni di galera. Al governatore militare successe allora ,nell'estate del 1919 ,un commissario civile. Ma le condizioni disastrose, fra cui miseria,fame , disoccupazione e disagio sociale, causate dal regime speciale nella Venezia-Giulia, non mutarono certo.  I comuni erano ammministrati da commissari civili inviati dal Governo di  Roma che non comprendevano  certo la situazione reale ,economica  e politica locale.  E parimenti erano all'oscuro della situazione etnica e sociale di queste terre. Naturalmente non conoscevano nemmeno la  lingua slovena o croata, parlata dagli abitanti dei comuni dell'altipiano e dell'interno dell'Istria. Il disagio era evidente e si propagò con rapidità in tutta la regione Giulia.  Inoltre,ad aggravare la situazione, si verificarono  provocazioni fasciste. A Monfalcone gli operai protestarono vibratamente per gli assalti degli squadristi e per l'istituzione di un ufficio di collocamento filo mussoliniano. Allo sciopero proclamato aderirono anche i lavoratori del Friuli. Lo sciopero si estese e fu dichiarato,a oltranza ,fino a che non ci fosse stata l'abolizione del regime di occupazione e dei tribunali di guerra nella Venezia Giulia.  Naturalmente le richieste degli operai,pur essendo a cuore al governo, così almeno assicurò il commissario generale, mentendo , non vennero accolte e gli scontri furono pertanto inevitabili. Vincenzo Forgioni, operaio di appena sedici anni, rimase ucciso. Ai suoi funerali ,a seguito di attacchi fascisti ,vi furono ulteriori scontri tra operai,squadristi e polizia. La Camera del Lavoro proclamò un ulteriore sciopero il nove settembre.  I sangiacomini occuparono il quartiere  e spararono contro il camion che trasportava gli arrestati. Vennero erette,come detto all'inizio,barricate.  Alla fine gli esponenti della Camera del Lavoro riuscirono a convincere i più giovani ed infervorati, disposti a resistere per altri giorni, dell'inutilità della lotta. L'undici settembre lo sciopero generale poteva dirsi concluso,ma a quale prezzo!  550 scioperanti arrestati,nove operai rimasero uccisi (dodici riferì il giornale Delo) 70 feriti(250 il Delo).  Ma ormai  era chiaro che il regime di occupazione  finalmente sarebbe stato abolito. Non si comprende,da ultimo se non con la gran confusione in cui versava il Paese in quegli anni, in prossimità dell'avvento del fascismo al potere, come l'attacco delle autorità governative a Trieste ,della polizia e dell'esercito potesse concordarsi con la linea politica del Governo Giolitti.   A novant'anni da quei  caduti, da quello sciopero sfociato nella repressione violenta e reazionaria del potere militare, portatrice di lutti per la classe operaia ,volevamo ricordare quei fatti,che  sono forse dimenticati.  Ma anche quegli accadimenti sono ormai Storia,costituiscono una triste e tragica pagina per Trieste e tutta la Venezia Giulia.  E va ricordata ,con rispetto.  Anche questa è Memoria.




(A proposito della espansione della tedesca Telekom nelle repubbliche jugoslave e dei connessi, gravi, attuali casi di corruzione...)


Umkämpfte Märkte
 
16.09.2010

BONN/SKOPJE/PODGORICA
 
(Eigener Bericht) - Zum wiederholten Male werden gegen einen deutschen Konzern schwere Vorwürfe wegen dubioser Osteuropa-Geschäfte laut. Demnach soll die Deutsche Telekom sich vor einigen Jahren korrupter Praktiken bedient haben, um ihre Dominanz in einem ihrer Expansionsländer, in Mazedonien, zu sichern. Im Rahmen eines Ermittlungsverfahrens hat die Staatsanwaltschaft nun die Unternehmenszentrale und die Privatwohnung des Konzernchefs durchsucht. Die Vorwürfe werden zu einer Zeit laut, da die vormalige Konzernspitze der Deutschen Telekom beschuldigt wird, in die illegale Bespitzelung kritischer Journalisten im Inland eingeweiht gewesen zu sein. Ziel war es dabei, die Konzernmacht mittels Unterbindung kritischer Berichte zu wahren. Bei der Expansion deutscher Konzerne in Ost- und Südosteuropa kommt es immer wieder zu zweifelhaften Vorgängen, die, wie mutmaßlich im Falle der Deutschen Telekom in Mazedonien, auch illegale Praktiken beinhalten.

Expansion im Osten

Den Hintergrund der Ereignisse, um die sich das aktuelle Ermittlungsverfahren in Sachen Telekom dreht, bildet die Expansion des Konzerns nach Osteuropa. Wie die gesamte deutsche Wirtschaft hat auch die Deutsche Telekom in den 1990er Jahren begonnen, die Märkte Ost- und Südosteuropas zu erobern, um im traditionellen deutschen Einflussgebiet Profit und Macht zu steigern. Zu den ersten ost- und südosteuropäischen Unternehmen, die der Bonner Konzern dabei übernahm, gehörte das ehemalige ungarische Staatsunternehmen Matáv (heute: Magyar Telekom). Weitere Übernahmen vollzog die Deutsche Telekom entweder selbst (im Falle der Hrvatski Telekom und später der PTC Polska Telefonia Cyfrowa) oder aber über ihre 59-prozentige Tochter Matáv/Magyar Telekom, die beispielsweise 51 Prozent der Makedonski Telekom, 76,5 Prozent der Telekom Montenegro sowie 100 Prozent der rumänischen Combridge kontrolliert. Das Modell, bei dem deutsche Firmen über ungarische Tochtergesellschaften in Südosteuropa expandieren, ist keineswegs unüblich und hat seine Ursprünge in der historisch fundierten Kooperation zwischen Berlin und Budapest.[1]

Konkurrenten

In der Tat trieb der Bonner Konzern seine Expansion um die Jahrtausendwende ganz systematisch voran. "Mit Polen, Tschechien, der Slowakei, Ungarn, Kroatien, Bosnien-Herzegowina und Mazedonien", schrieb die Wirtschaftspresse im Juni 2004, "kann die Telekom eine fast lückenlose Abdeckung zwischen Gdansk und Sarajevo vorweisen".[2] Anfang 2005 führte das Unternehmen seine Expansion mit der Übernahme der Telekom Montenegro durch die Konzerntochter Magyar Telekom weiter. Um die 51-prozentige Mehrheit an der montenegrinischen Firma hatte sich auch die Telekom Austria beworben, die in Südosteuropa in Konkurrenz zur Deutschen Telekom steht.[3] Ein Konkurrenzverhältnis - nicht nur, aber auch - zur Telekom Austria ist auch in Mazedonien gegeben, wo im September 2007 eine Telekom Austria-Mobiltochter, "Vip operator", den Betrieb aufnahm; sie rivalisiert dort direkt mit T-Mobile Macedonia. Zwei Jahre vorher könnte, bestätigen sich die aktuellen Vorwürfe, die Deutsche Telekom ihre Dominanz in der mazedonischen Festnetzsparte mit illegalen Methoden gesichert haben.

Korruptionsverfahren

Gegenstand der aktuellen Berichte ist ein Ermittlungsverfahren gegen die Deutsche Telekom und Konzernchef René Obermann. Das Verfahren ist in Reaktion auf ein Rechtshilfeersuchen aus den USA eingeleitet worden, wo die Telekom einst an der Börse notiert war und deshalb von der US-Börsenaufsicht kontrolliert wurde. Gegenstand der Ermittlungen sind dubiose Zahlungen, die der Jahresabschluss der Magyar Telekom aus dem Jahr 2005 verzeichnet. Genannt wird ein Betrag in Höhe von sieben, nach anderen Quellen 30 Millionen Euro. Laut offiziellen Angaben handelte es sich dabei um Honorare für angebliche "Berater"; die Behörden vermuten Bestechungsgelder für Regierungsbeamte, vermutlich sowohl in Montenegro als auch in Mazedonien. Zugleich wird Konzernchef René Obermann unterstellt, er habe bei einem Treffen mit dem Vorsitzenden der Makedonski Telekom, einer Tochterfirma der Magyar Telekom und damit einer "Enkelin" der Deutschen Telekom, seine Zustimmung zur Zahlung von Dividenden davon abhängig gemacht, dass die geplante Öffnung des mazedonischen Marktes für andere Wettbewerber unterbleibe - und die Deutsche Telekom damit ihr Monopol behalte.[4] Von den Dividenden der Makedonski Telekom profitiert als Teileigner der mazedonische Staat, der zu den bedürftigsten in Europa gehört, aber die Kompetenz besitzt, die Marktöffnung zu beschließen oder sie gewinnbringend zu unterlassen.

Spitzelskandal

Der Verdacht, die Deutsche Telekom habe ihre Marktposition in Mazedonien durch Bestechung auf dem Umweg über ihre Tochtergesellschaft Magyar Telekom gesichert, ist nicht der einzige Skandal, der den Bonner Konzern in diesen Tagen in die Schlagzeilen bringt. Das Unternehmen hat 2005 und 2006 rund 60 Journalisten, Gewerkschafter und Aufsichtsräte bespitzelt, darunter einige Redakteure der größten deutschen Tageszeitungen. Dabei griff es auf persönliche Verbindungsdaten zurück, die selbst staatliche Ermittler nur mit richterlicher Genehmigung erheben dürfen. Zu Monatsbeginn hat nun einer der Angeklagten im Telekom-Spitzelprozess die Firmenleitung schwer belastet. Demnach seien im Jahr 2005 die damaligen Chefs von Vorstand und Aufsichtsrat der Telekom in die illegalen Bespitzelungspläne eingeweiht gewesen und hätten dem Vorgehen zugestimmt, um Marktnachteile aufgrund kritischer Berichterstattung zu verhindern. Die kriminellen Maßnahmen des Konzerns im Inland entsprechen dabei den mutmaßlichen Bestechungsfällen im Ausland - beides diente letztlich der Vergrößerung von Profit und Macht des deutschen Unternehmens.[5]

Kein Einzelfall

Die dubiosen Telekom-Geschäfte bei der Expansion in Ost- und Südosteuropa sind beileibe kein Einzelfall. Erst vor kurzem forderte der serbische Wirtschaftsminister den Essener Medienkonzern WAZ wegen zumindest zweifelhafter Hinterzimmergeschäfte mit dem Ziel, ein faktisches Monopol in Serbien zu errichten, zum Rückzug aus dem Land auf.[6] Zuvor war die WAZ bereits auf heftige Proteste in Rumänien gestoßen - ihr waren dort Eingriffe in die Pressefreiheit vorgeworfen worden.[7] Auch die Deutsche Telekom hat in Osteuropa bereits vor Jahren auf Mittel zurückgegriffen, die laut Urteil eines deutschen Wirtschaftsmagazins "in zivilisierten Rechtsstaaten des 21. Jahrhunderts eigentlich kaum noch vorstellbar sind" [8]: Dabei gingen Bodyguards im Dienste der Bonner Firma gegen Personal eines konkurrierenden französischen Konzerns vor und setzten einen Rechtsstreit in handgreiflicher Praxis fort.[9] Derlei Praktiken begleiten den Vormarsch deutscher Unternehmen in Ost- und Südosteuropa und helfen, die deutsche Hegemonie dort zu zementieren.

[1] s. dazu Ein Zeichen der FreundschaftDrohbrief aus Berlin und Die Donaustrategie
[2] Deutsche Telekom: Weiße Flecken tilgen; www.wiwo.de 23.06.2004
[3] mobilkom austria gibt Angebot für Mehrheitsbeteiligung an Telekom Montenegro ab; www.telekomaustria.com 22.12.2004
[4] Ermittlungen gegen Obermann; www.faz.net 15.09.2010
[5] s. dazu Spitzelkultur
[6] s. dazu Meinung bilden (I) und Meinung bilden (II)
[7] s. dazu Betrogen
[8] Germanen, Gallier, Gorillas; manager magazin 31.05.2006
[9] s. dazu Wachstumsprobleme