Informazione

Unione Europea: integrazione o annessione?

di Andrea Catone

su Marxismo Oggi del 09/11/2009

La crisi svela il rapporto di dominio/dipendenza A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino le potenze capitalistiche occidentali sono riuscite ad annettersi vasti territori con una popolazione di 100 milioni di persone, integrate nelle sue istituzioni e nel mercato della UE. . Siamo di fronte non all’unificazione di paesi con pari dignità, ma ad un’espansione del nucleo forte della UE verso Est, una conquista e un’annessione compiuta con le armi del moderno imperialismo. Come la DDR nel 1990 non fu “unificata” con la Germania di Bonn, ma annessa ad essa in un rapporto dipendente e subordinato, per cui non vi fu alcuna nuova Costituzione alla base di un nuovo Stato, ma si mantenne la Legge fondamentale della RFT.

Nel marzo di quest’anno Olli Rehn, commissario europeo per l'allargamento, nella prefazione ad un opuscolo propagandistico redatto a cura della Direzione generale dell’allargamento, annunciava trionfalisticamente: 

“L'anno 2009 segna un doppio anniversario storico. In autunno, saranno già venti anni dalla caduta del muro di Berlino. Nel mese di maggio celebreremo il quinto anniversario dell'allargamento dell'Unione europea, che ha permesso di riunificare l'Europa dell'Est e l’Europa dell’Ovest. Per cinque anni, l'allargamento della UE ha dato benefici sia ai cittadini dei vecchi Stati membri che a quelli dei nuovi. Sul piano economico, l'allargamento ha offerto nuove opportunità per l'esportazione e gli investimenti, creando nuovi posti di lavoro per i cittadini dei vecchi Stati membri, migliorando al contempo le condizioni di vita nei nuovi Stati membri”[1][1].

L’opuscolo procede a suon di cifre esaltanti:

“Gli scambi commerciali tra i vecchi e i nuovi membri sono quasi triplicati in meno di 10 anni (da 175 miliardi di euro nel 1999 a circa 500 miliardi di euro nel 2007). L’aumento di cinque volte del commercio tra i nuovi Stati membri è ancora più eloquente (è passato da 15 a 77 miliardi di euro nello stesso periodo). È un fattore chiave che ha contribuito ad una forte crescita annuale dell'occupazione dell’1,5% nei nuovi Stati membri nel corso del periodo compreso tra la loro adesione nel 2004 e lo scoppio della crisi finanziaria.[…] L'integrazione in un mercato di più 100 milioni di consumatori con un crescente potere d'acquisto ha aumentato la domanda di beni di consumo prodotti nelle imprese dei vecchi Stati membri, contribuendo a mantenere e creare posti di lavoro a livello locale. Come ogni macchina venduta in Polonia da una società tedesca fornisce un beneficio per i cittadini tedeschi, ogni transazione effettuata da una banca olandese nei nuovi Stati membri apporta benefici per l'economia olandese nel suo insieme”[2][2].

A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino le potenze capitalistiche occidentali sono riuscite ad annettersi vasti territori con una popolazione di 100 milioni di persone, integrate nelle sue istituzioni e nel mercato della UE. E si prospetta a breve l’inclusione di altri paesi, in primis i “Balcani occidentali” (e cioè i piccoli stati prodotti dallo smembramento della martoriata Jugoslavia, e l’Albania[3][3]), oltre alla Turchia. Dunque, un bilancio entusiastico del “grande allargamento” della UE, che apre la strada ad ulteriori adesioni di paesi che bussano insistentemente alle sue porte quasi fossero quelle del paradiso.

Il vantaggio, secondo l’opuscolo propagandistico, sarebbe reciproco, tanto per i vecchi membri che per i nuovi arrivati. Tuttavia, altre fonti ufficiali, della Banca centrale europea, del FMI, della Banca d’Italia, di fronte alla grande crisi capitalistica suonano una musica piuttosto diversa. Le “magnifiche sorti e progressive” dell’allargamento cedono il posto ad un paesaggio pesantemente in crisi, anche dopo i risultati meno negativi del secondo trimestre 2009:

“I principali Stati membri della UE che si trovano nell’Europa centrale e orientale, fatta eccezione per la Polonia, hanno registrato una contrazione significativa del PIL in termini reali nel primo trimestre. Il calo sul periodo precedente è stato pari al 2,5 per cento in Ungheria, 3,4 per cento nella Repubblica Ceca e 4,6 per cento in Romania. […] All’interno della UE, i paesi baltici hanno registrato la flessione maggiore dell’attività negli ultimi trimestri. Tali economie avevano accumulato, negli ultimi anni, ampi squilibri interni ed esterni. […] Negli ultimi trimestri, un netto aumento della disoccupazione a circa il 15 per cento ha contribuito a far scendere i consumi. […] In Bulgaria – che era stata finora meno colpita dalla crisi rispetto alle altre economie più piccole dell’Europa centrale e orientale – alcuni indicatori congiunturali (ad esempio delle vendite al dettaglio o del clima di fiducia delle imprese industriali) hanno continuato a deteriorarsi negli ultimi mesi”[4][4].

La crisi colpisce più pesantemente, anche se in modo differenziato da paese a paese, le economie dei cosiddetti “paesi emergenti europei”, rivelando altresì la fragilità dei relativamente alti tassi di crescita degli anni precedenti, che si convertono oggi in tassi negativi, con forte aumento della disoccupazione e il rischio di bancarotta.

Una delle cause – se non la principale – che si può rinvenire a chiare lettere nei freddi rapporti dei grandi centri della finanza internazionale, è nella dipendenza del sistema bancario e industriale dei nuovi membri della UE (e di quelli in procinto di diventare tali) dai grandi gruppi capitalistici dell’Occidente. “La maggior parte dei paesi emergenti europei sono altamente dipendenti dalle banche occidentali europee, che possiedono la maggior parte dei sistemi bancari in questi paesi” - scrive il rapporto del FMI di aprile 2009, paventando la possibilità di un effetto boomerang sulle grandi banche europee occidentali, fortemente esposte al rischio di insolvenza dei “paesi emergenti” debitori: “le case madri sono in gran parte concentrate in pochi paesi (Austria, Belgio, Germania, Italia e Svezia), e in alcuni casi, i crediti delle banche dell'Europa occidentale verso i paesi emergenti europei sono di grandi dimensioni rispetto al PIL del paese di origine (Austria, Belgio e Svezia)”[5][5]. Le banche creditrici hanno chiuso il rubinetto del credito, lasciando in panne i nuovi arrivati, con pesanti conseguenze su tutta la loro attività economica:

“I paesi emergenti europei sono stati colpiti molto duramente dalla diminuzione dei flussi internazionali lordi di capitale e dalla fuga di essi davanti al rischio. Molti di loro erano fortemente dipendenti dagli afflussi di capitali delle banche occidentali per sostenere l'espansione del credito locale. Gli impegni internazionali intraeuropei delle banche erano notevoli e, nei paesi emergenti d’Europa, molte banche erano tenute da imprese straniere in difficoltà. La situazione si è fortemente deteriorata nell’autunno 2008: c'è stato un aumento generalizzato dei margini sui titoli sovrani e le monete si sono rapidamente svalutate nei paesi con regimi di tasso di cambio flessibile. Il riflusso della domanda di importazione nei paesi avanzati, combinato con il crollo dei prezzi degli immobili, la penuria di credito e il deprezzamento delle valute in un contesto di marcata asimmetria dei bilanci, ha portato a pesantissimi aggiustamenti, addirittura, in alcuni paesi, a vere e proprie crisi. Di fronte al crollo delle esportazioni e della produzione e alla diminuzione delle entrate statali, molti paesi hanno ricevuto un aiuto dal FMI e da altre istituzioni finanziarie internazionali per finanziare la loro bilancia dei pagamenti”[6][6].

Il bollettino di ottobre 2009 della Banca d’Italia riassume così:

“La recessione sta proseguendo nella maggior parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale, che hanno risentito pesantemente della crisi a causa degli ampi disavanzi delle partite correnti e della loro dipendenza dai finanziamenti dall’estero. Il calo del PIL nel 2009 sarà particolarmente marcato nei paesi baltici, in Romania e in Bulgaria (con tassi di variazione compresi tra il -7 e il -19 per cento)”[7][7].

Non sono dei marxisti, ma i centri delle più importanti istituzioni finanziarie, quelle che disegnano i destini del mondo e di miliardi di esseri umani, a dichiarare a chiare lettere che nella sfera delle relazioni economiche della UE non vi è un rapporto paritario tra i suoi membri, ma di dipendenza dalle banche “occidentali”[8][8] dei nuovi arrivati dell’Europa centro-orientale, che facevano parte fino al 1989 del COMECON. Siamo di fronte, allora, non all’unificazione di paesi con pari dignità, ma ad un’espansione del nucleo forte della UE verso Est, una conquista e un’annessione compiuta con le armi del moderno imperialismo. Come la DDR nel 1990 non fu “unificata” con la Germania di Bonn, ma annessa ad essa in un rapporto dipendente e subordinato (per cui non vi fu alcuna nuova Costituzione alla base di un nuovo Stato, ma si mantenne la Legge fondamentale della RFT), così i paesi che nel 2004 e nel 2007 sono entrati a far parte della UE, e quelli dei “Balcani occidentali” di cui si prospetta l’ingresso tra qualche anno, si configurano alla stregua di una “colonia interna”: un mercato finalmente del tutto aperto agli investimenti di capitali, in primis del capitale bancario – che oggi controlla praticamente la vita economica di questi paesi – e del capitale industriale, per impiantare (in diversi casi delocalizzando dall’Occidente) produzioni a medio-basso contenuto tecnologico[9][9], impiegando una forza-lavoro acquistabile sotto costo e usufruendo di condizioni fiscali molto favorevoli; nonché un mercato di sbocco per le merci “occidentali”.

Il peso economico dei 27 paesi aderenti alla UE (di cui 16 adottano la moneta unica) presenta grandi differenze. Il paese più forte per PIL e popolazione è la Germania, con un PIL nel 2007 di 2.422,9 miliardi di euro, il 26,9% del PIL complessivo della UE (12.353 miliardi di €). Francia (21%), Italia (17,2%), Spagna (11,7%) costituiscono le economie più rilevanti dell’eurozona, mentre il Regno Unito (16,6%) è di gran lunga la principale economia della UE fuori area euro[10][10].

I nuovi arrivati tra il 2004 e il 2007 erano, salvo Malta e Cipro, economie di tipo socialista fino al 1989, che la grande borghesia “europeista”, con la sua politica di “allargamento”, ha avuto la capacità di trasformare, nel tempo storicamente piuttosto breve di un decennio, in “economie di mercato”, compatibili e integrabili nel capitalismo occidentale. Si è trattato però di un’integrazione subordinata e dipendente dal grande capitale finanziario europeo. Il peso complessivo dei nuovi arrivati dell’Europa centro-orientale è piuttosto ridotto: pur contando essi su una popolazione che supera il 20% di quella di tutti i paesi UE (102,2 milioni su 496 milioni), la percentuale del PIL dei 10 paesi ex socialisti sul totale del PIL della UE non supera il 7% e solo Polonia (col 2,5%), Repubblica ceca e Romania (entrambi con l’1%) superano l’1%.

Ma non si tratta solo di essere parenti poveri. Il disegno di integrazione subalterna dell’area dell’Europa centro-orientale – integrazione che prevede anche la sottomissione completa dei Balcani (e per questo nel 1999 si muove guerra alla Serbia che ha avuto il torto di opporsi) e la prospettiva di annettersi anche il ghiotto boccone dell’Ucraina (magari attraverso “rivoluzioni colorate”) – viene da lontano. Pianificato nei centri studi di Nomisma e dell’Unione Banche Svizzere, era stato esplicitato a chiare lettere alla fine degli anni 80, già prima della “caduta del muro di Berlino”. De Benedetti e Giscard d’Estaing parlavano di “piano Marshall” finanziato dalla Comunità europea per i paesi dell’Est per trovare nuovi mercati pieni di potenzialità per i “nostri capitalisti”, mercati senza i quali il sistema industriale capitalista non avrebbe potuto crescere[11][11]. “È nel nostro interesse egoistico che ci sia un’evoluzione sociale, culturale, politica, economica della parte orientale del continente. Servirà al nostro stesso sviluppo”, dichiarava nell’ottobre 1989 l’allora ministro De Michelis[12][12].

È la Germania di Kohl il principale beneficiario e artefice dell’espansione ad Est. Essa impone l’incorporazione della DDR (con cui ancora il 22 dicembre 1989 la CEE cominciava un negoziato per un accordo commerciale!), che entra così automaticamente a far parte della CEE e della NATO. L’OSCE, organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa, alla conferenza di Parigi del 21 novembre 1990 proclama la fine della divisione dell’Europa. La carta di Parigi crea un “ufficio delle istituzioni democratiche” che supervisiona la messa in opera degli impegni presi dai nuovi regimi “pluralisti”. Il 22 giugno 1993 i capi di stato e di governo riuniti a Copenhagen decidono l’allargamento della UE agli stati dell’Europa centrale e orientale, fissando le condizioni generali delle future adesioni: istituzioni stabili, che garantiscano la “democrazia”, lo “stato di diritto”, “diritti dell’uomo” e rispetto delle minoranze nazionali; “economia di mercato” capace di affrontare la concorrenza in seno all’Unione; ripresa e applicazione dell’acquis comunitario e adesione agli obiettivi dell’unione politica ed economica. Il “patto di stabilità” in Europa, proposto dalla Francia e assunto dalla conferenza di Parigi del 26-27 maggio 1994, ha l’esplicito obiettivo di favorire l’adesione degli stati d’Europa centrale e orientale disposti a regolare i loro contenziosi bilaterali relativi a frontiere e minoranze[13][13].

Tra il 1991 e 1999, con una terapia lacrime e sangue, si fanno le privatizzazioni: in media la quota che il settore privato apporta al PIL è pari a quella degli altri paesi della UE, in Ungheria raggiunge addirittura il 90% Le ristrutturazioni nelle campagne riducono la popolazione agricola a meno del 10% della popolazione attiva. Il commercio estero viene completamente riorientato dopo la scomparsa della precedente divisione del lavoro nel campo socialista[14][14]. Il primo decennio di transizione dal sistema di economie di tipo socialista, basate su un settore prevalente e determinante di proprietà di stato e sulla pianificazione, ad economie di mercato fondate sulla proprietà privata e la deregolamentazione neoliberista, è contrassegnato dagli effetti pesantissimi delle “terapie shock” che, pur tra differenze e peculiarità dei singoli paesi dell’ex COMECON, sono adottate, seguendo le ricette di FMI &C. In modo più o meno violento, gran parte della popolazione è privata del sistema di garanzie sociali di cui godeva e costretta a trottare al comando dei nuovi signori dell’Ovest, che si impadroniscono delle industrie migliori o smantellano quelle locali, pur valide, per imporre voracemente le proprie merci sui nuovi mercati aperti grazie alle “rivoluzioni” del 1989 (nella zona est di Berlino già nel 1991 non si trova più la birra delle industrie dell’est, a Bucarest gli ottimi succhi di frutta locali sono ben presto rimpiazzati da Parmalat).

Nel 1999, nel decimo anniversario della “caduta del Muro”, tutti gli indici dei paesi dell’est segnalavano che a 10 anni di distanza dal rovesciamento del socialismo le condizioni economiche della popolazione e dei paesi erano peggiori che nel 1989. Non c’era un solo indicatore fondamentale, in nessuno dei paesi che avevano avviato la “transizione dal socialismo al capitalismo”, che mostrasse un segno più rispetto alla situazione pre 1989, salvo il tasso di disoccupazione. “Ogni paese senza eccezione […] ha accompagnato la propria trasformazione con una profonda e in molti casi prolungata recessione (Kornai parla appunto di transformational recession), del 20% del PIL in Polonia, il paese meno colpito, del 40% nella media dell’ex Unione Sovietica, con punte del 65%, ad esempio in Georgia e Armenia […] non solo la recessione c’è stata veramente, ma è stata peggiore di quella mondiale del 1929”, scriveva Nuti, paragonando il passaggio all’“economia di mercato” alla “peste nera di cinque secoli fa, con la differenza che “la peste riduceva non solo la produzione ma anche la popolazione, e pertanto non riduceva il reddito e il consumo pro capite come è successo nella transizione” [15][15].

Perché si potesse attuare questa “terapia shock”, che avrebbe potuto prevedibilmente innescare forti tensioni sociali e crisi politiche nei nuovi gruppi di potere, occorreva uno stretto controllo politico e militare su questi paesi. L’integrazione di queste economie nella UE è preceduta dall’integrazione politico-militare di esse nella NATO, che deve avvenire con le buone o con le cattive. Chi resiste troppo è bombardato (aggressione e distruzione militare della RFJ nella primavera 1999). Si stabilisce così un condominio concorrenziale sui paesi ex socialisti tra gli USA, che hanno una prevaricante forza militare, e i paesi del nucleo forte europeo, in primis la Germania, in asse (non paritario) con la Francia e in concorrenza col Regno Unito, stretto alleato degli USA e per molti aspetti sua “quinta colonna” nella UE.

La conquista e assimilazione dei paesi ex socialisti dell’Europa centro-orientale e balcanica è un classico modello di politica imperialista e di “divisione del lavoro” tra potenze imperialiste: penetrazione economica e penetrazione militare si combinano in un’azione congiunta, e al contempo concorrenziale, tra le aree valutarie del dollaro e dell’euro. All’indomani della caduta del muro di Berlino, il presidente americano George Bush, nel suo intervento al summit Nato di Bruxelles il 4 dicembre 1989, afferma a chiare lettere che gli USA sarebbero rimasti una potenza europea. La strategia dell’allargamento ad Est della NATO si delinea al vertice di Londra del luglio ’90, quando viene accolta nella NATO la nuova Germania unificata e si consolida nei vertici di Roma (novembre 1991) e di Oslo (giugno 1992), quando la NATO si mette a disposizione per eventuali azioni di “pacificazione” richieste dal consiglio di sicurezza dell’ONU o dalla CSCE, fino al vertice di Bruxelles (gennaio 1994), in cui si sancisce la politica di allargamento a tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale, compresi i pezzi della Jugoslavia in via di smembramento, martoriato laboratorio insanguinato in cui si attizzano odi etnici, si armano forze separatiste, in modo da creare il casus belli che giustifichi la “mediazione” e l’intervento militare americano, dalle krajne serbe in Croazia, alla Bosnia – primo banco di prova degli interventi NATO fuori area -, alla Macedonia, all’Albania, al Kosovo[16][16].

Il processo di integrazione subordinata delle economie ex socialiste in transizione nella UE viene straordinariamente accelerato proprio a partire dalla guerra contro la Serbia del 1999, a mano a mano che gli USA, imponendo la loro supremazia militare, mostravano di poter essere gli unici a volere e poter intervenire militarmente in Europa.Tra il 1999 e il 2004 – anno del più grande allargamento della storia della Comunità europea – si gioca la grande partita tra imperialismi franco-tedesco-europeo e statunitense. La politica USA è particolarmente aggressiva in questa fase e punta, con accordi militari separati con i paesi dell’est candidati all’ingresso nella UE, a creare una “nuova Europa” filoamericana, contrapposta alla “vecchia Europa” franco-tedesca. Lo scontro nel condominio imperialista europeo diviene evidente, con un vero e proprio tentativo di spaccare l’Europa, tra il 2002 e il 2003, quando USA e Inghilterra aggrediscono l’Iraq, ma senza il consenso dei paesi europei del nocciolo duro franco-tedesco, che riesce, grazie alla tenace azione del ministro degli esteri francese de Villepin, anche ad evitare un pronunciamento favorevole del Consiglio di sicurezza dell’ONU, isolando gli USA.

Tra l’aggressione della NATO alla RFJ nel 1999 e quella anglo-americana all’Iraq nel 2003 si giocano anche i rapporti di forza all’interno dello scacchiere europeo. All’interventismo militare degli USA, il nucleo forte della UE risponde rilanciando l’integrazione accelerata dell’est, sfidando anche il rischio di ritrovarsi in casa delle “quinte colonne”. A tappe forzate, per realizzare la più grande operazione di conquista “consensuale” di territori e popolazioni dopo la seconda guerra mondiale, si impone ai parlamenti dei paesi candidati di trasporre nelle legislazioni nazionali, prima dell’adesione, ben 470 regolamenti comunitari, adottando oltre 100 leggi all’anno (su libera circolazione dei beni, mercati pubblici, assicurazioni, proprietà intellettuale, creando o riformando le strutture amministrative chiamate ad applicare le misure comunitarie, in particolare quelle giudiziarie). Il 13 dicembre 2003 a Copenhagen il Consiglio europeo dichiara chiusi i negoziati con i 10 paesi candidati, che entreranno il 1.5. 2004 nella UE (Bulgaria e Romania nel 2007)[17][17].

Tra i paesi ex socialisti entrati nell’Unione l’Ungheria mostra di aver subito i maggiori contraccolpi non solo della crisi finanziaria in corso, ma del modello di transizione ad un capitalismo dipendente. Essa negli anni ’90 ha rincorso più degli altri la politica di privatizzazioni e di conformazione delle proprie istituzioni giuridiche ed economiche a quelle richieste da un’organizzazione capitalistica della società ((diritto di proprietà, assicurazione degli investimenti, diritto fallimentare, diritto della concorrenza) in base agli standard europei. Ha visto perciò un afflusso massiccio di investimenti. «Fino alla metà degli anni 1990, grazie a questa politica di "profilo istituzionale", questo paese - popolato solo da 10 milioni di persone - assorbiva la metà degli investimenti diretti esteri (da UE e USA) per un’area economica che contava tuttavia quasi 100 milioni di abitanti. Prosperità artificiale e temporanea che ora si esaurisce: se Budapest continua a ospitare le sedi regionali di grandi imprese internazionali, la stragrande maggioranza del paese attraversa una crisi profonda. Gran parte dell'economia nazionale è nelle mani di stranieri che desiderano ora raccogliere i frutti dei loro investimenti originari»[18][18]. Il 70% degli istituti ungheresi è di proprietà di grandi gruppi europei[19][19], tra cui Unicredit, KBC e Intesa Sanpaolo.

La tempesta finanziaria che scuote il mondo nel settembre 2008 trova un’Ungheria dove è già pesantemente in crisi il modello di capitalismo dipendente. La grande crisi sembra assestarle il colpo di grazia: a ottobre 2008 è a rischio di bancarotta e devono correre in suo soccorso ai primi di novembre la BCE (per la prima volta con un intervento in un paese fuori dell’eurozona, con un prestito di 6,5 miliardi di euro),il FMI (€ 12,5 mld.) e la Banca mondiale (€ 1 mld.). Ma il problema rimane, come denuncia Gergely Romsics, ricercatore presso l’Istituto ungherese per gli Affari Internazionali, “l’eccessiva dipendenza dell’Ungheria dagli investimenti e dal capitale straniero nella rincorsa al modello di sviluppo occidentale”[20][20]. Ma se quello dell’Ungheria e dei paesi baltici, infeudati al capitale scandinavo, può essere un caso limite, la questione generale che la crisi svela chiaramente è, come scrivono a chiare lettere anche i reportage giornalistici che : “i sistemi economici dei paesi dell'Europa dell'est presentano una dipendenza eccessiva rispetto agli investimenti privati stranieri che ora, a causa della crisi finanziaria, stanno progressivamente svanendo”. E svaniscono anche le illusioni alimentate dalla dolce maschera dell’Europa.


(questo articolo uscirà sul prossimo numero di Marxismo Oggi)

--------------------------------------------------------------------------------

[1] Cfr. Bon à savoir à propos de - L’ELARGISSEMENT DE L’UE, Luxembourg, Office des publications officielles des Communautés européennes, marzo 2009, p. 1. Corsivo mio, A.C. La brochure è reperibile anche in http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/publication/screen_mythfacts_a5_fr.pdf.

[2] Ivi, pp. 2-3. Corsivo mio, A.C.

[3] Cfr. ivi, pp. 11-12.

[4] Cfr. BCE, Bollettino mensile, Settembre 2009, traduzione e pubblicazione a cura della Banca d’Italia, pp. 12-13, http://www.bancaditalia.it/eurosistema/comest/pubBCE/mb/2009/settembre/bce_0909. Il corsivo è mio, A.C.

[5] International Monetary Fund, 2009, Global Financial Stability Report: Responding to the Financial Crisis and Measuring Systemic Risks (Washington, April), p. 9. https://www.imf.org/external/pubs/ft/gfsr/2009/01/pdf/text.pdf

[6]FONDS MONÉTAIRE INTERNATIONAL RAPPORT ANNUEL 2009, Washington, p. 19, http://www.imf.org/external/french/pubs/ft/ar/2009/pdf/ar09_fra.pdf. Il corsivo è mio, A.C.

[7] Banca d’Italia, Bollettino Economico n. 58, Ottobre 2009, p. 18, http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/bollec/2009/bolleco58 . Il corsivo è mio, A.C.

[8] Il rapporto annuale del FMI – forse meno preoccupato della retorica europeista della BCE – riprende, non sappiamo quanto inconsapevolmente, la nozione di “Occidente” in termini non geografici, ma economico-politici, quando questa nozione indicava un sistema politico-sociale e di valori contrapposto all’URSS e ai paesi socialisti. Cfr. il già citato RAPPORT ANNUEL, p. 19.

[9] Cfr. B. Landais, A. Monville, P. Yaghlekdjan, L’idéologie européenne, Ed. Aden, Bruxelles, 2008, pp. 211-213.

[10] Per questi dati e i seguenti, cfr. European Central Bank, Statistics Pocket Book, April 2009, pp. 39 sgg. 

[11] Cfr. W. Goldkron in L’Espresso, 17 aprile 1988.

[12] Cfr. intervista all’Unità del 23.10.1989.

[13] Cfr. C. Zorgbibe, « Le «grand élargissement» de 2004, in Histoire de l’Union européenne, Albin Michel, Parigi, 2005, pp. 261 267.

[14] Ivi.

[15] Cfr. D. M. Nuti, “1989-1999: la grande trasformazione dell’Europa centrorientale”, in Europa/Europe, numero 4/1999. L’evidenziazione in corsivo è mia, A.C. Nuti cita qui il saggio di “un autore al di sopra di ogni sospetto, Bob Mundell” nel volume a cura di M. Skreb e M. Blejer, Macroeconomic stabilisation in transiton economies, Cambridge 1998.

[16] Si veda La Nato nei Balcani, Editori Riuniti, Roma, 1999, in particolare Sara Flounders: “La tragedia della Bosnia: il ruolo sconosciuto del Pentagono” e Gregory Elich: “L’invasione della Krajna serba”.

[17] Cfr. C. Zorgbibe, op. cit.

[18] Cfr. L’idéologie européenne, op. cit., p. 214.

[19] Felice Di Leo, Ungheria: prospettive dopo la crisi finanziaria e il maxi-prestito della BCE, in http://www.equilibri.net/articolo/10579/Weekly_Analyses_-_38_2008).

[20] Cfr. Fernando Navarro Sordo, L’Ungheria e la crisi: il cuore isolato dell’Europa, in http://www.cafebabel.fr/article/29718/budepest-ungheria-crisi-economica-vita-notturna.html.




www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 27-10-09 - n. 292

Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

 

Il luogo in cui più di 800 combattenti dell’Esercito Democratico Greco sono stati sepolti durante la guerra civile in Grecia (1946-1949), è diventato di proprietà del KKE

 

23/10/2009
 
Il Comitato Centrale del KKE ha annunciato ai militanti, ai sostenitori del partito e al KNE, ai combattenti dell'Esercito Democratico Greco (DSE), al popolo greco che, dopo molti anni di sforzi, l'area della fossa comune di oltre 800 combattenti del DSE, caduti eroicamente nella battaglia di Florina nel 1949, è diventata di proprietà del KKE.

 

"L'acquisizione di questa area permette al KKE di superare le difficoltà che hanno impedito la costruzione di un monumento degno di questo grande sacrificio. Abbiamo fatto un primo passo per adempiere al nostro dovere di dare importanza al contributo eroico dell’Esercito Democratico Greco nella battaglia impari che combatté per i diritti del nostro popolo", sottolinea il CC del KKE.

 

Il gruppo del Partito all’interno della Confederazione dei lavoratori edili ha deciso di offrire un lavoro volontario rosso di 250 giorni per la costruzione del monumento storico per i combattenti dell’Esercito Democratico Greco nel luogo del loro sacrificio. Questa decisione costituisce una minima risposta alla falsificazione anticomunista della storia e dimostra la consapevolezza del dovere di costruire questa opera commemorativa.

 


   
da Accademia delle Scienze dell'URSS, Storia universale vol. XI, Teti Editore, Milano, 1975
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
La guerra civile in Grecia 1946-1949
 
Durante la guerra e l’occupazione nazi-fascista la Grecia aveva subito notevolissime perdite umane e materiali: il numero dei caduti era stato pari all’8 per cento della popolazione; il 70 per cento della produzione industriale era stato portato via dagli occupanti. L’economia del paese era stata ridotta in uno stato disastroso.
Nel 1945 il livello della produzione rispetto a quello del 1939 era pari al 20 per cento per l’industria meccanica, al 30 per cento per l’industria tessile, al 17 per cento per la produzione del cemento, e del 15 per cento per la produzione della gomma.
Risultò notevolmente ridotta anche la superficie coltivata; gran parte degli impianti di miglioramento e di difesa dell’agricoltura era stata distrutta; enormi danni erano stati inferti all’allevamento e all’industria della pesca.
L’incremento catastrofico del deficit della bilancia commerciale, l’inflazione, il caro viveri avevano portato al disastro economico, alla fame e alla povertà la massa della popolazione del paese.
 
Una volta cacciati gli occupanti, il paese si trovò a dover affrontare problemi gravissimi, dall’approvvigionamento di prodotti alimentari e di abitazioni, al lavoro, alla ricostruzione dell’industria, dell’agricoltura, delle comunicazioni, eccetera.
 
Il governo del liberale Nicolaos Plastiras, nominato primo ministro ai primi di gennaio del 1945 sulla base di un accordo intervenuto tra Churchill e il re di Grecia, si propose innanzitutto di reprimere le forze democratiche di sinistra e di ristabilire l’ordinamento reazionario.
 
La complessità della struttura sociale rese difficile e contraddittoria la vita politica del paese in quel periodo.
Il ruolo predominante nella vita economica e politica apparteneva alla borghesia monopolistica industriale-commerciale strettamente collegata con la borghesia britannica e successivamente con il capitale americano.
Faceva blocco con queste forze un’altra classe di sfruttatori, quella dei grandi proprietari terrieri; le banche, i monasteri e la famiglia reale possedevano anch’essi milioni di stremma (1 stremma = 0,01 ha) di ottima terra e di pascoli.
 
La classe più numerosa in Grecia era quella dei contadini con pochissima terra e dei braccianti, soggetti a un intenso sfruttamento; i contadini erano costretti a prendere in affitto la terra dai proprietari terrieri a condizioni di asservimento (mezzadria, colonia, eccetera).
La classe operaia, anche se poco numerosa, aveva diretto la lotta di tutta la nazione greca contro gli occupanti e, dopo la guerra, apparve come la forza decisiva del movimento democratico.
 
Gli interessi delle diverse classi della società greca erano rappresentati da numerosi partiti politici.
In questo periodo i partiti di estrema destra si unirono in un blocco noto col nome di “Fronte nero”.
Il suo nucleo fondamentale era costituito dal partito popolare (populista) che rispecchiava gli interessi dell’aristocrazia greca, del capitale finanziario, dei grossi proprietari terrieri e del clero reazionario della cosiddetta Antica Grecia (Peloponneso, Attica e Beozia). Si aggregarono a questo partito anche gli speculatori, che si erano arricchiti durante la guerra, e i collaborazionisti di ogni risma.
Nel “Fronte nero” occupava il secondo posto il Partito nazionale-liberale, nato nel marzo del 1945, che raccoglieva i liberali che avevano collaborato con gli occupanti.
Fondatore di questo partito era stato il generale Stilianos Gonatos, organizzatore dei “battaglioni di difesa” fascisti che durante l’occupazione avevano combattuto a fianco degli occupanti hitleriani contro l’Armata di Liberazione Nazionale della Grecia (ELAS).
Faceva parte del “Fronte nero”, anche il Partito nazionale di Napoleon Zervas che organizzava gli elementi di orientamento monarchico.
Del “Fronte nero” facevano parte anche gruppi fascisti e semifascisti di militari e un’organizzazione reazionaria di ufficiali.
 
Tra i partiti di centro c’era-innanzitutto il Partito liberale che rispecchiava gli interessi della media e piccola borghesia e di parte dei contadini.
Dopo la guerra intorno a questo partito si raggrupparono ceti borghesi, orientati verso la Gran Bretagna che speravano di essere prescelti dalla Gran Bretagna, per lottare contro le forze democratiche del paese, al posto dei monarchici.
 
Anche i partiti democratico-progressista, democratico-socialista e unionista erano orientati verso il centro e riflettevano gli interessi di alcuni ceti della borghesia greca.
I partiti centristi, che si erano rifiutati di combattere contro gli occupanti durante la guerra, avevano perso la fiducia delle masse e non rappresentavano una forza seria.
Tuttavia l’imperialismo americano e quello britannico tentarono in ogni modo di consolidare i ranghi della borghesia per la lotta contro il movimento democratico.
 
La reazione e il centro si opponevano al Fronte di Liberazione Nazionale (EAM) e all’armata di liberazione nazionale.
Il ruolo decisivo in queste organizzazioni apparteneva al Partito comunista greco; il numero degli aderenti al PCG [KKE n.d.r.] era cresciuto durante la guerra fino a raggiungere i 400 mila iscritti.
 
Lo seguiva, dal punto di vista numerico, il Partito agrario che all’inizio del 1946 contava 250 mila membri. La base di questo partito era costituita dai contadini poveri. Si trattava di un partito molto popolare con una propria rete organizzativa che copriva tutto il paese.
Infine facevano parte del Fronte di liberazione nazionale circa 1 milione di persone che non aderivano ad alcun partito. Si trattava soprattutto di contadini che si contentavano di appartenere all’EAM che per loro significava lotta per gli interessi nazionali e per obiettivi sociali.
All’inizio del 1945 l’ELAS controllava i 2/3 del territorio del paese; le altre regioni, compresa l’Attica con Atene, il Pireo e il porto di Salonicco, erano sotto il controllo delle truppe britanniche.
Le forze dell’ELAS erano consistenti. La coalizione dell’EAM contava circa 2 milioni di aderenti. Il Comitato centrale dell’EAM dava la preferenza alle soluzioni politiche e tendeva a far cessare la guerra civile iniziata nel dicembre del 1944.
 
Il governo non aveva però alcuna intenzione di risolvere per vie pacifiche i problemi venuti a maturazione.
L’accordo di Varkiza raggiunto con i rappresentanti dell’EAM il 12 febbraio 1945 prevedeva la cessazione del regime di guerra, l’epurazione dei collaborazionisti dall’esercito, dalla polizia e dall’apparato statale, garanzie di libertà di parola, di stampa, di riunione, la libertà sindacale e la fine della guerra civile; si trattava di sciogliere non soltanto l’ELAS ma anche le altre organizzazioni armate.
Il governo invece lanciò le proprie forze contro l’ELAS.
Cominciarono gli arresti degli appartenenti all’EAM e i licenziamenti di operai e impiegati per scarso affidamento; furono sciolti i sindacati.
Intanto con le armi tolte all’ELAS venivano armate bande fasciste.
 
La reazione si appoggiava alle forze armate britanniche. La Gran Bretagna assunse il compito di scudo che consentì alla reazione greca di organizzare nel paese la campagna contro le forze democratiche.
Fu scatenata una campagna di odio contro l’EAM-ELAS e il Partilo comunista greco. Moltissimi democratici perirono per mano di assassini e moltissimi altri furono rinchiusi in carcere e nei campi di concentramento.
 
I colpi sferrati contro l’EAM provocarono una crisi all’interno delle forze democratiche.
Elementi piccolo-borghesi e indecisi si affrettarono ad abbandonare il campo.
Il movimento operaio continuò tuttavia a svilupparsi.
Il plenum del Comitato centrale del Partito Comunista greco, nell’aprile e nel giugno del 1945, e il VII congresso, nell’ottobre 1945, invitarono i lavoratori a lottare per l’unità nazionale, per la cessazione della guerra civile, per l’allontanamento delle truppe britanniche e per uno sviluppo democratico del paese.
 
Il 22 novembre 1945 veniva formato il governo del liberale Themistoclis Sofulis.
Tuttavia, l’ingresso dei liberali nel governo non favorì la normalizzazione della situazione. Al contrario lasciò mani libere al “Fronte nero” dal momento che la politica del terrore trovava ora la copertura di un governo cosiddetto democratico.
 
Il governo Sofulis indisse le elezioni parlamentari per il 31 marzo 1946.
La campagna elettorale si svolse in un clima dominato dal terrore e dalle sopraffazioni della reazione. In molte località furono falsificate le liste elettorali.
Le “elezioni” consegnarono perciò il potere alle forze più reazionarie. Il nuovo governo fu capeggiato dal leader del Partito popolare Constantinos Tsaldaris, una creatura degli imperialisti inglesi.
Il governo britannico aveva ripetutamente affermato che avrebbe ritirato le proprie truppe subito dopo le elezioni; ora però si rifiutava di mantenere la promessa e inviò al governo degli Stati Uniti un “memorandum” col quale chiedeva il consenso americano all’effettuazione di un plebiscito a proposito del rientro del re in Grecia, ritorno previsto per il 1948 e che i britannici invece premevano perché avvenisse al più presto.
Il plebiscito fu effettuato il 1° settembre 1946 alla fine di una furiosa campagna sciovinista organizzata dai circoli dirigenti e “rafforzata” con provocazioni ai confini tra la Grecia e la Bulgaria, la Jugoslavia e l’Albania. Scopo di queste provocazioni era quello di distrarre la popolazione dai gravi problemi economici e politici all’interno del paese. Queste provocazioni prefiguravano inoltre i progetti annessionisti della reazione greca nei confronti delle democrazie popolari confinanti.
I risultati del plebiscito furono falsificati (70 per cento alla monarchia, 30 per cento per la repubblica).
Il re Giorgio II arrivò ad Atene il 27 ottobre 1946 sotto la protezione dell’aviazione anglo-americana. In seguito a trattative segrete tra Giorgio II, Tsaldaris e gli ambasciatori britannico e americano, la partenza delle truppe britanniche dalla Grecia fu rimandata “sine die”.
 
In queste condizioni cominciò a intensificarsi la resistenza popolare alle forze della reazione.
Nel giugno 1945 il Comitato centrale del Partito comunista greco aveva invitato i comunisti a organizzare gruppi di autodifesa contro le bande monarchiche. Intanto sui monti si andavano concentrando i democratici sfuggiti alle spedizioni punitive.
Nelle province più colpite dal terrore si formarono reparti partigiani che il 26 ottobre 1946 si unificarono nell’Esercito Democratico Greco [DSE n.d.r] guidato da Markos Vafiadis, ex vice-comandante del raggruppamento di Macedonia dell’ELAS. In novembre l’esercito democratico conseguì sulle truppe governative numerose vittorie che il governo greco utilizzò per appellarsi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
La reazione greca e mondiale fece molto rumore a proposito della “minaccia da nord” accusò i paesi di democrazia popolare di interferenza negli affari interni della Grecia. Si trattò di una manovra propagandistica nello spirito della “guerra fredda” scatenata proprio in quei mesi dai circoli imperialisti contro l’URSS e gli altri paesi che avevano imboccato la via del socialismo.
 
Né il governo greco né i suoi protettori occidentali riuscirono a dimostrare l’esistenza di una “minaccia da nord” per la Grecia.
 
La bancarotta politica del governo sia in politica estera (le pretese sull’Albania meridionale e su parte del territorio bulgaro non trovarono alcun appoggio) sia in politica interna era ormai evidente.
Il gabinetto Tsaldaris non riuscì d’altro canto a stabilizzare la situazione economica del paese.
Nel dicembre del 1946 la produzione industriale era giunta al 60 per cento di quella prebellica e quella agricola non superava il 55 per cento.
La situazione politica continuava a essere molto tesa.
 
Il 24 gennaio 1947 veniva formato un nuovo gabinetto capeggiato dall’altro leader 347 del partito popolare, Dimitrios Maximos.
La politica sanguinaria di questo governo provocò l’intervento del Consiglio di sicurezza dell’ONU che inviò in Grecia una Commissione di inchiesta perché si ponesse fine alle fucilazioni di persone che avevano partecipato in qualità di testimoni ai processi contro i seguaci dell’EAM.
In febbraio, la commissione del Consiglio di sicurezza ascoltò le comunicazioni dei rappresentanti del Comitato centrale dell’EAM, della Confederazione generale del lavoro, dei partiti di sinistra e centristi i quali confermarono che la situazione politica in Grecia era il risultato delle interferenze della Gran Bretagna e della violazione da parte delle destre degli accordi di Varkiza.
Queste dichiarazioni suscitarono notevole preoccupazione a Londra. Il governo britannico chiese aiuto a quello statunitense.
 
La “dottrina Truman” fu il risultato dell’accordo tra Gran Bretagna e Stati Uniti a spese dei popoli della Grecia e della Turchia.
Sulla base di questa a dottrina gli americani concentrarono nelle proprie mani tutto il controllo sulla vita politica ed economica della Grecia e la direzione delle operazioni militari contro l’esercito democratico.
 
Ottenuto un appoggio materiale e morale esplicito, i circoli monarchici reazionari capeggiati dal re Paolo, che era succeduto a Giorgio II alla morte di questi, intrapresero una nuova offensiva contro le forze democratiche e una nuova campagna ostile nei confronti dell’Unione Sovietica e dei paesi di democrazia popolare.
Gli organi del governo sollecitavano gli estremisti invitandoli alla “campagna contro il nord”.
Le cose arrivarono al punto da costringere l’Unione Sovietica a ritirare, il 6 aprile 1947, tutto il personale dell’ambasciata di Atene e lo stesso ambasciatore.
 
Nel 1947 fu dato inizio a una grossa operazione militare contro l’esercito democratico per la quale furono concentrati nella Grecia centrale 60 mila soldati e ufficiali dotati di carri armati, aerei, mortai e artiglierie.
Le forze dell’esercito democratico in quel periodo non superavano le 15 mila unità e nella regione erano 10 mila. Nonostante la chiara superiorità di forze la prima e la seconda fase della spedizione punitiva, nell’aprile e in maggio del 1947, si conclusero con un insuccesso.
L’esercito democratico riuscì a portare alcuni colpi decisi sia in Rumelia che nella Macedonia occidentale.
L’operazione delle truppe governative nella regione dei monti Grammos (giugnoluglio 1947), dov’era dislocata la base più importante dell’esercito democratico, finì anch’essa con un insuccesso.
 
Il governo, nel tentativo di salvare il proprio “prestigio” agli occhi dei propri seguaci e dei protettori americani, dichiarò che alle azioni dei partigiani aveva preso parte una “brigata internazionale” e indirizzò una protesta al Consiglio di sicurezza nella quale affermava che in Grecia erano penetrate consistenti forze straniere.
Questo falso tuttavia fu smascherato.
Il fallimento della spedizione punitiva seppellì anche il compromesso governo Maximos.
Il 7 settembre nasceva un governo di coalizione sostenuto dal partito liberale e dal partito popolare.
 
Alla fine del 1947 questo governo approvava una serie di leggi che vietavano l’attività del Partito comunista greco e dell’EAM.
Su Consiglio degli americani circa 800 mila contadini greci furono allontanati dalle loro terre; intorno alle zone d’operazioni dell’esercito democratico furono create immense “aree morte”.
 
Il comando dell’esercito democratico oltre alle organizzazioni di difesa cominciò a creare organi di governo popolare nelle regioni liberate. Questi organi procedettero alle elezioni dei comitati popolari; le terre dei grossi proprietari furono assegnate ai contadini poveri.
Il 23 dicembre 1947 fu creato il governo provvisorio democratico greco composto in gran parte da comunisti. Fu nominato primo ministro il generale Markos Vafiadis, comandante in capo dell’esercito democratico.
 
Nella primavera del 1948 l’esercito del re, con la diretta partecipazione di gruppi di consiglieri militari americani, lanciò una grossa operazione offensiva contro le regioni liberate controllate dall’esercito democratico. Anche questa offensiva fu bloccata dai reparti partigiani che riuscirono a portare i loro attacchi alle spalle delle truppe governative e nelle regioni vicine.
Il governo, inasprito dagli insuccessi militari, diede inizio alle esecuzioni in massa di prigionieri politici. Ad Atene e al Pireo fu imposta la legge marziale.
 
Il 16 giugno 1948 ebbe inizio una nuova offensiva delle truppe governative.
In quel periodo affluirono in Grecia dagli USA 210 mila tonnellate di armi e munizioni.
Il governo di Atene ricevette carri armati, aerei, artiglierie, 5.800 mitragliatrici, 1.920 mortai, 70 mila fucili, 3.250 stazioni radio, 6.700 automezzi, eccetera.
L’esercito democratico nella regione dei Grammos disponeva soltanto di 11 mila uomini, dotati quasi esclusivamente di armi leggere.
 
Ci furono scontri cruenti su tutto il fronte. La situazione per l’esercito democratico si fece difficile e il territorio da esso controllato si ridusse notevolmente.
La notte del 21 agosto 1948 le unita più importanti dell’esercito democratico si aprirono una breccia e riuscirono a sfuggire all’accerchiamento nella regione di Vitsi-Grammos.. A Creta le forze partigiane furono annientate nel luglio 1948. Nella regione centrale del Peloponneso i reparti dell'Esercito democratico respinsero gli attacchi delle forze governative fino al 20 gennaio del 1949.
 
Forze ancora capaci di combattere dell'esercito democratico si erano concentrate nella regione di Vitsi-Grammos, circondata dal nemico. L’esercito democratico non aveva modo di ottenere rinforzi. In questa regione il numero dei combattenti non superava le 20 mila unita. Nell’estate del 1949 le truppe governative concentrarono il grosso delle loro forze contro la regione di dislocazione dell’esercito democratico. A metà agosto occuparono Vitsi dopo feroci combattimenti.
Gli ultimi scontri avvennero nella regione dei monti Grammos il 28-30 agosto 1949. Le forze dell’esercito democratico furono costretta ad abbandonare il territorio greco.
 
Il movimento di liberazione nazionale in Grecia era stato sconfitto.
L’imperialismo internazionale e reazione greca soffocarono nel sangue le conquiste del popolo greco.
La Grecia fu trasformata in una roccaforte della reazione imperialista nell’Europa sud-orientale.
 
 


(Una analisi della situazione venti anni dopo lo... spostamento del Muro di Berlino verso il confine russo!)


http://rickrozoff.wordpress.com/2009/11/07/1989-2009-berlin-wall-moves-to-russian-border

Stop NATO - November 7, 2009

1989-2009: Moving The Berlin Wall To Russia’s Borders

Rick Rozoff


November 9 will mark the twentieth anniversary of the government of the German Democratic Republic opening crossing points at the wall separating the eastern and western sections of Berlin.

From 1961 to 1989 the wall had been a dividing line in, a symbol of and a metonym for the Cold War.

A generation later events are to be held in Berlin to commemorate the “fall of the Berlin Wall,” the last victory the West can claim over the past two decades. Bogged down in a war in Afghanistan, occupation in Iraq and the worst financial crisis since the Great Depression of the 1930s, the United States, Germany and the West as a whole are eager to cast a fond glance back at what is viewed as their greatest triumph: The collapse of the socialist bloc in Eastern Europe closely followed by the breakup of the Soviet Union. 

All the players in that drama and events leading up to it – Ronald Reagan, Mikhail Gorbachev, George H. W. Bush, Vaclav Havel, Lech Walesa – will be reverently eulogized and lionized.

Gorbachev will attend the anniversary bash at the Brandenburg Gate and the editorial pages of newspapers around the world will dutifully repeat the litany of bromides, pieties, self-congratulatory praises and grandiose claims one can expect on the occasion.

What will not be cited are comments like those from Mikhail Margelov, Chairman of the Committee on Foreign Affairs of the upper house of the Russian parliament, the Federation Council, on November 6. To wit, that “The Berlin Wall has been replaced with a sanitary cordon of ex-Soviet nations, from the Baltic Sea to the Black Sea.” [1]

With the unification of first Berlin and then Germany as a whole, the Soviet Union and its president Mikhail Gorbachev were assured that the North Atlantic Treaty Organization would not expand eastward toward their border. Gorbachev insists that in 1990 U.S. Secretary of State James Baker told him “Look, if you remove your troops and allow unification of Germany in NATO, NATO will not expand one inch to the east.” [3]

Not only was the former East Germany absorbed into NATO but over the past ten years every other Soviet ally in the Warsaw Pact has become a full member of the bloc – Bulgaria, the Czech Republic, Hungary, Poland, Romania and Slovakia.

Russia has twice before been attacked from the West, by the largest invasion forces ever assembled on the European continent and indeed in the world at one time (Herodotus’ hyperbolical estimates of Xerxes’ army notwithstanding), that of Napoleon Bonaparte in 1812 and of Adolf Hitler in 1941. The first consisted of 700,000 troops and the second of 5 million.

Moscow’s concerns about military encroachments on its western borders and its desire to insure at least neutral buffers zones on them are invariably portrayed in the U.S. and allied Western capitals as some combination of Russian paranoia and a plot to revive the “Soviet Empire.” What the self-anointed luminaries of Western geopolitics feel about neutrality will be seen later.

With the expansion of the U.S-dominated military bloc into Eastern Europe in 1999 and 2004, in the latter case not only the remaining non-Soviet former Warsaw Pact states but three ex-Soviet republics became full members, there are now five NATO nations bordering Russia. Three directly abutting its mainland – Estonia, Latvia and Norway – and two more neighboring the Kaliningrad territory, Lithuania and Poland. Finland, Georgia, Ukraine and Azerbaijan are being prepared to follow suit and upon doing so will complete a belt from the Barents to the Baltic, from the Black to the Caspian Seas. 

The total length of the Berlin Wall separating all of West Berlin from the German Democratic Republic was 96 miles. A NATO military cordon from northeastern Norway to northern Azerbaijan would stretch over 3,000 miles (over 4,800 kilometers). 

As a Russian news commentary recently noted in relation to the U.S. spending $110 million to upgrade two of the seven new military bases the Pentagon has acquired across the Black Sea from Russia, “The installations in Romania and Bulgaria go in line with the program of relocation of American troops in Europe announced on 2004 by then president George Bush. Its main goal is the maximum proximity to Russian borders.” [3]

The wall being erected (and connected) around all of European Russia is not a defensive redoubt, a protective barrier. It is a steadily advancing phalanx of bases and military hardware.

Last month NATO Secretary General Anders Fogh Rasmussen was in Lithuania to inspect the Siauliai Air Base from where NATO warplanes have conducted uninterrupted patrols over the Baltic Sea for over five years, skirting the Russian coast a three-minute flight from St. Petersburg.

New Lithuanian President Dalia Grybauskaite said at the time “We have been assured that NATO is still interested in investing in defence of the Baltic region….I am happy to see the NATO Secretary General here, in Lithuania, in the only and most important NATO air force base in the Baltic states. This is one of the main NATO defence points in the Baltic region.” [4]

In neighboring Poland a newspaper report of last April provided details on the degree of the Alliance’s buildup in the nation:

“NATO’s investments in defense infrastructure in Poland may amount to over 1 euros (4.3 zlotys) billion over the next five years….

“Poland is already the site of the largest volume of NATO investment in the world.

“Currently, construction or modernization work on seven military airports, two seaports, five fuel bases as well as six strategic long-range radar bases is nearing completion. Air defense command post projects in Poznan, Warsaw and Bydgoszcz have already been given the go-ahead, as has a radio communication project in Wladyslawowo.

“New investments will include, among other things, the equipping of military airports in Powidz, Lask and Minsk Mazowiecki with new logistics and defense installations.” [5]

The nation will soon host as many as 196 American Patriot interceptor missiles and 100 troops to man them as well as being a likely site for the deployment of American SM-3 anti-ballistic missile batteries.

As mentioned earlier, Washington and NATO have secured the indefinite use of seven military bases in Bulgaria and Romania, Russia’s Black Sea neighbors, including the Bezmer and Graf Ignatievo airbases in Bulgaria and the Mihail Kogalniceanu airbase in Romania. [6]

Gen. Roger Brady, U.S. Air Forces in Europe commander, was in Romania on October 28 to oversee joint military trainings where “the U.S. Air Force flew about 100 sorties; half of those sorties were flown with the Romanian air force.” [7]

The Pentagon leads annual NATO Sea Breeze exercises in Ukraine in the Crimea where the Russian Black Sea Fleet is based.

It also conducts regular Immediate Response military drills in Georgia, the largest to date ending days before Georgia’s attack on South Ossetia and the resultant war with Russia in August of 2008 and one currently just being completed. This May the U.S. led the annual Cooperative Longbow 09/Cooperative Lancer NATO Partnership for Peace war games in Georgia with 1,300 servicemen from 19 countries. [8] 

The Commanding General of U.S. Army Europe, General Carter F. Ham, was in Georgia a few days ago and “got acquainted with the carrying out of the Georgian-US military training Immediate Response 2009″ which included “visit[ing] the Vaziani Military Base and attend[ing] military training.” [9] 

A Russian official, Dmitry Rogozin, spoke of the joint military exercises, warning that “We all remember that similar activities carried out last year were followed by the August events.” [10]

A Georgian commentary on the drills confirmed Russian apprehensions by reiterating this link:

“Georgia is fighting for peace and stability in Afghanistan in order to eventually ensure peace and stability in Georgia, as one good turn will undoubtedly deserve another in the fullness of time.” [11]. Which is to say, as Georgia assists the U.S. militarily in Afghanistan, so the U.S. will back Georgia in any future conflicts with its neighbors in the Caucasus.

The world press has recently reported on Polish Foreign Minister Radoslaw Sikorski’s three-day visit to the U.S. to among other things “meet with US Secretary of State Hillary Clinton…to discuss Afghanistan and a new US proposal for a missile shield” [12] and attend a conference at the Brookings Institution where he said of the Polish-Swedish-European Union Eastern Partnership program to recruit Armenia, Azerbaijan, Belarus, Georgia, Moldova and Ukraine into the “Euro-Atlantic” orbit and of Moscow’s concerns that the West was moving to take over former Soviet space, “The EU does not need Russia’s consent.” [13]

What created the most controversy, though, was his address at a conference sponsored by the Center for Strategic and International Studies (CSIS) called The United States and Central Europe: Converging or Diverging Strategic Interests?

The main motif of the conference was, of course, the twentieth anniversary of the end of the Cold War as symbolized by the dismantling of the Berlin Wall.

Former U.S. National Security Adviser Zbigniew Brzezinski gave a presentation replete with references to Russia’s alleged “imperial aspirations,” its threats to Georgia and Ukraine and its intent to become an “imperial world power.” [14]

Sikorski, no stranger to Washington, having been resident fellow of the American Enterprise Institute and executive director of the New Atlantic Initiative there from 2002-2005 before returning home to become Poland’s Defense Minister, suggested that recent joint Belarusian-Russian military exercises necessitated stronger NATO commitments in Northeastern Europe. Saying that the Alliance’s Article 5 military assistance obligation – which is why, by the way, there will soon be almost 3,000 Polish troops in Afghanistan – was too “vague” and offered as a more concrete alternative something on the order of the 300,000 U.S. troops stationed in West Germany during the Cold War. [15]

The Polish government has subsequently denied that its foreign minister explicitly called for American troop deployments, and in fact he did not, but his comments are in line with several other recent events and statements. 

For example, Poland revealed in late October that it planned a massive $60 billion upgrading of its armed forces. “Minister of Defense Bogdan Klich announced a plan…to modernize the army within 14 programs: air defense systems, combat and cargo helicopters, naval modernization, espionage and unmanned aircraft, training simulators and equipment for soldiers....

“Klich announced plans to buy new LIFT combat training aircraft, Langust missile launchers, Krab self-propelled howitzers, Homar rocket launchers, as well as several more Rosomak tanks and 30 billion zloty will be spent on army modernization alone.” [16]

The arrival at the same time of the American destroyer USS Ramage and its 250 marines, fresh from NATO war games off the coast of Scotland, “to participate in a military exercise with Polish navy officers,” proves Sikorski’s wishes are not being ignored. [17] Before leaving, the USS Ramage “which was participating in joint US-Polish maneuvers…shelled the coast of Poland, local TV-channel TVN24″ reported. [18] Commander Tom Williamson at the U.S. embassy in Warsaw said “The USS Ramage crew is being interrogated in relation to the case.” [19]

Another American warship that had participated in the NATO naval maneuvers off Scotland, Joint Warrior 09-2, docked in Estonia afterward. The Aegis-equipped guided missile destroyer USS Cole.

The guided-missile frigate USS John L. Hall which included “embarked sailors of Helicopter Anti-Submarine Squadron 48 Detachment 9″ [20] arrived in Lithuania early this month. A U.S. navy officer said of the visit: “We are here as part of the United States Navy’s continuing presence in the Baltic Sea….We are also here to work with the Lithuanian Navy, who has been a valuable partner and our visit here is part of the ongoing relationship between our two countries and our two navies.” [21]

As American warships were demonstrating their “continuing presence in the Baltic Sea,” Estonia’s defense minister affirmed that “NATO has defence plans in the Baltics and they’re being developed” [22], and his Latvian counterpart said, “It is important for Latvia that the new Alliance Strategic Concept will include points about the collective unity for the enforcement of the strategic security in the Baltic Sea region and the common responsibility for the future of Alliance military operations.” [23]

Estonian Defense Minister Jaak Aaviksoo told The Associated Press “that his country sees new threats since Russia’s invasion of Georgia last year and a cyber attack that targeted his country in 2007.

“Aaviksoo plans to meet with U.S. Secretary of Defense Robert Gates” on November 10. [24]

Estonian President Toomas Hendrik Ilves, an American expatriate and former Radio Free Europe operative, offered to hold NATO drills in the Baltic states.

Defense Minister Imants Liegis recently confirmed that “Latvia is to hold large-scale military exercises in summer, in response to the Russian-Belarusian strategic exercises.” [25] Not alone, no doubt.

The above catalogue of military activities and bellicose statements should put to rest sanguine expectations resulting from the end of the Cold War, which never in fact ended but shifted its operations – substantially – eastwards.

Those whose names will be evoked and invoked on November 9 on the occasion of the anniversary of the dismantling of the Berlin Wall didn’t fare well in the immediate aftermath.

Three years afterward Georgia H. W. Bush, even a year after Operation Desert Storm, became only the third American president since the 1800s to lose a reelection bid.

Four year after that Mikhail Gorbachev ran for the Russian presidency and received 0.5% of the vote.

In his last race for the Polish presidency in 2000 Lech Walesa, when his nation’ electorate had finally seen through him, got 1% of the vote.

But he and fellow Cold War heroes of the West march ever onward in confronting Russia during the current phase of the new conflict.

In July, in what they titled An Open Letter to the Obama Administration from Central and Eastern Europe, old/new Cold War champions like Lech Walesa, Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Alexander Kwasniewski and Vaira Vike-Freiberga – Adamkus lived for several decades in the U.S. and Vike-Freiberga in Canada – ratcheted up anti-Russian rhetoric to a pitch not heard since the Reagan administration.

Their comments included:

“We have worked to reciprocate and make this relationship a two-way street. We are Atlanticist voices within NATO and the EU. Our nations have been engaged alongside the United States in the Balkans, Iraq, and today in Afghanistan….[S]torm clouds are starting to gather on the foreign policy horizon.”

“Our hopes that relations with Russia would improve and that Moscow would finally fully accept our complete sovereignty and independence after joining NATO and the EU have not been fulfilled. Instead, Russia is back as a revisionist power pursuing a 19th-century agenda with 21st-century tactics and methods.”

“The danger is that Russia’s creeping intimidation and influence-peddling in the region could over time lead to a de facto neutralization of the region.”

“Our region suffered when the United States succumbed to ‘realism’ at Yalta. And it benefited when the United States used its power to fight for principle. That was critical during the Cold War and in opening the doors of NATO. Had a ‘realist’ view prevailed in the early 1990s, we would not be in NATO today….”

“[W]e need a renaissance of NATO as the most important security link between the United States and Europe. It is the only credible hard power security guarantee we have. NATO must reconfirm its core function of collective defense even while we adapt to the new threats of the 21st century. A key factor in our ability to participate in NATO’s expeditionary missions overseas is the belief that we are secure at home.” [26]

The collective missive also resoundingly endorsed U.S. interceptor missile plans for Eastern Europe and held up the Georgia of Mikheil Saakashvili (another former U.S. resident) as the cause celebre for a new confrontation with Russia.

On September 22 Britain’s Guardian published a similar group Open Letter, this one from Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Mart Laar, Vytautas Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn Bendit, Timothy Garton Ash, André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik and Josep Ramoneda, called Europe must stand up for Georgia, which featured these topical allusions ahead of the seventieth anniversary of the beginning of World War II and the twentieth of the demise of the Berlin Wall:

“As Europe remembers the shame of the Ribbentrop-Molotov pact of 1939 and the Munich agreement of 1938, and as it prepares to celebrate the fall of the Berlin wall and the iron curtain in 1989, one question arises in our minds: Have we learned the lessons of history?”

“Twenty years after the emancipation of half of the continent, a new wall is being built in Europe – this time across the sovereign territory of Georgia.”

“[W]e urge the EU’s 27 democratic leaders to define a proactive strategy to help Georgia peacefully regain its territorial integrity and obtain the withdrawal of Russian forces illegally stationed on Georgian soil….[I]t is essential that the EU and its member states send a clear and unequivocal message to the current leadership in Russia.” [27]

Georgia has become a new Czechoslovakia twice, that of 1938 and of 1968, a new Berlin, a new Poland and so forth. Eastern and Western European figures like the signatories of the above appeal, contrary to what they state, are nostalgic for the Cold War and anxious to launch a new crusade against a truncated and weakened Russia. 

Along with 1990s-style “humanitarian intervention,” such campaigns are their stock in trade.

But the demand for more American military “hard power” in Europe as well as the Caucasus and the expansion of NATO to Russia’s borders may provoke a catastrophe that the continent and the world were fortunate enough to be spared the first time around.

1) Russian Information Agency Novosti, November 6, 2009
2) Quoted by Bill Bradley, Foreign Policy, November 7, 2009
3) Voice of Russia, October 22, 2009
4) President of the Republic of Lithuania, October 9, 2009
5) Warsaw Business Journal, April 20, 2009
6) Bulgaria, Romania: U.S., NATO Bases For War In The East
  Stop NATO, October 24, 2009
  http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/25/bulgaria-romania-u-s-nato-bases-for-war-in-the-east
7) U.S. Air Forces in Europe, October 29, 2009
8) NATO War Games In Georgia: Threat Of New Caucasus War
  Stop NATO, May 8, 2009
  http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/28/nato-war-games-in-georgia-threat-of-new-caucasus-war
9) Trend News Agency, October 28, 2009
10) Rustavi2, October 31, 2009
11) The Messenger, November 3, 2009
12) Deutsche Presse-Agentur, October 28, 2009
13) Polish Radio, November 3, 2009
14) Video
   http://csis.org/multimedia/video-strategic-overview-us-and-central-europe-strategic-interests
15) Audio
   http://csis.org/multimedia/corrected-us-and-central-europe-radoslaw-sikorski
16) Polish Radio October 27, 2009
17) Polish Radio. October 28, 2009
18) Russia Today, October 28, 2009
19) Polish Radio, October 28, 2009
20) United States European Command November 2, 2009
21) Ibid
22) Baltic Business News, October 27, 2009
23) Defense Professionals, October 26, 2009
24) Associated Press, November 2, 2009
25) Russian Information Agency Novosti, November 2, 2009
26) Gazeta Wyborcza, July 15, 2009
27) The Guardian, September 22, 2009

===========================
Stop NATO
http://groups.yahoo.com/group/stopnato



Rifacciamo il muro di Berlino

1) Un altro mito della guerra fredda: la caduta del Muro di Berlino 
(William Blum)
2) Perché erano ormai necessarie le misure adottate a Berlino
La Repubblica democratica tedesca era l'unico paese a tenere senza controllo una parte dei suoi confini - Il provvedimento era stato rimandato per non acuire la tensione. (L'Unità del 14/08/1961)
3) Anna Seghers e la DDR - 1949 - 1989 – 2009
(Davide Rossi)
4) Il muro di Karl 
(Paolo  Pietrini)


Francesco Baccini: Rifacciamo il muro di Berlino

Erich Honecker: Discorso-Autodifesa pronunciato davanti al Tribunale di Berlino

Il muro di Berlino: un altro punto di vista (Adriana Chiaia, Kurt Gossweiler)

La costituzione della Repubblica Democratica Tedesca


=== 1 ===

(en francais: Le mur de Berlin, un autre mythe de la guerre froide
in english at: http://killinghope.org/ or


www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 20-10-09 - n. 291

Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Un altro mito della guerra fredda
  
La caduta del Muro di Berlino
 
di William Blum
 
C’è da aspettarsi che entro poche settimane molti dei media occidentali mettano in moto le loro macchine propagandistiche per commemorare il 20° anniversario della caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989. Tutti i luoghi comuni della guerra fredda sul Mondo Libero contro la tirannia comunista verranno rispolverati e sentiremo per l’ennesima volta la favola del muro e di come è caduto: nel 1961, i comunisti di Berlino Est avevano costruito un muro per impedire ai propri cittadini oppressi di fuggire a Berlino Ovest e verso la libertà. Perché? Perché ai commies (gli sporchi comunisti) non piace che la gente sia libera, ai commies non piace che il popolo apprenda la "verità". Quale altra ragione poteva esserci?
 
Innanzitutto, prima che il muro fosse costruito, migliaia di tedeschi dell'est facevano i pendolari, andando ogni giorno a lavorare nella Germania occidentale e poi tornando all’est ogni sera. Chiaramente non erano imprigionati nella Germania orientale contro la loro volontà. Il muro è stato costruito principalmente per due motivi:
 
I poteri occidentali assillavano la Germania dell’Est con una vigorosa campagna di reclutamento diretta ai loro professionisti e ai loro lavoratori qualificati, cioè le persone che avevano ricevuto una formazione a spese del governo comunista. A lungo andare ciò ha determinato una grave crisi di mano d’opera e di produzione nella Germania orientale. Il New York Times nel 1963 corrobora questa analisi, scrivendo: "Berlino Ovest ha sofferto economicamente dalla costruzione del muro con la perdita di circa 60.000 operai qualificati, che arrivavano tutti i giorni dalle loro case in Berlino Est verso i loro posti di lavoro a Berlino Ovest". (New York Times, 27 giugno 1963, p.12)
 
Nel corso degli anni Cinquanta, i fautori statunitensi della guerra fredda nella Germania Ovest hanno istituito una rozza campagna di sabotaggio e di sovversione contro la Germania dell’Est, ideata per ostacolare i processi economici e amministrativi del Paese. La CIA e altri servizi segreti e gruppi militari degli Stati Uniti hanno reclutato, attrezzato, addestrato e finanziato individui e gruppi di attivisti tedeschi, dell’ovest e dell’est, in modo che essi potessero compiere azioni che andavano dagli atti di terrorismo alla delinquenza minorile; qualunque cosa per rendere la vita difficile alla popolazione della Germania dell’Est e indebolire il loro sostegno al governo – qualunque cosa che metteva i commies in cattiva luce.
 
È stata un impresa notevole. Gli Stati Uniti e i suoi agenti hanno adoperato l'esplosivo, l’incendio doloso, i cortocircuiti e altri metodi per danneggiare le centrali elettriche, i cantieri navali, i canali, le zone portuali, gli edifici pubblici, le stazioni di benzina, i trasporti pubblici, i ponti, ecc; hanno deragliato treni merci, ferendo gravemente dei lavoratori; hanno bruciato 12 vagoni di un treno e hanno distrutto i manicotti di aria compressa di altri; hanno usato degli acidi per danneggiare le macchine di vitale importanza nelle fabbriche; hanno messo della sabbia nella turbina di una fabbrica in modo che non potesse funzionare; hanno incendiato uno stabilimento dove venivano prodotte tegole; hanno istigato degli scioperi bianchi nelle fabbriche; hanno ucciso 7.000 mucche di un caseificio cooperativo con l'avvelenamento; hanno messo sapone nel latte in polvere destinato alle scuole della Germania dell’Est; alcuni sono, al momento dell'arresto, erano in possesso di una grande quantità di veleno Cantharidin, che avrebbero usato nella produzione di sigarette per avvelenare personaggi di spicco della Germania dell'Est; hanno fatto esplodere bombette puzzolenti per interrompere riunioni politiche; hanno tentato di bloccare il Festival Mondiale della Gioventù a Berlino Est, con l'invio di inviti falsi, false promesse di vitto e alloggio gratis, false comunicazioni di cancellazione, ecc; hanno aggredito i partecipanti al Festival con esplosivi, bombe incendiarie, hanno forato le gomme delle loro auto; hanno contraffatto e distribuito grandi quantità di tessere per il razionamento del cibo per creare confusione, indurre all'accaparramento di genere alimentari, e provocare risentimento; hanno contraffatto e inviato cartelle d’imposta, hanno falsificato e inviato direttive governative e altri documenti per produrre disorganizzazione e inefficienza all'interno dell'industria e nei sindacati ... tutto questo e molto altro ancora. (Cfr. Killing Hope, p.400, nota a piè pagina n. 8, per un elenco delle fonti relativi agli atti di sabotaggio e di sovversione.)
 
Durante tutti gli anni Cinquanta, i tedeschi dell'Est e l'Unione Sovietica hanno più volte presentato denunce ai paesi occidentali, che pochi anni prima erano stati alleati dei sovietici, e alle Nazioni Unite contro degli specifici atti di sabotaggio e specifiche attività di spionaggio e hanno chiesto la chiusura degli uffici nella Germania occidentale che ritenevano responsabili, con nomi e indirizzi. Le loro denunce sono rimaste inascoltate. Inevitabilmente, i tedeschi dell'Est hanno istituito più controlli sulle persone provenienti dall’Ovest.
 
Non dimentichiamo che l'Europa dell’Est è diventata comunista perché Hitler, con l'approvazione dei paesi occidentali, l’aveva utilizzata come strada per raggiungere l'Unione Sovietica e distruggere per sempre il bolscevismo. Alla fine della guerra i sovietici erano determinati a chiudere quella strada.
 
Nel 1999, il giornale USA Today ha riferito: "Quando il Muro di Berlino è caduto, i tedeschi dell'Est immaginavano una vita di libertà in cui i beni di consumo sarebbero stati abbondanti e i disagi sarebbero svaniti. Dieci anni più tardi, oltre il 51% degli abitanti sostengono che erano più felici con il comunismo." (USA Today, 11 ottobre 1999, p.1.)
 
All'incirca nello stesso periodo è nato un nuovo proverbio russo: "Se quello che dicevano i comunisti sul comunismo non era vero, tutto quello che hanno detto del capitalismo si è rivelato fondato".
 
William Blum è l’autore di Killing Hope: US Military and CIA Interventions Since World War II (Uccidere la Speranza: gli Interventi Statunitensi Militari e Spionistici Dalla Fine della Seconda Guerra Mondiale); di Rogue State: a Guide to the World's Only Super Power (Stato Canaglia: una Guida all’Unica Superpotenza del Mondo); e di West-Bloc Dissident: a Cold War Political Memoir (Un Dissidente del Blocco Ovest: una Biografia Politica della Guerra Fredda).
 
Si può contattarlo all'indirizzo: BBlum6 @ aol.com
 

=== 2 ===

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 29-10-09 - n. 293

da L'Unità del 14/08/1961
 
Dopo una lunga attesa e numerose proposte rivolte alle potenze occidentali
 
Perché erano ormai necessarie le misure adottate a Berlino
 
La Repubblica democratica tedesca era l'unico paese a tenere senza controllo una parte dei suoi confini - Il provvedimento era stato rimandato per non acuire la tensione.
 
Berlino, 13/08
 
Le odierne misure adottate dal governo della RDT, in accordo con i paesi del Trattato di Varsavia sono di una legittimità evidente.
In effetti non si vede come si possa negare ad uno stato sovrano come ls RDT il diritto – e qui sta il nocciolo giuridico della questione – di prendere alle proprie frontiere i provvedimenti che ritiene più opportuni. Ma il problema non è solo giuridico e il diritto di cui si è detto non è soltanto tale è anche una necessità, giacché non si ha notizia di paesi che tengano sguarnita e priva di ogni garanzia e di ogni controllo una parte dei loro confini.
 
Se le misure sono state rinviate sino ad oggi è stato soltanto per non apportare altri elementi di tensione ad una situazione tutt'altro che semplice. Ma ormai la misura era veramente colma. «Abbiamo voluto operare col massimo di pazienza», ha detto un funzionario governativo.
 
Da quasi tre anni il problema di Berlino Ovest è stato posto sul tappeto, da quando cioè nel novembre del 1958 il governo di Mosca inviò alle potenze occidentali una nota con la quale proponeva una trattativa per eliminare i resti della seconda guerra mondiale e trasformare Berlino Ovest in città libera e smilitarizzata. La anormalità della situazione berlinese, si noti, venne ammessa da varie personalità occidentali, ma le proposte sovietiche furono lasciate cadere.
 
La conferenza di Ginevra del 1959 si concluse senza accordo. Nel giugno di quest'anno il primo ministro sovietico ha di nuovo sottolineato l'urgenza di raggiungere un accordo per allontanare i pericoli che con il passare del tempo venivano addensandosi minacciando la pace mondiale. Ma anziché avanzare proposte – Mosca come noto aveva lasciato un margine di sei mesi per negoziare – gli occidentali sciolsero le briglie alle centrali della propaganda anticomunista della provocazione e dello spionaggio operanti a Bonn e a Berlino Ovest.
 
La campagna per attirare gente dell'Est all'Ovest raggiunse una inaudita intensità, tutti gli strumenti del terrorismo morale e del ricatto materiale vennero posti in opera. Adenauer e i suoi ministri si diedero a parlare quasi ogni giorno ai cittadini della RDT come a propri sudditi dicendo loro quel che dovevano e non dovevano fare.
 
Alla radio e alla televisione gli annunciatori e i commentatori si rivolgono alla RDT ammonendo, consigliando ed incoraggiando. Ancora ieri il ministro Lemmer – dal quale dipendono tutte queste attività – annunciava ai cittadini della RDT che in aggiunta a quelle del campo di Marienfelde sarebbero state erette numerose e vaste baracche anche nello stadio di Berlino Ovest per raccogliere i «profughi».
 
A tutte le proposte sovietiche l'occidente ha risposto negativamente respingendo l'invito dell'URSS di aprire una discussione. Tutte le denuncie e i richiami all'Occidente a non violare gi accordi quadripartito sulla Germania e su Berlino sono stati tenuti in non cale. Tutti gli accordi sono stati sistematicamente violati.
 
Gli occidentali hanno unilateralmente spezzato la Germania creando la repubblica di Bonn; hanno lacerato gli impegni presi contro la rinascita del militarismo tedesco, contro la rinascita delle concentrazioni industriali e finanziarie dell'imperialismo tedesco. Hanno creato la Bundeswehr e la riforniscono di armi atomiche. Di Berlino Ovest hanno fatto un avamposto del militarismo, una base di attività di spionaggio e di provocazione.
 
E oggi proprio la propaganda occidentale osa accusare la RDT e l'URSS di violazione dei trattati. Ma a questo punto non sarà male ricordare che Berlino Ovest anzitutto non fa giuridicamente parte della Repubblica Federale, che allorché gli alleati conclusero gli accordi sull'occupazione della Germania, Berlino non fu staccata dalla zona di occupazione: si richiesero soltanto una occupazione e una amministrazione comuni nel suo territorio. A Berlino, come in tutta la Germania, l'occupazione da parte delle potenze vittoriose aveva uno scopo preciso e dichiarato: assicurare la rinascita di una Germania democratica e pacifica, denazificata e smilitarizzata.
 
Nelle zone occidentali questi impegni sono stati grossolanamente violati e proprio grazie al regime di occupazione delle tre potenze è stato fatto rinascere il militarismo tedesco e Berlino Ovest ne è diventata una delle principali basi. Parlare a questo punto di violazioni dei trattati da parte dell'URSS è evidentemente assurdo.
 
Ove l'Occidente tentasse con simili pretesti di aggravare la situazione con misure provocatorie anziché di porsi finalmente sul terreno del negoziato, assumerebbe di fronte al mondo una terribile responsabilità.
 
Mai come oggi è apparsa tanto urgente una trattativa che regoli finalmente i problemi ancora aperti, da sedici anni, dalla fine della seconda guerra mondiale.
 
G.C.


=== 3 ===

www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 05-10-09 - n. 289

Anna Seghers e la DDR - 1949 - 1989 – 2009
 
03/10/2009
 
di Davide Rossi
 
Enzo Collotti ha tracciato nel ’92 in una pagina del libro dedicato proprio al passaggio “Dalle due Germanie alla Germania unita” per Einaudi un ritratto brevissimo eppure preciso e puntuale di Anna Seghers e del suo rapporto con la DDR. Scrive Collotti: al VII congresso dell’unione degli scrittori della DDR, che si svolse a Berlino nel novembre del 1973, …, in Anna Seghers, amata e rispettata figura del vecchio umanesimo antifascista che era stato il sigillo primo della rinascita culturale della DDR, era presente la tensione tra una scelta ideale, che era una vera e propria scelta di vita, e il dialogo con le generazioni più giovani. Del resto la dichiarazione di identificazione con la DDR contenuta nelle parole della Seghers, insieme alla risonanza delle difficoltà che avevano rafforzato i vincoli con la DDR, era più che legittima: “con il nostro lavoro abbiamo partecipato ala costruzione del nostro stato. Con il nostro lavoro festeggiamo la sua esistenza spesso negata, spesso contestata, spesso diffamata, finalmente riconosciuta dal mondo, ora venticinquennale.”
 
Noi del centro studi, in questo anno in cui ricorrono il 60° anniversario della nascita della DDR avvenuta il 7 ottobre 1949 e il 20° della caduta del muro (9 novembre 1989), constatiamo come prevalga ancora e sempre l’atteggiamento ideologico della guerra fredda che in Occidente ha come solo obiettivo la criminalizzazione di quella esperienza e di quella nazione. È una constatazione sconfortante ma inevitabile. Berlino è stata uno dei luoghi principali della guerra fredda, il suo cuore e il suo centro. È stato anche il luogo, non solo simbolico, della vittoria dell’Occidente che ha utilizzato le armi della propaganda, del consumismo e della pubblicità per attaccare e ridicolizzare l’esperienza socialista, la quale seppur tra mille contraddizioni e difficoltà si sviluppava nell’altra parte di città che era capitale della DDR.
 
Avremo modo di ritornare in maniera ampia e articolata, in dibattiti pubblici e in forma scritta per esprimere il nostro pensiero. Valgano - per tutte - tre considerazioni. Al di là della propaganda di allora che anche in campo ambientalista leggeva nei paesi dell’est e nella DDR dei mostri ecologici, l’emergere di analisi e ricerche serie ed approfondite sta portando ad una totale rivalutazione delle scelte ecologiche della DDR. Una legislazione stringente contro l’inquinamento, la raccolta differenziata praticata a Berlino e largamente diffusa nel resto della nazione e ad esempio allora sconosciuta a Berlino Ovest, la prevalenza del trasporto pubblico, metro, bus, treni, su quello decisamente più inquinante di automobili e automezzi privati.
 
Secondo punto: la solidarietà internazionale, non indifferente alla luce di un presente, nel 2009, in cui le disuguaglianze tra nord e sud del mondo sono uno dei temi centrali della crisi del pianeta.
 
La DDR sosteneva gli esuli cileni, sudamericani e di larga parte del mondo, dando loro ospitalità lavoro e accesso agli studi universitari. In Cile ancor oggi vi sono donne e uomini che vivono grazie all’integrazione della pensione che viene loro da quanto ricevuto dopo 15 anni di lavoro in DDR. Per non parlare del caffé nicaraguese, dello zucchero cubano, di una rete di scambi economici internazionali fondata sul giusto prezzo (anche in questo caso praticata ben prima della nascita in Occidente del commercio equo e solidale), sul rispetto dei popoli e sul loro diritto a poter vivere, crescere, studiare, svilupparsi senza dover emigrare.
 
Terza considerazione, i diritti civili. Nella DDR a partire dai primissimi anni ’60 si sviluppa una campagna di educazione sessuale, di rispetto della sessualità dei giovani e del loro diritto ad avere fin dalla adolescenza rapporti sessuali prematrimoniali, fatti del tutto inimmaginabili nella bacchettona Europa occidentale dell’epoca. Per non dire dei diritti alla pillola anticoncezionale, al divorzio, allora ottenibile in tempi brevi e di fatto gratuito, e all’aborto.
 
Da ultimo doloroso per la coscienza europea, ma da ripetere e da considerare, la DDR aveva cacciato docenti, funzionari pubblici e militari nazisti, i quali hanno facilmente trovato collocazione, in molti casi, ancora nelle scuola, nelle università, nei ministeri e nell’esercito, ovviamente della Repubblica Federale Tedesca e in alcuni casi dell’Austria.
 
L’autodifesa del 1992 di Erich Honecker, che si trova in traduzione italiana su internet [ http://digilander.libero.it/lajugoslaviavivra/CRJ/DOCS/honeck.html ] è un testo da leggere con attenzione e che in taluni passaggi sottolinea verità incontestabili.
 
Sono quindi molte le ragioni per portare rispetto ad un’esperienza che non ha luci o ombre superiori o inferiori a quelle delle nostre democrazie, sempre più precarie nel rispetto dei diritti, civili e sociali, e che diventano del tutto imbarazzanti quando pretendono di esportare “la democrazia” a mano armata in giro per il mondo, con un fine neppure troppo occulto che è quello di impadronirsi delle materie prime di quei popoli.
 
La DDR è stata una parte importante della storia del movimento socialista del Novecento. Noi del centro studi “Anna Seghers” cerchiamo di unire memoria e ricerca storica con la serietà, l’impegno e la determinazione che sempre più tante persone e tanti studiosi, di pensieri e orientamenti politici differenti, ci riconoscono.
 
3 ottobre 2009
 
Davide Rossi, direttore del Centro Studi “Anna Seghers”(www.annaseghers.it)
 

=== 4 ===

Il muro di Karl 

                                             A Karl  prof. emerito della DDR  
  
C’era il Muro, mi dicevi Karl,
il muro di un mondo diviso,  
speranza di uomini uniti. 
C’ era il Muro, mi dicevi Karl,
la dignità degli oppressi,
la libertà degli uguali,   
la parte giusta della Storia.
Il Muro in pezzi è all’asta
il mondo in pezzi combatte 
cento guerre della pace calda.
I padroni del mondo offrono 
libertà di crepare ai dannati
della terra e galloni dorati 
ai loro eterni domestici,
esportano la democrazia 
delle bombe intelligenti, 
mungono pozzi e gasdotti
con i loro affari di morte.
Colonne di nuovi schiavi 
alzano piramidi inutili 
alla gloria del Mercato,
bevono illusioni e coca cola 
nelle miniere di cemento 
delle città saccheggiate, 
incatenati da ceppi catodici 
ai teleschermi di Goebbels.
Avevi ragione, Karl, c’era 
il Muro, la dignità degli uguali,  
speranza di uomini uniti.  
Ricostruiamo il Muro, Karl, 
il muro degli uomini in lotta,
la parte giusta della Storia. 
                 

                        Novembre  1999  

                              Paolo  Pietrini   
                               e-mail:  paulpierre @ libero.it   

(segnalato da A. Chiaia)



(english / francais.
Voir aussi / read also / sullo stesso argomento:
http://tv.repubblica.it/copertina/clinton-eroe-del-kosovo/38586?video&ref=hpmm
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6554 )

Bill Clinton inaugure sa propre statue à Pristina

1) Clinton unveils statue to (guess who?) in Kosovo
2) Kosovo : Bill Clinton inaugure sa propre statue à Pristina
3) Former President Clinton unveils statue in Kosovo
4) Bill Clinton in Kosovo to unveil statue


=== 1 ===

http://russiatoday.com/Politics/2009-11-02/clinton-unveils-statue-kosovo.html/print

Russia Today - November 2, 2009

Clinton unveils statue to (guess who?) in Kosovo

Robert Bridge


Albanians on Sunday jammed into Pristina’s main square to welcome Bill Clinton, the guest of honor at his statue-unveiling ceremony commemorating the former US president's role in the Yugoslavian war of 1999.

“I never expected that anywhere, someone would make such a big statue of me,” Clinton told the cheering crowd after removing a red cover over the monument, revealing a bronze likeness of himself, thus proving that not all commissioned works of art are awarded posthumously.

Clinton’s live appearance next to his larger-than-life metal replica is the latest effort by Kosovo – which is commemorating the 10-year anniversary of NATO’s war against Yugoslavia – to attract international attention to its quest for formal independence.

Kosovo unilaterally declared its independence from Serbia last year, but Serbia has vowed never to recognize the statehood of the breakaway territory. Meanwhile, the province continues to be administered by NATO forces.

The visiting former US president then drew attention to his wife Hillary Clinton, the U.S. Secretary of State.

“This morning when I talked to my wife, she said I had to make a photograph in front of it [the statue] and send it to her to make sure it was true and I didn’t make the whole thing up.”

The bronze statue, which stands 3.5 meters (11 feet), depicts the former American president with his left arm raised while holding documents bearing the date when NATO launched its aerial bombardment of Yugoslavia – 24 March, 1999 – a date that lives in infamy for some and in victory for others.

The statue sits in front of an unremarkable apartment complex on, you guessed it, Bill Clinton Boulevard.

Not everybody jubilant

On March 24, 1999, NATO – and without full consent of the UN Security Council – launched an attack on the government of Yugoslavian President Slobodan Milosevic over claims of heavy-handedness against Kosovo’s majority Albanians.

In the moments leading up to the NATO attack, Bill Clinton was fighting for his political life amidst an embarrassing sex scandal involving a young intern named Monica Lewinsky; scoring an easy victory in Yugoslavia was one way to divert public attention away from the scorching issue. Thus, Clinton's refusal to authorize ground troops in and around Kosovo.

In other words, by relying solely on an aerial bombardment to “liberate” Kosovo, the US president was guaranteed a big political win with minimal losses for US troops.

Over the course of the 10-week conflict, NATO aircraft flew over 38,000 combat missions; even the German Luftwaffe had its first taste of combat over the skies of Yugoslavia since having its wings clipped in World War II.

The ensuing 78-day aerial bombardment campaign, which grew continuously more aggressive and reckless, spared little infrastructure: factories, bridges, roads and power stations were all bombed with deadly accuracy. As a result, thousands of innocent civilians suffered great deprivation on both sides of the battle.

The Cold War military bloc even knocked out Serbia’s state television broadcasting tower, which observers point to as a direct breach of Geneva Convention rules, which provides for the ability of combatants to have the freedom to “express themselves” in wartime.

Despite NATO pledges that the war would be “a clean one,” the aerial campaign proved that a military strategy of “surgical strikes” can never be implemented without fatal flaws.

In perhaps the worst public relations disaster for NATO during the conflict, five US “smart” bombs severely damaged the Chinese Embassy in Belgrade, killing three Chinese journalists. NATO officials, in an effort to cool Chinese outrage, blamed the error on outdated maps. Chinese officials rejected both the apologies and explanations.

About the same time, a NATO fighter jet, believing it had discovered a Yugoslav military convoy, hit a bus carrying Albanian refuges instead, killing 50 civilians.

It has been estimated that about 200 Kosovo civilians were indiscriminately killed by NATO forces, while Human Rights Watch was able to verify 500 civilian deaths in Yugoslavia (that is, outside Kosovo).

The hostilities came to an end on June 10, 1999 when Milosevic accepted the conditions of surrender.

Needless to say, NATO's “illegal” bombing campaign – the first military conflict in its history – sparked an outpouring of international criticism, and was especially unpopular in Russia where talk of defending the “Slavic brotherhood” filled the air.

The tension spilled over at the end of March 1999 when a gunman driving a stolen vehicle attempted to fire a grenade launcher at the US embassy in Moscow during a public protest of the facility. Then-president Boris Yeltsin ordered an investigation into the incident and three men were later arrested.

What next for Kosovo?

Some people are wondering why Kosovo chose this particular moment to dedicate a public memorial to a still living, breathing, former American president. After all, such honors are usually paid posthumously.

One good reason is that Kosovo is presently fighting something of a public relations war against Serbia in its bid for independence.

The United States and a number of other western countries have supported Kosovo’s claims to independence, whereas other countries, including China, India and Russia, continue to regard Kosovo as an integral part of Serbia.

Russia announced that it will support Serbia’s case in an upcoming UN court hearing on the legitimacy of Kosovo’s declaration of independence, Foreign Minister Sergey Lavrov announced last month.

“We will insist that international law and UN Security Council decisions be respected and any unilateral decisions running counter to the UN Charter and OSCE principles be avoided,” Lavrov said following talks with his Serbian counterpart, Vuk Jeremic.

Belgrade brought Kosovo’s unilaterally declared independence to the UN’s International Court of Justice in The Hague where a case will open on Dec. 1.

Remembering the Pristina dash

In the context of the Yugoslavian war, Russians will always remember Pristina for something else besides a bronze tribute to the former American president Bill Clinton, for Pristina is the place where Russia staked everything on securing a peacekeeping sector for itself outside of NATO command.

On June 11-12, about 200 Russian SFOR troops stationed in Bosnia made a spectacular dash through Belgrade into Kosovo after Serbian troops began their withdrawal and, more importantly, after Russia got the word that it would not receive its own peacekeeping sector.

The result was that Russia, much to the consternation of NATO leaders (most notably, US General Wesley Clark who, upon ordering the British to block the approaching Russian tanks, was told by British General Michael Jackson, "I will not start World War III for you.") became the first official peacekeeping force in Kosovo – ahead of advancing NATO troops. The audacious gesture reinforced Russia’s image as Serbia’s “blood ally” that will always be there through good or bad.

And perhaps even longer than a bronze statue in the public sqaure.

===========================
Stop NATO
http://groups.yahoo.com/group/stopnato


=== 2 ===


BIRN

Kosovo : Bill Clinton inaugure sa propre statue à Pristina


Traduit par Philippe Bertinchamps
Mise en ligne : dimanche 1er novembre 2009
En visite ce dimanche à Pristina pour l’inauguration d’une statue en son honneur, le Président Bill Clinton a déclaré que son échec au Rwanda l’avait conduit à une intervention rapide au Kosovo.

Par Lawrence Marzou

Le Président Bill Clinton a déclaré que le sentiment de culpabilité dû à son échec à stopper le génocide au Rwanda a conduit les USA à une intervention rapide au Kosovo.

L’ancien Président américain a fait cette déclaration lors d’un discours devant le Parlement du Kosovo ce dimanche. Il s’était déplacé au Kosovo pour l’inauguration d’une statue en son honneur.

Il s’est dit être tellement préoccupé par la Bosnie qu’il a « manqué » le massacre des Tutsis par leurs voisins hutus en 1994 : « J’ai manqué le génocide du Rwanda. En 90 jours, c’était fini ».

« Cela explique pourquoi nous avons été si prompts à intervenir ici », a-t-il ajouté.

Il a également affirmé que les progrès du Kosovo étaient au-delà de toute attente : « Vous avez fait mieux que ce à quoi vos ennemis s’attendaient. Mais vous avez aussi fait mieux que ce à quoi vos amis s’attendaient ».

Une statue de l’ancien président Bill Clinton a été inaugurée en sa présence ce dimanche à Pristina.

Bill Clinton est considéré comme un héros parmi les Albanais du Kosovo en raison de son soutien à l’intervention militaire de l’OTAN en 1999.


=== 3 ===

http://www.google.com/hostednews/ap/article/ALeqM5ha8MuMrIGkjBIisRvRF45wyT4DGQD9BMPOPO2

Associated Press - November 1, 2009

Former President Clinton unveils statue in Kosovo

By NEBI QENA 

PRISTINA, Kosovo: Thousands of ethnic Albanians braved low temperatures and a cold wind in Kosovo's capital Pristina to welcome former President Bill Clinton on Sunday as he attended the unveiling of an 11-foot (3.5-meter) statue of himself on a key boulevard that also bears his name.

Clinton is celebrated as a hero by Kosovo's ethnic Albanian majority for launching NATO's bombing campaign against Yugoslavia in 1999....

This is his first visit to Kosovo since it declared independence from Serbia last year.

Many waved American, Albanian and Kosovo flags and chanted "USA!" as the former president climbed on top of a podium with his poster in the background reading "Kosovo honors a hero."

Some peeked out of balconies and leaned on window sills to get a better view of Clinton from their apartment blocks.

To thunderous applause Clinton waved to the crowd as the red cover was pulled off from the statue.

The statue is placed on top of a white-tiled base, in the middle of a tiny square, surrounded by communist-era buildings.

"I never expected that anywhere, someone would make such a big statue of me," Clinton said of the gold-sprayed statue weighing a ton (900 kilograms).

He also addressed Kosovo's 120-seat assembly, encouraging them to forgive and move on from the violence of the past.

The statue portrays Clinton with his left arm raised and holding a portfolio bearing his name and the date when NATO started bombing Yugoslavia, on March 24, 1999.

An estimated 10,000 ethnic Albanians were killed during the Kosovo crackdown and about 800,000 were forced out of their homes. They returned home after NATO-led peacekeepers moved in following 78 days of bombing.

Leta Krasniqi, an ethnic Albanian, said the statue was the best way to express the ethnic Albanians' gratitude for Clinton's role in making Kosovo a state.

"This is a big day," Krasniqi, 25 said. "I live nearby and I'm really excited that I will be able to see the statue of such a big friend of ours every day."

Clinton last visited Kosovo in 2003 when he received an honorary university degree. His first visit was in 1999 — months after some 6,000 U.S. troops were deployed in the NATO-led peacekeeping mission here.

Some 1,000 American soldiers are still based in Kosovo as part of NATO's 14,000-strong peacekeeping force.

Police in Kosovo upped security measures ahead of Bill Clinton's arrival by adding deploying more traffic police and special police.

NATO officials said the peacekeepers were also on alert, although no additional security measures were taken.


=== 4 ===

http://www.euronews.net/2009/11/01/bill-clinton-in-kosovo-to-unveil-statue/

Euronews - November 1, 2009

Bill Clinton in Kosovo to unveil statue


Link: http://www.euronews.net/2009/11/01/bill-clinton-in-kosovo-to-unveil-statue


A statue of Bill Clinton has been unveiled in Kosovo in the presence of the former US President himself. 

Clinton is considered a hero by Kosovo’s ethnic Albanian majority for launching the NATO airstrikes that stopped a Serb crackdown, 10 years ago. 

He told the thousands who braved bitter temperatures in Pristina to see him: 

“I never expected that anywhere someone would make such a big statue of me. And this morning, when I talked to my wife who said to tell you ‘hello’, she said I had to make a photograph in front of this and send it to her to make sure it was true and I did not make this whole thing up.” 

The US is one of dozens of countries to have recognised Kosovo’s self-declared independence. Some other nations including Russia still see it as a province of Serbia. 

That argument aside, the statue means Bill Clinton’s contribution to Kosovo’s history will never be forgotten.



(italiano / hrvatskosrpski)

Nasa Jugoslavia: Deklaracija o pravu na jugoslavensku naciju /
Associazione "La nostra Jugoslavia" (Pola): richiesta di riconoscimento della nazionalità jugoslava e di modifica della Costituzione Croata

19-09-2009


=== italiano ===


Associazione "La nostra Jugoslavia"
Pola 

REPUBBLICA DELLA CROAZIA
Al Parlamento della Croazia
Nelle mani del Presidente del Parlamento della Croazia 
Sig. Luka BEBIĆ 

Egregio Signor Presidente del Parlamento di Repubblica della Croazia,

Riguardo alle azioni avviate in occasione della modifica della Costituzione croata nel contesto della adesione della Croazia alla Comunità europea, L'Associazione "La nostra Jugoslavia" (la cui registrazione è in corso) propone di includere nella stessa il riconoscimento dei diritti per la nazionalità jugoslava

Le proposte dell'Associazione "La nostra Jugoslavia" derivano dalla continuità del sentimento jugoslavo in un certo numero di cittadini di Repubblica della Croazia. Il fatto etnico dell'esistenza di una nazione jugoslava si basa sugli argomenti elencati nella Dichiarazione sul diritto alla nazione jugoslava, che troverete in allegato. 

Consideriamo sufficientemente giustificata e sostenibile l'adesione all'Unione Europea di quelle nazioni europee paritarie, che in tutti i documenti giuridici di base ribadiscono il diritto inalienabile dell'uomo alla sua identità individuale e collettiva, e quindi esprimono l'amore ed il senso di unità con tutte le nazioni dell'Europa e del mondo. Prima di tutto, consideriamo giustificato e sostenibile l'amore e l'unità nei confronti di tutti i popoli e le nazionalità dello Stato unito della Jugoslavia, con i quali condivideremo in Europa un destino comune con la sola frontiera di Schengen. 

Noi crediamo che il riconoscimento della nazionalità jugoslava avrà un effetto positivo a fronte dell'odio palese che ultimamente si diffonde tra i cittadini, non solo in Croazia, ma anche in tutte le ex-unità federali jugoslave. Noi crediamo che il riconoscimento della nazionalità jugoslava contribuirebbe positivamente alla decontaminazione da tutti i tipi di intolleranza e discriminazione su base nazionale. La nazionalità jugoslava parla solo il linguaggio dell'amore e dell'unità.

In attesa dell'accettazione degli argomenti di cui sopra e delle richieste dell'Associazione "La nostra Jugoslavia", vogliate gradire i ns. più calorosi saluti, con il desiderio che la Repubblica di Croazia completi con successo i negoziati di adesione e venga al più presto ammessa nella comunità di popoli d'Europa.

Distinti saluti 

Il Presidente dell'Associazione "La nostra Jugoslavia"

Zlatko Stojković ing. edile

---
Allegato:
Dichiarazione sul diritto alla nazione jugoslava
Pola, il 19 ottobre del 2009

Sulla base della Dichiarazione ONU sui diritti dell'uomo e sulla base del documento finale della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa OCSE, e del fatto che siamo tutti nati con il diritto naturale all'eguaglianza a prescindere da sesso, razza, nazionalità, condizione sociale, religione e visione del mondo, e del fatto che la libertà esiste solo se le minoranze sono davvero libere, l'Associazione "La nostra Jugoslavia" promuove l'iniziativa per il riconoscimento della nazione jugoslava. I cittadini di tutte le aree jugoslave, che vivono nel paese e all'estero, uniti da un sentimento unico di unità e di appartenenza alla comune area vitale jugoslava, con rispetto per le sovranità e le Costituzioni degli Stati emergenti indipendenti come comunità paritarie tra di loro, e socialmente simili, nell'interesse di garantire la sostenibilità economica, giuridica, culturale, storica ed ogni altra, rilasciano la seguente 

Dichiarazione sul diritto alla nazionalità jugoslava

La base per il diritto alla nazione jugoslava sta nel fatto etnico che in tutte le nostre aree, oltre alla presenza millenaria di vari popoli indigeni e degli immigrati, la maggioranza delle persone hanno fatto e fanno parte delle tribù dei Slavi del Sud che si sono mescolate ed incrociate nel corso dei secoli, avendo una lingua comune o simile, una cultura interconnessa, una storia in comune ed interdipendente, una resistenza comune contro tutti gli occupatori, ed in due periodi hanno realizzato l'unità sotto forma statale: nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, ovvero nel Regno di Jugoslavia, e nella RFSJ - Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, membro dell'alleanza antifascista vincente durante la Seconda Guerra Mondiale e una delle fondatrici dell'ONU.

Con un processo naturale di diversificazione nazionale che ha avuto l'apice nel periodo tra il 1990 e il 2006 è stata realizzata e conclusa la separazione costitutiva degli Stati federali della RFSJ negli Stati indipendenti e sovrani di Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Croazia, Macedonia, Slovenia, Serbia con la provincia autonoma della Vojvodina, ed il Kosovo parzialmente riconosciuto, che oggi si trovano in reciproci rapporti di collaborazione e tolleranza economica e culturale ai minimi livelli.

Nonostante la divisione di fatto in nazioni separate, ovvero in Stati, non si può negare ed ignorare il fatto dell'esistenza di un enorme numero di matrimoni etnicamente misti, derivanti dall'amore e creatisi soprattutto nel periodo fertile della comunità, i cui membri hanno cercato di avere il diritto alla propria identità nazionale jugoslava. Le generazioni di Jugoslavi etnici, oggi nostalgici, hanno girovagato per il mondo come apolidi - persone prive di una patria. Il crescente numero di cittadini istruiti, di cultura e di intelligenza emotiva ampia, seguaci dei valori universali dell'uomo, contribuisce alla necessità di un riconoscimento della nazionalità jugoslava come elemento di un legame importante sulla strada della convivenza senza odio e senza discriminazione nazionale. Proprio gli Jugoslavi rappresentano quelle persone che più di tutte si oppongono all'odierna intolleranza nazionale, al linguaggio dell'odio nei confronti di altri popoli.  

Quanto più i politici, le religioni, le istituzioni dei nuovi Stati si sforzano con tenacia di negare la jugoslavità, tanto più confermano l'identità jugoslava e la sua persistente esistenza in base al diritto democratico alla differenza.

Con l'adozione di questa Dichiarazione, l'associazione "La nostra Jugoslavia" esprime in modo inequivocabile l'intento di impegnarsi per la stabilizzazione dei rapporti tra tutte le nostre nazioni. Il riconoscimento della nazione jugoslava non rappresenta obbligatoriamente il ritorno ad uno stato precedente, ma sicuramente significa un'armonizzazione e una stabilizzazione dei rapporti inter-nazionali in direzione di una regolamentazione di quei valori nazionali, economici, culturali e morali senza i quali una soddisfazione delle richieste di sviluppo e prosperità, atte anche all'entrata nell'Unione Europea, non è possibile. Risulta da quanto sopra esposto e si impone la conclusione che il riconoscimento legale per la nazionalità "Jugoslavo" sia indispensabile nei più alti atti legislativi di Repubblica di Croazia.

La jugoslavità esiste. L'associazione "La nostra Jugoslavia" chiede che questo semplice fatto sia riconosciuto come un diritto.


=== hrvatskosrpski ===


Udruga „Naša Jugoslavija“
Pula 

REPUBLIKA HRVATSKA 
HRVATSKOM SABORU
Na ruke predsjedniku Hrvatskog Sabora, gospodinu Luki Bebiću

Poštovani gospodine predsjedniče Hrvatskog Sabora,

povodom pokrenutih radnji za promjenu Ustava Republike Hrvatske, a u kontekstu pristupanja Republike Hrvatske Evropskoj Zajednici, Udruga "Naša Jugoslavija" (registracija Udruge je u tijeku), predlaže da se u isti uključi i priznavanje prava na jugoslavensku naciju.

Prijedlozi Udruge "Naša Jugoslavija" proizlaze iz kontinuiteta jugoslavenskog osjećaja kod određenog broja građana Republike Hrvatske. Etnička činjenica o postojanju jugoslavenske nacije temelji se na argumentima koji su navedeni u Deklaraciji o pravu na Jugoslavensku naciju, a koju Vam prilažemo.

Pristupanjem Evropskoj Zajednici ravnopravnih evropskih naroda, koji u svim temeljnim aktima i pravnim stečevinama, ističu neotuivo pravo čovjeka na svoj pojedinačni i grupni identitet, i sa time izražavaju ljubav i osjećaj zajedništva sa svim narodima Evrope i Svijeta, smatramo dovoljno opravdanim i održivim. Prije svega smatramo opravdanim i održivim osjećaj ljubavi i zajedništva prema svim narodima i narodnostima dojučerašnje zajedničke države Jugoslavije, sa kojima ćemo u Evropi dijeliti zajedničku sudbinu sunarodnjaka sa jednom granicom – šengenskom.

Smatramo da će priznanje jugoslavenske nacije ozdravljujuće djelovati na evidentnu mržnju koja se u zadnje vrijeme sve više širi među građanima, ne samo u Republici Hrvatskoj, nego i svim ranijim jugoslavenskim federalnim jedinicama. Priznavanje jugoslavenske nacije imalo bi pozitivan utjecaj na dekontaminaciju svih vidova netrpeljivosti i diskriminacije na nacionalnoj osnovi. Jugoslavenska nacija jedina govori jezikom ljubavi i zajedništva.

U očekivanju prihvaćanja gornjih obrazloženja i zahtjeva Udruge "Naša Jugoslavija", primite naše najiskrenije pozdrave, uz želju da Republika Hrvatska uspješno završi pristupne pregovore i bude primljena u jednakopravnu zajednicu svih naroda Evrope u što skorijem roku.  

S poštovanjem

Predsjednik Udruge „Naša Jugoslavija"

Zlatko Stojković 

dipl. ing. građ.

__________________________________________________

Prilog:

- Deklaracija o pravu na jugoslavensku naciju  
-
- Pula, 19. listopada 2009. godine        
-
- Na osnovu Deklaracije UN-a o pravima čovjeka te na osnovu završnog dokumenta Konferencije za evropsku sigurnost i suradnju OSZE, činjenicom da smo svi rođeni po prirodnom pravu jednakosti bez obzira na spol, rasu, naciju, društveni status, religiju i svjetonazor, činjenicom da sloboda postoji samo ako je manjina slobodna, Udruga „Naša Jugoslavija“ pokreće inicijativu za priznavanje jugoslavenske nacije. Građani svih jugoslavenskih prostora koji žive u zemlji i inostranstvu, a objedinjeni jedinstvenim osjećajem zajedništva i pripadnosti jugoslavenskom životnom prostoru, uz poštivanje suverenosti i Ustava svih novonastalih samostalnih država, kao jednakopravnih i srodnih društvenih zajednica, u interesu osiguranja ekonomske, pravne, kulturne, povijesne, i svake druge samoodrživosti, donose sljedeću
-
- Deklaraciju
-
- o pravu na Jugoslavensku naciju Izvorište prava na jugoslavensku naciju je etnička činjenica da su na svim našim prostorima, pored milenijske prisutnosti pripadnika raznih autohtonih i doseljenih naroda, većinski narod bili i jesu južnoslavenska plemena koja su se međusobno vijekovima miješala i ukrštala, imala jedan zajednički ili sličan jezik, srodnu kulturu, zajedničku i međuovisnu povjest, zajednički otpor prema svim zavojevačima, i u dva perioda plodno ostvareno zajedništvo kroz države: Kraljevinu Srba, Hrvata i Slovenaca, odnosno, Kraljevinu Jugoslaviju i SFRJ-Socijalističku Federativnu Republiku Jugoslaviju, članicu pobjedničke antifašističke koalicije II. svjetskog rata i jednog od osnivača UN-a.
-
- Prirodnim procesom nacionalnih i državotvornih diversifikacija sa vrhuncem u vremenu 1990. do 2006. izvršeno je i dovršeno državotvorno razdvajanje federalnih jedinica SFRJ u samostalne i suverene države: Bosna i Hercegovina, Crna Gora, Hrvatska, Makedonija, Slovenija, Srbija sa autonomnom pokrajinom Vojvodinom i djelimično priznato Kosovo, sada u minimalnom ekonomskom i kulturnom međusobnom odnosu suradnje i snošljivosti.
-
- I pored činjenice odvajanja na posebne nacije odnosno države, ne može se poreći i zanemariti činjenica o postojanju ogromnog broja nacionalno miješanih brakova nastalih iz ljubavi, i to prije svega u vremenu plodno ostvarenog zajedništva, tražeći istovremeno pravo na svoj nacionalni - jugoslavenski identitet. Generacije etničkih Jugoslavena danas nostalgično lutaju svijetom kao apatridi-osobe bez domovine. Sve veći broj obrazovanih građana široke kulture, emotivne inteligencije kao i sljedbenika univerzalnih vrijednosti pridonose potrebi priznavanja jugoslavenske nacije kao važan, povezujući element na putu ka suživotu bez mržnje i nacionalne diskriminacije. Sadašnjoj nacionalnoj nesnošljivosti i govoru mržnje prema pripadnicima drugih naroda, upravo se Jugoslaveni najviše suprotstavljaju govorom ljubavi i zajedništva. Koliko god bi se političari, religije i institucije novih država trudile poricati jugoslavenstvo, sva upornost njihovog poricanja i osporavanja upravo bi potvrdivale jugoslavenski identitet i njegovu opstojnost demokratskim pravom na različitost.
-
- Donošenjem ove Deklaracije Udruga „Naša Jugoslavija“ iskazuje nedvosmislenu namjeru da se zalaže za stabilizaciju odnosa među svim našim narodima. Priznanje jugoslavenske nacije ne znači nužno povratak u raniju državu, ali svakako znači harmonizaciju i stabilizaciju međunacionalnih odnosa u smjeru reguliranja onih nacionalnih, privrednih, kulturnih, gospodarskih i moralno-etičkih vrijednosti bez kojih nije moguć njihov zadovoljavajući razvoj i prosperitet uključujući i njihov prijem u Evropsku Uniju. Iz svega iznesenog nameće se zaključak o neophodnosti pravnog priznavanja postojanja nacionalnosti Jugosloven kroz najviše zakonodavne akte Republike Hrvatske.
-
- Jugoslavenstvo postoji. 
-
- Udruga „Naša Jugoslavija“ traži da se ta jednostavna činjenica prizna kao pravo.



[Di seguito un articolo proposto per la pubblicazione sul prossimo numero di Novi Plamen - http://www.noviplamen.org -, rivista della sinistra radicale dell'area jugoslava]

O istini,  revoluciji i slobodi

«Istorijska neminovnost takva je ista mistika kao što je učenje crkve o predodređenosti, takva ista tlačilačka besmislica kao što je i narodno verovanje u sudbinu. Materijalizam je –bankrotstvo razuma, koji ne može da obuhvati svu raznovrsnost životnih pojava i na nakazan način ih sve svodi na jedan, najprostiji uzrok. Priroda ne zna za uprošćavanje i ona mu se protivi; njen je zakon razvitka od prostog ka složenom i još složenijem. Naša potreba da uprošćavamo je naša dečja bolest; ona dokazuje samo to da je razum zasada još nemoćan, da ne može uskladiti sav zbir, sav haos pojava.» [M. Gorki, Dela,tom XVIII, Moji Univerziteti, Kultura, Bgd,1949, str.188.]
Te je riječi Maksim Gorki 1923 godine, kad je živio u Berlinu, pišući o svom životu i «školovanju», stavio u usta A. F. Trojickog, koji je u Rusiji studirao bogosloviju, da bi kasnije završio kao liječnik u Francuskoj, u Orleanu. Danas je takvo mišljenje uvelike u modi, jer je malo onih koji «poslije potopa» uspijevaju uskladiti i shvatiti «sav zbir, sav kaos pojava».
A jedan drugi daroviti čovjek, kemičar po struci, koji je ljubav prema nauci platio životom, Nikolaj Zaharovič Vasiljev, kazao je Gorkom: »... Uverenja prosvećenih ljudi isto su tako konzervativna kao i uobičajeni način mišljenja nepismene, sujeverne narodne mase. To je jeretička misao, ali u njoj se krije žalosna istina...». [Idem, str. 199.]
Međutim taj kaos pojava naslutili su mnogi već daleko ranije nego što je uzeo ovoliko maha, čak  daleko ranije nego što se srušio berlinski zid iranije no  što je «mišljenje revolucije» postalo nemoguće, ne samo zato što je zabranjeno, već što je «izšlo iz mode» i nikog više ne uzbuđuje niti zanima.

Zašto je ubijen Pier Paolo Pasolini?

Jedan koji je o tome prvi pisao, zapanjujući talijansku javnost, i kanio tu temu razraditi u romanu «Petrolio» («Nafta») - silom prilika nedovršenom - bio je Pier Paolo Pasolini. Od romana, koji je dijlom i sociološki esej, ostalo je u času kad je umoren u kasnu jesen  1975. napisano 600 stranica (a trebalo ih je biti 2000), a i one, iako se vidi da su neizredigirana i neuređene, jasno svjedoče o vizionarskim i profetskim predviđanjima njihovog autora. Za fašizam P.P. Pasolini je kazao: «Radilo se o grupi delinkvenata, koja se dokopala vlasti i zadržala je nasiljem. Ona s narodom Italije nije imala mnogo veze, iako mu se silom nametnula i natjerala ga da slijedi njene političke ambicije, interese i ciljeve. Fašizam je uzrokovao mnoge tragedije, ali je postojao lijek protiv njega u borbi, u otporu, u antifašizmu. I ovaj je nakraju iznio pobjedu. Potrošačkom (kapitalističkom) društvu nema lijeka, jer ono onemogućava i ubija bilo koji vid osporavanja, postavši univerzalni model ponašanja i života svih društvenih klasa. Zato je takvo društvo najgori fašizam.»
Nakon toga bio je ubijen. Neki, kao spisateljica Fernanda Piovano, tvrde zbog takvih misli i napisa. Drugi misle zbog filma Salò. Međutim ni to brutalno ubojstvo, ni sve ono što je kazao i napisao Pasolini nisu mogli ništa učiniti da istina, iako je ona razumljiva, dopre do masa. Pasolini je jednostavno ustvrdio, kako se na ovom stupnju razvoja zreli kapitalizam odlikuje ne samo ogromnom proizvodnjom roba, već i ljudi. Tako da: »...  novi način proizvodnje, nije samo proizvodnja dobara, već proizvodnja i samog čovječanstva - kako nas uči osnovni zakon političke ekonomije». [P.P. Pasolini: Lettere luterane, str. 133, Einaudi, Torino 2009.] I to -naravno - čovječanstva u kojem su vrijednosti obrnute i zbog tog obratanja na glavu vrijednosti svaka opozicija postaje nemoguća. Radi se o antropološkoj promjeni.
Pasolini je tvrdio: «Ja sam za progres, nisam za razvitak!» Ta paradoksalna misao danas je jasnija nego onda kad je bila izrečena. Jer je razvitak tehnologije i užasno uvećanje industrijske proizvodnje doslovno ugrozilo ljudski život uništenjem i zagađenjem prirode, a razvitak liberalizma i «liberalne demokracije» u zemljma «trećeg svijeta» doveo do krvavih ratova i nakaznih društavenih tvorevina, koje su ustvari karikatura demokracije i kojima vladaju hobotnički kraci mafije, političke moći i novih bogataša spletenih i srašćenih u gordijski čvor s novom «demokratskom» vlašću. Iako je na planeti ogroman broj gladnih – danas se računa već jedna milijarda – a preko sto miliona djece nikada neće vidjeti nikakve škole i bit će upotrebljeno kao najjeftinija radna snaga već u najranijoj mladosti - ni u razvijenim industrijskim zemljama stvari ne stoje sjajno. Usmjereno i specijalizirano obrazovanje stvara intelektualne invalide, a stalan udar na samostalno mišljenje (i sačivaj bože djelovanje!) donosi kao plod mase istomišljenika (ili jednako ne-mislećih) kako među posjednicima materijalnih dobara i sredstava za proizvodnju tako i među onima koji ne posjeduju ništa «osim vlastitog rada», kojeg je uostalom sve teže prodati...   

Demokracija i bombe

I tako i dalje širom svijeta «robovi ljube svoje lance» ostajući pokorni i glasajući za desnicu u Evropi ili hrle iz bijede, neimaštine i ratova nerazvijenih zenmalja i kontinenata u UE ili SAD, gdje će, nakon mnogo poniženja, ako uspiju dobiti dokumente i ako prežive put na kojem najčešće riskiraju život, biti izrabljivani prema svim zakonima tržišta, upotrebljavani za poslove koje Evropljani i Amerikanci više ne žele raditi (žene mahom kao služavke, a muškarci na najtežim i najrizičnijim poslovima u građevinarstvu), da bi ih se uz to cijelo vrijeme još i vrijeđalo, najgore sumnjičilo (ukoliko su muslimani) i uopće uzevši preziralo... Istovremeno UE na sva usta trubi o integraciji, o pravima čovjeka i građanina i proširenju sloboda, o kojima se brine jedna mastodontska administracija, koja, u konkretnim slučajevima, vrlo malo može učiniti za bilo koga...   

Nije to nikakvo iznenađenje za one koji su «znali» šta je kapitalizam. No oni kojima su silom bile nametnute blagodati jednakosti, ravnopravnosti i slobode u zemljama istočnog bloka, budući da je veliki historijski eksperiment doživio debakl, nisu vjerovali da je suština tog ogromnog mehanizma pohlepe i bezobzirnosti - društvena laž i njome kamuflirana prisila. Danas se ta suština otkrila u svoj svojoj «goloj brutalnosti» bez pogovora svima onima koji su ostali bez plaća i bez penzija, koliko i mladim generacijama, kojima je uskraćena sigurna budućnost, a dobitak radnog mjesta predstavlja jednaku sreću kao i zgoditak na lutriji. Ista se «brutalna istina» otkrila i zemljama i narodima, koje su bombardirali i donijeli im rat, patnju i pogibiju, kako bi im (više ne na bajonetama vojnika, već na bornim kolima ili iz aviona) bacili u krilo rajsku supstancu demokracije zapadnog tipa, višestranačkih izbora i  slobodnog tržišta, ma da neki od naroda, koji su ovako «usrećeni», nisu uopće pokazivali znakove, da tako nešto žele. O takvim željama govorili su svjetski mediji i najslušanije TV stanice, pa je to uzeto zdravo za gotovo, makar se te zemlje pretvorile u neopisive klanice, a njihovo stanovništvo unesrećeno i unazađeno za više generacija. 
I to sve naočigled cijelog svijeta i TV kamera!

Vašar rugobe

Već je krajem šezdesetih godina talijanski književnik  Gofredo Parise pisao: «Ovi su zlikovci uništili Italiju. Lijepa zemlja pretvorena je u emporij odvratnih prčugarija, koje su u najvećem broju slučajeva ružne i ne služe ničemu!» Danas je u takav emporij pretvorena cijela Evropa, a uskoro će biti i cijeli svijet. Što će dotle zagađenje okoline, ozonske rupe i promjena klima uzrokovati još veći broj ljudskih tragedija no dosada, one koji na takvom «razvitku» zarađuju ogroman novac malo zanima. Gradovi od stakla i čelika i automobilske piste podignuti u pustinji, luksuzni hoteli, koji strče iz mora ili se nalaze ispod njegove površine, samo su neki od bizarnosti «razvitka» svijeta, u kojem svaki dan nekoliko desetina hiljada djece umre od izlječivih bolesti kao malarije ili TBC, uzrokovanih bijedom, nedostatkom vode i glađu!
Uostalom, da je tome tako dosta je prošetati se  Zagrebom i vidjeti neke od «dometa» nove arhitekure kao i ukuse novih gospodara novog društva (jer arhitektura je i društvena disciplina, koja prati zahtjeve novog doba) – tako su tradicionalno poznate kafane uređene po ukusu junkinje kazališnog komada «Zanat gospođe Worm» ili još jasnije rečeno barunice Glembay, a i to je još mila majka prema nekim od lokala u novim sandučarama izgrađenim u centru grada, koje doslovno predstavljaju zapanjujuću mješavinu luksuznog sastajališta za seksualne perverzije i barokne mrtvačnice. Ali o ukusima se ne diskutira... Jer, kako je kazao Pasolini: «Destrukcija je dominantni znak nove moći». [P.P. Pasolini: Lettere luerane, Einaudi, Torino, 1976, str. 83.] Ili, kako još podrobnije objašnjava: »Pazi, najneumoljivija karakteristika prve velike revolucije «na desnici» je destruktivnost –razaranje: njen je prvi neosporan zahtjev da sa scene sasvim i bez ostatka izbaci «moralni» univerzum, koji je onemogućuje u širenju.» [Idem, str. 81.] I evo kako ona nastupa: ...» Na neki se načim svako mora adaptirati na ono što se zove nova stvarnost. Tu je stvarnost lako prepoznati, jer je njeno nasilje ono što smrtonosnom vitalnošću odnosi prevagu nad svim: uz gubitak starih vrijednosti (ma kako se o njima sudilo); uz totalno i totalizirajuće uklapanje u buržoaski sistem, uz ispravljanje prihvatanja potrošnje preko ostenativne i uveliko prenaglašene anksioznosti za navodnom demokratičnošću; uz ispravljanje prihvatanja najdegradiranijeg i gotovo delirantnog konformizma preko alibija ostentativne i uveliko prenaglašene tolerancije.» [Idem, str. 80.] Evo: mehanizam je objašnjen i razotkrivena je njegova suština. Obazrite se oko sebe. Pasolinijeva je analiza od prije gotovo čerdeset godina zapanjujuće ispravna. Rezultat je takvog društvenog kretanja po Pasoliniju ne samo nepostojanje bilo kakve alternative, već i nemogućnost postojanja bitno drugačijeg. Teoretski demokratske slobode postoje, razmišljanje i mišljenje nemoguće je zabraniti, ali perverznim mehanizmom koji je gore opisan, ono je pretvoreno u Gulivera kojeg su Liliputanci svezali i sputali s hiljadu neraskidivih veza, tako da se on ne može ni pomaknuti.

 Globalizacija i fanatizam

Kad je i posljedna neupjela ili ne u dovoljnoj mjeri uspjela revolucija dvadesetog stoljeća izgubila sve svoje oslonce te pored materjalnog doživjela i idejni debakl, kad se o komunistima počelo govoriti kao o «zatočenicima i robovima neostvarivih ideja, koje su se kao sistem pokazale neefikasnim i nasilničkim» nastupilo je doba «ričućeg» [Kao lav Metro-Godvin- Mayera na filmskim špicama] turbo-kapitalizma, čiji je rezultat svijet u kojem živimo. Nezustavljivi «pohod na Istok» kapitala, njegovo gramžljivo bacanje i po cijenu ratova i krvoprolića, na nova tržišta, nije ga moglo izliječiti od bolesti od kojih vječno pati i koje će ga (možda) jednog dana doći glave. Nezajažljivost i po cijenu bezočne nepravičnosti prema pojedincima, skupinama (klasama) pa i cijelim narodima ili geografskim prostorima nekih religijskih pripadnosti, njihovo preplavljivanje proizvodima «zapadne civilizacije» i premještanje industrijske proizvodnje sa zapada na jug i istok planete nikome nije donijelo sreće. Štaviše, učinilo je mnogo štete, jer su drevna tribalna društva azijskog i afričkog kontinenta na brutalno nametanje suvremenog zapadnog «viđenja svijeta» reagirala regresijom u mrak vjerskog fanatizma praćen opasnom provalom samoubilačkog i ubistvenog ludila očajnika stjeranih uza zid.  
Hvaljena i slavljena «globalizacija» na kraju krajeva nije umanjila broj gladnih, ni nesretnih ni nedavno unesrećenih i što je glavno, nije dovela do izbjegavanja ili prenebegavanja vrlo jake ekonomske i financijske krize zapadnog modela kapitalizma, iako nas sredstva masovnog informiranja jedan dan uvjeravaju kako je kriza prošla, da bi već sutradan tvrdila suprotno. 
U tom kaosu i pometnji teško je naći put do istine, naročito zato što je prostor kulture, a naročito kulture ljevice, ne samo sužen, nego upravo izmaknut ispod nogu. U tom potezanju ćilima lijeve kulture, ona je izgubila ravnotežu i našla se na zemlji, a od neočekivanog pada i propadanja još joj se uvijek vrti u glavi...  Kamo krenuti, kamo se okrenuti?

Novo i staro

«Starim, prokušanim vrijednostima» odgovara Pier Luigi Bersani, novi predsjednik DS – Demokratske stranke Italije, inače dugogogodišnji predsjednik najlijevijeg talijanskog sindikata CGL. A koje su to stare vrijednosti? Na to će najbolje odgovoriti knjga Gore Vidala o caru Julianu,  zvanom Apostata, koji je, postavši carem nakon imperatora Kostanca, ponovo uveo demokratska vjerovanja kulture helenizma i antičko demokratsko mnogoboštvo i nastojao rasprostranjivati grčku filozofiju i ljubav prema njoj, uprkos nasilnom i često krvavom nametanju kršćanstva svijetu i kulturi helenizma odmah nakon Konstatinovog edikta. Odnosno nakon što je pod carem Konstantinom službena religija rimskog carstva postala kršćanstvo. 
Vrlo je teško vratiti se na staro, kad se novo predstavlja kao razvijenije, savršenije, bolje, naprednije, istinitije. Štaviše kad se pretstavlja za jedinu istinu, koja poriče sve druge. A da li je uvijek baš tako? Mladi ostrašćeno idu za novim, njima se sviđa sve što je odjeveno u novo ruho i oni lako i oduševljeno prihvataju nove istine. Kako mladi nemaju mnogo iskustva nema ju ni razloga da posumnjaju u njih. No, primjećuje Julijan (koji je trebalo da postane biskup, no pošto mu je car Kostnco -ne bez razloga- ubio brata Gala 350 godine naše ere, ostaje na životu kao jedini nasljednik Konsantinovog roda): «Samo neko neobrazovan može povjerovati da jedan židovski revolucionar može da bude poistovjećen s Bogom!». Tako govori Julijan odnosno Gore Vidal na Julijanova usta. [Gore Vidal: Giliano, Fazi editore 2009, str. 129.] I zašto je Bog uzet iz jednog od tolikih naroda podređenih rimskom imperiju?
U trećem i četvrtom stoljeću ogromno carstvo nekad svemoćnog Rima nije se moglo očuvati drukčije nego onim čime je bilo i stečeno: nasiljem, vojnom silom i silom represije sudskih organa. A obespravljene mase i narodi toga carstva uglavnom su bili vrlo neobrazovani. I vapili za pričom o iskupljenju. S druge strane mit o Bogu koji je jedno, sveprisutno i svepostojeće, išao je na ruku centraliziranom carstvu i apsolutnoj vlasti careva: jedan car, jedan Bog i jedna (legalna) vjera u društvu. To uvelike olakšava održavanje reda u golemom imperiju, kojim je uprkos Dioklecijanovoj podjeli, bilo vrlo teško vladati.
Taj je mit o jednom Bogu čija su otajstva ili tajni sakramenti [Ibidem, 122-123.– kako tvrdi Gore Vidal preuzeti iz vrlo starog perzijskog kulta boga Mitre [Po nekim izvorima kult boga Mitre, star 400 godina, bio je jako raširen među vojnicima rimskog imperija] - pobjedio kad je u antičkom svijetu propala demokracija, postala nemoguća republika ( zbog golemosti carstva), a jedan car – jedna centralna vlast – zahtijevala je jednog Boga i kao apsolutnu pokornost caru -  vjeru u Boga. Sve ostalo prijetilo je opstanku kako golemog carstva tako i apsolutne vlasti njegovih vladara. Helemizam, koji je već jedan od pomalo izvitoperenih proizvoda izvorne grčke kulture, filozofije i umjetnosti, nastojao je sačuvati stare istine, raspolagao je starom ljepotom (u arhitektonskim i skulpturalnim oblicima), starom grčkom mudrošću - filozofijom i «starim» smislom i  potrebom za razmišljanjem. Sve je to moralo biti zamijenjeno dogmom o jedinoj ispravnoj vjeri, jer se jedino tako apsolutna vlast careva mogla održati. I dogma je nametana ognjem i mačem, kako je u romanu o Julijanu prikazao Gore Vidal. I najmanja sumnja mogla je dovesti na stratište. A barbari koji su došli pod tadašnji rimski imperij kulturno su podlegli –što i nije bila neka naročita šteta, budući da je njihova kultura bila daleko niža od grčke ili rimske. No isto se ne može tvrditi za veliku kulturu antike, koju je održavao na životu helenizam.Veliki Homerov ep, divne građevine Atene i skulpture bogova, polubožanstava i ljudi, sve je to prezreno i dobrim dijelom uništeno, zatrpano i zaboravljeno sve do Renesanse, kako bi se spasio jedan poredak, onaj imperijalni, koji je, i ovako i onako, s prodorom barbara, ubrzo konačno propao. Posljednji rimski car, šesnastogodišnji Romulus August(ul)us svrgnut je od barbarskog vojskovođe Odoakra ujesen 476, a time je zauvjek propalo i Zapadno rimsko carstvo. Rim je porušen, dok će Bizant preživjeti još oko tisuću godina (do 1453), da bi i on nestao pod najezdom kopita Seldžuka. Slijedi li i ovoj civilizaciji sličan kraj?

Jasna Tkalec 




MEGLIO DI SKANDERBEG

Clinton eroe del Kosovo

(2 novembre 2009)

L'ex presidente americano onorato con una statua per i bombardamenti Nato del 1999 che liberarono gli albanesi dal giogo dei serbi [SIC]

http://tv.repubblic a.it/copertina/ clinton-eroe- del-kosovo/ 38586?video& ref=hpmm

(vedi anche
Bill Clinton a Priština / Bill Clinton, the statue, is seen in Priština / Bientôt une statue de Bill Clinton à Pristina



(deutsch / english.

Quest'anno molti sono rimasti di stucco per la attribuzione del Nobel per la Pace a Obama; lo scorso anno avevamo segnalato che tale premio è del tutto discreditato [Un Premio Nobel contro la Pace: https://www.cnj.it/documentazione/kosova.htm#ahtisaari ]. Ma il Premio Nobel per la Letteratura non è meno discutibile: il suo politicissimo carattere è evidente quest'anno, visto che il premio è stato assegnato alla tedesca-rumena Herta Müller solo in virtù del suo zelo anticomunista e della tensione pangermanica che promana. Sono illuminanti le parole di Peter Handke:

D: Quest'anno il Premio Nobel per la letteratura lo ha ricevuto la scrittrice Herta Müller, poco nota ai lettori serbi. Che cosa ne sa di lei? 

R: Lei mi attaccava ferocemente quando io difendevo la Jugoslavia. Paragonava Milosevic a Ceausescu. Di lei non ho letto molto, ma so che è una brava scrittrice di prosa. Solo che la sua prosa manca di anima. Il fatto che lei ha vissuto durante la dittatura in Romania non è sufficiente per la letteratura. La buona prosa è scritta dall'anima, deve provenire dallo stomaco. Ma prima di lei, scrittori molto peggiori hanno ricevuto il Premio Nobel. 

D: Ciò significa che la politica interviene nel conferimento dei premi letterari più importanti? 

R: Il Premio Nobel per la letteratura non ha più una grande importanza. Negli anni recenti, è diventata una provocazione, a volte molto riuscita. Questa di Herta Müller è una provocazione priva di senso. 

[Peter Handke: Quando vi amo, la colpa è mia (Politika 18.10.2009)]  )


Rumanian Germans and their Nobel Prize

1) The Impact of Germans in the East / Das Wirken der Deutschen im Osten

2) The Germandom Prize / Der Deutschtumspreis
 

=== 1 ===


The Impact of Germans in the East
 
2009/10/16
SIBIU/BUKAREST
 
(Own report) - The chairman of one of the "Germandom" organizations in the German foreign policy network is the focus of a Rumanian government crisis. The Rumanian opposition wants to name the mayor of Sibiu, Klaus Johannis, to fill the vacancy left by the prime minister, who was toppled by the opposition at the beginning of the week. Rumanian President, Traian Băsescu has rejected this plan and nominated a financial expert for prime minister. Johannis heads the "Democratic Forum of Germans in Rumania" (DFDR), an associated member of the "Federal Union of European Nationalities" (FUEN), which from its headquarters in Northern Germany also coordinates Europe's German language minorities - with government support. The FUEN, founded by former Nazi racists, is working with Johannis as well as with Germany's Hermann Niermann Foundation, which was the target of large protests in Eastern Belgium, because of its covert lobbying efforts for "Germandom" organizations. Johannis' nomination is the second exceptional step taken in behalf of Rumanian "Germandom" within a week. The first was the awarding of the Nobel Prize in Literature to a "Rumanian German" author.
The Rumanian opposition parties, which toppled the Prime Minister with a no-confidence vote at the beginning of the week, have nominated the current mayor of Sibiu ("Hermannstadt"), Klaus Johannis, to fill the post of transitional prime minister. Rumanian President, Traian Băsescu has rejected this intention and named the financial expert, Lucian Croitoru, to be the new prime minister. Croitoru would have to be confirmed by parliament, which seems very unlikely, because the opposition has a majority and insists on its candidate, Johannis. The outcome is open.

Ethnic Policy

Klaus Johannis comes from the Rumanian "Germandom" milieu, to which he attests such secondary virtues "as correctness, reliability, pragmatism and efficiency."[1] He is the chairman of the local "Germandom" organization, the "Democratic Forum of Germans in Rumania" (DFDR), which, like many other associations of German language minorities in Eastern and Southeastern Europe, was founded in the immediate aftermath of the upheavals in 1989. The DFDR, like its chairman, Johannis, is closely associated with the networks of "Germandom" spread all over Europe. The DFDR is an associated member of the "Federal Union of European Nationalities" (FUEN), an organization, bringing together numerous European and Central Asian minorities, founded along the lines of the traditional German ethnic policy in the aftermath of World War II by ex-Nazi racists.[2] Within the FUEN, the DFDR, is also a member organization of the "Working Group of German Minorities" (AGDM), that stands in constant contact with the German Interior Ministry.[3] The party of Rumania's Hungarian speaking minority, the Uniunea Democrată Maghiară din România (UDMR) is also a FUEN member. It is one of the parliamentary parties proposing Johannis for the post of prime minister.

Conspiracy

Currently Johannis has been known as the mayor of Sibiu ("Hermannstadt"). Since he took office in 2000, Sibiu, in fact, has made a name with one economic success story after the other. "The Old City is a jewel, the water supply functions and above all, there are only a few unemployed" according to a recent press report. Under the "German" Johannis, the town has become a "model of success."[4] In fact, Johannis cleverly administers the support his community receives from Germany; to create a model of an island of "Germandom" is Southeast Europe. Under contract of the German Ministry of Economic Cooperation and Development in Bonn, the German Association for Technical Cooperation (GTZ) had already begun the renovation of the Old City - which is commonly attributed to Johannis - before Johannis took office.[5] The German Agency for Technical Relief (THW) came to Johannis' aid to solve the water problem.[6] Other help is coming from "Germandom" organizations in Germany, for example, the DFDR and Johannis personally advised the Hermann Niermann Foundation in Dusseldorf on "questions of promoting cultural, academic and social projects" - also to the advantage of the German language minority of Rumania.[7] The Niermann Foundation became notorious years ago, through its exercising covert influence on the German language minority in Eastern Belgium - in cooperation with extreme rightwing ethnocentric forces. One can safely say that the chairman of the foundation had been "aware of a conspiracy" that was directed "against Belgium."[8]

Special Sponsorship

Johannis disposes also of the best contacts to government offices in Berlin and to leading German politicians. His "Germandom" organization, the DFDR, receives preferential promotion from the German Ministry of the Interior. From 1990 - 2004 88.33 million Euros were allocated for the "stabilization of the German minority in Rumania." When Berlin had to scale back budgetary allocations also for "Germans Abroad" due to economic difficulties, the Interior Minister at the time, Otto Schily, promised Klaus Johannis in November 2004, "preferential treatment" for the German language minority in Rumania. As a matter of fact, the allocations for the Rumanian "Germandom" were reduced only nine percent, while 23 percent was the average reduction. In this year alone, the German government has earmarked a sum of 1.6 million Euros for the promotion of the German language minority in Rumania.[9]

Impressive Balance Sheet

Klaus Johannis has personally welcomed a whole series of high-ranking German government representatives both from federal and regional state levels. The visitors to Johannis' hometown included the German government's Commissioner for Questions of Ethnic German Emigrants and National Minorities, Hans-Peter Kemper, the German Commissioner for Cultural Questions, Bernd Neumann and the Prime Ministers of Germany's regional states Thuringia (Dieter Althaus) and Saarland (Peter Mueller). President of the European Parliament, Hans-Gert Poettering and the Parliamentary working group, "Expellees and Refugees" of the conservative CDU/CSU Caucus in the German Bundestag visited "Hermannstadt" as well. Erwin Marschewski, head of the working group's delegation, congratulated Johannis on his "impressive achievements."[10] German President, Horst Koehler allowed himself to be given a guided tour of the city by Mayor Johannis, personally and paid tribute to the "positive impact Germans are having in Eastern Europe, as exemplified by Hermannstadt."[11]

Merit Award

At the end of last year, alongside the German Minister of the Interior, Wolfgang Schaeuble, Johannis was given the Deutsche Gesellschaft's "Award of Merit for German-European Understanding." The laudation was held by ex-Interior Minister and Sibiu's citizen of honor, Otto Schily. German Chancellor, Angela Merkel is on the advisory board of this very influential association. Merkel, herself, had received the same award in 2005.

No Longer Sovereign

Klaus Johannis' nomination by Bucharest's parliamentary majority is the second exceptional step on behalf of Rumanian "Germandom" - following the award of the Nobel Prize in Literature to the "Rumanian-German" author, Herta Mueller - within one week.[12] Johannis' exceptionally close ties to Berlin could jeopardize Rumania's sovereignty, if he becomes Rumania's prime minister. Apparently the majority in Bucharest's parliament are prepared to take that step.

[1] Klaus Johannis; www.siebenbuerger.de 01.11.2003
[2] see also Freund und KollegeSchwelende Konflikte and Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen
[3] see also Berlin organisiert seine "Volksgruppen"Aktionseinheiten and Cultivating Relationships
[4] Johannis, ein Deutscher für Bukarest; Financial Times Deutschland 14.10.2009
[5] see also The Germandom Prize
[6] Erfolgreiches Ende für Twinning-Projekt in Rumänien; www.thw.bund.de 20.11.2008
[7] Partner; www.g-h-n-s.de
[8] see also FliehkräfteBaldiger Anschluss and Ethno-Netzwerk
[9] Bundesregierung fördert deutsche Minderheit in Rumänien; www.siebenbuerger.de 17.02.2009
[10] Aufbauleistung der deutschen Minderheit in Rumänien gewürdigt; www.siebenbuerger.de 01.09.2005
[11] Horst Köhler würdigt Aussiedler als europäische Brückenbauer; www.siebenbuerger.de 04.03.2009
[12] see also The Germandom Prize


--- DEUTSCH ---

Newsletter vom 16.10.2009 - Das Wirken der Deutschen im Osten

SIBIU/BUKAREST (Eigener Bericht) - Der Vorsitzende einer
"Deutschtums"-Organisation aus dem Netzwerk der Berliner Außenpolitik
steht im Mittelpunkt einer Regierungskrise in Rumänien. Die rumänische
Opposition, die Anfang der Woche den bisherigen Ministerpräsidenten
gestürzt hat, will den Bürgermeister von Sibiu, Klaus Johannis, mit
dem Amt betrauen. Staatspräsident Traian Băsescu verweigert sich
ihrem Ansinnen und hat nun einen Finanzexperten zum Regierungschef
nominiert. Johannis leitet das "Demokratische Forum der Deutschen in
Rumänien", eine Mitgliedsvereinigung der "Föderalistischen Union
Europäischer Volksgruppen" (FUEV), die von Norddeutschland aus unter
anderem die deutschsprachigen Minderheiten Europas koordiniert - mit
staatlicher Unterstützung. Die FUEV, die einst von früheren
NS-Rassisten gegründet wurde, arbeitet ebenso mit Johannis zusammen
wie die deutsche Hermann-Niermann-Stiftung, die vor Jahren wegen
verdeckter Einflussnahme für "Deutschtums"-Organisationen im Osten
Belgiens schwere Proteste hervorrief. Johannis' Nominierung ist nach
der Verleihung des Literaturnobelpreises an eine "Rumäniendeutsche"
die zweite außergewöhnliche Maßnahme zugunsten des rumänischen
"Deutschtums" binnen einer Woche.

mehr
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/57649


=== 2 ===

Newsletter 2009/10/12 - The Germandom Prize

BERLIN/STOCKHOLM (Own report) - Berlin's "Germandom" organizations are
cheering the awarding of the Nobel Prize in Literature to the
"Romanian-German" author Herta Mueller. As the President of the League
of Expellees (BdV), Erika Steinbach, CDU declared this award is an
indication of "how precious the Germans' cultural heritage is in the
East". "It means this heritage must be maintained and promoted." The
BdV has recently launched an exhibit of the "German Eastern
Settlements" throughout the centuries, with the intention of drawing
new public attention. This project is patterned after the "Center
against Expulsions" and is centered on the German speaking minorities
of Eastern and Southeastern Europe, exploited by Germany's politicians
and businessmen as bridgeheads for Berlin's expansionism. The Nobel
Prize Committee has bestowed an exemplary popularity upon one of these
minorities, the "Banat Swabians," of which Herta Mueller is a member.
The political intentions of the committee in Stockholm, whose
decisions are supported by foreign interests, are helping the BdV and
giving a boost to the "Germandom" policy. Criticism of the Nobel Prize
choice is being heard in countries, for example in Poland, affected by
"Germandom's" interference.

more
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/56287


--- DEUTSCH ---


Der Deutschtumspreis
 
12.10.2009
BERLIN/STOCKHOLM
 
(Eigener Bericht) - Organisationen der Berliner "Deutschtums"-Politik bejubeln die Verleihung des Literatur-Nobelpreises an die "rumäniendeutsche" Autorin Herta Müller. Die Preisvergabe sei ein Hinweis darauf, "wie wertvoll das kulturelle Erbe der Deutschen aus dem Osten ist", erklärt die Vorsitzende des Bundes der Vertriebenen (BdV), Erika Steinbach (CDU): "Es gilt, dieses Erbe zu bewahren und zu fördern." Der BdV hat erst vor kurzem ein Projekt gestartet, das der "deutschen Ostsiedlung" der vergangenen Jahrhunderte mit einer Ausstellung nach dem Vorbild des "Zentrums gegen Vertreibungen" neue Publizität verschaffen soll. Das Vorhaben gilt deutschsprachigen Minderheiten in Ost- und Südosteuropa, die von Politik und Wirtschaft der Bundesrepublik genutzt werden, um als Brückenköpfe der Berliner Expansion zu fungieren. Das Nobelpreis-Komitee verschafft einer dieser Minderheiten, den "Banater Schwaben", denen Herta Müller angehört, exemplarische Popularität. Die politischen Intentionen des Stockholmer Komitees, das bei seinen Entscheidungen die Unterstützung ausländischer Interessenten genießt, helfen damit dem BdV und geben der "Deutschtums"-Politik neuen Auftrieb. Kritik an der Nobelpreis-Vergabe wird in Staaten laut, die von "Deutschtums"-Interventionen betroffenen sind, so etwa in Polen.
Deutsches Erbe

Mit großer Zufriedenheit registrieren Organisationen der Berliner "Deutschtums"-Politik die Vergabe des Literatur-Nobelpreises an die Autorin Herta Müller. Müller stammt aus dem Banat, einer Region im Westen Rumäniens um Timişoara, in die seit dem 18. Jahrhundert zahlreiche deutschsprachige Siedler eingewandert waren; sie werden "Banater Schwaben" genannt. Die Minderheit, der Müller angehört, lebt bis heute in Rumänien. Die Autorin habe "dem kleinen Banat, seinen Menschen und seiner Geschichte einen großen Namen gegeben", resümiert die "Landsmannschaft der Banater Schwaben".[1] Ihr Werk leiste einen "Beitrag zum besseren Verständnis des Schicksals und Daseins unserer Gemeinschaft", schreibt die ebenfalls "rumäniendeutsche" "Siebenbürgische Zeitung".[2] Die Nobelpreis-Vergabe mache "deutlich, wie wertvoll das kulturelle Erbe der Deutschen aus dem Osten ist", erklärt die Präsidentin des Bundes der Vertriebenen (BdV), Erika Steinbach: "Es gilt, dieses Erbe zu bewahren und weiterhin zu fördern."[3]

"Vertriebenen"-Projekt

In der Tat befördert das Nobelpreis-Komitee mit der Vergabe der Auszeichnung an Herta Müller die politischen Anliegen der Berliner "Deutschtums"-Organisationen. So hat der BdV, dessen letztes großes Vorhaben, das "Zentrum gegen Vertreibungen", derzeit unter staatlicher Mitwirkung in Berlin verwirklicht wird [4], erst kürzlich ein neues Projekt gestartet: eine Ausstellung ("Die Gerufenen" [5]), welche die Geschichte des "Deutschtums" in Ost- und Südosteuropa thematisiert. Sie behandelt sämtliche europäischen Gebiete außerhalb des ehemaligen Deutschen Reichs, in denen sich deutschsprachige Siedler in erheblichem Umfang niederließen. Dazu gehören Teile Rumäniens, etwa auch die Region, in der Herta Müller ihre ersten 34 Lebensjahre verbrachte; sie hat ihr bedeutende Teile ihrer literarischen Arbeit gewidmet. Mit dem jüngsten Ausstellungsprojekt versucht der BdV den deutschsprachigen Minderheiten Ost- und Südosteuropas eine größere öffentliche Aufmerksamkeit zu verschaffen.

Scheinbar

Eine Publizität, wie sie der BdV für das östliche "Deutschtum" wohl kaum hätte herstellen können, hat das Nobelpreis-Komitee den Absichten der deutschen Minderheitenpolitik scheinbar unerwartet verschafft. An der unvermittelten Nobelpreis-Entscheidung sind jedoch Zweifel angebracht. Zumindest in der Vergangenheit stand das Komitee mit ausländischen Interessenten in Verbindung, die bestimmte Kandidaten andienten und andere aus Gründen der politischen Außenwirkung verhindern wollten. So rühmt sich eine Kulturabteilung der CIA, über den Sekretär des Nobelpreiskomitees die Auszeichnung des chilenischen Poeten Pablo Neruda verhindert zu haben. Für diese Lobby-Tätigkeit floss Geld, heißt es in den CIA-Dokumenten, die von der englischen Autorin Frances Stonor Saunders 1999 veröffentlicht wurden.[6]

Deutsch oder rumänisch?

Seit die Preisvergabe in Stockholm bekannt wurde, entdecken die Massenmedien innerhalb und außerhalb Deutschlands das westrumänische Banat und die dortige deutschsprachige Minderheit. Berichte über die deutschsprachige Nikolaus-Lenau-Schule in Timişoara ("Temeschburg"), deren Schülerin Herta Müller war, werden um Reportagen über die Minderheit im Banat und ihre gesellschaftlichen Besonderheiten ergänzt. Spekulationen, ob Herta Müller eine "deutsche" oder eine "rumänische Schriftstellerin" sei, werden ebenso laut wie die Frage, ob "die Diskussion über den Status der Siebenbürger Sachsen oder Banater Schwaben nochmals aufleben" werde.[7] Die deutschsprachigen Bürger Rumäniens besitzen bereits jetzt einen anerkannten Minderheitenstatus; allerdings werden von völkischen "Deutschtums"-Organisationen gelegentlich weiterreichende Forderungen thematisiert.[8]

"Deutschtums"-Inseln

Die "Deutschtums"-Inseln in Ost- und Südosteuropa genießen seit je die besondere Aufmerksamkeit der Berliner Außenpolitik. Deutsche Politiker und Unternehmer knüpfen bevorzugt an die Sprachkenntnisse sowie die verbreitete "Deutschtums"-Loyalität der dortigen Minderheiten an und nutzen deren Angehörige als Einflussagenten. Zu einer prominenten Anlaufstelle deutscher Interessenten hat sich dabei etwa das rumänische Sibiu ("Hermannstadt") entwickelt, wo eine Organisation der deutschsprachigen Minderheit ("Demokratisches Forum der Deutschen in Rumänien", DFDR) sogar den Bürgermeister stellt. Die Stadt profitiert nicht nur von Fördergeldern für die deutschsprachige Minderheit Rumäniens, sondern auch von "Entwicklungshilfe": Ende der 1990er Jahre hat die Gesellschaft für Technische Zusammenarbeit (GTZ) im Auftrag des deutschen Entwicklungsministeriums mit der Renovierung der Altstadt von Sibiu begonnen. Es gebe dort "mittelalterliche Architektur, die eher deutsch anmutet", heißt es in Medienberichten unter Anspielung auf die Gründung der Stadt durch deutschsprachige Siedler vor rund 800 Jahren.[9] Neben den GTZ-Investitionen haben vor allem Unternehmen aus Deutschland der Stadt in den vergangenen zehn Jahren einen beträchtlichen Aufschwung ermöglicht. "Es ist nun mal ein Unterschied, ob man für das Gespräch mit dem Vorarbeiter einen Dolmetscher braucht oder sich mit ihm direkt unterhalten kann", erklärt der deutschsprachige Bürgermeister über die Vorteile, die die deutsche Industrie (Siemens, ThyssenKrupp, Continental und andere produzieren in der Nähe von Sibiu) bei ihrer Expansion in die Billiglohnländer Südosteuropas aus der deutschsprachigen Minderheit zieht.[10]

Nationaler Stolz

Kritische Stimmen zu den politischen Folgen der Preisvergabe sind in der Bundesrepublik kaum zu finden. Kritisieren US-Medien - auch diejenigen, die der gegenwärtigen Administration nahe stehen - die Vergabe des Friedens-Nobelpreises an US-Präsident Barack Obama als ein allzu billiges Andienen, herrscht in der deutschen Öffentlichkeit Stolz auf die Auszeichnung. Die "Deutschtums"-PR, die das Nobelpreis-Komitee Berlin mit der Preisvergabe gratis verschafft, stößt durchweg auf Zustimmung. Kritik wird hingegen in osteuropäischen Ländern laut, die von "Deutschtums"-Interventionen besonders betroffen sind, so etwa in Polen. Wie die angesehene polnische Tageszeitung Rzeczpospolita schreibt, werden sich über den jüngsten Literatur-Nobelpreis "nicht nur Antikommunisten und Opfer kommunistischer Verfolgung" freuen, "sondern auch Funktionäre des Vertriebenenbundes".[11]

[1] Nobelpreis für Literatur an Herta Müller; www.banater-schwaben.de
[2] Literaturnobelpreis für Herta Müller; www.siebenbuerger.de 08.10.2009
[3] Gratulation zum Nobelpreis für Literatur; Pressemitteilung des Bundes der Vertriebenen 09.10.2009
[4] s. dazu Bundestag: Mehrheit für "Zentrum gegen Vertreibung"Die Perspektive der TäterRevisionsoffensive und 60 Jahre Aggressionen
[5] s. dazu Die deutsche Ostsiedlung
[6] Frances Stonor Saunders: Who Paid the Piper? The CIA and the Cultural Cold War, London 1999
[7] Herta Müller ist eine deutsche Schriftstellerin; Frankfurter Allgemeine Zeitung 10.10.2009
[8] s. auch Beziehungen pflegenSchwelende Konflikte und Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen
[9] Tritt auf die Verkehrsbremse; Akzente 01/2005
[10] s. dazu Übernahme und Die deutsche Ostsiedlung
[11] "Die Feministinnen freuen sich"; Spiegel Online 09.10.2009





VERSO IL 4 NOVEMBRE ANTIMILITARISTA:

1) Missioni di guerra e produzioni di morte. Investimenti bipartisan / Ministro La Russa si vergogni!
Comunicati della Rete nazionale Disarmiamoli!

2) MERCOLEDI 4 NOVEMBRE GIORNATA DI  MOBILITAZIONE NAZIONALE.
Comunicato del Patto Permanente contro la Guerra + Appuntamento a Trieste


=== 1 ===

Missioni di guerra e produzioni di morte. Investimenti bipartisan.

Il 28 ottobre il governo Berlusconi vara, con provvedimento d’urgenza, il rifinanziamento delle operazioni di guerra all’estero, chiamate eufemisticamente “interventi di cooperazione allo sviluppo dei processi di pace”

Il 29 ottobre La FIOM di Torino lancia un allarme tutt’altro che antimilitarista e pacifista.

Nel silenzio più assoluto delle opposizioni presenti in Parlamento, il Governo ha dato il via libera al rifinanziamento delle missioni militari togliendo altri 225 milioni di euro dalle disastrate casse dello Stato, mentre – per fare solo due esempi - in due anni il taglio del Fondo Nazionale Politiche Sociali è stato del 50%: dai 953 milioni di euro del 2007 ai 517 di oggi.
Il Fondo nazionale per la non Autosufficienza è stato abolito: 400 milioni risparmiati sulla pelle di portatori di handicap gravi, malati terminali, diversamente abili.

In questa situazione dalle pagine economiche de “La Repubblica” di venerdì 30/10 leggiamo le preoccupazioni di Giorgio Airaudo, segretario della FIOM di Torino, a causa delle mancate commesse all’ALENIA di Caselle (To) per la costruzione di componenti del famigerato F-35 Jsf.
L’operazione politico/imprenditoriale sarebbe quella di costruire il “quarto polo” dell’aeronautica nel varesotto, attorno all’Aermacchi. Cameri (provincia di Novara) diverrebbe il centro produttivo di questo polo, per volontà della cordata PdL /Lega lombarda. A discapito della zona industriale torinese.
“Nessuno mette in discussione Cameri – sostiene Airaudo nell’intervista – ma ai sindacati si era promessa una cosa diversa: costruzione e riempimento ala (dell’F-35 Jsf n.d.r ) nello stabilimento di Caselle, allestimento a Cameri (Novara). Ora quest’impegno sembra venir meno per pressioni politiche”.

Così, mentre le truppe professionali sono lautamente stipendiate dal contribuente italiano per occupare e devastare paesi come l’Afghanistan, per i lavoratori italiani la FIOM difende posti di lavoro nelle aziende che producono armi di distruzione di massa.
Gettate alle ortiche ogni ipotesi di critica e superamento dell’attuale sistema di sviluppo, il più grande sindacato dei metalmeccanici difende l’occupazione a prescindere da ciò che si produce, anche bombardieri nucleari di ultima generazione, come in questo caso.

Il cerchio si chiude, facendo emergere il contesto entro il quale si concretizza quotidianamente le famigerate politiche bipartisan, funzionali sino ad oggi solo ad aprire la strada ad una destra tra le più reazionarie del mondo.

Mercoledì 4 novembre il movimento contro la guerra scenderà in piazza in tutta Italia contro le vergognose parate militari che osanneranno le forze armate, trasformatesi in truppe di mercenari al servizio degli interessi delle grandi aziende italiane e delle politiche aggressive e guerrafondaie della NATO e degli USA.

Nessun finanziamento, nessuna arma per questo esercito.

 
Occorre ritirare immediatamente le truppe da tutti i paesi occupati, stornare i milioni di euro verso le fasce sociali colpite dalla crisi, riconvertire le fabbriche di morte in luoghi di produzione di benessere sociale, ricchezza collettiva, per una società emancipata dalle guerre di rapina.

La Rete nazionale Disarmiamoli!
www.disarmiamoli.org  3381028120 - 3384014989

---

Ministro La Russa si vergogni!
Il 4 novembre in piazza ma per il ritiro dei militari italiani dall'Afghanistan
 
comunicato stampa
 
Riteniamo vergognosa e ingannevole la proposta avanzata dal Ministro della Difesa La Russa di introdurre per la seconda domenica di novembre una Giornata dedicata ai "Caduti nelle missioni di pace".
La riteniamo vergognosa perchè in un paese come l'Italia muoiono ogni anno centinaia di lavoratori e operai sul lavoro e nessuno ha mai proposto nè misure concrete per impedire questa strage nè di dedicargli una giornata di celebrazione;
la riteniamo vergonosa perchè la guerra sul lavoro miete molte più vittime della guerra guerreggiata in cui i governi spediscono i militari italiani;
la riteniamo vergognosa perchè il Ministero della Difesa ha sistematicamente misconosciuto la causa di servizio per i militari italiani impegnati in missioni all'estero e deceduti a causa dell'uranio impoverito.
La riteniamo infine ingannevole perchè ormai sia l'opinione pubblica che gli Stati Maggiori, sanno benissimo che missioni come quella in Afghanistan non possono essere mascherate da missioni di pace ma sono a tutti gli effetti operazioni di guerra.
Continuare a nascondere questa realtà alla gente e continuare a mistificare sui termini è un inganno che non può essere più tollerato.
La maggioranza della popolazione italiana, così come quella statunitense e britannica, vuole il ritiro dei militari dall'Afghanistan e la destinazione delle risorse per le spese militari a interventi assai più urgenti sul piano sociale, del sostegno al reddito, al lavoro, ai servizi pubblici. Anche per questo il 4 novembre, giornata delle Forze Armate, il Patto contro la Guerra, sarà in piazza in diverse città italiane per protestare contro la prosecuzione della guerra in Afghanistan, per il ritiro delle truppe italiane, per il taglio delle spese militari e la loro destinazione alle spese sociali.
 
Il Patto contro la Guerra
(vi aderiscono la Rete Disarmiamoli, Rete Semprecontrolaguerr a, Cobas, Sinistra Critica, Rete dei Comunisti, Partito Comunista dei Lavoratori ed altre associazioni)


=== 2 ===

COMUNICATO STAMPA
del Patto Permanente contro la Guerra
 
 
MERCOLEDI 4 NOVEMBRE GIORNATA DI  MOBILITAZIONE NAZIONALE CONTRO  LA GUERRA , PER IL RITIRO DELLE TRUPPE DALL’AFGHANISTAN E IL TAGLIO DELLE SPESE MILITARI.
 Manifestazioni si svolgeranno a Vicenza, Novara, Bologna, Genova, Firenze, Pisa, Livorno, Colleferro, Catania, Napoli.
 
A ROMA, ALLE ORE 15.00 MANIFESTAZIONE A PIAZZA NAVONA
   
Il consiglio dei ministri ha appena votato il rifinanziamento delle missioni militari all’estero compresa quella dell’Afghanistan, e il ministro della guerra  La Russa  prevede che le truppe italiane resteranno in Afghanistan per altri 5 anni.
A otto anni dall’inizio dei bombardamenti su Kabul, la resistenza all’occupazione si è notevolmente rafforzata mettendo in crisi gli obiettivi politici e militari della Nato e delle potenze occidentali alleate degli Usa. Le recenti elezioni presidenziali si sono rivelate una farsa con un milione di schede annullate su 5 milioni di votanti,  e la commedia del voto continuerà con il ballottaggio tra Karzai e Abdullah fissato per il 7 novembre prossimo.
Intanto sono circa 40.000 i morti civili che nessuno commemora, e dal 2001 ad oggi c’è stata una progressiva crescita, anno dopo anno, dei soldati stranieri morti.
Nell’opinione pubblica internazionale è cresciuta la convinzione che la cosa giusta da fare è porre fine alla guerra.
 
SMENTIAMO  LA PREVISIONE  DEL  MINISTRO DELLA GUERRA  LA RUSSA !
 
Il 4 Novembre – festa delle forze armate e della retorica militarista – giornata di mobilitazione nazionale per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, il taglio delle spese militari, per rendere omaggio alle centinaia di migliaia di civili ignoti morti in Afghanistan, Iraq, Palestina.
 
Patto Permanente contro la Guerra
info: Roberto Luchetti (3381028120) ; Nella Ginatempo (3772110687)


--- TRIESTE ---

Raccogliendo l'appello della rete "Disarmiamoli!" anche a Trieste ci troveremo dalle ore 16 in via delle Torri per dimostrare la nostra contrarietà alle missioni di guerra ed alla retorica militarista della "giornata delle Forze armate".
Claudia Cernigoi
Trieste
(la manifestazione è organizzata da un Coordinamento nato a questo scopo e che vede l'adesione di varie organizzazioni e di singoli antimilitaristi).




(english / italiano)

D'ALEMA CREPA D'INVIDIA


Bill Clinton sarà domani, domenica 1 Novembre, a Priština - capitale del protettorato NATO del Kosovo - per presenziare alla inaugurazione del monumento a lui dedicato nella via che già porta da anni il suo nome. Il leader del revanscismo nazionalista pan-albanese, Hashim Thaci detto "il serpente" (nome di battaglia conferitogli dai suoi commilitoni della organizzazione terroristica UCK: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/msearch?query=serpente&submit=Cerca&charset=ISO-8859-1 ) garantisce una accoglienza "strepitosa" ("magnificent"). Il "serpente" ha colto l'occasione per esprimere la sua gratitudine verso tutti i presidenti USA, che, indistintamente, appoggiano la creazione di una Grande Albania nei Balcani, sul modello nazista, allo scopo di destabilizzare cronicamente l'Europa. 
D'Alema, che non parteciperà ai festeggiamenti, si rode dall'invidia. 
(a cura di Italo Slavo)


http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2009&mm=10&dd=29&nav_id=62685

Beta News Agency - October 29, 2009

Bill Clinton expected in Pristina 

Bill Clinton, the statue, is seen in Priština 

PRISTINA: Former U.S. President Bill Clinton will arrive in Kosovo on Sunday, says Hashim Thaci.
The Kosovo Albanian premier explained that Clinton will attend the unveiling of a statue of himself.
The statue has been placed on a Pristina boulevard that has also been named after the former American president. 
Thaci added that Clinton would be arriving in Kosovo at his invitation, and promised the former U.S. leader would be met with a "magnificent welcome". 
Thaci also invited the citizens to "appear en masse at the Bill Clinton Square". 
Clinton is "always welcome in Kosovo because this is a person who has done a lot for Kosovo globally, for its freedom and democracy in the world," Thaci was quoted. 
He also express his gratitude "to all American governments to date" for their "support to Kosovo". 
Bill Clinton was the president when his country led the NATO attacks against Serbia over the conflict in Kosovo in 1999. 


Il giorno 12/ott/09, alle ore 11:35, Coord. Naz. per la Jugoslavia ha scritto:


BIRN

Kosovo : bientôt une statue de Bill Clinton à Pristina

Traduit par Jacqueline Dérens
Mise en ligne : samedi 26 septembre 2009

Pristina possédait déjà un boulevard Bill Clinton, orné d’un immense portrait de l’ancien Président américain... Une association privée a entrepris d’édifier une statue en bronze du grand homme, en signe de « remerciement » pour l’engagement des USA. L’américanophile demeure toujours très forte chez les Albanais du Kosovo.

Par Shepa A.Mula


Agim Rexhepi, responsable de l’association « Les Amis des USA », qui a déjà été à l’initiative de plusieurs événements visant à remercier les USA pour leur soutien au Kosovo, explique que la statue va bientôt être installée sur le Boulevard Bill Clinton à Pristina : « Nous voulons montrer que nous sommes capables d’organiser et de coordonnera la tenue d’un événement de cette importance en coopération avec la société civile et les institutions gouvernementales ».


Bill Clinton est considéré comme un héros par les Albanais du Kosovo après avoir apporté son soutien à l’intervention de l’Otan en 1999.

Agim Rexhepi a expliqué que l’idée de faire une statue de Bill Clinton était venue du sculpteur Izeir Mustafa, dès la fin du conflit. Une banque commerciale lui a fourni l’aide financière nécessaire.

Après plusieurs vaines tentatives pour obtenir la permission d’ériger la statue dans la ville, Izir Mustafa s’est rapproché des Amis des USA. Cette démarche a été accueillie à bras ouverts et le projet est devenu la priorité de l’association. « Nous avons décidé de l’aider parce qu’il était très découragé et nous avons pu nous assurer de l’emplacement de la statue », explique Agim Rexhepi.

En 2007, les Amis des USA ont obtenu l’autorisation de la municipalité de Pristina d’utiliser le terrain qui se trouvait sous une grande affiche portant le portrait de Bill Clinton suspendue à un immeuble sur le Boulevard Bill Clinton.

Après avoir obtenu le soutien de la municipalité et du gouvernement, il a encore fallu batailler pour venir à bout du projet, précise Agim Rexhepi qui affirme que le projet est maintenant dans sa phase finale.

« Le gouvernement nous a donné 30.000 euros pour le financement de l’inauguration qui sera un grand événement à cause de tout ce que Bill Clinton a fait pour nous ». Agim Rexhepi aurait même reçu des signaux positifs de l’entourage de l’ancien président des USA sur une possible présence de Bill Clinton à l’inauguration.

« Il a reçu une invitation officielle du gouvernement et, encore plus important, une invitation du peuple du Kosovo qui n’oubliera jamais ce qu’il fait pour nous ».

La date officielle pour l’inauguration n’est pas encore annoncée car Bill Clinton doit confirmer sa venue à Pristina, mais Agim Rexhepi espère que la cérémonie pourra avoir lieu prochainement.

La statue fait six mètres de haut avec son socle. Bill Clinton tient dans ses mains le document du 24 mai 1999, qui autorise l’entrée des troupes américaines au Kosovo.

Pour le moment, la statue se trouve encore à Tirana où on lui applique un revêtement de bronze.

Le terrain autour de la statue sera transformé en square avec des arbustes et des bancs pour les promeneurs.