Informazione


GREATER THAN SKANDERBEG

(Dopo la statua di Clinton a Pristina - vedi: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6575 , http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6561 -, è prevista a breve l'erezione di una grande statua al criminale di guerra George W. Bush nella città albanese di Fushe-Kruje)

http://www.reuters.com/article/lifestyleMolt/idUSTRE5AJ3YZ20091120

Reuters - November 21, 2009

Albanian town plans statue of Bush


TIRANA: The small Albanian town of Fushe-Kruje plans to erect a statue of former U.S. President George W. Bush to commemorate his June 2007 visit, when he was feted as a hero in an outpouring of love for America.

Mayor Ismet Mavriqi said seven Albanian sculptors had entered the competition for the statue he plans to unveil in Bush Square in the town center on June 10, 2010, the third anniversary of Bush's visit.

"If had the final say, I would very much like a three-meter statue, probably in bronze, that captures his trademark way of walking with energy," Mavriqi told Reuters on the phone.

The municipality has already finished the blueprints for rebuilding the square where the statue will stand, he added.

A cafe in Fushe-Kruje and a street in the capital Tirana are already named after Bush.

When Bush visited Fushe-Kruje, he dived into a throng of waiting Albanians and enjoyed a rock-star reception - a stark contrast with the noisy protests that dogged him elsewhere on that European trip.

The bakery and the cafe where Bush stopped to talk with the owners and a barber, a shepherd and a tailor whose businesses were funded by U.S. micro-loans, have become landmarks visited by Albanians, ethnic Albanians from Kosovo and foreigners.

Albanians have a special affection for the United States, which they credit not only with ending their Cold War isolation but also with leading NATO in 1999 [to wage war against Yugoslavia].

Kosovo, which declared independence from Serbia last year, set up a giant statue of former U.S. president Bill Clinton to thank him for his role in NATO's 1999 air war.

Bush, on the first U.S. presidential visit to post-communist Albania, backed independence for Kosovo and urged Kosovo Albanians to be patient. 

The United States was one of the first countries to recognize Kosovo's independence.




Il resoconto del viaggio di solidarietà a Kragujevac, qui riportato, si può scaricare anche nella versione completa (formato Word) corredata di fotografie alla URL: https://www.cnj.it/AMICIZIA/Relaz1009.doc 
Anche le precedenti relazioni di Zastava Trieste / Non Bombe ma solo Caramelle - Onlus si possono scaricare alla URL: https://www.cnj.it/solidarieta.htm#nonbombe

AGGIORNAMENTI IMPORTANTI:

Una delegazione dei lavoratori Zastava sarà a Brescia e a Trieste per informarci sulla situazione REALE della fabbrica, della città di Kragujevac e più in generale sulle REALI condizioni della Serbia.
I giorni 8 e 9 dicembre saranno a Brescia, mentre il 10 e 11 dicembre saranno a Trieste. Seguiranno dettagli.

Il 14 settembre scorso è scoppiato un incendio alla linea di montaggio della Punto, nello stabilimento Zastava di Kragujevac, per un danno complessivo di circa 1 mlione di euro. 



Da: gilberto.vlaic   @... 
Oggetto: Relazione ultimo viaggio a Kragujevac ottobre 2009
Data: 20 novembre 2009 12:47:26 GMT+01:00

RITORNO DALLA  ZASTAVA DI KRAGUJEVAC
Viaggio del 22 - 25 ottobre 2009


Questa relazione e’ suddivisa in quattro parti.

1 Introduzione e siti web
2 Cronaca del viaggio; i progetti in corso 
3 Alcune informazioni sulla Serbia e sulla Zastava
4 Conclusioni


1.  Introduzione 

Vi inviamo la relazione del viaggio svolto circa un mese fa a Kragujevac per la consegna delle adozioni a distanza che fanno capo alla ONLUS Non Bombe ma solo Caramelle e al Coordinamento Nazionale RSU CGIL e per la verifica dei progetti in corso a Kragujevac.

Il nostro sito e’ all’indirizzo
CHE FINALMENTE E’ AGGIORNATO!!! (grazie a Massimiliano)

Sul sito del coordinamento RSU trovate tutte le notizie sulle nostre iniziative a partire dal 1999
Trovate tutte le informazioni seguendo il link 

I nostri resoconti sono presenti anche sul sito del Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia, all'indirizzo:

Molti dei progetti che abbiamo in corso a Kragujevac sono realizzati in collaborazione con altre associazioni: Zastava Brescia, ABC solidarieta’ e pace di Roma, Fabio Sormanni di Milano, e Cooperazione Odontoiatrica Internazionale.
Questi sono gli indirizzi dei loro siti:

Consiglio inoltre di visitare il blog di Alessandro Di Meo, di Un ponte per... di Roma, con il quale e’ iniziata una concreta collaborazione che senz’altro andra’ avanti nel tempo:


2. Cronaca del viaggio; i progetti in corso 

E’ stato un viaggio in due tempi, perche’ Gilberto e’ partito il 20 di ottobre, in modo da poter partecipare alle cerimonie in ricordo della strage nazista del 21 ottobre 1941, della quale abbiamo parlato piu’ e piu’ volte.
Il resto della delegazione e’ partita il 22 mattina con il solito pullmino prestato dalla Associazione di Solidarieta’ Internazionale Triestina: Gino da Montereale V., Giuliano, Marvida e Olga da Trieste, Stefano da Fiumicello e Francesco da Napoli. Sul furgone la solita decina di scatoloni per altrettante famiglie di Kragujevac da parte dei donatori italiani, pannoloni per adulti e le immancabili medicine per il presidio medico della Zastava; questa volta anche una significativa quantita’ di strumentazione medica di base, fornita da Francesco.
Verso le 7 di sera di sera del 22 ci siamo ritrovati tutti alla sede del Sindacato Samostanli; con noi anche una delegazione di Zastava Brescia, formata da Amneris, Bruno, Maurizio e Riccardo.
Dopo i soliti calorosissimi saluti abbiamo preparato il piu’ velocemente possibile le buste contenenti gli affidi da distribuire, verificati tutti gli appuntamenti dei due giorni successivi e finalmente, per una volta neppure troppo tardi, una eccellente cena serba con i nostri amici del Sindacato Samostalni e infine meritato riposo in un albergo in centro citta’.
Ma proseguiamo con ordine e torniamo al 21 ottobre.

21 ottobre mattina: commemorazione della strage del 1941 
E’ una bellissima giornata di sole, un po’ fresca. Insieme a un folto numero di rappresentanti di citta’ europee sono invitato dal Comune a prendere parte alle celebrazioni, al Parco della Memoria di Sumarice che ricorda una delle piu’ efferate rappresaglie naziste, che vide la fucilazione di 7300 persone.
Tra il 14 e il 19 ottobre 1941 vi furono nei dintorni della citta’ durissimi scontri tra soldati tedeschi e partigiani, durante i quali vi furono dieci morti e ventisei feriti tra le truppe occupanti.
Le agghiaccianti regole di rappresaglia imponevano il rapporto di 100 fucilati per ogni tedesco morto e 50 per ogni ferito. In realta’ tra il 19 e il 21 ottobre furono fucilate 7300 persone, quasi tutti maschi, rastrellati in tutta la citta’ e nei villaggi contadini circostanti; trovarono la morte anche gli studenti e i professori del Ginnasio, prelevati direttamente dalle aule. E furono poi uccisi anche i piccoli rom della citta’ che facevano tradizionalmente i lustrascarpe, perche’ rifiutarono di pulire gli stivali dei fucilatori.
I fucilati vennero gettati in trentatre fosse comuni, disseminate in 380 ettari di terra che oggi costituiscono il Parco della Rimembranza. Nel territorio del Parco sono stati eretti molti monumenti, il piu’ imponente dei quali ricorda gli studenti del Ginnasio ed e’ chiamato le Ali Spezzate.

Potete trovare un documentazione molto completa su questo argomento al seguente indirizzo:
dove e’ riportata anche in Serbo e in due versioni italiane la poesia ‘’Fiaba sanguigna’’ di Desanka Maksomovic scritto a ricordo degli studenti uccisi.
Ho visitato questo parco decine di volte, con tutte le delegazioni che si sono succedute in questi anni, sotto tutti i climi ma sempre con pochissime persone presenti, dominato dal silenzio.
Oggi invece la collina che sovrasta il monumento delle Ali Spezzate, e’ invasa di persone come pure tutti i prati intorno; sono persone di tutte le eta’, e moltissimi sono i giovani. 
Dopo una lunga cerimonia religiosa segue una deposizione di corone di fiori da parte di moltissime delegazioni e associazioni; quest’anno c’e’ pure la nostra corona. Io non riesco a portarla e cosi’ due ragazzi, Milenka e Luka, mi aiutano, ed e’ una cosa stupenda, sono felici e allegri, molto presi da questo gesto simbolico, mi parlano fitto fitto, un po’ in Inglese e molto in Serbo, mi dicono di avere dodici e undici anni, capisco quasi nulla ma non importa, e’ un altro piccolo ponte di amicizia che si getta. Spero di rivederli, prima o poi.

[FOTO: Milenka, Luka e Gilberto; Parte delle corone deposte, sullo sfondo le Ali Spezzate]

Sono rimasto molto perplesso, invece, al pranzo offerto dal Comune a tutte le delegazioni provenienti dall’estero. A tavola ero insieme a due Consiglieri comunali di Carrara, citta’ gemellata da molti anni con Kragujevac; brave persone, che avevano partecipato a questa manifestazione gia’ altre volte; la loro conoscenza della realta’ cittadina si limita pero’ agli incontri ufficiali, non sono pressoche’ mai venuti in contatto con la realta’ della popolazione, delle fabbriche chiuse e dei lavoratori licenziati e non hanno alcuna conoscenza delle campagne di solidarieta’ in atto ormai da tanti anni, anche a partire dalla loro citta’.
E cosi’ suppongo che sia stato per tutte le numerose citta’ presenti...

21 ottobre pomeriggio: inaugurazione della mediateca della Scuola Politecnica
Forse ricorderete che nella relazione di luglio scorso avevamo descritto la visita ad un’aula, piuttosto grande e in brutte condizioni, che la Scuola voleva destinare a mediateca di Italiano utilizzando il denaro avanzato sul progetto del Centro giovanile inaugurato a ottobre 2008 (residuo 4250 euro) a cui si aggiungeva e una donazione di 9000 euro proveniente dal Comune di Rho. Il Preside aveva sostenuto che i locali si sarebbero inaugurati a ottobre e cosi’ e’ stato!
E’ una cerimomia molto festosa, con la presenza di numerose Scuole Tecniche provenienti da Serbia, Bosnia, Slovenia, Macedonia, Repubblica Ceca e Germania, gemellate oon Kragujevac. Mancano solo gli studenti di Rho. Alcuni studenti della Scuola Politecnica  leggono in Italiano un brano tratto dal libro di Giacomo Scotti ‘’Kragujevac, la citta’ fucilata’’ a cui segue poi la lettura della traduzione in Serbo.
Poi rappresentanti di tutte le Scuole presenti illustrano le loro  realta’.
La sala lascia veramente a bocca aperta per come e’ stata realizzata, ogni cosa e’ stata scelta con estrema cura; e’ dominata da una splendida lavagna interattiva.
Meraviglia veramente come con una cifra tutto sommato modesta si sia potuto realizzare tanto (pareti, impianto elettrico, pavimento, mobili ed arredi).
Il Preside ci consegnera’ poi il 23 ottobre (durante la visita delle nostre delegazioni) copia delle ricevute delle spese effettuate. Le foto che seguono sono state scattate il 23 ottobre, e dunque non durante la inaugurazione ‘’ufficiale’’ ma durante la successiva visita delle nostre delegazioni.
Per questo non sono presenti gli studenti delle Scuole gemellate.

[FOTO: La sala come era a luglio; il pavimento non e’ chiaramente visibile ma e’ totalmente da rifare; La targa all’ingresso dell’aula; Una vista della sala; Altra vista con la lavagna interattiva sullo sfondo]

2 ottobre mattino: visita al possibile centro culturale di Desimirovac
Desimirovac dista 8 km da Kragujevac e si trova sulla strada magistrale Kragujevac-Topola-Belgrado. Ha circa 1.500 abitanti ed è uno dei villaggi più grandi del territorio. 
Gli abitanti sono essenzialmente agricoltori e allevatori di bestiame; negli ultimi anni la popolazione e' aumentata per l'arrivo di parecchi profughi.

Nel villaggio si trova la scuola elementare «Sreten Mladenovic» frequentata da circa 300 alunni. Alla scuola fanno capo anche le scuole primarie, quasi tutte di quattro anni, dei piccoli centri vicini, (Luznice, Pajazitovo, Cerovac, Gornje Jarusice, Resnik, Novi Milanovac e Opornica) per un totale di ulteriori 300 alunni.
Desimirovac aveva un Centro culturale, costruito nel 1936 con i finanziamenti dei suoi cittadini, che pero' e' abbandonato da circa 30 anni.
Si tratta di un edificio dalle dimensioni considerevoli, in un brutto stato di conservazione, con una superficie coperta totale di circa di 800 metri quadrati raddoppiabili.
Gli abitanti vorrebbero rimetterlo in funzione, creando molti spazi usufruibili da tutti, prima di tutto una palestra per gli alunni delle scuole, e poi un centro sociale, affinchè i giovani di questa periferia possano disporre, vicino a casa loro, di un luogo dove trovarsi per sviluppare i loro interessi e trascorrere i loro momenti di svago, e poi spazi per esibizioni ecc.
E' un bel progetto, assai ambizioso MA con costi impossibili da sostenere per associazioni come la nostra. Vedremo comunque se potremo in qualche modo contribuire alla sua relizzazione.

[FOTO: Due viste parziali di Desimirovac, esterna ed interna]

22 ottobre pomeriggio: visita alla Scuola Primaria 21 ottobre.
Non e’ un gioco di parole o un errore di battitura.
La Scuola primaria 21 ottobre (corrispondente alle nostre elementari piu’ medie) e’ l’unica di Kragujevac a prevedere l’insegnamento della lingua italiana; a marzo scorso il Direttore della scuola e l’insegnante di lingua italiana ci avevano scritto chiedendoci di aiutarli nel trovare una scuola della nostra regione con cui potere realizzare un gemellaggio.
Le Scuole elementari e medie del Comune di San Dorligo della Valle hanno risposto con entiusiasmo a questa richiesta, e cosi’ insieme a Rajka sono andato nel pomeriggio del 22 a consegnare la lettera di adesione al progetto.
Ho passato due piacevolissime ore con un gruppo di alunni, che mi hanno letteralmente subbissato di domande su Trieste, sui ragazzi italiani, su quando potranno incontrarli... sono allegrissimi e pieni di aspettative.
C’e comunque sempre una certa tristezza ad incontrare ragazzi di questa eta’; avevano due-tre anni nel marzo del 1999, quando il loro Paese fu bombardato dalla NATO, il loro futuro spazzato via dalla ‘’ingerenza umanitaria’’; hanno sempre vissuto in un Paese isolato dal resto del mondo in ristrettezze economiche continue. E’ per loro che dobbiamo continuare ad agire, perche’ i ponti di solidarieta’ creati in tutti questi anni continuino a dare i loro frutti.

22 ottobre sera: ci ritroviamo tutti al Sindacato, la delegazione di Brescia e quella di Trieste. Prepariamo le buste con le quote di affido e stabiliamo le cose da fare nei due giorni successivi, che saranno pienissimi.


23 ottobre

La giornata inizia prestissimo, verso le sette, perche’ ci sara’ un presidio ai cancelli della Zastava Auto, durante il quale il Sindacato illustrera’ ai lavoratori le ultime novita’ sulla infinita vicenda della Fiat(che riportero’ in fondo a questa relazione). Siamo invitati a prendervi parte; il personale della sicurezza (specie quello Italiano, direttamente dipendente dalla Fiat) non e’ molto felice per la nostra presenza, ma non puo’ opporsi, almeno una volta i lavoratori sono piu’ forti e cosi’ superiamo insieme a loro i cancelli dello stabilimento. 
Ci sono moltissimi operai che conoscsciamo da molti anni. Ci accolgono molto calorosamente, apprezzano molto la nostra presenza, si sentono meno soli in questo continuo scontro.

[FOTO: Davanti alla direzione della Zastava Auto]

Il programma prevede poi la visita della Mediateca di Italiano realizzata alla Scuola Politecnica, di cui abbiamo riferito diffusamente all’inizio di questa relazione.
Con questa Scuola abbiamo realizzato importanti progetti da cinque anni a questa parte; molti della delegazione non hanno mai visitato questi locali e cosi’ visitiamo anche la mensa per gli studenti (costruita nel 2005) lo studio dentistico (foto nella relazione di luglio scorso), il grande spazio per i giovani realizzato nel seminterrato, dove sta provando alcuni balli tradizionali il gruppo folk della scuola, guidato dalla infaticabile professoressa di Matematica Jasmina.
Nel seminterrato, nello spazio dedicato al tennis tavolo ping-pong, c’e il ping-pong appartenuto a Simone, un ragazzo di Brescia vittima di un tragico incidente stradale lo scorso luglio. Sua madre ha voluto perpetuarne il ricordo donando tutti i suoi giochi alla Scuola, ed è bello scoprire con quanta delicatezza la scuola ha dedicato questa sala a Simone, inaugurandola con un torneo dedicato alla sua memoria. Al centro della parete più lunga, visibili da qualunque posizione, campeggiano sotto vetro le racchette di Simone: il messaggio che trasmettono è che si può cambiare il segno del proprio dolore, trasformandolo in speranza per altri.
Anche in questo viaggio la mamma di Simone ha inviato una sottoscrizione alla Scuola.

[FOTO: Uno scorcio della mensa degli studenti ; Il gruppo di ballo popolare durante le prove; Lo spazio del tennis tavolo; Le racchette di Simone]

E infine visita alla Scuola Jovan Popovic dove abbiamo ricostruito un’aula per i bambini in età pre-scolare, mediante l’abbattimento delle pareti interne di un’ala della Scuola, rifacendo gli infissi e l’impianto elettrico. Manca ancora il ripristino dei pavimenti, per una spesa di circa 3000 euro (le foto sono nelle relazioni di ottobre 2008 e aprile 2009).
I bambini ci accolgono con uno spettacolino, e con enormi vassoi di buonissimi dolci preparati dalle loro madri. Avevamo gia’ mangiato dolci eccellenti alla Scuola Politecnica... e pensiamo con terrore al pranzo con il Sindacato che ci aspetta...
La visita e’ finalizzata a verificare con la direttice la possibilita’ di ricostruire i bagni, che sono in stato pietoso. Il Comune non ha fondi per la manutenzione straordinaria delle Scuole ed e’ per questo che non riusciamo a realizzare questo progetto. Inoltre non e’ un progetto modulabile nel tempo (come ad esempio la ricostruzione delle aule): se si comincia devono essere per forza disponibili subito tutti i fondi necessari. C’e’ da sperare che prima o poi arrivino i fondi del 5 per mille, e che la associazione Un ponte per... di Roma decida di continuare la sua collaborazione con noi, altrimenti non ne usciremo.

Nel pomeriggio FESTA GRANDE! Si inaugura la palestra di fisioterapia della Associazione malati sclerosi multipla.
Vi abbiamo illustrato con molti particolari e molte foto questo progetto nella relazioni dei viaggi effettuati a ottobre 2008 e a luglio scorso.
Sembra quasi impossibile, ma dal primo contributo, versato agli inizi di maggio 2009, sono passati solo sei mesi...
Arrivano per l’occasione anche Alessandro, Samantha e Vincenzo della associazione romana Un ponte per... che ha deciso di collaborare. 
Ci accoglie Jasmina Brajkovic, presidente della associazione, insieme a molti soci (quasi tutte donne) anche giovanissimi, purtroppo. Nei loro occhi c’è la sofferenza per questa terribile malattia, ma è completamente assente l’autocommiserazione o la richiesta silenziosa di compassione. 
Una grande targa ricorda tutti quelli che hanno partecipato a questa iniziativa.
Dopo i discorsi ufficiali, per fortura brevi, Alessandro consegna a Jasminala quota di 2500 euro proveniente da dalla sua Associazione, e poi si taglia il nastro!
La strumentazione fisioterapica a cui ci troviamo di fronte e’ di livello eccellente ed assai completa.

[FOTO: La targa; Alessandro e Jasmina con la donazione di Un ponte per...; Alcune viste della attrezzatura della palestra]

A seguire, ci viene offerta una cena alla quale partecipiamo con entusiasmo e grande amicizia. Arriva anche una banda di suonatori di trombe, che ci aveva gia’ fatto compagnia un anno fa. Si balla il kolo tutti insieme, si canta, si parla e si immaginano nuovi progetti. 


Sabato 24 ottobre 2009

E’ il giorno dell’assemblea per la distribuzione delle quote di affido.
Come sempre moltissime persone presenti nella  grande sala della direzione della Zastava. Molti non riescono a entrare e si fermano in corridoio. La preoccupazione per il futuro domina tutti, perche’ la Fiat non sta rispettando alcun patto, e le notizie a volte incontrollabili che circolano sono veramente brutte.
Noi comunque  proviamo sempre la stessa gioia nel rivedere persone che conosciamo da anni, molti di loro ormai disoccupati, i loro figli che crescono viaggio dopo viaggio. Benche’ disoccupati, malati, disperati, almeno non sono abbandonati da tutti. La solidarietà è soprattutto questo. E loro, i nostri amici, questo lo sanno bene e ce lo dicono, qualcuno con le parole, molti con gli occhi e gli abbracci.

Consegnamo 158 quote d’affido ed alcuni regali in denaro, per un totale di 27230 euro..
Due di questi affidi sono nuovi e salutiamo con affetto i piccoli Marko e Nina che entrano a far parte di questa nostra grande famiglia solidale.

Dopo di noi viene effettuata la consegna delle 112 quote di affido della associazione di Brescia.

Nel pomeriggio abbiamo un incontro con il Sindacato.
Il clima e’ pesante, si parla dei problemi della fabbrica, dei piani della Fiat e del futuro dei lavoratori.
Anche il futuro del Sindacato e’ a rischio, soprattutto in termini di agibilita’ in fabbrica e di strutture sindacali.

Decidiamo di far venire in Italia a dicembre una delegazione del Samostanli, a Brescia per i giorni 8 e 9 e a Trieste il 10 e l’11, in modo da poter organizzare iniziative di  informazione  e  sensibilizzazione sul  tema  della  solidarietá con  le  famiglie  dei lavoratori  ed ex  lavoratori  della  Zastava e  piu' in generale con la citta' di Kragujevac.

Infine, a sera, siamo attesi in casa di Ana S., la ragazza che ad aprile scorso era giunta in Italia per poter realizzare il suo sogno di vedere Venezia, prima che la malattia degenerativa che la ha colpita la renda totalmente incapace di camminare. Ha finito la scuola, si è diplomata, ma ora che la malattia è sempre più evidente e invalidante non esce piu’ di casa. Andiamo noi a trovarla, e a festeggiare insieme il suo diciannovesimo compleanno, che e’ caduto dieci giorni fa. Ci attende raggiante di gioia, bellissima, ci invita a gustare i cibi e ci accompagna al suo computer per mostrarci le foto che ha scattato a Venezia: questo viaggio era stato realizzato grazie da una catena di solidarietà intitolata ‘’Il sogno di Ana’’. E sara’ Ana a salutarvi, alla fine di questa relazione.


3 – Alcune informazioni generali sulla Serbia e sulla Zastava

ALCUNI INDICI ECONOMICI GENERALI
I dati sono stati ricavati dai bollettini periodici dell’Uffico Centrale di Statistica; qualora ala fonte sia diversa viene esplicitamente indicata.

Cambio dinaro/euro. 
A ottobre 2008 il cambio dinaro-euro era di 84 a 11.
Era poi salito fino a quasi 100 dinari per 1 euro ad aprile 2009. Successivamente si e’ stabilizzato a circa 92 dinari per 1 euro; al 22 di ottobre era di 93.2 dinari per euro.

Inflazione e prezzi
L’inflazione non smette di falcidiare i salari.
A giugno 2009 i prezzi al consumo erano aumentati del 6.9% rispetto a dicembre 2008; a fine settembre l’infazione era salita fino a 9.4%.

Ponendo uguale a 100 la media dei prezzi al consumo nel 2005, a settembre 2009 tale indice diventa 145.3; era di 88.4 a settembre 2004; 72.8 a settembre 2002; 32.7 a settembre 2000; 19.2 a settembre 1999; 14.9 a gennaio 1999 (prima dei bombardamenti NATO). 
Questo significa un aumento di circa dieci volte dei prezzi al consumo in un  decennio!

Commercio con l’estero per il periodo gennaio-agosto 2009
Il totale degli scambi e’ stato di 14950,1 milioni di dollari con una diminuzione di 36.8% rispetto allo stesso periodo del 2008. Il valore delle esportazioni della Serbia e’ stato di 5190.1 milioni di dollari, con una diminuzione del 32.6% in confronto allo stesso periodo del 2008.
Il valore delle importazioni  della Serbia e’ stato d 9760.0  milioni di dollari, con una diminuzione del 38.9% in confronto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Se i dati invece che in dollari vengono espressi in euro ci sono variazioni sui valori percentuali, in relazione alle variazioni dei cambi tra le varie monete.
Cio’ che resta invariato, indipendentemente dalla moneta di riferimento, e che mostra quanto sia drammatica la situazione economica, e’ il rapporto esportazioni/importazioni nel periodo esaminato, che e’ pari al 53%.

Indici della produzione industriale
La produzione industriale a settembre 2009 e’ scesa del 6.3% se comparata con settembre 2008; la produzione industriale nel periodo gennaio-settembre 2009 e’ scesa del 15% in rapporto allo stesso periodo del 2008.

Livelli occupazionali e tasso di disoccupazione
Non ci sono aggiornamenti dei dati gia’ riportati nella tabella presente nella relazione di luglio scorso.
Ricordiamo i dati fondamentali. 
Dal 2001 ad oggi l’occupazione cosi’ registrata e’ scesa di 100.000 unita’, da circa 2.100.000 del 2001 a circa 2.000.000 del 2008.
E’ impressionante il calo dell’industria manifatturiera, che continua a perdere posti di lavoro, il 40% in 7 anni.
Il livello di disoccupazione medio in Serbia per la popolazione tra 15 e 64 anni era del 16.4% a aprile 2009, con un aumento di 2.4% rispetto ad aprile del 2008.

Salari in dinari
Non ci sono variazioni significative sul fronte dei salari, che hanno mantenuto valori nominali pressoche’ costanti negli ultimi cinque mesi, a fronte di una inflazione in continua crescita segnando quindi una perdita del potere di acquisto.


Mese Produzione Servizi Media totale
Gennaio 2008 27516 29582 28230
Maggio 2008 30136 35867 32147
Novembre 2008 31703 37040 33613
Gennaio 2009 27447 32020 28887
Maggio 2009 28657 36434 31086
Agosto 2009 28915 36612 31338
Settembre 2009 28825 Non disponibile 31319

Come gia’ riportato in molte relazioni, ci sono differenze salariali fortissime tra diverse categorie di lavoratori:

I dati seguenti sono relativi al terzo trimestre del 2009 (in dinari)

Settore Salario in dinari
Finanza 71464
Manifattura tabacchi 61382
Elettricita’ e gas 51578
Manifattura pellami 17172
Manifattura tessile 15010

Pensioni
La seguente tabella e’ tratta dal quotidiano Politika del 24-8-09 ed illustra l’entita’ delle pensioni medie mensili (in dinari) suddivise per categoria di lavoratori.


Anzianita’ Invalidita’ Reversibilita’ Totali
Numero  Cifra Numero Cifra Numero Cifra Numero Cifra

Lavoratori 
dipendenti 666363 25242 331549 20054 312872 15956 1310984 21714

Lavoratori 
autonomi 22538 24673 15935 21533 13968 15511 52441 21279

Agricoltori 187441 8362 12285 8883 24262 6021 223988 8138

Il rapporto tra pensioni e salari medi e’ di poco superiore al 60%.

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L’Otan du Kosovo à l’Afghanistan : guerres sans frontières - Diana Johnstone


conférence organisée par les Amis du Monde diplomatique et le Comité Valmy à Nice, Le 12 novembre 2009.

mercredi 18 novembre 2009, par Comité Valmy

Il existe 761 bases américaines avouées dans le monde dont celle, gigantesque de Bondsteel au Kosovo qui a été arraché par la guerre et illégitimement à la Serbie, avec l’aide décisive des impérialistes euro- atlantistes. CB


Il y a vingt ans, la fin de la Guerre Froide devait introduire une ère de paix. Pourtant, depuis dix ans, l’Otan fait la guerre – d’abord au Kosovo, aujourd’hui en Afghanistan. C’est la guerre et non la paix qui est de retour. Pourquoi ?

Je veux présenter plusieurs propositions qui à mon avis sont des évidences, mais des évidences qui ne font pas partie du discours officiel relayé par les médias.

1. Première proposition. Le but principal de la guerre menée en 1999 par l’Otan contre la Yougoslavie – dite « guerre du Kosovo » – était de sauver l’Otan en la dotant d’une nouvelle mission de mener des guerres aux endroits et pour des motifs décidés par elle. (Un but secondaire était de débarrasser la Serbie d’un chef considéré comme trop peu empressé de suivre le modèle économique néo-libéral, mais je laisse de côté cet aspect des choses, qui aurait pu être traité autrement que par la guerre, bien que les bombardements aient hâté la privatisation des industries ainsi frappées de façon expéditive.)

2. Ce but a éte atteint, avec l’acceptation par les alliés européens de la nouvelle stratégie de l’Otan, qui préconise la possibilité des interventions militaires n’importe où dans le monde sous n’importe quel prétexte – voir la liste des « menaces » auxquelles ils faut faire face.

3. Ce changement de politique stratégique, avec des implications graves, a été réalisé sans le moindre débat démocratique dans les parlements européens ou ailleurs. Il a été réalisé de façon bureaucratique derrière un épais écran de fumée émotionnel – on dirait des gaz lacrymogènes – sur le besoin de sauver des populations de menaces qui n’existaient pas et qui étaient inventées précisément pour justifier une intervention qui servait les intérêts à la fois des Etats-Unis et des sécessionnistes albanais du Kosovo. En autres mots, la nouvelle politique de guerre sans limites a été décidée presque en huis clos, et vendue au public comme une grande entreprise humanitaire d’une généreuse abnégation, sans précedent dans l’histoire de l’humanité.

C’est ainsi que la « guerre du Kosovo » continue à être célébrée, surtout aux Etats-Unis, servant de preuve que la guerre n’est plus le pire des maux à éviter, mais le meilleur des véhicules du Bien.

4. Suite aux attaques criminelles contre les Tours du World Trade Center le 11 septembre 2001, les alliés européens des Etats-Unis ont suivi sans broncher l’interprétation plus que douteuse donnée par l’administration américaine Bush-Cheney selon laquelle ces attaques constituaient un « acte de guerre ». Encore pris dans un tourbillon sentimental – « nous sommes tous des Américains » – les hommes et les femmes politiques européens ne se sont pas mobilisés pour faire remarquer qu’il s’agissait plutôt d’attaques criminelles – internationales, peut-être, mais qui étaient le fait des individus ou des groupes, non pas d’un Etat, et qui exigeaient logiquement une riposte policière et non pas de guerre. Au lieu de secourir les Américains en leur apportant une dose de bon sens qui visiblement manquait à leurs dirigeants, les dirigeants européens ont invoqué l’Article 5 de l’Otan pour la première fois pour suivre les Etats-Unis agressés dans leur guerre contre les fantômes en Afghanistan. Il y sont toujours…

5. Cinquième proposition. Tout cela fait la démonstration d’une absence quasi totale de débat politique, ou même de pensée, en Europe sur les questions fondamentales de sécurité et de guerre et de paix, et encore moins sur le droit international.

6. Sixième proposition, la plus essentielle et la plus controversée sans doute. Cette lamentable inexistence morale et intellectuelle de l’Europe dans ce chemin vers le désastre est due surtout à une cause : la soi-disante « construction européenne ».

Maintenant je veux revenir sur cette suite d’événements qui nous mène de l’élan « humanitaire » du Kosovo jusqu’au bourbier sanglant d’Afghanistan.

L’Europe et la Yougoslavie

Il est courant de blâmer l’Europe pour son inaction dans l’affaire yougoslave. Mais ce reproche prend le plus souvent la forme d’une lamentation selon laquelle l’Europe aurait dû intervenir militairement pour sauver les victimes, bosniaques, il s’entend. Ce n’est pas une analyse mais une exploitation moralisante par un des partis – les Musulmans de Bosnie – d’une tragédie dans laquelle ils comptent le plus grand nombre de victimes, mais pour laquelle leurs dirigeants politiques (surtout Monsieur Izetbegovic) avaient leur part de responsabilité. Dans cette lamentation sans vraie analyse, l’inaction de l’Europe est attribuée le plus souvent à sa « lâcheté » collective, et même, par certains, à son supposé racisme anti-musulman. Un tel racisme existe en effet ici et là, mais les causes de la faillite européenne dans le cas yougoslave sont ailleurs.

Je voudrais offrir ici une autre interprétation de cette faillite. Elle est plus compliquée, et moins moralisante.

Déjà dans les années 1980, la Yougoslavie sombrait dans une crise à la fois économique et politique. L’endettement du gouvernement central, qui résultait surtout des crises pétrolières et des manipulations du dollar, favorisait la poussée séparatiste des républiques les plus riches, la Slovénie et la Croatie. L’auto-gestion socialiste, paradoxalement, contribuait aussi au mouvement centrifuge. Pourtant le sentiment unitaire restait encore probablement majoritaire. C’est l’époque où précisément une politique attentive européenne d’élargissement aurait pu empêcher le désastre. Après tout, la Yougoslavie, située entre la Grèce et l’Italie, dont le système socialiste était plus libre et plus prospère que le bloc soviétique et qui évoluait déjà vers plus de démocratie de style occidental, était logiquement le candidat prochain pour l’adhésion à la Communauté européenne.

Certaines voix isolées signalaient cette évidence, sans être entendues. Au début des années 1990, c’était le drame. Je ne peux pas raconter toute cette histoire ici, cela se trouve dans mon livre, « La Croisade des fous ». Mais en bref, en 1991, il y avait deux mondes parallèles qui se sont touchés de façon malheureuse. Il y avait le monde yougoslave, où les républiques – c’est ainsi qu’on nommait les composants de la fédération yougoslave – slovène et croate optaient pour la sécession, soutenues par l’Allemagne. Et dans le monde de la construction européenne, le gouvernement français en particulier était totalement absorbé par l’effort de convaincre le gouvernement allemand de fondre son précieux deutschemark dans une nouvelle monnaie européenne, qui servirait de colle dans la transformation de la Communauté européenne en Union européenne. Le résultat est connu. Quoiqu’au départ, aucun autre membre de la Communauté ne voulait suivre l’Allemagne dans la reconnaissance des sécessions sans négociation de la Slovénie et de la Croatie, lorsque la France, en pleines négociations sur la monnaie européenne avec l’Allemagne, a cédé sur les sécessions yougoslaves, toute la Communauté a suivi dans cette décision qui violait le principe de l’inviolabilité des frontières et menait inévitablement à la guerre civile.

Je sais que tout cela devient un peu compliqué, mais je veux souligner un aspect qui est relativement subtil mais essentiel. À cause de la sacrosainte « construction européenne », la Communauté européenne s’est alignée sur la position allemande qui au départ n’était partagée par aucun autre Etat membre. Ils n’ont examiné sérieusement ni les vrais motifs de cette position, ni sa justification, ni ses conséquences programmées. Au lieu de cela, ils ont adopté une version moralisante et unilatérale d’un conflit complexe qui servait surtout à excuser leur violation des pratiques normales – non-reconnaissance des sécessions non-négociées. Mais cela avait pour résultat de les ouvrir aux accusations moralisantes de ne pas avoir fait assez pour « sauver les victimes ». Car une fois admise une vision manichéenne, une solution manichéenne s’impose. S’étant coincée elle-même, l’Europe a essayé de combiner son discours manichéen, qui attribuait toute la culpabilité au seul « nationalisme serbe », avec des efforts de trouver une solution négociée, ce qui était contradictoire et voué à l’échec.

Imaginons par contre que les Etats membres aient agi en Etats indépendants, sans se sentir contraints par la « construction européenne ». L’Allemagne aurait sans doute soutenu ses clients historiques, les séparatistes slovènes et croates, mais elle aurait dû écouter d’autres points de vue. Car la France et la Grande Bretagne, sans doute suivies par d’autres, auraient pensé aux intérêts de leurs alliés historiques, les Serbes. Cela ne veut pas dire qu’on aurait refait la Première Guerre Mondiale – personne n’est aussi fou. Mais on aurait pu reconnaître, de part et d’autre, qu’il y avait d’authentiques conflits non seulement d’intérêts mais aussi d’interprétations juridiques en ce qui concernait le statut des frontières entre républiques, des minorités et ainsi de suite. En regardant le problème yougoslave de cette façon, au lieu de le considérer comme un conflit entre le Bien et le Mal, les puissances européennes auraient pu encourager une médiation et une négociation pour éviter le pire.

L’argument que je veux souligner est le suivant. Un des dogmes de la Construction Européenne est que l’accord entre les Etats Membres est un bien si grand que le contenu de cet accord devient secondaire. On se félicite d’être d’accord, quel que soit la qualité ou les conséquences de cet accord. On cesse de réfléchir. Et l’accord se fait, ou se justifie le plus facilement autour de quelque poncif moralisant – les « droits de l’homme » surtout.

La « construction européenne » ressemble au « processus de paix » au Moyen Orient en ce sens que le mirage d’un avenir hors d’atteinte paralyse le présent, et sert d’excuse pour n’importe quoi.

Je voudrais signaler que, dans le cas yougoslave, les Etats-Unis ne soutenaient pas non plus les sécessions sans négociation de la Slovénie et de la Croatie. L’administration de Bush père était encline à laisser ce problème aux Européens. Donc il est trop facile de blâmer les Etats-Unis. Mais devant l’incurie européenne, et très susceptibles eux-mêmes aux interprétations manichéennes, les Américains de l’administration Clinton ont profité de la situation pour exploiter le désastre yougoslave à leurs propres fins, c’est-à-dire, l’affirmation du rôle dirigeant des Etats-Unis en Europe, la renaissance de l’Otan et quelques miettes sentimentales jetées aux Musulmans pour compenser le soutien sans faille à Israël.

L’Otan et les Menaces

L’évolution des deux dernières décennies pose la question de la poule et de l’oeuf. Autrement dit, est-ce que l’idéologie cause les actions, ou l’inverse ? Je serais tentée, vu ce que je viens de décrire à propos de la Yougoslavie, de dire que c’est l’inverse – au moins, parfois. Ou plutôt, en l’absence de pensée rigoureuse et franche, on est facilement entraîné dans des aventures néfastes par une dialectique entre idéologie et bureaucratie.

Mon deuxième exemple est le rôle de l’Otan dans le monde, et de l’Europe dans l’Otan.

A travers l’Otan, la plupart des pays de l’Union Européenne ont déjà participé à deux guerres d’agression, ou au moins à l’une d’entre elles, et d’autres se préparent. Et tout cela sans véritable débat, sans décision stratégique visible. En attendant la réalisation de la Construction Européenne, l’Union Européenne réellement existante poursuit en somnambule le chemin de guerre tracé pour elle par les Etats-Unis.

Cet état d’inconscience est maintenu par un mythe qui devient plus enfantin avec l’âge, comme une sénilité : le mythe de l’Amérique protectrice, puissante et généreuse, qui est le dernier recours pour sauver l’Europe de tout et surtout d’elle-même. On objectera qu’on n’y croit plus. Mais on fait toujours comme si on y croyait. Qu’ils y croient ou non – et je ne peux pas le savoir – la plupart des dirigeants européens n’hésitent pas à raconter des balivernes à leurs populations, telles que :

 Les Etats-Unis veulent mettre leur bouclier anti-missile en Europe pour défendre les Européens des attaques iraniennes ;

 La guerre en Afghanistan est nécessaire pour éviter les attentats terroristes en Europe ;

 La France est rentrée dans le commandement de l’Otan pour influencer les Etats-Unis ;

 Nous sommes la Communauté Internationale, le monde civilisé, et nous agissons pour défendre les droits de l’homme. Et ainsi de suite.

Les Européens acceptent le vocabulaire « newspeak » de l’Otan. Ainsi pour désigner les multiples prétextes de guerre, on utilise le mot « menaces ». Un pays ou une région qu’on entend attaquer est forcément « stratégique ». Et toute action agressive est naturellement un acte de « défense ».

Ici encore c’est idéologie qui suit la bureaucratie, mais qui devient une force extrêmement dangereuse.

Je m’explique.

L’Otan est surtout une bureaucratie lourde, soutenue par des intérêts économiques et des carrières multiples. A la base de l’Otan se trouve le complexe militaro-industriel américain (ainsi nommé par Eisenhower en 1961, mais qui devait inclure le Congrès dans sa dénomination, car l’industrie militaire est soutenue politiquement par les intérêts économiques localisés dans presque chaque circonscription électorale du pays, défendus avec acharnement par son représentant au Congrès au moment de voter le budget). Depuis cinquante ans, ce complexe forme la base de l’économie des Etats-Unis – un keynésianisme militaire qui évite un keynésianisme social qui bénéficierait à la population mais qui est interdit par un anti-socialisme dogmatique.

Lors de la « Chute du mur » il y a 20 ans, c’est-à-dire de l’écroulement du bloc soviétique, il y avait comme un vent de panique chez son adversaire. Qu’allait-on faire sans la « menace » qui faisait vivre l’économie ? Réponse facile : trouver d’autres menaces. Pour les cibler, il y a les « think tanks », ces boîtes aux idées richement financées par le secteur privé pour donner au secteur public – c’est-à-dire le Pentagone et ses émules au Congrès et à l’exécutif – les raisons d’être et d’agir dont il a besoin.

On connait la suite. On a trouvé le terrorisme sous Reagan et Saddam Hussein sous Bush premier, puis le nationalisme serbe et les violations des droits de l’homme, puis encore le terrorisme, et maintenant il y a une véritable explosion de « menaces » auxquelles « la Communauté internationale », autrement dit l’Otan, doit répondre.

UNE LISTE non exhaustive :

 le sabotage cybernétique

 les changements du climat

 le terrorisme

 les violations des droits de l’homme

 le génocide

 le trafic de drogue

 les états manqués (failed states)

 la piraterie

 la montée des niveaux de la mer

 la pénurie d’eau

 la sécheresse

 le mouvement des populations

 le déclin probable de la production agricole

 la diversification des sources d’énergie

(Sources : l’Otan ; Conférence tenue le premier octobre 2009 organisée conjointement par l’Otan Lloyd’s of London - "the world’s leading insurance market" le soi-disant numéro un marché d’assurances du monde.)

Ce qui est à signaler est que la réponse supposée à toutes ces menaces, parmi d’autres, est forcément militaire, et non pas diplomatique. On peut parfois jouer à la diplomatie, mais puisqu’on est le plus fort militairement, à Washington celle-ci est vite amenée à préférer le traitement militaire de tout problème.

Toutes ces menaces sont nécessaires pour justifier l’expansion bureaucratique du complexe militaro-industriel et de sa branche armée, l’Otan. La seule idéologie qui peut les unifier n’est plus un système de pensée mais une émotion : la peur. La peur de l’autre, la peur de l’inconnu, la peur de n’importe quoi. Et à cette peur la seule réponse est militaire.

Cette peur tue la diplomatie. Elle tue l’analyse et le débat. Elle tue la pensée.

L’incarnation de cette peur agressive est l’Etat d’Israël. Et l’Occident, au lieu de calmer la peur israélienne, l’adopte et l’intériorise.

La Menace par habitude : la Russie

Mais il y a une menace qui ne se trouve pas sur la longue liste officielle, mais qui pourrait être la plus dangereuse de toutes, pour l’Europe en particulier. On en parle peu, elle prend une place de choix dans les activités frénétiques de l’alliance atlantique : c’est la Russie. La Russie, ou plutôt l’Union Soviétique était l’ennemi contre lequel tout était organisé, eh bien, cela continue. C’est la menace par habitude, ou par inertie bureaucratique.

De plus en plus, l’Otan se trouve engagée dans un encerclement stratégique de la Russie, à l’ouest de la Russie, au Sud de la Russie et au Nord de la Russie.

À l’ouest, notamment, tous les anciens membres du défunt Pacte de Varsovie sont devenus membres de l’Otan, ainsi que les Etats Baltes anciennement membres de l’Union Soviétique même. Certains de ces nouveaux membres appellent à cor et à cri le stationnement de plus de forces américaines en vue d’un éventuel conflit avec la Russie. A Washington il y a quelque jours, le ministre des affaires étrangères de la Pologne, Radek Sikorski, a réclamé le stationnement de troupes américaines dans son pays “pour servir de bouclier contre l’agression russe”. L’occasion était une conférence organisée par le think tank Center for Strategic and International Studies (CSIS) sur “les Etats-Unis et l’Europe centrale” pour célébrer la chute du mur de Berlin. Il est caractéristique de ce que l’ancien ministre de la guerre américain Donald Rumsfeld a appelé “la Nouvelle Europe”, que Sikorski a eu la citoyenneté britannique depuis 1984 (il avait alors 21 ans), a fait ses études à Oxford et a épousé une journaliste américaine, ayant lui-même travaillé comme correspondant pour plusieurs journaux et télévisions américains. Avant de devenir ministre des affaires étrangères de la Pologne, Sikorski a passé plusieurs années (de 2002 à 2005) à Washington dans les think tanks American Enterprise Institute, pépinière des néo-conservateurs, et la New Atlantic Initiative en tant que directeur exécutif. Ce Polonais appartient donc à cette couche très particulière de stratèges originaires de l’Europe centrale qui, depuis le début de la Guerre Froide en 1948, ont considérablement influencé la politique étrangère américaine. Un des plus importants de ceux-ci, Polonais lui aussi, Zbigniew Brzezinski, a parlé à la même conférence des “aspirations impériales” de la Russie, de ces menaces envers la Géorgie et l’Ukraine et de l’intention de la Russie de devenir “une puissance mondiale impériale”.

Il est largement oublié que la Russie avait volontairement et pacifiquement laissé filer ces Etats qui aujourd’hui se prétendent « menacés ». Il est encore plus oublié que les Etats-Unis avaient, le 9 février 1990, à l’occasion de négociations sur l’avenir des deux états allemands, rassuré Gorbachev en lui promettant que si l’Allemagne unifiée intégrait l’Otan, « il n’y aurait aucune extension des forces de l’Otan d’un centimètre de plus à l’est ». Et lorsque Gorbachev revenait à ce sujet, en précisant : « Toute extension de la zone de l’Otan est inacceptable », le secrétaire d’Etat américain James Baker a répondu, « Je suis d’accord ».

Ainsi rassuré, Gorbachev a accepté l’appartenance de l’Allemagne réunifiée à l’Otan en croyant – naïvement – que les choses s’arrêteraient là et que l’Otan empêcherait efficacement tout « revanchisme » allemand. Mais, déjà l’année suivante, le gouvernement de l’Allemagne réunifiée a mis le feu aux poudres balkaniques en soutenant les sécessions slovènes et croates…

Mais revenons au présent. La mobilisation contre la prétendue « menace » russe ne se limite pas aux discours. Pendant que Sikorski épatait ses anciens collègues des think tanks washingtoniens, les militaires étaient à l’oeuvre.

En octobre, des vaisseaux de guerre américains sont arrivées directement de manoeuvres au larges des côtes écossaises pour participer à des exercices militaires avec les marines polonaises et baltes. Cela fait partie de ce que le porte parole de la Marine américaine décrit comme sa « présence continue » dans la Mer Baltique, tout près de Saint Petersbourg. À cette occasion, les responsables des pays baltes parlaient de « nouvelles menaces depuis l’invasion russe de la Géorgie » et des exercices navals de grandes envergure à venir l’été prochain. Tout cela en projetant l’augmentation des budgets militaires – 60 milliards d’euros par la Pologne pour améliorer ses forces armées.

Il est important de noter que cette activité dans la Mer Baltique sert aussi à faire entrer officieusement les pays scandinaves historiquement neutres, la Suède et la Finlande, dans les exercices et les plans stratégiques de l’Otan. Les pays scandinaves, avec le Canada, auront un rôle à jouer dans la course pour s’accaparer des ressources minérales qui deviendront accessibles avec le retrait de la calotte glacière. Des manoeuvres se font déjà en préparation de cette éventualité. Ainsi l’encerclement de la Russie par le nord se poursuit.

Aujourd’hui, non contents d’avoir absorbé les Etats baltes, la Pologne, la Tchéquie, la Slovaquie, la Hongrie, la Bulgarie et j’en passe, les dirigeants américains, vigoureusement soutenus par « la Nouvelle Europe », insistent sur la nécessité de faire entrer dans le giron de l’Alliance dite « Atlantique » deux voisins proches de la Russie, la Géorgie et l’Ukraine.

Dans ces deux cas, on s’approche dangereusement à la possibilité d’une vraie guerre avec la Russie… surtout en Ukraine.

L’Ukraine est une très grande « Krajina » yougoslave… les deux mots signifient « frontières » en slave … divisée toutes les deux entre Orthodoxes et Catholiques (Uniates dans le cas de l’Ukraine), avec en prime la grande base navale russe à Sébastopol, dans une Crimée à la population majoritairement russe… réclamée par les dirigeants actuels ukrainiens qui la transféreraient volontiers aux Etats-Unis. Voilà l’endroit rêvé pour déclencher la Troisième Guerre Mondiale – qui serait sans doute la vraie « der des ders ».

Les dirigeants baltes sont là pour interpréter l’inquiétude russe devant cette expansion de l’Otan comme la preuve de la « menace russe ». Ainsi, dans une « lettre ouverte à l’administration Obama de l’Europe centrale et orientale » du juillet dernier, Lech Walesa, Vaclav Havel, Alexander Kwasniewski, Valdas Adamkus et Vaira Vike-Freiberga ont déclaré que “la Russie est de retour en tant que puissance révisionniste en train de poursuivre un programme du 19ème siècle avec les tactiques et les méthodes du 21ème siècle”. Le danger, selon eux, est que ce qu’ils appellent “l’intimidation larvée” et “l’influence colportée” (influence peddling) de la Russie pourrait à la longue mener à une “de facto neutralisation de la région”.

On peut se demander où serait le mal ? Mais le mal est dans le passé et le passé est dans le présent. Ces Américanophiles continuent : “Notre région”, disent-ils, “a souffert quand les Etats-Unis ont succombé au ‘réalisme’ à Yalta. … Si un point de vue ‘réaliste’ avait prévalu au début des années 1990, nous ne serions pas dans l’Otan aujourd’hui…” Mais ils y sont, et ils réclament “une renaissance de l’Otan”, qui doit “reconfirmer sa fonction centrale de défense collective en même temps que nous nous adaptons aux nouvelles menaces du 21ème siècle.” Et ils ajoutent, avec un brin de chantage, que leur “capacité de participation dans les expéditions lointaines est lié à leur sécurité chez eux.”

La Géorgie est là pour montrer le danger représenté par ces petits pays prêts à entraîner l’Alliance Atlantique dans leurs querelles de frontières avec la Russie. Mais ce qui est très curieux est le fait que ces dirigeants particulièrement belliqueux de petits pays de l’Est ont souvent passé des années aux Etats-Unis dans les institutions proches du pouvoir ou ont même la double nationalité. Ils sont patriotes de leur petit pays tout en se sentant protégés par la seule superpuissance du monde, ce qui peut mener à une agressivité particulièrement irresponsable. Ce président géorgien, Mikeil Saakachvili, qui en août 2008 n’a pas hésité à provoquer une guerre avec la Russie, a été boursier du Département d’Etat des Etats-Unis dans les années ’90, recevant les diplômes des universités de Columbia et de George Washington, dans la capitale.

Parmi les signataires de la lettre citée, il faut noter que Valdas Adamkus est essentiellement un Américain, immigré de Lithanie dans les années 40, qui a servi dans le renseignement militaire américain et dans l’administration Reagan, qui l’a décoré, et qui a pris sa retraite en Lithuanie en 1997… pour être tout de suite élu comme Président de cet Etat de 1998 jusqu’au mois de juillet dernier. Le parcours de Vaira Vike-Freiberga est semblable : d’une famille qui a fuit la Lettonie pour l’Allemagne en 1945, elle a fait carrière au Canada avant de rentrer en Lettonie juste à temps pour être élue présidente de la République entre 1999 et 2007.

La Construction européenne contre le monde

En épousant ces peurs, qui à l’origine sont des constructions pour justifier une militarisation, les Etats membres de l’Union Européenne se mettent en opposition avec le reste du monde. Le reste du monde etant une source inépuisable de « menaces ». La reddition inconditionnelle de l’Europe devant la bureaucratie militaro-industrielle et son idéologie de la peur était confirmé récemment par le retour de la France dans le commandement de l’Otan. Une des raisons de cette capitulation est la psychologie du président Sarkozy lui-même, dont l’adoration pour les aspects les plus superficiels des Etats-Unis s’est exprimée dans son discours embarrassant devant le Congrès des Etats-Unis en novembre 2007.

L’autre cause, moins flagrante mais plus fondamentale, est la récente expansion de l’Union Européenne. L’absorption rapide de tous les anciens satellites d’Europe de l’Est, ainsi que des anciennes républiques soviétiques d’Estonie, de Lettonie et de Lituanie, a radicalement changé l’équilibre du pouvoir au sein de l’UE elle-même. Les nations fondatrices, la France, l’Allemagne, l’Italie et les pays du Bénélux, ne peuvent plus guider l’Union vers une politique étrangère et de sécurité unifiée. Après le refus de la France et de l’Allemagne d’accepter l’invasion de l’Irak, Donald Rumsfeld a discrédité ces deux pays comme faisant partie de la « vieille Europe » et il s’est gargarisé de la volonté de la « nouvelle Europe » de suivre l’exemple des Etats-Unis. La Grande-Bretagne à l’Ouest et les « nouveaux » satellites européens à l’Est sont plus attachés aux Etats-Unis, politiquement et émotionnellement, qu’ils ne le sont à l’Union Européenne qui les a accueillis et leur a apportés une considérable aide économique au développement et un droit de veto sur les questions politiques majeures.

Il est vrai que, même hors du commandement intégré de l’OTAN, l’indépendance de la France n’était que relative. La France a suivi les Etats-Unis dans la première guerre du Golfe – le Président François Mitterrand espéra vainement gagner ainsi de l’influence à Washington, le mirage habituel qui attire les alliés dans les opérations étasuniennes douteuses. La France s’est jointe à l’OTAN en 1999 dans la guerre contre la Yougoslavie, malgré les doutes aux plus hauts niveaux. Mais en 2003, le Président Jacques Chirac et son ministre des affaires étrangères Dominique de Villepin ont réellement usé de leur indépendance en rejetant l’invasion de l’Irak. Il est généralement reconnu que la position française a permis à l’Allemagne de faire de même. La Belgique a suivi.

Le discours de Villepin, le 14 février 2003, au Conseil de Sécurité des Nations-Unies, donnant la priorité au désarmement et à la paix sur la guerre, reçut une rare « standing ovation ». Le discours de Villepin fut immensément populaire dans le monde entier et a accru énormément le prestige de la France, en particulier dans le monde arabe. Mais, de retour à Paris, la haine personnelle entre Sarkozy et Villepin a atteint des sommets passionnels et la persécution judiciaire de Villepin dans l’affaire obscure de Clearstream représente l’ensevelissement de la dernière velléité d’indépendance politique de la France sous une avalanche de boue vengeresse.

Qui parle aujourd’hui pour la France ? Officiellement, Bernard Kouchner, prophète de l’ingérence humanitaire qui, lui, approuvait l’invasion de l’Irak. Officieusement, les soi-disant « néo-conservateurs » qu’on ferait mieux d’appeler les « impérialistes sionistes », tant leur véritable projet est un nouvel impérialisme agressif occidental au sein duquel Israël trouverait une place de choix.

Le 22 septembre 2009, le Guardian de Londres a publié une lettre demandant que l’Europe prenne fait et cause pour la Géorgie dans le conflit de l’Ossétie du Sud. Signée par Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Mart Laar, Vytautas Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn Bendit, Timothy Garton Ash, André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik et Josep Ramoneda, la lettre proférait les habituelles platitudes prétentieuses sur les « leçons de l’histoire » , toutes justifiant l’utilisation de la puissance militaire occidentales, bien sûr : Munich, le pacte Ribbentrop-Molotov, le mur de Berlin. Les signataires exhortent les 27 dirigeants démocratiques de l’Europe à « définir une stratégie pro-active pour aider la Géorgie à reprendre pacifiquement son intégrité territoriale et obtenir le retrait des forces russes stationnées illégalement sur le sol géorgien… »

Pendant ce temps, les alliés de l’Otan continuent à tuer et à se faire tuer en Afghanistan. On peut se demander quel est le vrai but de cette guerre, qui, au début, était de capturer et punir Osama bin Laden.

Un autre objectif, plus confidentiel, est valable quelle que soit l’issue de ce conflit : l’Afghanistan sert à forger une armée internationale pour policer la « globalisation » à l’américaine. L’Europe est surtout une « boîte à outils » dans laquelle les Etats-Unis peuvent puiser pour poursuivre ce qui est essentiellement un projet de conquête de la planète. Ou, comme on dit officiellement, la « bonne gouvernance » d’un monde « globalisé ».

Les « impérialistes sionistes » sont sûrement conscients de ce but et le soutiennent. Mais les autres ? A par ces illuminés, on a l’impression d’une Europe somnambule, qui suit la voix de son maître américain, en espérant qu’Obama sauvera tout le monde, mais sans pensée et sans volonté propres. Plus triste que les tropiques.

Pour conclure, je reviens à la fameuse « construction européenne ». Je suis consciente qu’il y avait une époque où il était permis, et presque raisonnable, d’espérer que les vieilles nations européennes se mettraient ensemble paisiblement dans ce que Gorbatchev, ce grand cocu de l’histoire, appelait « notre maison commune ». Mais depuis il y a eu Maastricht, le néo-libéralisme, le Traité constitutionnel rejeté puis adopté contre toute procédure démocratique, et surtout, les élargissements irréfléchis vers les pays dont les dirigeants pensent à poursuivre la Guerre froide jusqu’à l’humiliation totale de la Russie.

Aujourd’hui, cette construction a ceci de paradoxal : elle sert d’Utopie qui distrait du présent en attendant un avenir qui domine l’horizon. Et pourtant, elle est vide de contenu. Elle est dictée beaucoup moins par un espoir d’avenir que par une peur et une honte du passé. L’Europe des nations a perdu sa fierté et même sa raison d’être dans les deux grandes guerres du vingtième siècle, dans le "totalitarisme" mais surtout – et cela est relativement récent, depuis 1967 pour être précis – à cause de l’Holocauste. L’Europe doit se rendre incapable de commettre une nouvelle Shoah en abolissant l’Etat nation, jugé intrinsèquement coupable, en devenant "multiculturelle" et en se joignant à la Croisade menée par son sauveur historique, les Etats-Unis, pour apporter la bonne gouvernance et les Droits de l’Homme au monde entier. L’Union Européenne n’a pas de contenu, elle est vouée à se fondre dans "la Communauté Internationale" à côté des Etats-Unis. La Construction européenne est donc tout d’abord une "déconstruction", pour emprunter un mot de philosophe.

Ce mirage cache un avenir totalement imprévu et, aujourd’hui, imprévisible.

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Diana Johnstone est une universitaire et journaliste américaine. Diplomée d'études slaves, elle obtenu son doctorat à l'Université du Minnesota. Elle a séjourné en France, en Allemagne et en Italie, avant de s'installer définitivement à Paris en 1990.

Très active dans le mouvement contre la guerre du Vietnam, elle organise les premières rencontres internationales entre des citoyens américains et des représentants vietnamiens. Elle a été éditorialiste pour l'Europe à l'hebdomadaire américain In These Times de 1979 à 1990, continuant par la suite à travailler comme correspondante pour cette revue. Elle a été attachée de presse pour le groupe parlementaire européen des Verts de 1990 à 1996. Elle publie également régulièrement des articles d'analyse de l'actualité internationale dans le magazine en ligne Counterpunch.

En 1985, elle publie un premier livre The Politics of Euromissiles : Europe's Role in America's World. Dans son deuxième livre La Croisade des fous : Yougoslavie, première guerre de la mondialisation paru en 2005, elle porte un regard critique sur la guerre en Yougoslavie, remettant en cause la version médiatique dominante présentant le nationalisme serbe comme le principal responsable du conflit. On peut rapprocher son analyse des événements de celle d'auteurs comme Paul-Marie de La GorceMichel Collon et Jürgen Elsässer.

A la suite d'une interview de Noam Chomsky dans The Guardian, elle a fait l'objet d'une polémique, étant accusée de nier le massacre de Srebrenica[1], accusation qu'elle a rejetée, arguant qu'elle ne remettait pas en cause le massacre mais en dénonçait la présentation à partir de certains faits « fabriqués » et médiatisés[2].





Da: preciso.ch  @...

Oggetto: Conferenza alla Casa della Resistenza di Fondotoce

Data: 20 novembre 2009 9:31:14 GMT+01:00


Domenica 29 novembre alle ore 9,15 si terrà a Fondotoce, presso la Casa della Resistenza un importante convegno sulla Resistenza in Europa.
Questa conferenza sarà l’inizio di una serie di conferenze di carattere internazionale che proseguiranno nei prossimi anni con l’obiettivo di far conoscere la resistenza degli italiani all’estero.
Si inizia con l’Albania, con il glorioso “Battaglione Gramsci” e la grande battaglia di Mavrove-Drashovice che salvò da sicuro massacro nazifascista 11.000 soldati e ufficiali italiani.
Una pagina di storia sconosciuta e di fratellanza tra i due popoli

In attesa di incontrarvi, inviamo i migliori saluti

Alleghiamo locandina relativa all'iniziativa.


Come arrivare a FONDOTOCE:

In Autostrada  Attraverso la Voltri-Gravellona Toce A-26
uscire a Baveno
dopo la galleria artificiale girare a sinistra
attraversare la frazione di Feriolo e proseguire sempre diritto.
Alla grande rotonda (dopo circa 3 Km dall’uscita dall’Autostrada) girare a destra
dopo 50 metri girare a sinistra e subito dopo ancora a sinistra per Mergozzo.
Dopo 200 metri sulla sinistra si trova la Casa della Resistenza – Via Turati, 9 – FONDOTOCE  - Verbania


PRANZO A FONDOTOCE

Per tutti coloro che al termine del Convegno intendono fermarsi a pranzo presso il Circolo Società di Mutuo Soccorso di Fondotoce è pregato di prenotare entro e non oltre giovedì 26 Novembre 
mail: preciso.ch@...
oppure telefonando a Piero 0321 992236  cell. 340 7665577




(english / italiano)

Sulla favoletta delle libere elezioni in Kosovo

1) PATRIA DELLA PATRIA (Tommaso di Francesco, Il manifesto)

2) LIBERI DA COSA? (Alessandro Di Meo, Un ponte per...)

3) Thaci's car stoned in Haradinaj territory [12 novembre: l'auto di Thaqi presa a sassate dai sostenitori di Haradinaj]

4) After billions in aid, Kosovo still poor and idle [nonostante gli "aiuti" generosissimi, il Kosovo è povero e detiene il record di disoccupazione]


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Il manifesto - 15 novembre 2009

APERTURA   |   di Tommaso Di Francesco

storie

PATRIA DELLA PATRIA

Inaugurata a Pristina da Bill Clinton la sua statua di bronzo a ringraziamento della guerra «umanitaria» della Nato del 1999. All'ombra del potente premier Hashim Thaqi su cui crescono i dossier internazionali per crimini di guerra, un Kosovo solo albanese, povero e devastato dalla corruzione, va oggi al primo voto etnico-amministrativo

Il mese di novembre 2009 passerà alla storia del sud-est europeo balcanico. Dopo il crollo dell'89 che vide lo smantellamento dei simboli del «socialismo reale» a cominciare dalle statue imbalsamate dei leader del comunismo, a Pristina è stata eretta con cerimonia, bande e trionfo, la statua del nuovo «piccolo padre», o padre della patria: Bill Clinton.
L'ex presidente degli Stati uniti a inizio mese si è presentato a Pristina in un tripudio di folla, ben spesato dalle fondazioni albanesi d'America - una lobby che è riuscita ad eleggere un capo della Cia - ad inaugurare la sua statua. Alta 3,4 metri - come quelle di Stalin nella connazionale Albania -, pesa 900 chilogrammi, ed è stata sponsorizzata dall'Associazione kosovaro albanese «Amici degli Stati uniti», è opera dello scultore Izeir Mustafa. Abbracciato come un eroe, sorridente per le tv locali, ha inaugurato la sua immagine di bronzo sulla piazza che porta già il suo nome. Presenti il presidente Fatmir Sejdiu e il potente premier Hashim Thaqi, ex leader dell'Uck. Quel Thaqi di cui proprio Carla Del Ponte nel suo libro «La caccia» denuncia corresponsabilità in una vicenda truculenta: l'espianto d'organi nel nord dell'Albania a 150 prigionieri serbi perpetrata dalle milizie al diretto comando dell'attuale premier di Pristina. Una delegazione del Consiglio d'Europa che indaga su questo, guidata dal Rapporteur Dick Marty, è stata cacciata nell'agosto scorso dall'Albania. «I cittadini del Kosovo - ha detto Hashim Thaqi alla festosa cerimonia - sono grati per la decisione di intervenire militarmente per prevenire un genocidio senza precedenti». Un discorso elettorale, visto che oggi in Kosovo si vota per le amministrative. Votano solo gli albanesi, i serbi le boicottano e anche Belgrado consiglia di «non andare a votare. Ma alle prime elezioni politiche di quasi un anno ci fu la sorpresa dell'astensione, votò infatti solo il 43% dei kosovari albanesi aventi diritto.
«Ero qui 10 anni fa - ha dichiarato Clinton - per fermare le cose terribili che accadevano allora e sono qui dieci anni dopo per testimoniare di un futuro migliore di progresso per il Kosovo che è riuscito a creare istituzioni democratiche, una stampa libera e una forte società civile» inoltre è stato accettato dal Fondo monetario e si avvicina alla Nato e all'Unione europea».
Ne avesse indovinata una. Sia sulla reale situazione del Kosovo, sia sulla legittimità dell'intervento armato della Nato che dal 24 marzo 1999 devastò con una micidiale sequela di bombardamenti «umanitari» aerei tutta l'ex Jugoslavia, Serbia e Kosovo.
Perché la realtà del Kosovo è questa: più del 50% di disoccupazione, con il 73% dei giovani disoccupati e in fuga dal paese secondo il primo giornale di Pristina Koha Ditore; con una «corruzione dilagante e scarsa libertà di parola», mega-traffici mafiosi, denuncia il Rapporto dell'Ue del 12 ottobre scorso; con le poche minoranze non serbe in fuga secondo l'Ong Minority Rights Group; con 300.000 profughi serbi e altrettanti rom fuggiti nel terrore proprio a partire dall'ingresso delle truppe Nato nell'estate del 1999; con l'Osce che in un suo documento di questi giorni accusa che «Pristina non adempie all'obbligo di assistere i rifugiati non albanesi costretti a non rientrare nel paese»; con l'Unicef che rivela il tasso più alto in Europa di mortalità infantile e tra le donne «a causa delle carenze sanitarie»; con il 90% della popolazione che ritiene, secondo una sondaggio condotto dall'Undp-Onu, responsabile dello sfascio economico e sociale del paese il governo di Hashim Thaqi, né si fida dell'opposizione rappresentata da Ramush Haradinaj - già incriminato all'Aja per crimini e stragi commessi già nel 1998 contro civili serbi e rom.
Quanto a legittimità e risultati dell'intervento «salvifico» dell'Alleanza atlantica, sponsorizzato dallo «statuario» Bill Clinton e dagli allora leader democratici della Nato come Javier Solana, Massimo D'Alema, Tony Blair, ecc. ecc. Va ricordato che quella guerra del marzo 1999 fu illegale, venne fatta senza l'Onu e contro l'Onu. Mise in scacco l'autonomia dell'Europa e permise agli Stati uniti di riappropiarsi della Nato. Che ebbe, anche quella un voto bipartisan - Berlusconi in Italia votò a favore - legittimato solo da un castello di provocazioni e menzogne denunciate perfino dall'allora ministro degli esteri italiano Lamberto Dini. Che cancellò la possibilità che la controversia interna all'ex Jugoslavia potesse essere composta da una mediazione internazionale in corso quale era la missione dell'Osce. Azzerando i principi dell'articolo 11 della nostra Costituzione che «rifiuta la guerra come mezzo di composizione delle controversie internazionali».
La guerra fu motivata da ragioni umanitarie. «500mila morti» titolava il New York Times, «Sessantamila vittime» Liberation, «Genocidio» Le Monde. Ma quei giornali (non proprio gli ultimi) non hanno nemmeno titolato - arrivarono solo 15 righe della Reuters - quando il 6 settembre 2001 proprio la Corte suprema di Pristina, sotto egida Onu, sancì che i miliziani serbi nel 1998-1999 furono responsabili sì di violenze ai danni della popolazione albanese che, comunque, cominciarono dopo i raid aerei della Nato, ma non di genocidio. E il Tribunale dell'Aja con l'inchiesta sul campo non trovò prove del «massacro», rinvenne il seppellimento di duemila morti, ma caduti in combattimento. Non solo: la Corte di Pristina in quel dibattimento ha dichiarato di avere le prove che il drammatico esodo di 890mila persone - rimaste in attesa sul confine e tutte rientrate dopo 78 giorni di guerra - non fu provocato dai miliziani serbi, come ci venne detto, ma dal terrore di essere colpiti dalle bombe della Nato. Un terrore giustificato, viste le stragi efferate tra la popolazione civile, sia in Serbia che tra gli albanesi in Kosovo - Djakovo, Korisha, Pristina - con i cosiddetti effetti collaterali che un'indagine di Amnesty International ha dimostrato essere omicidi deliberati per terrorizzare i civili.
Alla fine la farsa di Rambouillet (il diktat con cui si pretendeva di mettere l'intera ex Jugoslavia sotto controllo della Nato) e il casus belli inventato della strage di Racak come ha dimostrato il documento dei medici legali impegnati dall'Onu, hanno fatto il resto per attivare la guerra a tutti costi.
Il fatto è che quella guerra di raid aerei un obiettivo l'aveva: il 17 febbraio del 2008 infatti è stata proclamata l'indipendenza unilaterale del Kosovo, sponsorizzata da Bush e riconosciuta subito da molti paesi atlantici - non da tutti, Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro Nord hanno detto no. E non è riconosciuta dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ora è caos istituzionale, c'è la nuova missione Eulex ad imporre l'indipendenza ai pochi serbi rimasti, resta la Kfor-Nato con meno ruolo. Ma l'Onu con Ban Ki-Moon che lo ha annunciato a fine ottobre, insiste a rimanere sulla base della Risoluzione 1244» con cui finì la guerra, entrò la Nato ma riconoscendo la sovranità di Belgrado sul Kosovo. 
Venerdì al vertice governativo Italia e Serbia di Roma, il presidente serbo Boris Tadic ha ribadito: «La Serbia non farà mai un passo indietro nel rivendicare la propria integrità territoriale. Lotteremo con tutti i mezzi giuridici». Fiducioso che la massima Corte dell'Aja dica sì - la scadenza è ora, a dicembre - al ricorso serbo contro l'indipendenza unilaterale del Kosovo.


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MARTEDÌ 17 NOVEMBRE 2009

Liberi da cosa?

Si sono svolte domenica 15 novembre le elezioni in Kosovo dove, c'è da dire, la "democrazia" sta dando i suoi frutti. Infatti, come nei maggiori stati democratici al voto è andata meno della metà degli aventi diritto (45 per cento su 1 milione e mezzo di albanesi).
Per questa parola, "democrazia", c'è poca affinità dunque, con la parola "libertà" che, notoriamente, è sinonimo di partecipazione!!!
Svariati partitini retti da ex criminali di guerra, giocando alla politica si contendono la vittoria, in perfetto stile nostrano. Tutti hanno vinto nessuno ha perso. A perdere, in realtà, sono i kosovari tutti, albanesi e non, in quanto il Kosovo è ormai la controfigura della terra che era. E il trucchetto, ormai, lo stanno scoprendo (alla buon'ora!!!) anche molti di quelli che hanno osannato l'indipendenza dichiarata unilateralmente e contro ogni diritto internazionale nel febbraio 2008.

Ma tanto basta ai governi occidentali per accreditare come democratico un narcostato, violento e illegale!
I pochi serbi rimasti hanno quasi completamente disertato le urne, ovviamente non riconoscendo legalità a queste elezioni farsa. Ma è significativo come nelle zone più interne, come ad esempio Gracanica (di fianco la foto del monastero) e Strpce, si siano raggiunte quote dal 30 e del 23 per cento dei serbi aventi diritto (in pratica, poche centinaia di votanti).

Questo è dovuto un po' alla paura di rimanere ancora più isolati dal contesto, un po' per rafforzare il peso della presenza serba in Kosovo, cosa che viene a più riprese chiesta dai serbi delle enclavi e dalla chiesa Ortodossa, ultimo bastione resistente, vero e unico faro dei serbi che continuano a vivere, fra milioni di difficoltà, in Kosovo. Ruolo che la morte del patriarca Pavle (un "sant'uomo", ci confidano molti amici serbi), avvenuta domenica, all'età di 95 anni, dopo 19 anni di patriarcato, rende ancora più centrale.
Intorno alla chiesa Ortodossa ruota, infatti, tutto ciò che resta dei serbi e della Serbia nel Kosovo di oggi. Inoltre, cosa da non sottovalutare per il carico simbolico che l'evento porterà con se, il prossimo patriarca dovrà essere ufficializzato, come vuole la tradizione ortodossa, proprio nel patriarcato di Pec. Cioè, nel pieno di quel Kosovo e Metohija che continua ad accreditarsi al mondo come "liberato". Ma da chi e da cosa, dopo queste elezioni, sembra semplice per tutti da capire... Dal diritto, dalla legalità, dalla partecipazione.

Alessandro Di Meo (Un ponte per...)


=== 3 ===

http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2009&mm=11&dd=12&nav_id=62980

Tanjug News Agency - November 12, 2009

Thaci's car stoned in Haradinaj territory 


PRISTINA: Several people used rocks to attack a line of cars that transported Hashim Thaci near Decani last night.

The Kosovo Albanian prime minister was not injured in the incident, it was announced. Several cars were damaged.

Kosovo police, KPS, said that three persons were arrested, while unconfirmed reports said that gunshots were also heard in the area at the time of the incident. 

The stoning took place after an election campaign gathering of Thaci's PDK party. 

The provincial government condemned the attack in the strongest terms, it was reported from Pristina. 

Decani is seen as an important stronghold of the Ramush Haradinaj-led AAK party. 

Thaci's party accused Haradinaj of directly inciting and organizing last night's attack, Croatia's state news agency Hina reported.  


=== 4 ===

Source: Stop NATO

http://www.reuters.com/article/homepageCrisis/idUSBYT832920._CH_.2400

Reuters - November 20, 2009

After billions in aid, Kosovo still poor and idle

By Fatos Bytyci

DRENICA VALLEY, Kosovo: Nezir Jonuzi sips black tea, stares at Prime Minister Hashim Thaci's boyhood home and wonders whether he can get a job to feed his family.

Thaci came to power in 2007 promising jobs, less poverty, better roads, 24-hour power and water. But while Kosovo elected local officials on Sunday in its first vote since independence from Serbia in 2008, many are pessimistic about the future.

In the heartland of the ethnic Albanian rebellion against Serb rule 10 years ago, people like Jonuzi and his ethnic Albanian family are among the 15 percent of Kosovo's two million people living in extreme poverty, making less than 93 cents a day, according to the World Bank.

"I know there will be nothing, no work during the winter," said Jonuzi, 42, who has done odd jobs at construction sites.

For decades the poorest part of socialist Yugoslavia, Kosovo is weighed down by the destruction of the 1998-99 war and a legacy of waste and corruption, illustrating the limitations of international help.

Over the past decade it has received 3 billion euros in aid, according to the World Bank, and is expecting another billion by 2011. Yet officials in Pristina say they may need more. 

The government has talked with the International Monetary Fund about a loan of $200 to $300 million and hopes to conclude a deal this month, according to the central bank governor.

In Kosovo, unemployment is 40 percent and average per capita income is 1,760 euros. That compares with average joblessness of just under 10 percent in the European Union and an average salary of about 24,000 euros ($35,930).

BUDGET SURPLUS

The government hopes big public projects will pull the roughly 45 percent of the population who earn up to 1.42 euros a day out of poverty.

"If nothing improves in the next two years there will be social unrest from those who have no jobs and those working in the public sector but are not paid well," said Alban Hashani, an economist working for development and research group Riinvest.

Its lack of exposure to financial markets, the unilateral use of the euro, fiscal stability and a balanced budget has saved Kosovo some of the woes of the global economic crisis.

Deputy Economy Minister Bedri Hamza says energy, roads and the private sector will fuel future growth. The country is expected to grow 4 percent in 2009, down from 5.4 in 2008.

But years of high growth will be needed to gain ground on even the poorest EU states. "To reduce poverty and unemployment we need to have economic growth of more than 8 percent for the next six or seven years," said Hamza.

Economists are sceptical. An investment boom, widely expected after independence, has not materialized.

This week Kosovo abandoned a project to build a 2,000 megawatt power plant due to lack of investor interest, a problem in a country where water and power shortages happen every day.

With a budget surplus, privatisation and pension revenues this year, Kosovo has a billion euros in unused cash, but officials are unsure how to use such funds effectively. 

Hashani said government should use it to create jobs.

"The country with the highest unemployment rate in Europe has a surplus? This is an economic phenomenon that does not happen anywhere in the world," he said.

Many people give up the search for work and leave for the West, sometimes illegally.

"The last day I worked was four months ago for ten euros a day," Jonuzi said at his house in the village of Buroje. "I am thinking about leaving the country and going somewhere to work, but I don't have 3,000 or 4,000 euros to pay the traffickers." (Editing by Benet Koleka and Adam Tanner)




Da: info  @...

Oggetto: "Le ceneri e il sogno" all'Ambasciata di Serbia

Data: 19 novembre 2009 0:05:31 GMT+01:00


Ambasciata della Repubblica di Serbia

Roma

é  lieta di invitarvi alla presentazione del libro

LE CENERI E IL SOGNO

di  Slobodanka Ciric

interverranno: Prof. Gilberto Vlaic, Presidente dell’Associazione “Non Bombe Ma Solo Caramelle”, Gabriella Musetti, editrice- scrittrice, Esther Basile, delegata Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli,  Sergio Manes, Direttore editoriale delle edizioni “La Città del Sole”,

duo “Aerae Napoli”, chitarra e voce Nicola Napolitano e Dante Ferri, voce recitante Slobodanka Ciric.

martedì , 24  novembre 2009 ore 20,00

presso la

Residenza dell’Ambasciatore

Via dei Monti Parioli, 22

00197 Roma




Slobodanka Ciric
LE CENERI E IL SOGNO
Edizioni La Città del Sole,
Napoli 2009, 152 pagine,  € 10,00

… E io rimango qui, ad una fermata clandestina tra la realtà e il sogno, a far da contrabbandiera di scomode storie, esiliata dalla vecchia e decomposta pelle jugoslava, senza identità, in attesa di asilo in questa mia nuova pelle serba. Attendo, nuda e vulnerabile, nascosta sotto il manto della napoletanità, che finisca la mia tormentata metamorfosi in corso.
Mi chiedo se ha senso ustionarmi così come faccio io, rovistare tra le ceneri ancora bollenti delle verità bruciate, se ha senso gridare a squarciagola, e sentire nient’altro che l’eco delle proprie parole che cadono nel vuoto dell’indifferenza. Ha senso questo esilio dato ad ogni buon senso?

Slobodanka Ciric racconta come ha vissuto – qui, in Italia – il dramma del suo popolo aggredito e del suo paese bombardato e smembrato.

Nel racconto autobiografico emerge il difficile e tormentato processo di identificazione che si svolge in una duplice direzione: da una parte l’affermazione, per sé e verso gli altri, della propria identità in un paese nuovo e in una nuova realtà, identità contestualizzata senza mai prescindere dalla centralità del fattore umano, dall’altra il rafforzamento dell’appartenenza ad un popolo, quello serbo, lacerato dagli orrori di un conflitto costruito scientificamente, la cui presenza storica, spirituale e culturale rivive nella dolcezza dei ricordi che le impediscono di tradire se stessa e nella memoria orgogliosa che le riaccende la speranza. 

“Boba” Ciric, pur nata ed educata in un paese del “socialismo reale”, non era una militante comunista. E, però, prima l’attacco surrettizio – economico e politico – volto allo smembramento di quel prodigio “pericoloso” che era la comunità dei popoli jugoslavi, poi l’aggressione militare e le stragi consumate dal “democraticissimo” Occidente e dal suo braccio armato – la NATO – suscitano in lei tumultuose esigenze di rabbia, di ribellione, di solidarietà che recuperano nella memoria della personale esperienza la straordinaria superiorità di valori e di relazioni umane – di uguaglianza, di solidarietà, di convivenza – vissute inconsapevolmente nella normalità quotidiana e oggi, invece, comprese perché brutalmente negate.
Ma Boba non vive la tragedia del suo paese e del suo popolo tra la propria gente: lei è al sicuro, in uno dei paesi aggressori, mentre in una situazione sempre difficile ricostruisce ostinatamente un suo percorso di vita. La lontananza la libera dalle conseguenze fisiche dell’aggressione, ma – tanto più – accresce la sofferenza morale. E Boba, allora, diventa una militante, non al servizio di un comunismo jugoslavo o serbo – che si era già dissolto –, né di una pietas cattolica – che storicamente e culturalmente non le appartiene –, ma di una dimensione umana che travalica le vìcende della storia e invera – per opera dei carnefici – i valori del socialismo assunti nella sua giovinezza.

C’è nel libro il racconto di un’esperienza fondamentale: Boba, giovane jugoslava in visita premio a Parigi, scopre che con i pochi franchi datele dal suo governo per le piccole spese da fare nella luccicante capitale occidentale può acquistare ben poco. Eppure se ne priva decidendo di donare quei pochi franchi ad un emarginato dello scintillante e opulento Occidente.
In questo gesto è racchiusa paradigmaticamente tutta l’esperienza solidale del ”socialismo reale” novecentesco, sovietico o titino che sia stato.
Anni dopo quella stessa giovane – obbligata ad esser serba, non più jugoslava – vive il dramma dello smembramento del suo paese e del massacro del suo popolo lontano dalla sua terra e dal suo martirio, mentre insegue il sogno di ricostruirsi una sua vita qui, in Italia.
Sofferenza per le ceneri a cui è stata cinicamente condannata la sua gente lontana, pudore per un sogno di vita – sofferto e tenacemente perseguito – sono le dolenti esperienze che questo libro – rigorosamente autobiografico – vuole rappresentare.
(Sergio Manes, editore)



Da: info @...

Oggetto: Camp Darby si allarga con l'aiuto del sindaco Pd - Di M. Dinucci

Data: 19 novembre 2009 18:44:24 GMT+01:00


BASI USA IN ITALIA

Camp Darby si allarga con l’aiuto del sindaco Pd

Manlio Dinucci 
 
La Regione Toscana e i comuni di Pisa e Livorno hanno dato il via, con un accordo di programma e 108 milioni di euro, al riassetto delle vie navigabili interne per «ottimizzare gli interscambi tra i siti logistici della Toscana». Davvero ottima iniziativa. Solo che tra i siti logistici maggiormente interessati c’è la base Usa di Camp Darby, che chiede l’ampliamento del Canale dei Navicelli che la collega al porto di Livorno. Il sindaco di Pisa Marco Filippeschi (Pd) ha chiesto al comando Usa una compartecipazione ai lavori «anche in vista di importanti prospettive dello stesso Camp Darby». Il comando ha «interesse ad allargare la darsena della base militare» così da manovrare due chiatte in contemporanea. 

Soddisfatto, il sindaco conferma che «gli americani ritengono questo insediamento molto importante e vogliono continuare a investirci» e che, per tale progetto, c’è «disponibilità sia da parte del Parco che della Regione». Dimentica però lo «smemorato» sindaco del Pd che lo stesso Consiglio comunale di Pisa ha approvato, il 18 gennaio 2007, una mozione per «la dismissione e la riconversione a usi esclusivamente civili di Camp Darby». 

La base, che rifornisce le forze terrestri e aeree nell’area mediterranea, africana e mediorientale, sta assumendo crescente importanza nel quadro del potenziamento delle basi Usa in Italia. Ha quindi necessità di velocizzare i collegamenti con il porto di Livorno e accrescere la capienza. Ciò può essere fatto creando, attraverso l’interporto livornese di Guasticce, un indotto che serva al transito e allo stoccaggio di materiali logistici, come gli «aiuti umanitari» della Usaid di cui la base costituisce il maggiore centro in Europa. In tal modo si può liberare, nella base, spazio per il deposito di altri armamenti. 

Camp Darby intende quindi irradiarsi nel territorio e, a tal fine, è validamente aiutata dal sindaco Filippeschi che, mentre gioisce per le «importanti prospettive» della base Usa da cui partono le armi per le guerre, promuove un mese di iniziative sul tema «Pisa città per la pace e i diritti umani».  



(E' in stampa, ma è già integralmente scaricabile da internet, il quarto numero della rivista KOMUNIST, bollettino dei Comunisti della Serbia)

Četvrti broj lista KOMUNIST je u štampi. Zainteresovani posetioci ovog sajta, u   prilici su, da pre izlaska štampanog izdanja, preuzmu ovaj broj u celosti i to je poklon od partije KOMUNISTI SRBIJE!


Klikni http://www.scribd.com/doc/22025691/Komunist-4 i preuzmi četvrti broj lista Komunist.


DAJTE SVOJ POTPIS ZA PREREGISTRACIJU PARTIJE KOMUNISTI SRBIJE! Za potpis: komsrb @ nadlanu.com




(deutsch / srpskohrvatski / italiano)


Credo


Non soccomberà il mio paese.
Dalla morte per la libertà
sempre e solo libertà rinasce.
Come dai fiori, solo fiori
le sementi doneranno
e dal nido degli uccelli,
altri uccelli voleranno.

Il mio paese di soffrire è abituato,
di martirio è colmo,
da sempre è lacerato,
eppure sa, che un giorno
risorgerà:
allarga già le ali.

Non si perderà il nostro paese
che il sogno ha nutrito
della fratellanza
tra rinunce
e sacrifici.
Nel nome della fratellanza ha dato
e perdonato.

Non soccomberà il mio paese.
Sempre fu profeta:
recluso, dalla sferza nemica offeso,
in epoche maligne
quando i popoli brancolavano nel buio,
nelle nostre baite i pastori
come dal grano separando le gramigne,
il vero
discriminavano dal falso.


(trad. di D. Kovacevic e A. Martocchia


Verujem


Moja zemlja propasti neće.
Iz smrti za slobodu
sloboda uvek niče,
kao što iz cvetnog semena
mora nići cveće,
i kao što se iz gnezda
uvek izleže ptiče.

Moja zemlja je naučila da pati,
mučenica je oduvek bila,
oduvek komadana;
ona zna, jednog dana
opet će postojati;
već je razmahnula krila.

Naše zemlje nestati neće;
o bratstvu ona je uvek
snevala,
odricala se zbog njega
i ispaštala.
Moja je zemlja oduvek davala,
i u ime bratstva praštala,
praštala.

Moja zemlja propasti neće;
uvek je proročica bila;
sred neprijateljskih tamnica i šiba,
u sva vremena crna,
kad narodi po magli blude,
pastiri iz naših koliba,
kao kukolj od zrna,
odvajali su od istina
misli lude.


Ich glaube


Mein Land wird nicht untergehen.
Aus Blumensamen
werder stets Blumen spriessen,
und im Nest mit Vogeleiern
wird man Vögel schlüpfen sehen.
So wird aus dem Tod für die Freiheit
auch immer die Freiheit erstehen.

Mein Land ist gewohnt zu leiden,
Martyriern hat es erlitten,
es wurde in Stücke gerissen
und darf doch glauben und wissen:
Eines Tages wird es auferstehen.
Schon lernt es die Flügel ausbreiten.

Unser Land wird nicht verlorengehen.
Den Traum von Brüderlichkeit
nährte es
mit Verzichten und Fasten.
Mein Land trug alle Lasten,
es musste im Namen der Brüderlichkeit
geben, verzeihen, verstehen.

Mein Land wird nicht untergehen.
Immer gab es Propheten:
In Kerkern, unter Knuten,
in schweren Zeiten, vom Glück gemieden,
wenn die Völker im Nebel irrten,
haben aus unseren Hüttern die Hirten
wie das Unkraut vom Weizen
die falschen Gedanken
von der Wahrheit geschieden.





(Analisti russi commentano la sfacciataggine occidentale nei confronti dei Balcani: 
# in Kosovo si canta vittoria per "elezioni locali" alle quali la popolazione, anche albanofona, ha partecipato lo scorso 15/11 con ben scarsa affluenza - e per noi italiani è assolutamente da stigmatizzare il trionfalismo espresso da giornalisti e funzionariato delle cosiddette ONG "cooperanti", diventate mera "longa manus" delle politiche nostrane di assoggettamento imperiale/coloniale. Ma dagli ambienti diplomatici le pressioni che arrivano nei confronti di Belgrado non si limitano nemmeno più a chiedere il riconoscimento della secessione su base razziale della provincia serba: si preme oramai anche per obiettivi geopolitici ulteriori, quali lo "sganciamento" della Serbia dalla Russia e l'abbandono di progetti energetici invisi agli USA quali Southstream [vedi: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5955 , http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6455 ]
# a Berlino si tengono celebrazioni per il ventennale della annessione della DDR alla Repubblica Federale, con scarsissima partecipazione e ancor meno entusiasmo popolare. Nella "narrazione ufficiale" di quei fatti e degli eventi successivi si omette sempre di menzionare la principale conseguenza della "riunificazione tedesca", e cioè la GUERRA. Infatti è stata innanzitutto la diplomazia tedesca a provocare le dichiarazioni di "indipendenza" slovena e croata ed il conseguente scoppio della guerra civile antijugoslava. Ed il Nuovo Ordine Europeo realizzato con i fatti dell'89 minaccia anche altri Stati e confini del vecchio continente. Sull'argomento è bene rinfrescarsi la memoria: https://www.cnj.it/CHICOMEPERCHE/sfrj_03.htm [a cura di Italo Slavo])


Russian analysists on Western misbehavior in Kosovo and the Balkans 

1) Elections in Kosovo a turning point (Dmitry Babich / RIA Novosti)

2) Balkan Shadow Of Berlin Celebration (Pyotr Iskenderov / SCF)

SOURCE: Stop NATO
http://groups.yahoo.com/group/stopnato
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=== 1 ===

http://en.rian.ru/analysis/20091117/156876507.html

Russian Information Agency Novosti - November 17, 2009

Elections in Kosovo a turning point

Dmitry Babich

-EU officials are the ones forcing the Serbian government to accept several very unpleasant decisions - recognition of the municipal elections in Kosovo, dissociation from Russia and pullout of joint energy projects with Russia.
-As for democratic values in the EU policy with regard to Serbia, they are hard to believe in, given the EU officials' open sympathies with the Albanian militants of the Kosovo Liberation Army. Incidentally, the supporters of two KLA leaders, former "prime minister" Ramush Haradinaj and his successor Hashim Thaci, caused a violent clash in one of the Albanian enclaves.
-It is worth reminding here that Haradinaj was allowed to leave the Hague occasionally "to rule" Kosovo during his trial, while Thaci was eventually cleared by the Hague Tribunal of all charges of genocide of Serbs.


MOSCOW: The November 15 municipal elections in Kosovo can be seen as a turning point in the region's history.

This was the first vote since Kosovo unilaterally declared independence in February 2008, still unrecognized by Russia and a number of other countries. Moreover, these elections were also the first to be held by local authorities alone, without any help from the UN Mission in Kosovo or the OSCE, which virtually ran the place for a long time.

The elections took part with a fairly large turnout of local Serbs at the polls. This by no means eliminates the totally unfair situation in Kosovo, which Russian President Dmitry Medvedev pointed out during his recent visit to Belgrade. When a breakaway region - a self-declared independent state - is given the green light to international recognition by none other than the United States and the EU, this region knows it is as good as being recognized by the whole international community. But this also creates a dangerous precedent.

Last Sunday's vote did not have to approve Kosovo's independence. The voters had to decide whether it will be further run by Kosovo Albanians alone or local Serbs will preserve some political influence at least on the local level, by having seats on city halls.

With regard to the national level, the Serbs' chances are close to zero. With the Albanian and Serb populations ratio of over 10 to 1 (120,000 Serbs out of the nearly 2 million Kosovo population), the Serbs in parliament have practically no possibility of setting up a party which would have at least some minor influence.

At the November 17, 2007 parliamentary elections, the seats were split between Albanian parties. However, the situation is slightly different at the municipal level - Serbs have a majority in five city governments out of 38.

Two of them are in the north of Kosovo, adjacent to the Serbian border: They have been living virtually independently of the Albanian Kosovo for a while now. They did not even hold elections last Sunday. The remaining three - Gracanica, Klokot, and Ranilug - are "Serb enclaves" in the center and south of Kosovo. Their population had to make a choice: either skip the voting and see hostile Albanians as their city council members and the city mayor, or take part in the illegitimate elections. According to reports, the majority of the local Serbs did go to the polls.

Incidentally, most of the pressure on Serbia to finally choose the lesser of two evils comes from the European Union - which Serbia is so keen to join. EU officials are the ones forcing the Serbian government to accept several very unpleasant decisions - recognition of the municipal elections in Kosovo, dissociation from Russia and pullout of joint energy projects with Russia. They are using the good old stick and carrot policy, the stick (the tight visa policy) being very real, while the carrot (the much-desired EU membership) a far-fetched and remote possibility.

Ever the most ardent EU supporter in Serbia, or in Russia for that matter, cannot claim that the EU is pursuing some abstract humanistic or democratic goals. Due to its tight visa policy, 70% of young Serbs (who, incidentally, were too young to take part in the ethnic wars during the breakup of Yugoslavia), have never been to any of the EU countries.

According to a survey, the repeated delays of the much-craved EU accession have led to a drop in the number of EU-enthusiasts in Serbia from 72% in 2007 to 63% by the end of 2008. These data are quoted by Pavel Kandel, a research associate of the Institute of Europe of the Russian Academy of Sciences, in the collection of articles "Crisis in Kosovo and International Security." These figures reflect "the Serbs' last hope pinned on Moscow and their outrage at Brussels' anti-Serb policies," he comments.

As for democratic values in the EU policy with regard to Serbia, they are hard to believe in, given the EU officials' open sympathies with the Albanian militants of the Kosovo Liberation Army. Incidentally, the supporters of two KLA leaders, former "prime minister" Ramush Haradinaj and his successor Hashim Thaci, caused a violent clash in one of the Albanian enclaves.

It is worth reminding here that Haradinaj was allowed to leave the Hague occasionally "to rule" Kosovo during his trial, while Thaci was eventually cleared by the Hague Tribunal of all charges of genocide of Serbs.

All the above gives Russia more tools to pressure Belgrade. True, the Serbs were disappointed by Boris Yeltsin's Russia, which promised them support in 1999 and then proposed they give in. But today, EU and NATO officials are in fact doing what Russia would have failed to do even if it had supplied the Serbs with the S-300 anti-aircraft weapons they were asking for in 1999.

Russia can regain influence in the Balkans not because it is so good, but because European bureaucrats have proved far worse.


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http://en.fondsk.ru/article.php?id=2584

Strategic Culture Foundation - November 16, 2009

Balkan Shadow of Berlin Celebration

Pyotr Iskenderov

-Berlin's influence prevailed, and German advisers managed to convince their Croatian protégées to act resolutely. On May 19, 1991 the Croatian administration held a referendum with over 94% of those who went to the polling booths opting for immediate secession....Soon Sarajevo followed suit, massive fighting swept across the Balkans, NATO got the desired pretext for intervention, and Germany emerged as the key force in the new European geopolitical architecture. 
Praising German unification, we should not forget how the fall of the Berlin Wall cast a shadow over other countries and their peoples.


The celebration of the 20th anniversary of the fall of the Berlin Wall is over. Several high-ranking foreign visitors, many of whom had nothing to do with the historical development at the time it took place, spoke about the enormous importance of German unification and the symbolic significance of the event which put the final dot in the history of the Cold War. 

The truth, however, is that there are parts of Europe where the fall of the Berlin Wall is not regarded as a totally positive change since immediately upon the alleged completion of the bloodless Cold War Europe had to face a proliferation of real armed conflicts. 

The widely held view is that the 1989 German unification opened the era of the demise of totalitarian regimes across the continent and ultimately made the creation of a united Europe possible. 

Numerous private conversations with the residents of the Balkans actually led me to a different conclusion. The disintegration of Yugoslavia — a process that cost thousands of lives - commenced only a year after the demolition of the Berlin Wall. Notably, unified and extremely powerful Germany was one of its drivers. 

Germany was behind the urgent declaration of independence by Slovenia and Croatia, as well as behind their snap recognition by the international community regardless of the fact that the latter clearly lacked a viable model of coexistence for its Serbian and Croatian populations. Besides, the origin of the ethnic conflict that erupted in Bosnia and Herzegovina in the spring of 1992 can only be grasped if the activity of outside forces is taken into account. 

Why did Germany, a country just rebuilt after the traumatic partition imposed on it after World War II, take the active role in the Balkan geopolitical overhaul? Napoleon used to say that every nation's politics stems from its geography. The concept applies perfectly to the late 1980s—early 1990s situation in Europe on the whole and in the Balkans in particular. 

It should be realized that following the collapse of the eastern bloc and the unification of the two Germanies, Berlin saw itself as the strongest player in Europe and actively sought European leadership over which it traditionally competed with France. 

US military bases that Germany continued to host in the framework of its international obligations after the withdrawal of the Soviet forces presented the main obstacle in the way of the country's aspirations. 

There were indications that Germany hoped to have the problem resolved by shifting the bases to the Balkans, where their existence could be based not on Soviet-era international agreements but on a NATO mandate, and where Germany could be guaranteed a place among the key players. 

What was needed to make the plan materialize was a serious pretext for the Balkan expansion, and a process including the break-up of Yugoslavia and the emergence of several protracted ethnic conflicts spread over its former territory conveniently provided one. 

The implementation of the scenario began in Slovenia and Croatia, where, due to historic reasons, the German influence was deeply rooted. Already in the 1980s the German intelligence service had strong positions in Slovenia and especially in Croatia as various émigré nationalist and extremist groups it sponsored gradually made inroads into the administrations. 

German advisers and NGO envoys flocked to Croatia in large numbers in 1989-1990. It was due to their activity that eventually the republic became the scene of the first armed clashes in the former Yugoslavia, which scared even the no less active US representatives. 

In May, 1990 Croatia's First President Franjo Tudman introduced a new constitution (put together largely under German advisers' supervision) via the parliament dominated by pro-independence forces. 

It proclaimed that Croatia was a national state of the Croats and other peoples inhabiting it rather than, as formulated previously, a state of the Croatian and Serbian peoples as well as of others inhabiting it. 

The legal subtlety automatically left Serbs who used to be a state-forming nation in the position of a minority. Discontented with the downgrade, Serbs launched a referendum of their own in August 1990, during which, however, their response was limited to asserting their right to sovereignty and autonomy within Croatia. Secession was not on the agenda, but the Croatian government nevertheless resorted to force to prevent the referendum from taking place, and the moment marked the onset of the armed conflict in the republic. 

Serbs of Croatia offered a political solution even after the incident. On September 30, 1990 the Serbian National Council proclaimed the autonomy of the Serbian people on the ethnic and historical territories they inhabited within Croatia as a member of Yugoslavia, but Zagreb's course agreed with German advisers remained unchanged. 

The new Croatian constitution entered into force on December 22, and the very next day neighboring Slovenia called an independence referendum during which 94% of the ballots were cast in favor of separation from Yugoslavia. 

Interestingly, over the weeks preceding the enactment of Tudman's constitution Washington kept calling the Croatian leaders to exercise restraint and to avoid steps prone with an armed escalation. 

Still, Berlin's influence prevailed, and German advisers managed to convince their Croatian protégées to act resolutely. On May 19, 1991 the Croatian administration held a referendum with over 94% of those who went to the polling booths opting for immediate secession. The Serbs of Croatia did not attend, and Germany, assisted by the Vatican, promptly ensured the European recognition of the two new independent countries. Soon Sarajevo followed suit, massive fighting swept across the Balkans, NATO got the desired pretext for intervention, and Germany emerged as the key force in the new European geopolitical architecture. 

Praising German unification, we should not forget how the fall of the Berlin Wall cast a shadow over other countries and their peoples.




Il Muro di Berlino spostato sui confini della Russia

1) 1989-2009: Il Muro di Berlino si sposta sui confini della Russia 
di Rick Rozoff

2) NIJEMACIMA BILO BOLJE U DDR-U I KOMUNIZMU / Nostalgia o senso della realtà? Un sondaggio tedesco rivela che la maggioranza dei tedeschi dell’Est rimpiange le conquiste socialiste...

3) Nell'Europa dell'est cresce la nostalgia del comunismo

4) Sekretarijat SKOJ-a: PAO JE NA POGREŠNU STRANU!


Vedi anche / see also:

Berlin Wall: From Europe Whole And Free To New World Order
Rick Rozoff - Stop NATO - November 9, 2009

A venti anni dalla caduta del Muro di Berlino
Dossier - dibattito sul sito di Contropiano

L'addio al comunismo? È costato un milione di morti. Nell'Est la mortalità è aumentata del 13% per le privatizzazioni
di Mara Gergolet - su Corriere della Sera del 09/11/2009

Altri articoli sul milione di morti causati dal capitalismo:


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(the original  english text also at: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6563 )

1989-2009: Il Muro di Berlino si sposta sui confini della Russia 

di Rick Rozoff


(Una analisi della situazione venti anni dopo lo... spostamento del Muro di Berlino verso il confine russo; articolo segnalato dal Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia – onlus)

 Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova

Stop NATO – 7 novembre 2009

Il 9 novembre segnerà il ventesimo anniversario della decisione da parte del governo della Repubblica Democratica di Germania di aprire valichi di passaggio nel muro che separava i settori orientali ed occidentali di Berlino.
Dal 1961 al 1989 il muro aveva costituito una linea di divisione nella -, un simbolo di -, e un metonimo per -, Guerra Fredda. 
Una generazione successiva a questi eventi si incontrerà a Berlino per commemorare la “caduta del Muro di Berlino”, l’ultima vittoria che l’Occidente può rivendicare negli ultimi due decenni. 
Impantanati nella guerra in Afghanistan, nell’occupazione dell’Iraq e nella peggior crisi finanziaria dal tempo della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso, gli Stati Uniti, la Germania e l’Occidente nel suo complesso sono ansiosi di gettare un tenero sguardo all’indietro verso quello che è apparso come il loro più grande trionfo, il collasso del blocco socialista nell’Est Europeo seguito a ruota stretta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. 
Tutti gli attori di questo dramma -  Ronald Reagan, Mikhail Gorbachev, George H. W. Bush (N.d.tr.: Bush padre!), Vaclav Havel, Lech Walesa – e gli eventi che hanno condotto a questo, saranno con riverenza elogiati e considerati degni di celebrità. 
Gorbachev assisterà (forse con qualche imbarazzo?) alla festa di anniversario alla Porta di  Brandenburgo e le pagine di editoriali di tutto il mondo, dense di deferenza, ripeteranno la litania di banalità, di cose pietose, di elogi auto-gratificanti e di grandiose rivendicazioni, come ci si deve aspettare per l’occasione. 
Quelli che non verranno riportati sono i commenti come quello pronunciato il 6 novembre da Mikhail Margelov, Presidente della Commissione per gli Affari Esteri della Camera Alta del Parlamento Russo, il Consiglio della Federazione. Vale a dire, che “il Muro di Berlino è stato sostituito da un cordone sanitario di nazioni ex-Sovietiche, dal Mar Baltico al Mar nero.” [1]
Con l’unificazione, prima di Berlino e poi dell’intera Germania, l’Unione Sovietica e il suo Presidente Mikhail Gorbachev avevano ricevuto assicurazioni che l’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (NATO) non si sarebbe allargata verso est, verso i confini dell’URSS.  
Gorbachev ribadisce che nel 1990 l’allora Segretario di Stato James Baker gli aveva dichiarato: “Guarda, se tu ritiri le tue truppe e consenti l’ingresso della Germania  nella NATO, la NATO non si espanderà di un pollice verso est.” [2]
Non solo l’ex Germania Est veniva assorbita dalla NATO, ma negli ultimi dieci anni anche altri alleati del Patto di Varsavia entravano come membri di diritto del blocco NATO - Bulgaria, la Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia.
La Russia è stata attaccata dall’Occidente per due volte, dai più imponenti eserciti di invasione mai assemblati nel continente Europeo e a un tempo nel mondo (nonostante le valutazioni iperboliche di Erodoto relative all’armata di Serse), quello di  Napoleone Bonaparte nel 1812 e di Adolf Hitler nel 1941. Il primo esercito consisteva di 700.000 uomini e il secondo di 5 milioni.
Le preoccupazioni di Mosca per l’accerchiamento invasivo militare a cui è sottoposta e il suo desiderio di assicurarsi almeno delle zone neutre tampone attorno ai suoi confini occidentali sono invariabilmente dipinte negli Stati Uniti e nelle capitali Occidentali alleate degli USA come una qualche combinazione di paranoia Russa e di trama per far rivivere l’“Impero Sovietico”. 
Quello che i luminari auto-incensanti di geopolitiche Occidentali pensano sul concetto di neutralità verrà considerato più avanti.

Con l’espansione del blocco militare, dominato dagli USA, nell’Europa Orientale nel 1999 e nel 2004, in quest’ultimo caso non solo i restanti stati non-Sovietici dell’ex Patto di Varsavia ma tre delle repubbliche ex-Sovietiche sono divenute membri effettivi della NATO, attualmente esistono cinque nazioni NATO che confinano con la Russia. Tre direttamente adiacenti alla sua terraferma – Estonia, Lettonia e Norvegia – e due più contigue all’exclave di Kaliningrad,  la Lituania e la Polonia. 
La Finlandia, la Georgia, l’Ucraina e l’Azerbaijan si stanno preparando a seguirne l’esempio e così si completerà l’accerchiamento dal Golfo di Barents al Baltico, dal Mar Nero al Mar Caspio. 
La lunghezza del Muro di Berlino che separava la Berlino Ovest dalla Repubblica Democratica Tedesca era di 96 miglia. Il cordone militare NATO dalla Norvegia nord-orientale all’Azerbaijan settentrionale andrebbe ad estendersi oltre le 3.000 miglia (più di 4.800 chilometri).
Di recente, un notiziario Russo commentava così la spesa di 110 milioni di dollari da parte degli USA per migliorare due delle sette nuove basi militari che il Pentagono ha acquisito sul Mar Nero di fronte alla Russia : “Le installazioni in Romania e in Bulgaria sono in linea con il programma di rilocazione delle truppe Americane in Europa annunciato nel 2004 dall’allora Presidente George Bush. Il principale obiettivo è la dislocazione il più vicino possibile ai confini della Russia.” [3]

Il muro che sta per essere eretto e allacciato attorno a tutta la Russia Europea non è una ridotta difensiva, una barriera di protezione. Si tratta di una falange di basi e di strutture militari in avanzamento senza tregua.
Il mese scorso, il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen era in Lituania per ispezionare la Base Aerea Siauliai, dalla quale gli aerei da guerra della NATO hanno condotto ininterrottamente pattugliamenti sopra il Mar Baltico per più di cinque anni, navigando sopra le coste della Russia, a tre minuti di volo da St. Pietroburgo.
In questa occasione, la nuova Presidente della Lituania Dalia Grybauskaite ha dichiarato: “Noi abbiamo ricevuto assicurazioni che la NATO è tuttora interessata ad impegnarsi nella difesa della regione Baltica...  Sono contenta di vedere qui, in Lituania, il Segretario Generale della NATO, nell’unica, ma molto importante base aerea della NATO presente negli stati Baltici. Questo è uno dei punti cruciali di difesa NATO nella regione Baltica.” [4]
Nella contigua Polonia, un servizio giornalistico dello scorso aprile ha fornito dettagli sul grado dello sviluppo sempre crescente dell’Alleanza Atlantica nella nazione:
“Gli investimenti della NATO in infrastrutture di difesa in Polonia nei prossimi cinque anni potranno aumentare a più di un miliardo di euro (1 euro = 4,15 zloty)...  
“La Polonia è forse l’area del più largo volume di investimenti della NATO nel mondo. 
“Al presente, sono vicini al completamento lavori di costruzione o di ammodernamento su sette aeroporti militari, due porti marittimi, cinque depositi di carburante, come su sei basi strategiche radar a lungo raggio. Progetti di posto comando di difesa aerea a Poznan, Varsavia, e Bydgoszcz hanno già ricevuto il benestare inizio lavori, come pure un progetto di comunicazioni radio a Wladyslawowo.
“Fra le altre cose, i nuovi investimenti includeranno l’equipaggiamento di aeroporti militari a Powidz, Lask e Minsk Mazowiecki con nuove installazioni di logistica e difesa.” [5]
La Polonia, presto, ospiterà qualcosa come 196 missili Americani intercettori Patriot e 100 militari incaricati del loro funzionamento, ed esiste un sito analogo per il dispiegamento di batterie di missili Americani anti-balistici SM-3. 
Come abbiamo fatto menzione in precedenza, Washington e la NATO si sono assicurati l’uso a tempo indefinito di sette basi militari in Bulgaria e Romania, prossime al Mar Nero della Russia, incluse le basi aeree di Bezmer e Graf Ignatievo in Bulgaria e la base aerea di Mihail Kogalniceanu in Romania. [6]
Il 28 ottobre si trovava in Romania il Gen. Roger Brady, comandante delle Forze Aeree USA in Europa, per sovrintendere alle manovre di addestramento militare congiunte, durante le quali “la Forza Aerea USA effettuava 100 missioni, metà delle quali avvenivano in collaborazione con la Forza Aerea della Romania.”  [7]
Il Pentagono conduce esercitazioni annuali NATO “Brezza di Mare” in Ucraina, nella Crimea, dove è di base la Flotta Russa del Mar Nero. 
Inoltre dirige regolarmente manovre militari di “Risposta Immediata” in Georgia, la più ampia di queste esercitazioni da far risalire ai giorni che hanno preceduto l’attacco della Georgia contro l’Ossezia del Sud e il conflitto risultante con la Russia nell’agosto 2008, e attualmente una manovra è in fase di completamento. 
Nel mese di maggio gli USA hanno condotto in Georgia le annuali esercitazioni tattiche   “Cooperative Longbow 09/Cooperative Lancer NATO Partnership for Peace”, con l’impiego di 1.300 uomini di truppa di 19 nazioni.[8] 
Pochi giorni fa, si trovava in Georgia il Generale Comandante dell’Esercito USA in Europa, Generale Carter F. Ham, per “informarsi sull’addestramento di “Immediate Response 2009” in corso fra l’esercito USA e quello della Georgia” e per “visitare la Base Militare di Vaziani e sovrintendere alle esercitazioni.” [9] 
Un ufficiale Russo, Dmitry Rogozin, parlava di queste esercitazioni militari congiunte e metteva in guardia che “Noi tutti abbiamo presente che simili attività avvenute lo scorso anno hanno avuto un seguito con gli avvenimenti di questo agosto.” [10]
In un giornale Georgiano, un editoriale sulle manovre militari confermava le apprensioni Russe reiterando questo collegamento: “La Georgia sta combattendo in Afghanistan per la pace e la stabilità, in modo da assicurare alla fine pace e stabilità in Georgia, perché chi semina bene raccoglie senza dubbio meglio, nella pienezza dei tempi.” [11]. Che è come dire, dato che la Georgia assiste militarmente gli USA in Afghanistan, allora gli USA forniranno appoggio alla Georgia in qualche futuro conflitto con i suoi vicini nel Caucaso. 
La stampa mondiale ha di recente riferito su una visita di tre giorni del Ministro degli Esteri Polacco Radoslaw Sikorski negli Stati Uniti per, fra le altre cose, “incontrare il Segretario di Stato USA Hillary Clinton... per discutere della situazione in Afghanistan e di una nuova proposta Statunitense per uno scudo missilistico” [12] e per tenere una conferenza alla Brookings Institution, dove ha trattato del programma di Partnership Orientale di Polonia, Svezia ed Unione Europea per inglobare   Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia ed Ucraina nell’orbita “Euro-Atlantica” e delle preoccupazioni di Mosca che l’Occidente stia muovendosi per assumere il controllo dell’area ex Sovietica: “L’Unione Europea non necessita del consenso della Russia.” [13]
Quantunque, ciò che ha suscitato maggiori controversie è stato il suo discorso ad una conferenza sponsorizzata dal Centro Internazionale di Studi Strategici (CSIS), dal titolo “Gli Stati Uniti e l’Europa Centrale: interessi strategici convergenti o divergenti?” 
Naturalmente, il principale motivo della conferenza era il ventesimo anniversario della fine della Guerra Fredda simbolizzata dallo smantellamento del Muro di Berlino.
L’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski presentava una relazione densa di riferimenti alle supposte “aspirazioni imperiali” della Russia, alle minacce Russe contro la Georgia e l’Ucraina e alle intenzioni della Russia di diventare una “potenza mondiale imperiale.” [14]
Sikorski, non un estraneo a Washington, qui essendo stato membro residente presso l’American Enterprise Institute e direttore esecutivo del New Atlantic Initiative dal 2002-2005, prima di ritornare in patria per diventare Ministro della Difesa della Polonia, suggeriva che le recenti manovre militari congiunte Bielorusso-Russe necessitavano di impegni più decisi della NATO nel Nord-Est dell’Europa. 
Ribadiva che l’impegno di assistenza militare secondo l’Articolo 5 dello Statuto dell’Alleanza – fra parentesi, ecco il perché a presto andranno in Afghanistan almeno 3.000 soldati Polacchi – era troppo “vago” e proponeva come alternativa più concreta qualcosa come i 300.000 uomini di truppa USA di stanza nella Germania Ovest durante la Guerra Fredda.[15]
Successivamente, il governo Polacco ha negato che il suo Ministro degli Esteri esplicitamente avesse invocato un dispiegamento di truppe Americane, e di fatto non l’aveva chiesto, ma i suoi commenti erano in linea con diversi altri avvenimenti e dichiarazioni recenti.
Per esempio, lo scorso ottobre la Polonia dichiarava pubblicamente che era stato pianificato un imponente miglioramento delle sue forze armate per 60 miliardi di dollari.  
“Il Ministro della Difesa Bogdan Klich rendeva di pubblico dominio un piano... per modernizzare l’esercito mediante 14 programmi: sistemi di difesa aerea, elicotteri da combattimento e da trasporto, modernizzazione della flotta, aerei per attività spionistica e telecomandati, simulatori da addestramento ed equipaggiamento per le truppe... Klich annunciava piani per la costruzione di un nuovo velivolo per addestramento al combattimento LIFT, di rampe di lancio per missili Langust,  di obici auto-propulsi Krab, di rampe per razzi Homar, e di un numero maggiore di mezzi blindati Rosomak e dichiarava una spesa di 30 miliardi di zloty per la sola modernizzazione dell’esercito.” [16]
L’arrivo, in quello stesso periodo, del cacciatorpediniere USS Ramage della flotta da guerra Statunitense con i suoi 250 marines, freschi di manovre NATO sulle coste della Scozia, “per partecipare ad una esercitazione militare con ufficiali della flotta Polacca,”  prova che i desideri di Sikorski non erano stati ignorati. [17] 
Prima della sua partenza, la rete televisiva locale TVN24 riportava che la USS Ramage “mentre partecipava alle manovre congiunte USA-Polacche... sparava sulla costa della Polonia”. [18]  
 [N.d.tr.: Il 28 ottobre, sono partiti tre colpi da una mitragliatrice M240 della USS Ramage, che stazionava in prossimità del porto della cittadina Gdynia. I colpi sono piovuti sulla cittadina polacca, senza provocare vittime. La notizia si è diffusa dopo che diversi abitanti della cittadina si erano rivolti alle locali autorità di polizia per denunciare di aver udito forti spari di origine sconosciuta. La polizia polacca ha quindi abbordato la nave americana per avviare un’inchiesta sull’accaduto. Le autorità militari statunitensi hanno spiegato che un membro dell'equipaggio avrebbe accidentalmente fatto partire tre colpi, mentre puliva la M240.
Questa è almeno la versione ufficiale che tuttavia lascia aperto più di un interrogativo, visto che le caratteristiche dell’arma rendono piuttosto improbabile che un colpo possa partire durante la sua manutenzione. La USS Ramage stava ritornando al porto dopo l’esercitazione NATO sul Mar Baltico.]
Il Comandante Tom Williamson comunicava all’ambasciata USA a Varsavia: “L’equipaggio della USS Ramage è stato sottoposto ad inchiesta in relazione all’accaduto.” [19]

Successivamente, un’altra nave da guerra Americana, il cacciatorpediniere lanciamissili USS Cole dotato di missili teleguidati di tipo Aegis, che aveva partecipato alle manovre navali congiunte in Scozia “Joint Warrior 09-2”, attraccava in Estonia. 
Agli inizi di questo mese, la fregata lanciamissili USS John L. Hall che vedeva imbarcati “uomini di marina del Nono Distaccamento dello Squadrone 48 di Elicotteri Anti-Sottomarino” [20] arrivava in Lituania. 
Sulla visita, un ufficiale della marina USA dichiarava: “Noi siamo qui come esempio della presenza continua della Marina Militare degli Stati Uniti nel Mar Baltico... Inoltre siamo qui per collaborare con la Marina da Guerra Lituana, nostro partner prezioso e la nostra visita fa parte delle relazioni in corso fra i nostri due paesi e le nostre due flotte.” [21]
A dimostrazione di come navi da guerra Americane reiterassero la loro “presenza continua nel Mar Baltico”, il Ministro della Difesa dell’Estonia affermava che “la NATO possiede piani di difesa per i Paesi Baltici, e questi piani sono in pieno sviluppo” [22], e il suo collega Lituano ribadiva: “Per la Lituania è importante che il nuovo Concetto di Alleanza Strategica vada ad includere punti che prevedono l’unità collettiva per l’applicazione della sicurezza strategica nella regione del Mar Baltico e la comune responsabilità per il futuro delle operazioni militari dell’Alleanza.” [23]
Il Ministro della Difesa Estone Jaak Aaviksoo dichiarava all’Associated Press “che il suo paese vedeva all’orizzonte nuove minacce, dal momento che la Russia aveva invaso la Georgia l’anno passato e dal fatto che nel 2007 un attacco cibernetico aveva preso di mira l’Estonia.” 
“Aaviksoo progetta di incontrare il Ministro della Difesa degli USA Robert Gates” il 10 novembre. [24]
Il Presidente dell’Estonia Toomas Hendrik Ilves, un espatriato Americano ed ex attivista della Radio Libera Europa, proponeva che manovre NATO si tenessero negli stati Baltici. 
Recentemente, il Ministro della Difesa Imants Liegis confermava che “nella prossima estate la Lituania avrebbe condotto esercitazioni militari su larga scala, in risposta alle manovre strategiche Russo-Bielorusse.” [25] Senza dubbio, non da sola! 

Il catalogo soprastante delle attività militari e delle dichiarazioni bellicose fa supporre un alt alle ottimistiche aspettative risultanti dalla fine della Guerra Fredda, che di fatto non è mai terminata ma ha spostato le sue operazioni, in buona sostanza, verso Oriente.
Comunque, coloro i cui i nomi saranno evocati ed invocati il 9 novembre in occasione dell’anniversario dell’abbattimento del Muro di Berlino non hanno avuto successo nell’immediato periodo successivo.
Tre anni dopo la caduta del Muro, George H. W. Bush senior, perfino un anno dopo l’Operazione “Tempesta sul Deserto”, è diventato solo il terzo Presidente Americano, a partire dall’Ottocento, a perdere il tentativo di una rielezione. 
Quattro anni dopo la caduta, Mikhail Gorbachev concorreva alla Presidenza della Russia e riceveva solo lo 0.5% dei voti.
Nella sua ultima corsa alla Presidenza della Polonia nel 2000, Lech Walesa, visto che il suo elettorato nazionale aveva finalmente capito qualcosa sul suo conto, ha ricevuto l’1% dei consensi.
Ma lui e i suoi camerati Occidentali eroi della Guerra Fredda marciano ancora e sempre per affrontare la Russia durante l’attuale fase di un nuovo conflitto.
In luglio, in quella che è stata intestata come “Una lettera aperta all’Amministrazione Obama dall’Europa Centrale e Orientale”, campioni della vecchia/nuova Guerra Fredda, come Lech Walesa, Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Alexander Kwasniewski e Vaira Vike-Freiberga – Adamkus ha vissuto per diversi decenni negli USA e Vike-Freiberga in Canada – hanno inchiodato la loro retorica anti-Russa a toni che non si erano mai più uditi dall’epoca dell’Amministrazione Reagan.
Questi, alcuni dei loro commenti:
“Noi abbiamo operato per costruire rapporti d’amicizia e relazioni bilaterali. Noi rappresentiamo voci dell’Atlantismo all’interno della NATO e dell’Unione Europea. Le nostre nazioni si sono sempre impegnate a fianco degli Stati Uniti nei Balcani, in Iraq, e attualmente in Afghanistan... Nubi tempestose hanno cominciato ad ammassarsi all’orizzonte della politica estera”
“Le nostre speranze per un miglioramento delle relazioni con Mosca e che finalmente Mosca si capacitasse del tutto della nostra completa sovranità ed indipendenza, dopo il nostro ingresso nella NATO e nell’Unione Europea, non si sono pienamente realizzate. Al contrario, la Russia è ritornata ad essere una potenza revisionista inseguendo un programma Ottocentesco, però con tattiche e metodi del XXI secolo.”
“Il pericolo è che la strisciante intimidazione di Mosca e i tentavi di allargare la sua influenza nella regione possano portare fuori tempo ad una neutralizzazione de facto della regione.” 
“La nostra regione ha patito quando gli Stati Uniti hanno dovuto sottostare al ‘realismo’ di Yalta. 
E ha goduto benefici quando gli Stati Uniti hanno usato la loro potenza in una lotta di principio. Questo è stato cruciale durante la Guerra Fredda e quando si sono aperte le porte alla NATO. Avesse prevalso un analogo ‘realistico’ punto di vista agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, ora noi non saremmo nella NATO... ” 
“Noi sentiamo il bisogno di un rafforzamento della NATO come il più importante punto di collegamento fra Stati Uniti ed Europa per la sicurezza. Per noi la NATO rappresenta la sola credibile potenza che ci garantisce in modo deciso la sicurezza.  La NATO deve riconfermare la sua funzione centrale di difesa collettiva, anche adesso che siamo nel XXI secolo soggetti a nuove minacce.  Un fattore chiave a partecipare con tutte le nostre potenzialità alle missioni di spedizione oltremare della NATO è il pensiero che noi siamo sicuri a casa nostra.” [26]
Quindi, la missiva collettiva clamorosamente appoggiava i progetti USA per l’intercettazione di missili nell’Europa Orientale e appoggiava la Georgia di Mikheil Saakashvili (un altro ex-residente negli Stati Uniti) come motivo di riferimento per un nuovo confronto con la Russia. 
Il 22 settembre, il Britannico The Guardian pubblicava una simile “Lettera Aperta” di gruppo, questa volta sottoscritta da Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Mart Laar, Vytautas Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn Bendit, Timothy Garton Ash, André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik e Josep Ramoneda, che faceva appello all’Europa per un appoggio alla Georgia, e metteva in evidenza storiche allusioni ad avvenimenti attuali, prima del settantesimo anniversario dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale e del ventesimo della caduta del Muro di Berlino:  
“Nel momento in cui l’Europa ricorda la vergogna del patto Ribbentrop-Molotov del 1939 e gli accordi di Monaco del 1938, e quando si prepara a celebrare la caduta del Muro di Berlino e lo smantellamento della Cortina di Ferro del 1989, una questione ci sorge nella mente: “Abbiamo veramente imparato le lezioni della storia?” 
“Vent’anni dopo l’emancipazione di mezzo continente, un nuovo muro sta per essere innalzato in Europa – questa volta attraverso il territorio sovrano della Georgia.
“Noi facciamo appello urgente ai 27 leaders democratici dell’Unione Europea di definire una attiva strategia opportuna ad aiutare la Georgia a riguadagnare pacificamente la sua integrità territoriale e ad ottenere il ritiro delle forze Russe illegalmente stazionanti sul suolo Georgiano... Diventa essenziale che l’Unione Europea e i suoi stati membri inviino un chiaro ed inequivocabile messaggio all’attuale dirigenza Russa.” [27]
La Georgia è divenuta una duplice Cecoslovacchia, quella del 1938 e quella del 1968, una nuova Berlino, una nuova Polonia e così via. 
Personaggi dell’Europa Orientale ed Occidentale, come i firmatari dell’appello precedente, contrariamente a quello che asseriscono, sono nostalgici della Guerra Fredda e ansiosi di lanciare una nuova crociata contro una Russia stroncata ed indebolita.  
Nel pieno stile degli “interventi umanitari” degli anni Novanta del secolo scorso, queste campagne sono la loro merce in vendita.
Ma la richiesta di una maggior “potenza decisa” che gli Stati Uniti dovrebbero fornire in Europa, così come nel Caucaso e di una espansione della NATO verso i confini della Russia, può provocare una catastrofe, che il continente e il mondo erano stati abbastanza fortunati da avere scampato la prima volta.

Note
1) Agenzia Russa di Informazioni Novosti, 6 novembre 2009
2) Riportato da Bill Bradley, Foreign Policy (Politica Estera), 7 novembre, 2009
3) Voce della Russia, 22 ottobre 2009
4) Presidente della Repubblica di Lituania, 9 ottobre 2009
5) Warsaw Business Journal, 20 aprile 2009
6) Bulgaria, Romania: basi USA e NATO per la guerra ad Oriente.  Stop NATO, 24 ottobre 2009
  http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/25/bulgaria-romania-u-s-nato-bases-for-war-in-the-east
7) U.S. Air Forces in Europa, 29 ottobre 2009
8) Esercitazioni tattiche NATO in Georgia: minacce di una nuova guerra nel Caucaso. 
    Stop NATO, 8 maggio 2009 a: 
21) Ibid
22) Baltic Business News, 27 ottobre 2009
23) Defense Professionals, 26 ottobre 2009
24) Associated Press, 2 novembre 2009
25) Russian Information Agency Novosti, 2 novembre 2009
26) Gazeta Wyborcza, 15 luglio 2009
27) The Guardian, 22 settembre 2009


Da quarant’anni Rick Rozoff si è sempre impegnato in attività contro la guerra e contro ogni interventismo in varie organizzazioni. Vive a Chicago, nell’Illinois. È l’amministratore della lista
 e-mail internazionale Stop NATO a: http://groups.yahoo.com/group/stopnato/ 
Rick Rozoff è assiduo collaboratore di Global Research.  


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I 20 godina nakon pada Berlinskog zida sve više stanovnika bivše komunističke Demokratske Republike Njemačke žali za životom u “socijalističkom raju”.
Više od 57% ispitanika se protivi napadima na bivši DDR jer smatra da je, “unatoč restrikcijama”, bio ugodno mjesto za život. To je pokazala i anketa u povodu 20. godina od spajanja DDR sa Saveznom Republikom Njemačkom.
Bivši građani komunističkog DDR su zaboravili sve ono što je bilo loše, dok dobre stvari, nakon vremenskog odmaka, još više idealiziraju.
“DDR je imao više dobrih nego loših strana. Bilo je problema, ali život je bio dobar.”, smatra 49% anketiranih.
Šokira što 8% ispitanika smatra da je život u “komunističkom mraku” bio sretniji i bolji nego u ujedinjenoj Njemačkoj. Čak i mladi, koji su jedva okusili život u Istočnoj Njemačkoj, danas otkrivaju dobre strane komunizma.
“Mnogi kritiku na nekadašnji DDR shvaćaju kao napad na sve koji su u njemu živjeli”, kaže politolog Klaus Schröder sa berlinskog Slobodnog sveučilišta.
Schröder upozorava da samo polovica mladih opisuje DDR kao diktaturu te da informacije uglavnom dobivaju preko sentimentalnih priča svojih roditelja, a mnogo manje iz škole. Zanimljivo je da bivši istočni Nijemci imaju dobro mišljenje i o nekadašnjoj tajnoj službi. Naime, više od polovice smatra da je zloglasni Stasi bio obična obavještajna služba, kao i one na Zapadu.
“Oni jednostavno ne žele vidjeti loše strane DDR”, kaže Schröder koji je zbog svojih kritika dobio stotine protestnih pisama. U jednom od njih tridesetosmogodišnjakinja piše kako je rušenje “Berlinskog zida” za nju značilo odlazak iz “zemaljskog raja”.
“Prisluškivao nas je Stasi, ali i danas nas prisluškuju tajne službe”, tvrdi tridesetogodišnji biznismen, dodajući kako i sad vladaju predrasude prema nekadašnjim istočnim Njemcima.
Sociolozi smatraju da je nostalgija posljedica radikalnog ukidanja DDR. Tim su činom svi stanovnici bivše DDR praktično izgubili “pravo na svoju prošlost” pa se ne mogu pomiriti sa tom činjenicom smatrajući da njihov život proveden u DDR nije bio bezvrijedan.
piše: Dražen Čurić
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Nostalgia o senso della realtà?

Secondo un sondaggio del tedesco Institut Emnid, pubblicato nella Berliner Zeitung, la maggioranza dei tedeschi dell’Est rimpiange le conquiste socialiste e considera che l’ex DDR aveva “più lati positivi che negativi”. Il 49% risponde che “c’era qualche problema, ma nell’insieme vivevamo bene”. Un altro 8% ritiene che “ nella DDR c’erano soprattutto aspetti positivi e vivevamo contenti e meglio che nella Germania riunificata di oggi”.

In Ungheria, secondo l’istituto tedesco GFK-Hungaria, il 62% dei cittadini considera che l’epoca di Kadar (1957-1989) è stata “la migliore di tutta la storia ungherese” (era il 53% nell’analogo sondaggio del 2001); mentre il 60% considera i due ultimi decenni, dopo il 1989, “il periodo più infelice di tutto il XX secolo” (erano il 48% nel 2001).

(fonte: http://www.lernesto.it/ )


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http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=18560


Nell'Europa dell'est cresce la nostalgia del comunismo

di

su Reuters del 09/11/2009

Solo il 30% degli ucraini si dice a favore del passaggio alla democrazia, quando nel 1991 era il 72%. In Bulgaria e Lituania, il crollo del numero dei favorevoli al cambio di regime si è fermato poco sopra la metà della popolazione, quando nel 1991 i tre quarti degli abitanti erano favorevoli alla transizione. In Ungheria, uno dei paesi più colpiti dal peggioramento economico, il 70% di quelli che nel 1989 erano già adulti confessa di esser rimasto deluso dai risultati del cambio di regime.

Vent'anni dopo la caduta del comunismo, Belene (Bulgaria) è un posto ormai dimenticato e soltanto una piccola targa di marmo ne ricorda la storia. Mentre la nostalgia del passato cresce nel piccolo paese balcanico e nell'ex blocco sovietico. Il fallimento del capitalismo nel migliorare le condizioni di vita (della popolazione), nell'imporre lo stato di diritto e nell'arginare la corruzione dilagante e il nepotismo ha aperto la strada a ricordi del tempo in cui il tasso di disoccupazione era a zero, il cibo era economico e la sicurezza sociale era alta.

"Le cose negative sono state dimenticate", dice Rumen Petkov, 42 anni, un tempo guardia e oggi impiegato nell'unica prigione che ancora funziona sull'isola di Persin. "La nostalgia è palpabile, soprattutto tra i più anziani" dice. Alcuni ragazzi della povera cittadina di Belene, unita all'isoletta da un pontile, rievocano il passato: "Un tempo vivevamo meglio", dice Anelia Beeva, 31 anni. "Andavamo in vacanza al mare e in montagna, c'erano abiti, scarpe e cibo in abbondanza. Mentre adesso spendiamo quasi tutto il nostro stipendio in generi alimentari. Quelli che hanno una laurea sono disoccupati e se ne vanno all'estero", aggiunge.

In Russia, negli ultimi anni hanno aperto molti ristoranti che si ispirano al periodo comunista, soprattutto a Mosca: molti organizzano "serate della nostalgia", in cui i giovani si vestono da pionieri, la versione sovietica dei boy scout e delle guide, e ballano i classici del periodo comunista. Champagne sovietico e i cioccolatini "Ottobre rosso" rimangono i più richiesti per festeggiare i compleanni. In estate, in tutto il paese s'incontrano magliette e cappellini da baseball con la scritta "Urss".

DISINCANTO 

Nei paesi ex comunisti dell'Europa orientale, c'è un diffuso disincanto nei confronti della democrazia e i sondaggisti dicono che la sfiducia nei confronti delle elite che li hanno resi cittadini dell'Unione Europea è impressionante. Un sondaggio regionale svolto a settembre dal centro di ricerca americano Pew ha evidenziato che in Ucraina, Bulgaria, Lituania e Ungheria c'è stata una drastica caduta della fiducia nella democrazia e nel capitalismo. Il sondaggio ha fatto emergere che soltanto il 30% degli ucraini si dice a favore del passaggio alla democrazia, quando nel 1991 era il 72%. In Bulgaria e Lituania, il crollo (del numero di coloro favorevoli al cambio di regime) si è fermato poco sopra la metà della popolazione, quando nel 1991 i tre quarti degli abitanti erano favorevoli (alla transizione).

Le analisi elaborate dall'organizzazione americana per i diritti umani Freedom House confermano l'arretramento o la stagnazione per quanto riguarda (la lotta alla) corruzione, la capacità di governo, l'indipendenza dei media e la società civile nei nuovi membri Ue.

La crisi economica globale che ha colpito la regione e ha messo fine a sei-sette anni di crescita, sta mettendo in crisi i rimedi del capitalismo neoliberalista prescritto dall'occidente. Le speranze di raggiungere il tenore di vita dei ricchi vicini occidentali sono state rimpiazzate da un senso di ingiustizia, provocato dall'allargarsi della forbice tra ricchi e poveri.

Secondo un sondaggio svolto a ottobre da Szonda Ipsos, in Ungheria, uno dei paesi più colpiti dal peggioramento economico, il 70% di quelli che nel 1989 erano già adulti confessa di esser rimasto deluso dai risultati del cambio di regime.

Gli abitanti dei paesi dell'ex Jugoslavia, segnati dalle guerre etniche degli anni Novanta e non ancora ammessi nell'Unione Europea, coltivano nostalgie del periodo socialista di Josip Tito, durante il quale -- diversamente da quanto accade oggi -- per loro era possibile viaggiare in Europa senza bisogno di visti. "All'epoca tutto era meglio di oggi. Non c'era la criminalità di strada, i posti di lavoro erano sicuri e i salari erano sufficienti per garantire una condizione di vita decente" dice Koviljka Markovic, 70 anni, pensionato belgradese. "Io oggi con la mia pensione di 250 euro al mese riesco a malapena a sopravvivere".


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PAO JE NA POGREŠNU STRANU!

Drugarice i drugovi,
dvadeset godina posle pada Berlinskog zida Evropa i svet prolaze kroz realne posledice katastrofe njegovog pada na pogrešnu stranu. Sadašnja kriza kapitalizma, munjevit porast armije nezaposlenih i narastajuća beda svuda gde caruje kapitalizam potvrđuju tragičnost tog pogrešnog pada, ali i nužnost vraćanja socijalizma i njegovog „dizanja iz ruševina“ (baš kao u tekstu himne NDR-a).
Daleko od toga da mi Skojevci podržavamo ideju o bilo kakvom deljenju ljudi zidovima, već upravo suprotno, mi naglašavamo da su najdeblji oni zidovi koje među ljudima diže klasni poredak. Na mesto jednog zida koji je srušen pre dvadeset godina podignuti su milioni novih zidova koji otuđuju ljude, kako u bivšem NDR-u, tako i u drugim bivšim socijalističkim zemljama.
Naravno da slučaj pada Berlinskog zida ima pun smisao samo ako se promotri simbolika tog istorijskog trenutka, t.j. najave propsti čitavog bloka istočnoevropskih socijalističkih zemalja. Posledice su više nego ponižavajuće i katastrofalne za ogromnu većinu stanovništva tih zemalja. Tiranija zapadnog imperijalizma je željna „sveže krvi“, t.j. novog tržišta, veštom prpagandom i uz pomoć svojih poslušnika u Istočnoj Evropi, učinila sve da svrgne socijalizam ne obazirući se na cenu. Cena su bile hiljade i hiljade mrtvih (to mi najbolje znamo iz primera bratoubilačkih ratova vođenih na tlu naše zemlje, a oni su vođeni i drugde), rasparčavanje država, totalno ukidanje i revidiranje socijalnih povlastica garantovanih svima u socijalizmu, ogromna nezaposlenost, pad industrijske proizvodnje u nekim slučajevima i za više od 70%, gubitak bilo kakve političke i državne autonomije pod pretnjama pesnica krupnog kapitala NATO-a i EU, pad broja obrazovanih i pismenih ljudi, neofašizam i klerikalizam, drastičan pad prirodnog priraštaja ... Mnoge nvladine institucije, kao i institucije SR Nemačke će danas, 9-tog novembra, likovanjem obeležiti dvadesetogodišnjicu ove velike humanitarne katastrofe podsmevajući se  svim žrtvama i radnom narodu koji grca u bedi i poniženju svuda gde vlada kapitalistički varvarizam. Zato je 9-tog novembra važno istaći suštinsku činjenicu vezanu za ovaj datum – PAO JE NA POGREŠNU STRANU!

Beograd, 09.11.2009                                                                              
SEKRETARIJAT SKOJ-a






Toponimi slavati


10.11.2009    scrive Marjola Rukaj 
Sembrava una boutade. Ma ora in Albania si vuole istituire una commissione governativa per albanesizzare i toponimi di origine slava. Che sono moltissimi. Un commento
Dalla proclamazione dell'indipendenza del Kosovo, i politici albanesi sembrano più legittimati a farcire di patriottismo i loro discorsi, mirando ad accrescere la propria popolarità, continuamente a rischio a seguito dei gravi problemi interni della politica e dell'economia in Albania. Opere pubbliche, iniziative economiche, dibattiti su questioni storiche e identitarie molto di questo è stato rivisto in chiave esclusivamente patriottica. Nell'ambito di tale retorica a più riprese nel corso degli ultimi mesi si è parlato persino della necessità di deslavizzare la toponimia dell'Albania. 

La questione è stata menzionata dall'attuale presidente della Repubblica Bamir Topi, durante una sua visita routine in un villaggio del sud-est del paese. Sembrava una gaffe pronunciata da un presidente trovatosi a corto di idee in un una visita di poco conto. Ma pochi mesi dopo, della toponimia slava si è ricordato anche il premier Berisha il quale discutendone in una delle prime riunioni del nuovo governo non ha esitato a spingersi anche oltre. “Dobbiamo installare una commissione che si occupi della sostituzione di tutta la toponimia slava del paese, con i toponimi rispettivi albanesi prima dell'invasione slava”. 

La questione della toponimia slava è stata menzionata da Berisha mentre il neoformato governo albanese stava discutendo sulla necessità di utilizzare obbligatoriamente denominazioni albanesi per le attività e le compagnie private riconosciute come persone giuridiche in Albania. Al riguardo il premier ha proposto l'istituzione di una commissione che passi al setaccio le denominazioni applicando l'eventuale censura. In tale ambito Berisha si è spinto anche oltre passando all'albanizzazione della toponimia. 

Tale dichiarazione arriva inattesa ed è di difficile comprensione. Ma non si tratta affatto di una novità. La numerosissima toponimia slava che caratterizza l'intero territorio albanese è sempre stata una preoccupazione per gli intellettuali nazionalisti albanesi, poiché va a minare proprio la tesi dell'autoctonia e della continuità illirico-albanese su cui si basa tale nazionalismo, di cruciale importanza per legittimare l'esistenza dello stato-nazione albanese. 

Altresì l'affermazione del premier deriva da una tesi diffusa presso il nazionalismo classico albanese secondo cui la schiacciante presenza della toponimia slava nel paese è frutto dell'invasione e della repressione che gli albanesi hanno subito da parte dei vari stati vicini slavi che si sono espansi nel corso del tempo fino ad inglobare i territori attuali dell'Albania.

L'opinione vigente tra i politici e gli intellettuali nazionalisti albanesi, vuole che la toponimia slava nelle terre albanesi sia stata in realtà imposta per verdetto dei sovrani etnicamente slavi che hanno dominato di volta in volta questa parte dei Balcani. Con tale tesi si vuole prendere per scontata la continua e ininterrotta presenza degli albanesi, in quanto autoctoni e continuamente vittime delle ondate di migrazione di altri popoli nei Balcani. E in particolar modo si vuole escludere fermamente, in risposta ai nazionalismi espansivi dei vicini, la presenza in questi territori delle popolazioni slave. 

Come in altri dibattiti sulla cultura e storia albanese spicca la visione della staticità nel tempo degli albanesi etnicamente e culturalmente immutati tanto da coincidere con la nazione albanese in senso moderno. 

Ma la questione è molto complessa, poiché il territorio albanese è stracolmo di toponimia slava, e addirittura la toponimia non slava tra cui albanofona, greca, turca, e italiana risulta una ridotta minoranza al confronto. L'idea del premier Berisha di istituire addirittura una commissione con lo scopo di provvedere alla sostituzione con toponimi albanesi sembra un'iniziativa mastodontica, costosa oltre che fuori luogo e ridicola per il suo primitivismo da nazionalismo ottocentesco. Non sembrano per ora dare molto fastidio invece la toponimia greca al sud dell'Albania, quella di origine turca in isolate regioni e quella latina e italiana nelle zone costiere. 

La proposta ha lasciato indifferenti gli analisti albanofoni, senza riuscire a scaturire alcun tipo di dibattito. Gli unici commenti discordanti sono stati quelli di alcuni giornalisti che nel riportare la notizia ironizzavano sul fatto che il premier dovrà iniziare il processo della deslavizzazione della toponimia dal suo villaggio natale, Viçidol. La notizia è stata invece accolta e salutata con entusiasmo dalla blogosfera albanofona nei numerosissimi forum. I forumisti albanesi considerano l'albanizzazione della toponimia una misura necessaria, fondando tale opinione su diverse politiche applicate agli albori dello stato-nazione in diversi paesi. 

Ma la pratica non è nuova in Albania. Anche il nazional-comunismo di Enver Hoxha registra diversi tentativi di deslavizzazione in particolar modo nelle regioni sud-orientali del paese, mentre alle misure sulla toponimia era stata aggiunta anche l'albanizzazione dei cognomi degli appartenenti alle minoranze slavofone, cambiando le loro tipiche desinenze, con quella più albaneggiante -llari, o sostituendoli radicalmente con sostantivi albanesi. Gli strumenti e la motivazione non sembrano molto lontani da quelli del regime di Hoxha, intento a interpretare il passato albanese secondo i propri criteri e convenienze e a plasmare l'identità nazionale secondo i canoni del nazional-comunismo. 

Il fatto che la questione della toponimia slava risorga anche oggi è discordante con le continue affermazioni che puntualmente i governi albanesi usano proclamare a livello internazionale, sulla volontà di contribuire ai buoni rapporti con gli stati vicini ed è lontano dall'essere rimesso in discussione il vittimismo tipico del nazionalismo albanese, che vede il territorio dell'Albania come in continua contrazione per colpa dei vicini. 

Ma la questione non riguarda solo il territorio dello stato albanese, bensì è molto più pronunciata nel vicino Kosovo, dove la sostituzione della toponimia slava, con quella albanese, costituisce negli ultimi anni uno degli strumenti antiquati di nation-building, del più giovane stato balcanico. Oltre all'introduzione di nuovi toponimi di villaggi e regioni, non poco problematico è stato lo stesso nome della nuova repubblica, che il defunto leader, Ibrahim Rugova, proponeva di sostituire con quello dell'antica regione illirica, Dardania. 

Nella grande moltitudine di problemi che caratterizzano la scena politica albanese in pochi prendono sul serio le iniziative del premier su una questione di così scarsa importanza. Ma il messaggio mediatico delle affermazioni di Berisha non fa che alimentare ed enfatizzare i cliché del nazionalismo albanese.