Par Lawrence Marzou
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Intervento di Stevan Mirkovic in occasione del 65-mo anniversario della Giornata della liberazione di Belgrado
Belgrado e’ l’ unica capitale europea occupata nelle due Guerre mondiali, che e’ stata liberata dal proprio popolo ed esercito, con l’ aiuto della gloriosa Armata Rossa. Nelle battaglie per Belgrado i cittadini hanno dato il pieno sostegno e praticamente tutto l’ aiuto possibile alle unita’ dell’ Esercito Popolare di Liberazione Jugoslava e all’ Armata Rossa. Migliaia di giovani belgradesi, sin dalla lotta sulle strade durata per 7 giorni entrano nelle file dell’ EPLJ. Era il 1941 della nostra generazione. La vittoria belgradese ha cosi affermato la concezione della lotta della resistenza in generale, la piu’ efficace per i piccoli popoli. Purtroppo a cio’ abbiamo rinunciato facilmente, fin troppo, percio’ oggigiorno cerchiamo la sicurezza del paese patteggiando con le grandi potenze.
Alla vigilia della lotta per la liberazione a Belgrado operavano piu di 150 unita’ di resistenza e piu’ di 2000 combattenti armati (precedentemente formati dall’ organizzazione del PCJ di Belgrado contro l’ occupatore tedesco e contro i collaborazionisti nella citta’ occupata). Tutto quello che Belgrado e i belgradesi avevano fatto durante i 3 anni sotto l’ occupazione, combattendo contro i tedeschi e i quisling locali, il lavoro di massa politico, propagandistico e organizzativo del PCJ e della SKOJ (Lega dei giovani comunisti jugoslavi) nella preparazione della resurrezione, la mobilizzazione e l’inserimento dei cittadini nella GLP (Guerra di liberazione popolare), con oltre 50 sabotaggi e azioni sovversive – nel luglio e agosto del 1941, la raccolta e invio di materiale e aiuto finanziario, materiale sanitario ai reparti partigiani, con la partecipazione della gente, e cosi via -, lo hanno fatto con una delle forze motrici della GLP (Guerra di Liberazione Popolare). Questo infatti dovrebbe svolgere ogni citta’ capitale del paese invaso, come e’ oggi la Serbia... Purtroppo la Belgrado odierna non e’ per niente tale, il che si vede dal misero o quasi nessun impegno nella liberazione del Kosovo-Metohija occupato.
La liberazione di Belgrado ha avuto una grandissima importanza per la Serbia. Essa e’ arrivata passo passo fino alla ricostruzione dell’ unita’ territoriale. Le terre del Kosovo e Metohija, dello Srem, Banato, Backa, i comuni di Bosilevgrad, e Pirot, strappati nel 1941 verranno presto uniti alla madrepatria. La storia ricordera’ per sempre che queste terre sono state liberate dal popolo serbo e dalle altre nazionalita’ che ivi vivono, sotto la guida del PCJ e di Tito.
Finalmente fu annientato il piano per la formazione di uno Stato danubiano tedesco particolare (“Donaustaat”, “Donauschwabenland”, ”Prinz Eugene – Gau”) con Belgrado come fortezza nazionale tedesca e tramite la repressione etnica, cioe’ la cacciata dei serbi nello spazio territoriale nel quale si trovava la Serbia di Kumanovo e Banat. Questo dimostrava che il concetto nella formazione di una Nuova Europa del Terzo Reich non era la formazione della Serbia come Stato, e questo e’ stato un ulteriore argomento contro la firma del Patto con l’ Asse. Il Patto e’ stato un atto contro la propria nazione, firmato dal governo traditore Cvetkovic – Macek.
Questo deve essere un insegnamento anche per l’attuale situazione, perche’ nel nuovo ordine mondiale creato dagli USA, non esistera’ la Serbia odierna ma una prekumanova o simile, in ogni caso senza il Kosovo-Metohija.
Il 20 ottobre 1944 e’ stata anche la sconfitta del sistema quisling del governo Nedic e delle sue forze militari. I suoi miserabili resti (i membri del governo, gli agenti speciali di polizia) scappavano con i loro padroni tedeschi in panico dalla Serbia, verso l’ Austria e l’ Italia, cercando lì aiuto anche dai nuovi padroni, allora nostri amici - inglesi e americani. Quelli che non sono riusciti scappare, sono stati imprigionati e condannati per i loro crimini. Nedic e’ stato arrestato dagli Inglesi e poi restituito a Belgrado perche il popolo lo processasse. Bisogna ricordare che la maggior parte di quelli che in qualche modo collaboravano con i tedeschi, ma non avevano commesso crimini, sono stati amnistiati su intervento del Maresciallo Tito e per decisione dell’ AVNOJ (Consiglio antifascista popolare jugoslavo) venendo amnistiati l’ 11 novembre 1944. Percio’ le storie di vendetta e di uccisioni in massa dei nemici ideologici del PCJ dopo la Liberazione sono una pura menzogna
Molti industriali, bancari, commercianti, possidenti di terre ed altri ricchi che dell’ occupazione hanno approfittato per aumentare la propria ricchezza, e che hanno lavorato per la macchina della Germania, hanno seguito la strada dell’ Austria, dell’ Italia e della Germania. Percio’ una delle prime risoluzioni del nuovo governo fu la confisca dei beni di questi servi dei tedeschi. Beni che loro si sono guadagnati sulle spalle del popolo, dei comunisti e dei partigiani. E' una vergogna che i beni di questi profittatori, conseguiti sulla sofferenza e le morti di migliaia di vittime del fascismo, vengano oggi denazionalizzati e restituiti ai loro eredi.
I tentativi dopo il 1991 di cancellare dalla memoria dei belgradesi e del popolo serbo la lotta partigiana e le sue conquiste con menzogne e diffamazioni, e nel presentare Nedic e Draza (Mihajlovic) quali bravi, coscienziosi capi che collaboravano coll’ occupatore soltanto per salvare il proprio popolo, sono falliti. Soltanto gli ksenomani e gli eredi dei quisling tedeschi rinnegano quei giorni gloriosi e chiamano occupazione l’ ingresso dei partigiani e dei soldati dell’ Armata Rossa nella citta’ di Belgrado. Non si accoglie un occupatore straniero cosi’ come fecero i belgradesi e tutta la Serbia, coi partigiani ed i soviet, ma soltanto un amico, un compagno.
Il nostro ingresso a Belgrado fu un incubo per quelli che avevano salutato l’ arrivo dei tedeschi a Belgrado il 12.4.1941 alle ore 17 con il saluto hitleriano (non erano cosi pochi, lo posso personalmente testimoniare) e che avevano iniziato “la ricostruzione nazionale della patria” sotto il protettorato del Terzo Reich, che fedelmente servirono fino al giorno della fuga delle loro truppe, il 22.10. 1944.
Non sono forse in pericolo anche oggi i nostri governanti, servi fanatici dell’ UE e della NATO che in queste vedono qualche salvezza per la Serbia, di commettere lo stesso errore ed entrare nella storia nello stesso modo? Purtroppo la mentalita’ e la psicologia servile e ubbidiente, fatta di sommissione ed inferiorita’, l’ incapacita’ di prendere decisioni autonome per il proprio avvenire - cose che i comunisti ed i partigiani della guerra di Liberazione hanno completamente distrutto facendo ritornare al popolo serbo la fiducia nelle proprie forze – si sono risvegliate nelle nostre anime trasformandoci di nuovo, di fronte alle grandi potenze, in sottomoneta di scambio.
Non sono sicuro che la Belgrado odierna, ufficiale, rispecchi la citta’ eroica della II guerra Mondiale e del dopo. Purtroppo lo spirito dei quisling locali e dei collaborazionisti ancora si aggira per Belgrado. L’ accoglienza data ai rappresentanti delle forze occidentali, che ci hanno bombardato nel 1999 e ci hanno tolto il 15% del territorio, mi sembra l’ accoglienza data ai plenipotenziari di Hitler nel 1941! Non c'è differenza tra i bombardamenti del 1999 e la successiva rapina, rispetto quelli del 1941 di Hitler! E di nuovo viene lanciata la tesi che il calcio del cornuto non si puo’ combattere, perche’ bisogna salvaguardare la gente e non il territorio e cosi via. Riabilitando i vari traditori vicini a Draza (Mihajlovic) e Nedic, il governo odierno cerca di ottenere il consenso per il proprio tradimento degli interessi nazionali.
Anche questa Giornata, la festa piu’ solenne per la citta’ di Belgrado, il regime la usa per discreditare i comunisti ed i partigiani. L’ ultimo “can-can”, l'ultimo intrigo di questo governo contro i comunisti ed i partigiani in occasione dell’ imminente visita di Medvedev alla Serbia, e’ il tentativo di metterci in discordia con l’ Armata Rossa con questa storiella, scritta dai piu’ alti vertici del governo: ”... La liberazione di Belgrado non sarebbe stata possibile senza l’ aiuto russo”, ritenendo quasi che la liberazione non soltanto di Belgrado ma addirittura di tutta la Jugoslavia fosse merito soltanto della Russia! Il che si sente approvare, spero involontariamente da alcuni amici russi! Non citano da nessuna parte le eroiche unita’ combattenti dell’ EPLJ (Esercito di Liberazione di Jugoslavia) e i suoi comandanti eroi Tito e Peko (Dapcevic). Malgrado cio’ essi non riusciranno a distorcere la verita’: che ci siamo liberati con le nostre proprie forze, e l’ Armata Rossa ci ha aiutato a Belgrado. La avremmo liberata anche senza il loro aiuto. Naturalmente con piu’ vittime e perdite, ma in ogni caso non siamo meno grati ai combattenti sovietici, particolarmente a quelli che ci hanno consacrato il piu’ alto valore che avevano – la loro vita. Il loro ricordo, il ricordo dell’ Armata Rossa e dell’ URSS, rimarra’ per sempre nel cuore del popolo serbo.
Intervento di Stevan Mirkovic, general-colonnello in pensione ed ex Capo sezione Stato maggiore serbo della RSFJ alla tribuna „Operazione Belgrado“ del 16.10.2009
Beograd je jedina okupirana evropska prestonica u 2.SR , koju je oslobodila njena vojska i njeno stanovništvo uz pomoć slavne Crvene Armije. U borbama za Beograd građani su masovno pružali punu podršku i svestranu praktičnu pomoć jedinicama NOVJ i Crvene Armije. Hiljade mladih Beogradjana i Beogradjanki , još tokom sedmodnevnih uličnih borbi, stupilo je u redove NOVJ. To je bila 1941. naše generacije .Tako je i beogradska pobeda potvrdila koncepciju opštenarodnog odbranbenog rata kao najuspešniju za male narode. Toga smo se olako odrekli i bezbednost zemlje tražimo danas u paktiranju sa velikim silama.
Uoči borbi za oslobodjenje u Beogradu je dejstvovalo više od 150 borbenih grupa otpora ( koje je beogradska organizacija KPJ još ranije formirala za borbu protiv nemačkih okupatora i njihovih pomagača u okupiranom gradu) sa preko 2000 naoružanih boraca. Sve ovo, kao i ono što su Beograd i Beogradjani radili tri godine pod okupacijom boreći se protiv Nemaca i njegovih kvislinga( masovni političko propagandni i organizacioni rad KPJ i SKOJ na pripremi i podizanju ustanka, mobilizaciji i uključivanju gradjana Beograda u NOB, sabotaže i diverzije – u julu i avgustu 1941.preko 50 , prikupljanje i slanje materijalne i finansijske pomoći i sanitetskog materijala partizanskim odredima, njihova popuna ljudstvom itd.) činilo ga je jednim od motora NOB u celini. To, inače, treba da bude svaka prestonica grad zemlje koja je napadnuta, kao što je, recimo, danas slučaj sa Srbijom.Nažalost , današnji Beograd to nije ni izdaleka, što se najbolje vidi iz jadnog ili skoro nikakvog angažovanja na oslobodjenju okupiranog KiM.
Oslobodjenje Beograda bio je dogadjaj od ogromnog značaja za Srbiju. Ona je došla na korak do obnove svoje teritorijalne celovitosti. Uskoro će, 1941. oteti krajevi : KiM, Srem, Banat,Bačka, bosilegradski i pirotski srez biti opet u sastavu matice. Istorija će večito pamtiti da je te krajeve oslobodio i vratio u sastav matice sam srpski narod i narodnosti koje u njoj žive predvodjeni KPJ i Titom.
Konačno su onemogućeni nemački planovi o formiranju posebne nemačke podunavske države / „Donaustaat“, „Donauschwabenland“, „Prinz Eugen – Gau“...) sa Beogradom kao nemačkom nacionalnom tvrdjavom i etničko potiskivanje i progon Srba na prostoru predkumanovske Srbije i Banata. Ovo pokazuje da Treći Rajh u svom konceptu Nove Evrope nije imao Srbiju kao državu, što je još jedan argument da je potpisivanje Trojnog pakta 25.3.1941. bio štetan i anacionalni potez izdajničke vlade Cvetković – Maček. To je pouka i za danasnju situaciju jer u novom svetskom poretku ,koga kreiraju SAD, neće biti današnje Srbije već neke pretkumanovske i slično, a u svakom slučaju bez KiM.
2o oktobar 1944. bio je i slom Nedićevog kvislinškog sistema i njegovih oružanih snaga. Njihovi bedni ostatci( članovi vlade, agenti specijalne policije) panično su bežali iz Srbije sa svojim gospodarima Nemcima ka Austriji i Italiji , tražeći tamo spas , a kasnije i nove gospodare, tada naše saveznike – Engleze i Amerikance. Oni koji nisu uspeli pobeći , zarobljeni su i osudjeni za svoje zločine. Nedića su uhvatili Englezi i vratili ga u Beograd da mu narod sudi. Treba istaći, da je najveći broj onih koji su na neki način „šurovali“, sa Nemcima ali nisu činili zločine, na predlog maršala Tita, amnestiran je Odlukom AVNOJ od 11.11.l944. pa su priče o osveti i masovnim ubistvima ideoloških protivnika KPJ posle oslobodjenja obična laž.
Put Austrije, Italije i Nemačke hrlili su i brojni industrijalci, bankari,veletrgovci, veleposednici i drugi bogataši koji su okupaciju iskoristili za povećanje svog bogatstva radeći za potrebe Hitlerove ratne mašine. Zato je konfiskacija imovine ovih nemačkih slugu bila jedna od prvih mera nove vlasti. I njih su komunisti i partizani skinuli sa grbače naroda.Sramota je da se imovina ovih profitera ,sticana na patnjama i smrti hiljada žrtava fašizma ,danas denacionalizuje i vraća njihovim naslednicima !
Pokušaji, posle 1991.godine, da se lažima i klevetama partizanska borba i njene tekovine izbrišu iz svesti Beogradjana i srpskog naroda a Nedić i Draža, prikažu kao brižne vodje , koji su saradjivali sa okupatorom samo da bi zaštitili svoj narod, ne uspevaju. Samo ksenomani i naslednici nemačkih kvislinga odriču se tih slavnih dana i ulazak partizanskih i boraca Crvene Armije u Beograd nazivaju okupacijom. . Onako kako su Beogradjani i cela Srbija dočekali partizane i crvenoarmejce ne dočekuje se okupator , stranac već svoj čovek,prijatelj,drug.
U neku ruku su i u pravu. Naš ulazak u Beograd bila je mora za one koji su Nemce u Beogradu 12.4.1941 u 17.00 na ulicama dočekali hitlerovskim pozdravom( nije ih bilo baš tako malo ,što sam svojim očima gledao ) i započeli „ nacionalnu obnovu otadžbine“ pod tutorstvom Trećeg Rajha, kome su ,do početka bežanije njegovih trupa 22.10.1944., verno služili. Nisu li u opasnosti i današnji vlastodršci , što fanatično služe EU i NATO i u tome vide nekakav spas za Srbiju,da učine istu grešku i udju istoriju na isti način.? Nažalost, ropski, poslušnički mentalitet i psihologija, pokornost, inferiornost ,nesposobnost da se samostalno odlučuje o svojoj sudbini, što su komunisti i partizani NOB i revolucijom razbili u paramparčad i srpskom narodu vratili samopouzdanje u sopstvene snage - vratili su se u naše duše i učinili nas ponovo monetom za potkusurivanje velikih sila.
Nisam siguran da današnji zvanični Beograd liči na grad heroj iz 2.svetskog rata i posle njega. I da s pravom nosi ime glavnog grada slobodarske Srbije. Nažalost, kvislinški i kolaboracionistički duh još luta Beogradom. Dočeci predstavnika zapadnih sila, koje su nas bombardovale 1999. i otele 15 odsto teritorije, meni liče na dočeke Hitlerovih opunomoćenika tokom 2.svetskog rata. Nema razlike izmedju tog bombardovanja i otimanja i onog Hitlerovog iz 1941! I opet se lansira teza da šut s rogatim ne može da se tuče, da treba čuvati ljude a ne teritorije itd. Rehabilitacijom izdajnika Draže i Nedića sadašnja vlast želi da dobije atest za sopstvenu izdaju nacionalnih interesa .
I ovogodišnju proslavu nekadašnjeg najvećeg praznike Beograda, režim koristi da diskreditujen komuniste i partizane. Najnovija ujdurma vladajućeg režima protiv komunista i partizana i pokušaj da nas „zavade“ sa Crvenom Armijom je ova priča, napisana u najvišem krugu vlasti, :„ Oslobodjenje Beograda ne bi bilo moguće bez ruske pomoći“ a u njoj , verujem nenamerno, učestvuje i neki naši ruski prijatelji govoreći ovih dana, povodom posete Medvedeva Srbiji, kako su maltene Rusi oslobodili ne samo Beograd nego i Jugoslaviju! Nigde se ne spominju slavne jedinice NOVJ i njeni komandanti heroji Tito i Peko. To neće promeniti istinu da smo našu zemlju oslobodili sopstvenim snagama a da nam je Crvena Armija pomogla da to učinimo i sa Beogradom. Oslobodili bi ga i bez njihove pomoći ,uz veće žrtve i gubitke ,ali ni u kom slučaju nismo zbog toga manje zahvalni sovjetskim borcima a naročito onima koji su nam poklonili najvrednije što su imali – svoje živote. Sećanje na njih, Crvenu Armiju i SSSR živeće večito u srcu srpskog naroda.
Stevan Mirković, general – pukovnik u penziji i bivši Načelnik Generalštaba OS SFRJ na tribini „Beogradska operacija“, 16.10.2009
Unione Europea: integrazione o annessione?
di Andrea Catone
su Marxismo Oggi del 09/11/2009
La crisi svela il rapporto di dominio/dipendenza A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino le potenze capitalistiche occidentali sono riuscite ad annettersi vasti territori con una popolazione di 100 milioni di persone, integrate nelle sue istituzioni e nel mercato della UE. . Siamo di fronte non all’unificazione di paesi con pari dignità, ma ad un’espansione del nucleo forte della UE verso Est, una conquista e un’annessione compiuta con le armi del moderno imperialismo. Come la DDR nel 1990 non fu “unificata” con la Germania di Bonn, ma annessa ad essa in un rapporto dipendente e subordinato, per cui non vi fu alcuna nuova Costituzione alla base di un nuovo Stato, ma si mantenne la Legge fondamentale della RFT.
Nel marzo di quest’anno Olli Rehn, commissario europeo per l'allargamento, nella prefazione ad un opuscolo propagandistico redatto a cura della Direzione generale dell’allargamento, annunciava trionfalisticamente:
“L'anno 2009 segna un doppio anniversario storico. In autunno, saranno già venti anni dalla caduta del muro di Berlino. Nel mese di maggio celebreremo il quinto anniversario dell'allargamento dell'Unione europea, che ha permesso di riunificare l'Europa dell'Est e l’Europa dell’Ovest. Per cinque anni, l'allargamento della UE ha dato benefici sia ai cittadini dei vecchi Stati membri che a quelli dei nuovi. Sul piano economico, l'allargamento ha offerto nuove opportunità per l'esportazione e gli investimenti, creando nuovi posti di lavoro per i cittadini dei vecchi Stati membri, migliorando al contempo le condizioni di vita nei nuovi Stati membri”[1][1].
L’opuscolo procede a suon di cifre esaltanti:
“Gli scambi commerciali tra i vecchi e i nuovi membri sono quasi triplicati in meno di 10 anni (da 175 miliardi di euro nel 1999 a circa 500 miliardi di euro nel 2007). L’aumento di cinque volte del commercio tra i nuovi Stati membri è ancora più eloquente (è passato da 15 a 77 miliardi di euro nello stesso periodo). È un fattore chiave che ha contribuito ad una forte crescita annuale dell'occupazione dell’1,5% nei nuovi Stati membri nel corso del periodo compreso tra la loro adesione nel 2004 e lo scoppio della crisi finanziaria.[…] L'integrazione in un mercato di più 100 milioni di consumatori con un crescente potere d'acquisto ha aumentato la domanda di beni di consumo prodotti nelle imprese dei vecchi Stati membri, contribuendo a mantenere e creare posti di lavoro a livello locale. Come ogni macchina venduta in Polonia da una società tedesca fornisce un beneficio per i cittadini tedeschi, ogni transazione effettuata da una banca olandese nei nuovi Stati membri apporta benefici per l'economia olandese nel suo insieme”[2][2].
A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino le potenze capitalistiche occidentali sono riuscite ad annettersi vasti territori con una popolazione di 100 milioni di persone, integrate nelle sue istituzioni e nel mercato della UE. E si prospetta a breve l’inclusione di altri paesi, in primis i “Balcani occidentali” (e cioè i piccoli stati prodotti dallo smembramento della martoriata Jugoslavia, e l’Albania[3][3]), oltre alla Turchia. Dunque, un bilancio entusiastico del “grande allargamento” della UE, che apre la strada ad ulteriori adesioni di paesi che bussano insistentemente alle sue porte quasi fossero quelle del paradiso.
Il vantaggio, secondo l’opuscolo propagandistico, sarebbe reciproco, tanto per i vecchi membri che per i nuovi arrivati. Tuttavia, altre fonti ufficiali, della Banca centrale europea, del FMI, della Banca d’Italia, di fronte alla grande crisi capitalistica suonano una musica piuttosto diversa. Le “magnifiche sorti e progressive” dell’allargamento cedono il posto ad un paesaggio pesantemente in crisi, anche dopo i risultati meno negativi del secondo trimestre 2009:
“I principali Stati membri della UE che si trovano nell’Europa centrale e orientale, fatta eccezione per la Polonia, hanno registrato una contrazione significativa del PIL in termini reali nel primo trimestre. Il calo sul periodo precedente è stato pari al 2,5 per cento in Ungheria, 3,4 per cento nella Repubblica Ceca e 4,6 per cento in Romania. […] All’interno della UE, i paesi baltici hanno registrato la flessione maggiore dell’attività negli ultimi trimestri. Tali economie avevano accumulato, negli ultimi anni, ampi squilibri interni ed esterni. […] Negli ultimi trimestri, un netto aumento della disoccupazione a circa il 15 per cento ha contribuito a far scendere i consumi. […] In Bulgaria – che era stata finora meno colpita dalla crisi rispetto alle altre economie più piccole dell’Europa centrale e orientale – alcuni indicatori congiunturali (ad esempio delle vendite al dettaglio o del clima di fiducia delle imprese industriali) hanno continuato a deteriorarsi negli ultimi mesi”[4][4].
La crisi colpisce più pesantemente, anche se in modo differenziato da paese a paese, le economie dei cosiddetti “paesi emergenti europei”, rivelando altresì la fragilità dei relativamente alti tassi di crescita degli anni precedenti, che si convertono oggi in tassi negativi, con forte aumento della disoccupazione e il rischio di bancarotta.
Una delle cause – se non la principale – che si può rinvenire a chiare lettere nei freddi rapporti dei grandi centri della finanza internazionale, è nella dipendenza del sistema bancario e industriale dei nuovi membri della UE (e di quelli in procinto di diventare tali) dai grandi gruppi capitalistici dell’Occidente. “La maggior parte dei paesi emergenti europei sono altamente dipendenti dalle banche occidentali europee, che possiedono la maggior parte dei sistemi bancari in questi paesi” - scrive il rapporto del FMI di aprile 2009, paventando la possibilità di un effetto boomerang sulle grandi banche europee occidentali, fortemente esposte al rischio di insolvenza dei “paesi emergenti” debitori: “le case madri sono in gran parte concentrate in pochi paesi (Austria, Belgio, Germania, Italia e Svezia), e in alcuni casi, i crediti delle banche dell'Europa occidentale verso i paesi emergenti europei sono di grandi dimensioni rispetto al PIL del paese di origine (Austria, Belgio e Svezia)”[5][5]. Le banche creditrici hanno chiuso il rubinetto del credito, lasciando in panne i nuovi arrivati, con pesanti conseguenze su tutta la loro attività economica:
“I paesi emergenti europei sono stati colpiti molto duramente dalla diminuzione dei flussi internazionali lordi di capitale e dalla fuga di essi davanti al rischio. Molti di loro erano fortemente dipendenti dagli afflussi di capitali delle banche occidentali per sostenere l'espansione del credito locale. Gli impegni internazionali intraeuropei delle banche erano notevoli e, nei paesi emergenti d’Europa, molte banche erano tenute da imprese straniere in difficoltà. La situazione si è fortemente deteriorata nell’autunno 2008: c'è stato un aumento generalizzato dei margini sui titoli sovrani e le monete si sono rapidamente svalutate nei paesi con regimi di tasso di cambio flessibile. Il riflusso della domanda di importazione nei paesi avanzati, combinato con il crollo dei prezzi degli immobili, la penuria di credito e il deprezzamento delle valute in un contesto di marcata asimmetria dei bilanci, ha portato a pesantissimi aggiustamenti, addirittura, in alcuni paesi, a vere e proprie crisi. Di fronte al crollo delle esportazioni e della produzione e alla diminuzione delle entrate statali, molti paesi hanno ricevuto un aiuto dal FMI e da altre istituzioni finanziarie internazionali per finanziare la loro bilancia dei pagamenti”[6][6].
Il bollettino di ottobre 2009 della Banca d’Italia riassume così:
“La recessione sta proseguendo nella maggior parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale, che hanno risentito pesantemente della crisi a causa degli ampi disavanzi delle partite correnti e della loro dipendenza dai finanziamenti dall’estero. Il calo del PIL nel 2009 sarà particolarmente marcato nei paesi baltici, in Romania e in Bulgaria (con tassi di variazione compresi tra il -7 e il -19 per cento)”[7][7].
Non sono dei marxisti, ma i centri delle più importanti istituzioni finanziarie, quelle che disegnano i destini del mondo e di miliardi di esseri umani, a dichiarare a chiare lettere che nella sfera delle relazioni economiche della UE non vi è un rapporto paritario tra i suoi membri, ma di dipendenza dalle banche “occidentali”[8][8] dei nuovi arrivati dell’Europa centro-orientale, che facevano parte fino al 1989 del COMECON. Siamo di fronte, allora, non all’unificazione di paesi con pari dignità, ma ad un’espansione del nucleo forte della UE verso Est, una conquista e un’annessione compiuta con le armi del moderno imperialismo. Come la DDR nel 1990 non fu “unificata” con la Germania di Bonn, ma annessa ad essa in un rapporto dipendente e subordinato (per cui non vi fu alcuna nuova Costituzione alla base di un nuovo Stato, ma si mantenne la Legge fondamentale della RFT), così i paesi che nel 2004 e nel 2007 sono entrati a far parte della UE, e quelli dei “Balcani occidentali” di cui si prospetta l’ingresso tra qualche anno, si configurano alla stregua di una “colonia interna”: un mercato finalmente del tutto aperto agli investimenti di capitali, in primis del capitale bancario – che oggi controlla praticamente la vita economica di questi paesi – e del capitale industriale, per impiantare (in diversi casi delocalizzando dall’Occidente) produzioni a medio-basso contenuto tecnologico[9][9], impiegando una forza-lavoro acquistabile sotto costo e usufruendo di condizioni fiscali molto favorevoli; nonché un mercato di sbocco per le merci “occidentali”.
Il peso economico dei 27 paesi aderenti alla UE (di cui 16 adottano la moneta unica) presenta grandi differenze. Il paese più forte per PIL e popolazione è la Germania, con un PIL nel 2007 di 2.422,9 miliardi di euro, il 26,9% del PIL complessivo della UE (12.353 miliardi di €). Francia (21%), Italia (17,2%), Spagna (11,7%) costituiscono le economie più rilevanti dell’eurozona, mentre il Regno Unito (16,6%) è di gran lunga la principale economia della UE fuori area euro[10][10].
I nuovi arrivati tra il 2004 e il 2007 erano, salvo Malta e Cipro, economie di tipo socialista fino al 1989, che la grande borghesia “europeista”, con la sua politica di “allargamento”, ha avuto la capacità di trasformare, nel tempo storicamente piuttosto breve di un decennio, in “economie di mercato”, compatibili e integrabili nel capitalismo occidentale. Si è trattato però di un’integrazione subordinata e dipendente dal grande capitale finanziario europeo. Il peso complessivo dei nuovi arrivati dell’Europa centro-orientale è piuttosto ridotto: pur contando essi su una popolazione che supera il 20% di quella di tutti i paesi UE (102,2 milioni su 496 milioni), la percentuale del PIL dei 10 paesi ex socialisti sul totale del PIL della UE non supera il 7% e solo Polonia (col 2,5%), Repubblica ceca e Romania (entrambi con l’1%) superano l’1%.
Ma non si tratta solo di essere parenti poveri. Il disegno di integrazione subalterna dell’area dell’Europa centro-orientale – integrazione che prevede anche la sottomissione completa dei Balcani (e per questo nel 1999 si muove guerra alla Serbia che ha avuto il torto di opporsi) e la prospettiva di annettersi anche il ghiotto boccone dell’Ucraina (magari attraverso “rivoluzioni colorate”) – viene da lontano. Pianificato nei centri studi di Nomisma e dell’Unione Banche Svizzere, era stato esplicitato a chiare lettere alla fine degli anni 80, già prima della “caduta del muro di Berlino”. De Benedetti e Giscard d’Estaing parlavano di “piano Marshall” finanziato dalla Comunità europea per i paesi dell’Est per trovare nuovi mercati pieni di potenzialità per i “nostri capitalisti”, mercati senza i quali il sistema industriale capitalista non avrebbe potuto crescere[11][11]. “È nel nostro interesse egoistico che ci sia un’evoluzione sociale, culturale, politica, economica della parte orientale del continente. Servirà al nostro stesso sviluppo”, dichiarava nell’ottobre 1989 l’allora ministro De Michelis[12][12].
È la Germania di Kohl il principale beneficiario e artefice dell’espansione ad Est. Essa impone l’incorporazione della DDR (con cui ancora il 22 dicembre 1989 la CEE cominciava un negoziato per un accordo commerciale!), che entra così automaticamente a far parte della CEE e della NATO. L’OSCE, organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa, alla conferenza di Parigi del 21 novembre 1990 proclama la fine della divisione dell’Europa. La carta di Parigi crea un “ufficio delle istituzioni democratiche” che supervisiona la messa in opera degli impegni presi dai nuovi regimi “pluralisti”. Il 22 giugno 1993 i capi di stato e di governo riuniti a Copenhagen decidono l’allargamento della UE agli stati dell’Europa centrale e orientale, fissando le condizioni generali delle future adesioni: istituzioni stabili, che garantiscano la “democrazia”, lo “stato di diritto”, “diritti dell’uomo” e rispetto delle minoranze nazionali; “economia di mercato” capace di affrontare la concorrenza in seno all’Unione; ripresa e applicazione dell’acquis comunitario e adesione agli obiettivi dell’unione politica ed economica. Il “patto di stabilità” in Europa, proposto dalla Francia e assunto dalla conferenza di Parigi del 26-27 maggio 1994, ha l’esplicito obiettivo di favorire l’adesione degli stati d’Europa centrale e orientale disposti a regolare i loro contenziosi bilaterali relativi a frontiere e minoranze[13][13].
Tra il 1991 e 1999, con una terapia lacrime e sangue, si fanno le privatizzazioni: in media la quota che il settore privato apporta al PIL è pari a quella degli altri paesi della UE, in Ungheria raggiunge addirittura il 90% Le ristrutturazioni nelle campagne riducono la popolazione agricola a meno del 10% della popolazione attiva. Il commercio estero viene completamente riorientato dopo la scomparsa della precedente divisione del lavoro nel campo socialista[14][14]. Il primo decennio di transizione dal sistema di economie di tipo socialista, basate su un settore prevalente e determinante di proprietà di stato e sulla pianificazione, ad economie di mercato fondate sulla proprietà privata e la deregolamentazione neoliberista, è contrassegnato dagli effetti pesantissimi delle “terapie shock” che, pur tra differenze e peculiarità dei singoli paesi dell’ex COMECON, sono adottate, seguendo le ricette di FMI &C. In modo più o meno violento, gran parte della popolazione è privata del sistema di garanzie sociali di cui godeva e costretta a trottare al comando dei nuovi signori dell’Ovest, che si impadroniscono delle industrie migliori o smantellano quelle locali, pur valide, per imporre voracemente le proprie merci sui nuovi mercati aperti grazie alle “rivoluzioni” del 1989 (nella zona est di Berlino già nel 1991 non si trova più la birra delle industrie dell’est, a Bucarest gli ottimi succhi di frutta locali sono ben presto rimpiazzati da Parmalat).
Nel 1999, nel decimo anniversario della “caduta del Muro”, tutti gli indici dei paesi dell’est segnalavano che a 10 anni di distanza dal rovesciamento del socialismo le condizioni economiche della popolazione e dei paesi erano peggiori che nel 1989. Non c’era un solo indicatore fondamentale, in nessuno dei paesi che avevano avviato la “transizione dal socialismo al capitalismo”, che mostrasse un segno più rispetto alla situazione pre 1989, salvo il tasso di disoccupazione. “Ogni paese senza eccezione […] ha accompagnato la propria trasformazione con una profonda e in molti casi prolungata recessione (Kornai parla appunto di transformational recession), del 20% del PIL in Polonia, il paese meno colpito, del 40% nella media dell’ex Unione Sovietica, con punte del 65%, ad esempio in Georgia e Armenia […] non solo la recessione c’è stata veramente, ma è stata peggiore di quella mondiale del 1929”, scriveva Nuti, paragonando il passaggio all’“economia di mercato” alla “peste nera di cinque secoli fa, con la differenza che “la peste riduceva non solo la produzione ma anche la popolazione, e pertanto non riduceva il reddito e il consumo pro capite come è successo nella transizione” [15][15].
Perché si potesse attuare questa “terapia shock”, che avrebbe potuto prevedibilmente innescare forti tensioni sociali e crisi politiche nei nuovi gruppi di potere, occorreva uno stretto controllo politico e militare su questi paesi. L’integrazione di queste economie nella UE è preceduta dall’integrazione politico-militare di esse nella NATO, che deve avvenire con le buone o con le cattive. Chi resiste troppo è bombardato (aggressione e distruzione militare della RFJ nella primavera 1999). Si stabilisce così un condominio concorrenziale sui paesi ex socialisti tra gli USA, che hanno una prevaricante forza militare, e i paesi del nucleo forte europeo, in primis la Germania, in asse (non paritario) con la Francia e in concorrenza col Regno Unito, stretto alleato degli USA e per molti aspetti sua “quinta colonna” nella UE.
La conquista e assimilazione dei paesi ex socialisti dell’Europa centro-orientale e balcanica è un classico modello di politica imperialista e di “divisione del lavoro” tra potenze imperialiste: penetrazione economica e penetrazione militare si combinano in un’azione congiunta, e al contempo concorrenziale, tra le aree valutarie del dollaro e dell’euro. All’indomani della caduta del muro di Berlino, il presidente americano George Bush, nel suo intervento al summit Nato di Bruxelles il 4 dicembre 1989, afferma a chiare lettere che gli USA sarebbero rimasti una potenza europea. La strategia dell’allargamento ad Est della NATO si delinea al vertice di Londra del luglio ’90, quando viene accolta nella NATO la nuova Germania unificata e si consolida nei vertici di Roma (novembre 1991) e di Oslo (giugno 1992), quando la NATO si mette a disposizione per eventuali azioni di “pacificazione” richieste dal consiglio di sicurezza dell’ONU o dalla CSCE, fino al vertice di Bruxelles (gennaio 1994), in cui si sancisce la politica di allargamento a tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale, compresi i pezzi della Jugoslavia in via di smembramento, martoriato laboratorio insanguinato in cui si attizzano odi etnici, si armano forze separatiste, in modo da creare il casus belli che giustifichi la “mediazione” e l’intervento militare americano, dalle krajne serbe in Croazia, alla Bosnia – primo banco di prova degli interventi NATO fuori area -, alla Macedonia, all’Albania, al Kosovo[16][16].
Il processo di integrazione subordinata delle economie ex socialiste in transizione nella UE viene straordinariamente accelerato proprio a partire dalla guerra contro la Serbia del 1999, a mano a mano che gli USA, imponendo la loro supremazia militare, mostravano di poter essere gli unici a volere e poter intervenire militarmente in Europa.Tra il 1999 e il 2004 – anno del più grande allargamento della storia della Comunità europea – si gioca la grande partita tra imperialismi franco-tedesco-europeo e statunitense. La politica USA è particolarmente aggressiva in questa fase e punta, con accordi militari separati con i paesi dell’est candidati all’ingresso nella UE, a creare una “nuova Europa” filoamericana, contrapposta alla “vecchia Europa” franco-tedesca. Lo scontro nel condominio imperialista europeo diviene evidente, con un vero e proprio tentativo di spaccare l’Europa, tra il 2002 e il 2003, quando USA e Inghilterra aggrediscono l’Iraq, ma senza il consenso dei paesi europei del nocciolo duro franco-tedesco, che riesce, grazie alla tenace azione del ministro degli esteri francese de Villepin, anche ad evitare un pronunciamento favorevole del Consiglio di sicurezza dell’ONU, isolando gli USA.
Tra l’aggressione della NATO alla RFJ nel 1999 e quella anglo-americana all’Iraq nel 2003 si giocano anche i rapporti di forza all’interno dello scacchiere europeo. All’interventismo militare degli USA, il nucleo forte della UE risponde rilanciando l’integrazione accelerata dell’est, sfidando anche il rischio di ritrovarsi in casa delle “quinte colonne”. A tappe forzate, per realizzare la più grande operazione di conquista “consensuale” di territori e popolazioni dopo la seconda guerra mondiale, si impone ai parlamenti dei paesi candidati di trasporre nelle legislazioni nazionali, prima dell’adesione, ben 470 regolamenti comunitari, adottando oltre 100 leggi all’anno (su libera circolazione dei beni, mercati pubblici, assicurazioni, proprietà intellettuale, creando o riformando le strutture amministrative chiamate ad applicare le misure comunitarie, in particolare quelle giudiziarie). Il 13 dicembre 2003 a Copenhagen il Consiglio europeo dichiara chiusi i negoziati con i 10 paesi candidati, che entreranno il 1.5. 2004 nella UE (Bulgaria e Romania nel 2007)[17][17].
Tra i paesi ex socialisti entrati nell’Unione l’Ungheria mostra di aver subito i maggiori contraccolpi non solo della crisi finanziaria in corso, ma del modello di transizione ad un capitalismo dipendente. Essa negli anni ’90 ha rincorso più degli altri la politica di privatizzazioni e di conformazione delle proprie istituzioni giuridiche ed economiche a quelle richieste da un’organizzazione capitalistica della società ((diritto di proprietà, assicurazione degli investimenti, diritto fallimentare, diritto della concorrenza) in base agli standard europei. Ha visto perciò un afflusso massiccio di investimenti. «Fino alla metà degli anni 1990, grazie a questa politica di "profilo istituzionale", questo paese - popolato solo da 10 milioni di persone - assorbiva la metà degli investimenti diretti esteri (da UE e USA) per un’area economica che contava tuttavia quasi 100 milioni di abitanti. Prosperità artificiale e temporanea che ora si esaurisce: se Budapest continua a ospitare le sedi regionali di grandi imprese internazionali, la stragrande maggioranza del paese attraversa una crisi profonda. Gran parte dell'economia nazionale è nelle mani di stranieri che desiderano ora raccogliere i frutti dei loro investimenti originari»[18][18]. Il 70% degli istituti ungheresi è di proprietà di grandi gruppi europei[19][19], tra cui Unicredit, KBC e Intesa Sanpaolo.
La tempesta finanziaria che scuote il mondo nel settembre 2008 trova un’Ungheria dove è già pesantemente in crisi il modello di capitalismo dipendente. La grande crisi sembra assestarle il colpo di grazia: a ottobre 2008 è a rischio di bancarotta e devono correre in suo soccorso ai primi di novembre la BCE (per la prima volta con un intervento in un paese fuori dell’eurozona, con un prestito di 6,5 miliardi di euro),il FMI (€ 12,5 mld.) e la Banca mondiale (€ 1 mld.). Ma il problema rimane, come denuncia Gergely Romsics, ricercatore presso l’Istituto ungherese per gli Affari Internazionali, “l’eccessiva dipendenza dell’Ungheria dagli investimenti e dal capitale straniero nella rincorsa al modello di sviluppo occidentale”[20][20]. Ma se quello dell’Ungheria e dei paesi baltici, infeudati al capitale scandinavo, può essere un caso limite, la questione generale che la crisi svela chiaramente è, come scrivono a chiare lettere anche i reportage giornalistici che : “i sistemi economici dei paesi dell'Europa dell'est presentano una dipendenza eccessiva rispetto agli investimenti privati stranieri che ora, a causa della crisi finanziaria, stanno progressivamente svanendo”. E svaniscono anche le illusioni alimentate dalla dolce maschera dell’Europa.
(questo articolo uscirà sul prossimo numero di Marxismo Oggi)
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[1] Cfr. Bon à savoir à propos de - L’ELARGISSEMENT DE L’UE, Luxembourg, Office des publications officielles des Communautés européennes, marzo 2009, p. 1. Corsivo mio, A.C. La brochure è reperibile anche in http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/publication/screen_mythfacts_a5_fr.pdf.
[2] Ivi, pp. 2-3. Corsivo mio, A.C.
[3] Cfr. ivi, pp. 11-12.
[4] Cfr. BCE, Bollettino mensile, Settembre 2009, traduzione e pubblicazione a cura della Banca d’Italia, pp. 12-13, http://www.bancaditalia.it/eurosistema/comest/pubBCE/mb/2009/settembre/bce_0909. Il corsivo è mio, A.C.
[5] International Monetary Fund, 2009, Global Financial Stability Report: Responding to the Financial Crisis and Measuring Systemic Risks (Washington, April), p. 9. https://www.imf.org/external/pubs/ft/gfsr/2009/01/pdf/text.pdf.
[6]FONDS MONÉTAIRE INTERNATIONAL RAPPORT ANNUEL 2009, Washington, p. 19, http://www.imf.org/external/french/pubs/ft/ar/2009/pdf/ar09_fra.pdf. Il corsivo è mio, A.C.
[7] Banca d’Italia, Bollettino Economico n. 58, Ottobre 2009, p. 18, http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/bollec/2009/bolleco58 . Il corsivo è mio, A.C.
[8] Il rapporto annuale del FMI – forse meno preoccupato della retorica europeista della BCE – riprende, non sappiamo quanto inconsapevolmente, la nozione di “Occidente” in termini non geografici, ma economico-politici, quando questa nozione indicava un sistema politico-sociale e di valori contrapposto all’URSS e ai paesi socialisti. Cfr. il già citato RAPPORT ANNUEL, p. 19.
[9] Cfr. B. Landais, A. Monville, P. Yaghlekdjan, L’idéologie européenne, Ed. Aden, Bruxelles, 2008, pp. 211-213.
[10] Per questi dati e i seguenti, cfr. European Central Bank, Statistics Pocket Book, April 2009, pp. 39 sgg.
[11] Cfr. W. Goldkron in L’Espresso, 17 aprile 1988.
[12] Cfr. intervista all’Unità del 23.10.1989.
[13] Cfr. C. Zorgbibe, « Le «grand élargissement» de 2004, in Histoire de l’Union européenne, Albin Michel, Parigi, 2005, pp. 261 267.
[14] Ivi.
[15] Cfr. D. M. Nuti, “1989-1999: la grande trasformazione dell’Europa centrorientale”, in Europa/Europe, numero 4/1999. L’evidenziazione in corsivo è mia, A.C. Nuti cita qui il saggio di “un autore al di sopra di ogni sospetto, Bob Mundell” nel volume a cura di M. Skreb e M. Blejer, Macroeconomic stabilisation in transiton economies, Cambridge 1998.
[16] Si veda La Nato nei Balcani, Editori Riuniti, Roma, 1999, in particolare Sara Flounders: “La tragedia della Bosnia: il ruolo sconosciuto del Pentagono” e Gregory Elich: “L’invasione della Krajna serba”.
[17] Cfr. C. Zorgbibe, op. cit.
[18] Cfr. L’idéologie européenne, op. cit., p. 214.
[19] Felice Di Leo, Ungheria: prospettive dopo la crisi finanziaria e il maxi-prestito della BCE, in http://www.equilibri.net/articolo/10579/Weekly_Analyses_-_38_2008).
[20] Cfr. Fernando Navarro Sordo, L’Ungheria e la crisi: il cuore isolato dell’Europa, in http://www.cafebabel.fr/article/29718/budepest-ungheria-crisi-economica-vita-notturna.html.
Stop NATO - November 7, 2009
1989-2009: Moving The Berlin Wall To Russia’s Borders
November 9 will mark the twentieth anniversary of the government of the German Democratic Republic opening crossing points at the wall separating the eastern and western sections of Berlin.
From 1961 to 1989 the wall had been a dividing line in, a symbol of and a metonym for the Cold War.
A generation later events are to be held in Berlin to commemorate the “fall of the Berlin Wall,” the last victory the West can claim over the past two decades. Bogged down in a war in Afghanistan, occupation in Iraq and the worst financial crisis since the Great Depression of the 1930s, the United States, Germany and the West as a whole are eager to cast a fond glance back at what is viewed as their greatest triumph: The collapse of the socialist bloc in Eastern Europe closely followed by the breakup of the Soviet Union.
All the players in that drama and events leading up to it – Ronald Reagan, Mikhail Gorbachev, George H. W. Bush, Vaclav Havel, Lech Walesa – will be reverently eulogized and lionized.
Gorbachev will attend the anniversary bash at the Brandenburg Gate and the editorial pages of newspapers around the world will dutifully repeat the litany of bromides, pieties, self-congratulatory praises and grandiose claims one can expect on the occasion.
What will not be cited are comments like those from Mikhail Margelov, Chairman of the Committee on Foreign Affairs of the upper house of the Russian parliament, the Federation Council, on November 6. To wit, that “The Berlin Wall has been replaced with a sanitary cordon of ex-Soviet nations, from the Baltic Sea to the Black Sea.” [1]
With the unification of first Berlin and then Germany as a whole, the Soviet Union and its president Mikhail Gorbachev were assured that the North Atlantic Treaty Organization would not expand eastward toward their border. Gorbachev insists that in 1990 U.S. Secretary of State James Baker told him “Look, if you remove your troops and allow unification of Germany in NATO, NATO will not expand one inch to the east.” [3]
Not only was the former East Germany absorbed into NATO but over the past ten years every other Soviet ally in the Warsaw Pact has become a full member of the bloc – Bulgaria, the Czech Republic, Hungary, Poland, Romania and Slovakia.
Russia has twice before been attacked from the West, by the largest invasion forces ever assembled on the European continent and indeed in the world at one time (Herodotus’ hyperbolical estimates of Xerxes’ army notwithstanding), that of Napoleon Bonaparte in 1812 and of Adolf Hitler in 1941. The first consisted of 700,000 troops and the second of 5 million.
Moscow’s concerns about military encroachments on its western borders and its desire to insure at least neutral buffers zones on them are invariably portrayed in the U.S. and allied Western capitals as some combination of Russian paranoia and a plot to revive the “Soviet Empire.” What the self-anointed luminaries of Western geopolitics feel about neutrality will be seen later.
With the expansion of the U.S-dominated military bloc into Eastern Europe in 1999 and 2004, in the latter case not only the remaining non-Soviet former Warsaw Pact states but three ex-Soviet republics became full members, there are now five NATO nations bordering Russia. Three directly abutting its mainland – Estonia, Latvia and Norway – and two more neighboring the Kaliningrad territory, Lithuania and Poland. Finland, Georgia, Ukraine and Azerbaijan are being prepared to follow suit and upon doing so will complete a belt from the Barents to the Baltic, from the Black to the Caspian Seas.
The total length of the Berlin Wall separating all of West Berlin from the German Democratic Republic was 96 miles. A NATO military cordon from northeastern Norway to northern Azerbaijan would stretch over 3,000 miles (over 4,800 kilometers).
As a Russian news commentary recently noted in relation to the U.S. spending $110 million to upgrade two of the seven new military bases the Pentagon has acquired across the Black Sea from Russia, “The installations in Romania and Bulgaria go in line with the program of relocation of American troops in Europe announced on 2004 by then president George Bush. Its main goal is the maximum proximity to Russian borders.” [3]
The wall being erected (and connected) around all of European Russia is not a defensive redoubt, a protective barrier. It is a steadily advancing phalanx of bases and military hardware.
Last month NATO Secretary General Anders Fogh Rasmussen was in Lithuania to inspect the Siauliai Air Base from where NATO warplanes have conducted uninterrupted patrols over the Baltic Sea for over five years, skirting the Russian coast a three-minute flight from St. Petersburg.
New Lithuanian President Dalia Grybauskaite said at the time “We have been assured that NATO is still interested in investing in defence of the Baltic region….I am happy to see the NATO Secretary General here, in Lithuania, in the only and most important NATO air force base in the Baltic states. This is one of the main NATO defence points in the Baltic region.” [4]
In neighboring Poland a newspaper report of last April provided details on the degree of the Alliance’s buildup in the nation:
“NATO’s investments in defense infrastructure in Poland may amount to over 1 euros (4.3 zlotys) billion over the next five years….
“Poland is already the site of the largest volume of NATO investment in the world.
“Currently, construction or modernization work on seven military airports, two seaports, five fuel bases as well as six strategic long-range radar bases is nearing completion. Air defense command post projects in Poznan, Warsaw and Bydgoszcz have already been given the go-ahead, as has a radio communication project in Wladyslawowo.
“New investments will include, among other things, the equipping of military airports in Powidz, Lask and Minsk Mazowiecki with new logistics and defense installations.” [5]
The nation will soon host as many as 196 American Patriot interceptor missiles and 100 troops to man them as well as being a likely site for the deployment of American SM-3 anti-ballistic missile batteries.
As mentioned earlier, Washington and NATO have secured the indefinite use of seven military bases in Bulgaria and Romania, Russia’s Black Sea neighbors, including the Bezmer and Graf Ignatievo airbases in Bulgaria and the Mihail Kogalniceanu airbase in Romania. [6]
Gen. Roger Brady, U.S. Air Forces in Europe commander, was in Romania on October 28 to oversee joint military trainings where “the U.S. Air Force flew about 100 sorties; half of those sorties were flown with the Romanian air force.” [7]
The Pentagon leads annual NATO Sea Breeze exercises in Ukraine in the Crimea where the Russian Black Sea Fleet is based.
It also conducts regular Immediate Response military drills in Georgia, the largest to date ending days before Georgia’s attack on South Ossetia and the resultant war with Russia in August of 2008 and one currently just being completed. This May the U.S. led the annual Cooperative Longbow 09/Cooperative Lancer NATO Partnership for Peace war games in Georgia with 1,300 servicemen from 19 countries. [8]
The Commanding General of U.S. Army Europe, General Carter F. Ham, was in Georgia a few days ago and “got acquainted with the carrying out of the Georgian-US military training Immediate Response 2009″ which included “visit[ing] the Vaziani Military Base and attend[ing] military training.” [9]
A Russian official, Dmitry Rogozin, spoke of the joint military exercises, warning that “We all remember that similar activities carried out last year were followed by the August events.” [10]
A Georgian commentary on the drills confirmed Russian apprehensions by reiterating this link:
“Georgia is fighting for peace and stability in Afghanistan in order to eventually ensure peace and stability in Georgia, as one good turn will undoubtedly deserve another in the fullness of time.” [11]. Which is to say, as Georgia assists the U.S. militarily in Afghanistan, so the U.S. will back Georgia in any future conflicts with its neighbors in the Caucasus.
The world press has recently reported on Polish Foreign Minister Radoslaw Sikorski’s three-day visit to the U.S. to among other things “meet with US Secretary of State Hillary Clinton…to discuss Afghanistan and a new US proposal for a missile shield” [12] and attend a conference at the Brookings Institution where he said of the Polish-Swedish-European Union Eastern Partnership program to recruit Armenia, Azerbaijan, Belarus, Georgia, Moldova and Ukraine into the “Euro-Atlantic” orbit and of Moscow’s concerns that the West was moving to take over former Soviet space, “The EU does not need Russia’s consent.” [13]
What created the most controversy, though, was his address at a conference sponsored by the Center for Strategic and International Studies (CSIS) called The United States and Central Europe: Converging or Diverging Strategic Interests?
The main motif of the conference was, of course, the twentieth anniversary of the end of the Cold War as symbolized by the dismantling of the Berlin Wall.
Former U.S. National Security Adviser Zbigniew Brzezinski gave a presentation replete with references to Russia’s alleged “imperial aspirations,” its threats to Georgia and Ukraine and its intent to become an “imperial world power.” [14]
Sikorski, no stranger to Washington, having been resident fellow of the American Enterprise Institute and executive director of the New Atlantic Initiative there from 2002-2005 before returning home to become Poland’s Defense Minister, suggested that recent joint Belarusian-Russian military exercises necessitated stronger NATO commitments in Northeastern Europe. Saying that the Alliance’s Article 5 military assistance obligation – which is why, by the way, there will soon be almost 3,000 Polish troops in Afghanistan – was too “vague” and offered as a more concrete alternative something on the order of the 300,000 U.S. troops stationed in West Germany during the Cold War. [15]
The Polish government has subsequently denied that its foreign minister explicitly called for American troop deployments, and in fact he did not, but his comments are in line with several other recent events and statements.
For example, Poland revealed in late October that it planned a massive $60 billion upgrading of its armed forces. “Minister of Defense Bogdan Klich announced a plan…to modernize the army within 14 programs: air defense systems, combat and cargo helicopters, naval modernization, espionage and unmanned aircraft, training simulators and equipment for soldiers....
“Klich announced plans to buy new LIFT combat training aircraft, Langust missile launchers, Krab self-propelled howitzers, Homar rocket launchers, as well as several more Rosomak tanks and 30 billion zloty will be spent on army modernization alone.” [16]
The arrival at the same time of the American destroyer USS Ramage and its 250 marines, fresh from NATO war games off the coast of Scotland, “to participate in a military exercise with Polish navy officers,” proves Sikorski’s wishes are not being ignored. [17] Before leaving, the USS Ramage “which was participating in joint US-Polish maneuvers…shelled the coast of Poland, local TV-channel TVN24″ reported. [18] Commander Tom Williamson at the U.S. embassy in Warsaw said “The USS Ramage crew is being interrogated in relation to the case.” [19]
Another American warship that had participated in the NATO naval maneuvers off Scotland, Joint Warrior 09-2, docked in Estonia afterward. The Aegis-equipped guided missile destroyer USS Cole.
The guided-missile frigate USS John L. Hall which included “embarked sailors of Helicopter Anti-Submarine Squadron 48 Detachment 9″ [20] arrived in Lithuania early this month. A U.S. navy officer said of the visit: “We are here as part of the United States Navy’s continuing presence in the Baltic Sea….We are also here to work with the Lithuanian Navy, who has been a valuable partner and our visit here is part of the ongoing relationship between our two countries and our two navies.” [21]
As American warships were demonstrating their “continuing presence in the Baltic Sea,” Estonia’s defense minister affirmed that “NATO has defence plans in the Baltics and they’re being developed” [22], and his Latvian counterpart said, “It is important for Latvia that the new Alliance Strategic Concept will include points about the collective unity for the enforcement of the strategic security in the Baltic Sea region and the common responsibility for the future of Alliance military operations.” [23]
Estonian Defense Minister Jaak Aaviksoo told The Associated Press “that his country sees new threats since Russia’s invasion of Georgia last year and a cyber attack that targeted his country in 2007.
“Aaviksoo plans to meet with U.S. Secretary of Defense Robert Gates” on November 10. [24]
Estonian President Toomas Hendrik Ilves, an American expatriate and former Radio Free Europe operative, offered to hold NATO drills in the Baltic states.
Defense Minister Imants Liegis recently confirmed that “Latvia is to hold large-scale military exercises in summer, in response to the Russian-Belarusian strategic exercises.” [25] Not alone, no doubt.
The above catalogue of military activities and bellicose statements should put to rest sanguine expectations resulting from the end of the Cold War, which never in fact ended but shifted its operations – substantially – eastwards.
Those whose names will be evoked and invoked on November 9 on the occasion of the anniversary of the dismantling of the Berlin Wall didn’t fare well in the immediate aftermath.
Three years afterward Georgia H. W. Bush, even a year after Operation Desert Storm, became only the third American president since the 1800s to lose a reelection bid.
Four year after that Mikhail Gorbachev ran for the Russian presidency and received 0.5% of the vote.
In his last race for the Polish presidency in 2000 Lech Walesa, when his nation’ electorate had finally seen through him, got 1% of the vote.
But he and fellow Cold War heroes of the West march ever onward in confronting Russia during the current phase of the new conflict.
In July, in what they titled An Open Letter to the Obama Administration from Central and Eastern Europe, old/new Cold War champions like Lech Walesa, Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Alexander Kwasniewski and Vaira Vike-Freiberga – Adamkus lived for several decades in the U.S. and Vike-Freiberga in Canada – ratcheted up anti-Russian rhetoric to a pitch not heard since the Reagan administration.
Their comments included:
“We have worked to reciprocate and make this relationship a two-way street. We are Atlanticist voices within NATO and the EU. Our nations have been engaged alongside the United States in the Balkans, Iraq, and today in Afghanistan….[S]torm clouds are starting to gather on the foreign policy horizon.”
“Our hopes that relations with Russia would improve and that Moscow would finally fully accept our complete sovereignty and independence after joining NATO and the EU have not been fulfilled. Instead, Russia is back as a revisionist power pursuing a 19th-century agenda with 21st-century tactics and methods.”
“The danger is that Russia’s creeping intimidation and influence-peddling in the region could over time lead to a de facto neutralization of the region.”
“Our region suffered when the United States succumbed to ‘realism’ at Yalta. And it benefited when the United States used its power to fight for principle. That was critical during the Cold War and in opening the doors of NATO. Had a ‘realist’ view prevailed in the early 1990s, we would not be in NATO today….”
“[W]e need a renaissance of NATO as the most important security link between the United States and Europe. It is the only credible hard power security guarantee we have. NATO must reconfirm its core function of collective defense even while we adapt to the new threats of the 21st century. A key factor in our ability to participate in NATO’s expeditionary missions overseas is the belief that we are secure at home.” [26]
The collective missive also resoundingly endorsed U.S. interceptor missile plans for Eastern Europe and held up the Georgia of Mikheil Saakashvili (another former U.S. resident) as the cause celebre for a new confrontation with Russia.
On September 22 Britain’s Guardian published a similar group Open Letter, this one from Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Mart Laar, Vytautas Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn Bendit, Timothy Garton Ash, André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik and Josep Ramoneda, called Europe must stand up for Georgia, which featured these topical allusions ahead of the seventieth anniversary of the beginning of World War II and the twentieth of the demise of the Berlin Wall:
“As Europe remembers the shame of the Ribbentrop-Molotov pact of 1939 and the Munich agreement of 1938, and as it prepares to celebrate the fall of the Berlin wall and the iron curtain in 1989, one question arises in our minds: Have we learned the lessons of history?”
“Twenty years after the emancipation of half of the continent, a new wall is being built in Europe – this time across the sovereign territory of Georgia.”
“[W]e urge the EU’s 27 democratic leaders to define a proactive strategy to help Georgia peacefully regain its territorial integrity and obtain the withdrawal of Russian forces illegally stationed on Georgian soil….[I]t is essential that the EU and its member states send a clear and unequivocal message to the current leadership in Russia.” [27]
Georgia has become a new Czechoslovakia twice, that of 1938 and of 1968, a new Berlin, a new Poland and so forth. Eastern and Western European figures like the signatories of the above appeal, contrary to what they state, are nostalgic for the Cold War and anxious to launch a new crusade against a truncated and weakened Russia.
Along with 1990s-style “humanitarian intervention,” such campaigns are their stock in trade.
But the demand for more American military “hard power” in Europe as well as the Caucasus and the expansion of NATO to Russia’s borders may provoke a catastrophe that the continent and the world were fortunate enough to be spared the first time around.
1) Russian Information Agency Novosti, November 6, 2009
2) Quoted by Bill Bradley, Foreign Policy, November 7, 2009
3) Voice of Russia, October 22, 2009
4) President of the Republic of Lithuania, October 9, 2009
5) Warsaw Business Journal, April 20, 2009
6) Bulgaria, Romania: U.S., NATO Bases For War In The East
Stop NATO, October 24, 2009
http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/25/bulgaria-romania-u-s-nato-bases-for-war-in-the-east
7) U.S. Air Forces in Europe, October 29, 2009
8) NATO War Games In Georgia: Threat Of New Caucasus War
Stop NATO, May 8, 2009
http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/28/nato-war-games-in-georgia-threat-of-new-caucasus-war
9) Trend News Agency, October 28, 2009
10) Rustavi2, October 31, 2009
11) The Messenger, November 3, 2009
12) Deutsche Presse-Agentur, October 28, 2009
13) Polish Radio, November 3, 2009
14) Video
http://csis.org/multimedia/video-strategic-overview-us-and-central-europe-strategic-interests
15) Audio
http://csis.org/multimedia/corrected-us-and-central-europe-radoslaw-sikorski
16) Polish Radio October 27, 2009
17) Polish Radio. October 28, 2009
18) Russia Today, October 28, 2009
19) Polish Radio, October 28, 2009
20) United States European Command November 2, 2009
21) Ibid
22) Baltic Business News, October 27, 2009
23) Defense Professionals, October 26, 2009
24) Associated Press, November 2, 2009
25) Russian Information Agency Novosti, November 2, 2009
26) Gazeta Wyborcza, July 15, 2009
27) The Guardian, September 22, 2009
Russia Today - November 2, 2009
Clinton unveils statue to (guess who?) in Kosovo
Albanians on Sunday jammed into Pristina’s main square to welcome Bill Clinton, the guest of honor at his statue-unveiling ceremony commemorating the former US president's role in the Yugoslavian war of 1999.
“I never expected that anywhere, someone would make such a big statue of me,” Clinton told the cheering crowd after removing a red cover over the monument, revealing a bronze likeness of himself, thus proving that not all commissioned works of art are awarded posthumously.
Clinton’s live appearance next to his larger-than-life metal replica is the latest effort by Kosovo – which is commemorating the 10-year anniversary of NATO’s war against Yugoslavia – to attract international attention to its quest for formal independence.
Kosovo unilaterally declared its independence from Serbia last year, but Serbia has vowed never to recognize the statehood of the breakaway territory. Meanwhile, the province continues to be administered by NATO forces.
The visiting former US president then drew attention to his wife Hillary Clinton, the U.S. Secretary of State.
“This morning when I talked to my wife, she said I had to make a photograph in front of it [the statue] and send it to her to make sure it was true and I didn’t make the whole thing up.”
The bronze statue, which stands 3.5 meters (11 feet), depicts the former American president with his left arm raised while holding documents bearing the date when NATO launched its aerial bombardment of Yugoslavia – 24 March, 1999 – a date that lives in infamy for some and in victory for others.
The statue sits in front of an unremarkable apartment complex on, you guessed it, Bill Clinton Boulevard.
Not everybody jubilant
On March 24, 1999, NATO – and without full consent of the UN Security Council – launched an attack on the government of Yugoslavian President Slobodan Milosevic over claims of heavy-handedness against Kosovo’s majority Albanians.
In the moments leading up to the NATO attack, Bill Clinton was fighting for his political life amidst an embarrassing sex scandal involving a young intern named Monica Lewinsky; scoring an easy victory in Yugoslavia was one way to divert public attention away from the scorching issue. Thus, Clinton's refusal to authorize ground troops in and around Kosovo.
In other words, by relying solely on an aerial bombardment to “liberate” Kosovo, the US president was guaranteed a big political win with minimal losses for US troops.
Over the course of the 10-week conflict, NATO aircraft flew over 38,000 combat missions; even the German Luftwaffe had its first taste of combat over the skies of Yugoslavia since having its wings clipped in World War II.
The ensuing 78-day aerial bombardment campaign, which grew continuously more aggressive and reckless, spared little infrastructure: factories, bridges, roads and power stations were all bombed with deadly accuracy. As a result, thousands of innocent civilians suffered great deprivation on both sides of the battle.
The Cold War military bloc even knocked out Serbia’s state television broadcasting tower, which observers point to as a direct breach of Geneva Convention rules, which provides for the ability of combatants to have the freedom to “express themselves” in wartime.
Despite NATO pledges that the war would be “a clean one,” the aerial campaign proved that a military strategy of “surgical strikes” can never be implemented without fatal flaws.
In perhaps the worst public relations disaster for NATO during the conflict, five US “smart” bombs severely damaged the Chinese Embassy in Belgrade, killing three Chinese journalists. NATO officials, in an effort to cool Chinese outrage, blamed the error on outdated maps. Chinese officials rejected both the apologies and explanations.
About the same time, a NATO fighter jet, believing it had discovered a Yugoslav military convoy, hit a bus carrying Albanian refuges instead, killing 50 civilians.
It has been estimated that about 200 Kosovo civilians were indiscriminately killed by NATO forces, while Human Rights Watch was able to verify 500 civilian deaths in Yugoslavia (that is, outside Kosovo).
The hostilities came to an end on June 10, 1999 when Milosevic accepted the conditions of surrender.
Needless to say, NATO's “illegal” bombing campaign – the first military conflict in its history – sparked an outpouring of international criticism, and was especially unpopular in Russia where talk of defending the “Slavic brotherhood” filled the air.
The tension spilled over at the end of March 1999 when a gunman driving a stolen vehicle attempted to fire a grenade launcher at the US embassy in Moscow during a public protest of the facility. Then-president Boris Yeltsin ordered an investigation into the incident and three men were later arrested.
What next for Kosovo?
Some people are wondering why Kosovo chose this particular moment to dedicate a public memorial to a still living, breathing, former American president. After all, such honors are usually paid posthumously.
One good reason is that Kosovo is presently fighting something of a public relations war against Serbia in its bid for independence.
The United States and a number of other western countries have supported Kosovo’s claims to independence, whereas other countries, including China, India and Russia, continue to regard Kosovo as an integral part of Serbia.
Russia announced that it will support Serbia’s case in an upcoming UN court hearing on the legitimacy of Kosovo’s declaration of independence, Foreign Minister Sergey Lavrov announced last month.
“We will insist that international law and UN Security Council decisions be respected and any unilateral decisions running counter to the UN Charter and OSCE principles be avoided,” Lavrov said following talks with his Serbian counterpart, Vuk Jeremic.
Belgrade brought Kosovo’s unilaterally declared independence to the UN’s International Court of Justice in The Hague where a case will open on Dec. 1.
Remembering the Pristina dash
In the context of the Yugoslavian war, Russians will always remember Pristina for something else besides a bronze tribute to the former American president Bill Clinton, for Pristina is the place where Russia staked everything on securing a peacekeeping sector for itself outside of NATO command.
On June 11-12, about 200 Russian SFOR troops stationed in Bosnia made a spectacular dash through Belgrade into Kosovo after Serbian troops began their withdrawal and, more importantly, after Russia got the word that it would not receive its own peacekeeping sector.
The result was that Russia, much to the consternation of NATO leaders (most notably, US General Wesley Clark who, upon ordering the British to block the approaching Russian tanks, was told by British General Michael Jackson, "I will not start World War III for you.") became the first official peacekeeping force in Kosovo – ahead of advancing NATO troops. The audacious gesture reinforced Russia’s image as Serbia’s “blood ally” that will always be there through good or bad.
And perhaps even longer than a bronze statue in the public sqaure.
Kosovo : Bill Clinton inaugure sa propre statue à Pristina
Le Président Bill Clinton a déclaré que le sentiment de culpabilité dû à son échec à stopper le génocide au Rwanda a conduit les USA à une intervention rapide au Kosovo.
L’ancien Président américain a fait cette déclaration lors d’un discours devant le Parlement du Kosovo ce dimanche. Il s’était déplacé au Kosovo pour l’inauguration d’une statue en son honneur.
Il s’est dit être tellement préoccupé par la Bosnie qu’il a « manqué » le massacre des Tutsis par leurs voisins hutus en 1994 : « J’ai manqué le génocide du Rwanda. En 90 jours, c’était fini ».
« Cela explique pourquoi nous avons été si prompts à intervenir ici », a-t-il ajouté.
Il a également affirmé que les progrès du Kosovo étaient au-delà de toute attente : « Vous avez fait mieux que ce à quoi vos ennemis s’attendaient. Mais vous avez aussi fait mieux que ce à quoi vos amis s’attendaient ».
Une statue de l’ancien président Bill Clinton a été inaugurée en sa présence ce dimanche à Pristina.
Bill Clinton est considéré comme un héros parmi les Albanais du Kosovo en raison de son soutien à l’intervention militaire de l’OTAN en 1999.
Associated Press - November 1, 2009
Former President Clinton unveils statue in Kosovo
PRISTINA, Kosovo: Thousands of ethnic Albanians braved low temperatures and a cold wind in Kosovo's capital Pristina to welcome former President Bill Clinton on Sunday as he attended the unveiling of an 11-foot (3.5-meter) statue of himself on a key boulevard that also bears his name.
Clinton is celebrated as a hero by Kosovo's ethnic Albanian majority for launching NATO's bombing campaign against Yugoslavia in 1999....
This is his first visit to Kosovo since it declared independence from Serbia last year.
Many waved American, Albanian and Kosovo flags and chanted "USA!" as the former president climbed on top of a podium with his poster in the background reading "Kosovo honors a hero."
Some peeked out of balconies and leaned on window sills to get a better view of Clinton from their apartment blocks.
To thunderous applause Clinton waved to the crowd as the red cover was pulled off from the statue.
The statue is placed on top of a white-tiled base, in the middle of a tiny square, surrounded by communist-era buildings.
"I never expected that anywhere, someone would make such a big statue of me," Clinton said of the gold-sprayed statue weighing a ton (900 kilograms).
He also addressed Kosovo's 120-seat assembly, encouraging them to forgive and move on from the violence of the past.
The statue portrays Clinton with his left arm raised and holding a portfolio bearing his name and the date when NATO started bombing Yugoslavia, on March 24, 1999.
An estimated 10,000 ethnic Albanians were killed during the Kosovo crackdown and about 800,000 were forced out of their homes. They returned home after NATO-led peacekeepers moved in following 78 days of bombing.
Leta Krasniqi, an ethnic Albanian, said the statue was the best way to express the ethnic Albanians' gratitude for Clinton's role in making Kosovo a state.
"This is a big day," Krasniqi, 25 said. "I live nearby and I'm really excited that I will be able to see the statue of such a big friend of ours every day."
Clinton last visited Kosovo in 2003 when he received an honorary university degree. His first visit was in 1999 — months after some 6,000 U.S. troops were deployed in the NATO-led peacekeeping mission here.
Some 1,000 American soldiers are still based in Kosovo as part of NATO's 14,000-strong peacekeeping force.
Police in Kosovo upped security measures ahead of Bill Clinton's arrival by adding deploying more traffic police and special police.
NATO officials said the peacekeepers were also on alert, although no additional security measures were taken.
http://www.euronews.net/2009/11/01/bill-clinton-in-kosovo-to-unveil-statue/
Euronews - November 1, 2009
Bill Clinton in Kosovo to unveil statue
Link: http://www.euronews.net/2009/11/01/bill-clinton-in-kosovo-to-unveil-statue
A statue of Bill Clinton has been unveiled in Kosovo in the presence of the former US President himself.
Clinton is considered a hero by Kosovo’s ethnic Albanian majority for launching the NATO airstrikes that stopped a Serb crackdown, 10 years ago.
He told the thousands who braved bitter temperatures in Pristina to see him:
“I never expected that anywhere someone would make such a big statue of me. And this morning, when I talked to my wife who said to tell you ‘hello’, she said I had to make a photograph in front of this and send it to her to make sure it was true and I did not make this whole thing up.”
The US is one of dozens of countries to have recognised Kosovo’s self-declared independence. Some other nations including Russia still see it as a province of Serbia.
That argument aside, the statue means Bill Clinton’s contribution to Kosovo’s history will never be forgotten.
(2 novembre 2009)
L'ex presidente americano onorato con una statua per i bombardamenti Nato del 1999 che liberarono gli albanesi dal giogo dei serbi [SIC]
http://tv.repubblic a.it/copertina/ clinton-eroe- del-kosovo/ 38586?video& ref=hpmm
SIBIU/BUKAREST (Eigener Bericht) - Der Vorsitzende einer
"Deutschtums"-Organisation aus dem Netzwerk der Berliner Außenpolitik
steht im Mittelpunkt einer Regierungskrise in Rumänien. Die rumänische
Opposition, die Anfang der Woche den bisherigen Ministerpräsidenten
gestürzt hat, will den Bürgermeister von Sibiu, Klaus Johannis, mit
dem Amt betrauen. Staatspräsident Traian Băsescu verweigert sich
ihrem Ansinnen und hat nun einen Finanzexperten zum Regierungschef
nominiert. Johannis leitet das "Demokratische Forum der Deutschen in
Rumänien", eine Mitgliedsvereinigung der "Föderalistischen Union
Europäischer Volksgruppen" (FUEV), die von Norddeutschland aus unter
anderem die deutschsprachigen Minderheiten Europas koordiniert - mit
staatlicher Unterstützung. Die FUEV, die einst von früheren
NS-Rassisten gegründet wurde, arbeitet ebenso mit Johannis zusammen
wie die deutsche Hermann-Niermann-Stiftung, die vor Jahren wegen
verdeckter Einflussnahme für "Deutschtums"-Organisationen im Osten
Belgiens schwere Proteste hervorrief. Johannis' Nominierung ist nach
der Verleihung des Literaturnobelpreises an eine "Rumäniendeutsche"
die zweite außergewöhnliche Maßnahme zugunsten des rumänischen
"Deutschtums" binnen einer Woche.
mehr
http://www.german-foreign-policy.com/de/fulltext/57649
BERLIN/STOCKHOLM (Own report) - Berlin's "Germandom" organizations are
cheering the awarding of the Nobel Prize in Literature to the
"Romanian-German" author Herta Mueller. As the President of the League
of Expellees (BdV), Erika Steinbach, CDU declared this award is an
indication of "how precious the Germans' cultural heritage is in the
East". "It means this heritage must be maintained and promoted." The
BdV has recently launched an exhibit of the "German Eastern
Settlements" throughout the centuries, with the intention of drawing
new public attention. This project is patterned after the "Center
against Expulsions" and is centered on the German speaking minorities
of Eastern and Southeastern Europe, exploited by Germany's politicians
and businessmen as bridgeheads for Berlin's expansionism. The Nobel
Prize Committee has bestowed an exemplary popularity upon one of these
minorities, the "Banat Swabians," of which Herta Mueller is a member.
The political intentions of the committee in Stockholm, whose
decisions are supported by foreign interests, are helping the BdV and
giving a boost to the "Germandom" policy. Criticism of the Nobel Prize
choice is being heard in countries, for example in Poland, affected by
"Germandom's" interference.
more
http://www.german-foreign-policy.com/en/fulltext/56287
Il 28 ottobre il governo Berlusconi vara, con provvedimento d’urgenza, il rifinanziamento delle operazioni di guerra all’estero, chiamate eufemisticamente “interventi di cooperazione allo sviluppo dei processi di pace”
Il 29 ottobre La FIOM di Torino lancia un allarme tutt’altro che antimilitarista e pacifista.
Nel silenzio più assoluto delle opposizioni presenti in Parlamento, il Governo ha dato il via libera al rifinanziamento delle missioni militari togliendo altri 225 milioni di euro dalle disastrate casse dello Stato, mentre – per fare solo due esempi - in due anni il taglio del Fondo Nazionale Politiche Sociali è stato del 50%: dai 953 milioni di euro del 2007 ai 517 di oggi.
Il Fondo nazionale per la non Autosufficienza è stato abolito: 400 milioni risparmiati sulla pelle di portatori di handicap gravi, malati terminali, diversamente abili.
In questa situazione dalle pagine economiche de “La Repubblica” di venerdì 30/10 leggiamo le preoccupazioni di Giorgio Airaudo, segretario della FIOM di Torino, a causa delle mancate commesse all’ALENIA di Caselle (To) per la costruzione di componenti del famigerato F-35 Jsf.
L’operazione politico/imprenditoriale sarebbe quella di costruire il “quarto polo” dell’aeronautica nel varesotto, attorno all’Aermacchi. Cameri (provincia di Novara) diverrebbe il centro produttivo di questo polo, per volontà della cordata PdL /Lega lombarda. A discapito della zona industriale torinese.
“Nessuno mette in discussione Cameri – sostiene Airaudo nell’intervista – ma ai sindacati si era promessa una cosa diversa: costruzione e riempimento ala (dell’F-35 Jsf n.d.r ) nello stabilimento di Caselle, allestimento a Cameri (Novara). Ora quest’impegno sembra venir meno per pressioni politiche”.
Così, mentre le truppe professionali sono lautamente stipendiate dal contribuente italiano per occupare e devastare paesi come l’Afghanistan, per i lavoratori italiani la FIOM difende posti di lavoro nelle aziende che producono armi di distruzione di massa.
Gettate alle ortiche ogni ipotesi di critica e superamento dell’attuale sistema di sviluppo, il più grande sindacato dei metalmeccanici difende l’occupazione a prescindere da ciò che si produce, anche bombardieri nucleari di ultima generazione, come in questo caso.
Il cerchio si chiude, facendo emergere il contesto entro il quale si concretizza quotidianamente le famigerate politiche bipartisan, funzionali sino ad oggi solo ad aprire la strada ad una destra tra le più reazionarie del mondo.
Mercoledì 4 novembre il movimento contro la guerra scenderà in piazza in tutta Italia contro le vergognose parate militari che osanneranno le forze armate, trasformatesi in truppe di mercenari al servizio degli interessi delle grandi aziende italiane e delle politiche aggressive e guerrafondaie della NATO e degli USA.
Nessun finanziamento, nessuna arma per questo esercito.
Occorre ritirare immediatamente le truppe da tutti i paesi occupati, stornare i milioni di euro verso le fasce sociali colpite dalla crisi, riconvertire le fabbriche di morte in luoghi di produzione di benessere sociale, ricchezza collettiva, per una società emancipata dalle guerre di rapina.
La Rete nazionale Disarmiamoli!
www.disarmiamoli.org 3381028120 - 3384014989
Ministro La Russa si vergogni!Il 4 novembre in piazza ma per il ritiro dei militari italiani dall'Afghanistancomunicato stampaRiteniamo vergognosa e ingannevole la proposta avanzata dal Ministro della Difesa La Russa di introdurre per la seconda domenica di novembre una Giornata dedicata ai "Caduti nelle missioni di pace".La riteniamo vergognosa perchè in un paese come l'Italia muoiono ogni anno centinaia di lavoratori e operai sul lavoro e nessuno ha mai proposto nè misure concrete per impedire questa strage nè di dedicargli una giornata di celebrazione;la riteniamo vergonosa perchè la guerra sul lavoro miete molte più vittime della guerra guerreggiata in cui i governi spediscono i militari italiani;la riteniamo vergognosa perchè il Ministero della Difesa ha sistematicamente misconosciuto la causa di servizio per i militari italiani impegnati in missioni all'estero e deceduti a causa dell'uranio impoverito.La riteniamo infine ingannevole perchè ormai sia l'opinione pubblica che gli Stati Maggiori, sanno benissimo che missioni come quella in Afghanistan non possono essere mascherate da missioni di pace ma sono a tutti gli effetti operazioni di guerra.Continuare a nascondere questa realtà alla gente e continuare a mistificare sui termini è un inganno che non può essere più tollerato.La maggioranza della popolazione italiana, così come quella statunitense e britannica, vuole il ritiro dei militari dall'Afghanistan e la destinazione delle risorse per le spese militari a interventi assai più urgenti sul piano sociale, del sostegno al reddito, al lavoro, ai servizi pubblici. Anche per questo il 4 novembre, giornata delle Forze Armate, il Patto contro la Guerra, sarà in piazza in diverse città italiane per protestare contro la prosecuzione della guerra in Afghanistan, per il ritiro delle truppe italiane, per il taglio delle spese militari e la loro destinazione alle spese sociali.Il Patto contro la Guerra(vi aderiscono la Rete Disarmiamoli, Rete Semprecontrolaguerr a, Cobas, Sinistra Critica, Rete dei Comunisti, Partito Comunista dei Lavoratori ed altre associazioni)
COMUNICATO STAMPAdel Patto Permanente contro la GuerraMERCOLEDI 4 NOVEMBRE GIORNATA DI MOBILITAZIONE NAZIONALE CONTRO LA GUERRA , PER IL RITIRO DELLE TRUPPE DALL’AFGHANISTAN E IL TAGLIO DELLE SPESE MILITARI.Manifestazioni si svolgeranno a Vicenza, Novara, Bologna, Genova, Firenze, Pisa, Livorno, Colleferro, Catania, Napoli.A ROMA, ALLE ORE 15.00 MANIFESTAZIONE A PIAZZA NAVONAIl consiglio dei ministri ha appena votato il rifinanziamento delle missioni militari all’estero compresa quella dell’Afghanistan, e il ministro della guerra La Russa prevede che le truppe italiane resteranno in Afghanistan per altri 5 anni.A otto anni dall’inizio dei bombardamenti su Kabul, la resistenza all’occupazione si è notevolmente rafforzata mettendo in crisi gli obiettivi politici e militari della Nato e delle potenze occidentali alleate degli Usa. Le recenti elezioni presidenziali si sono rivelate una farsa con un milione di schede annullate su 5 milioni di votanti, e la commedia del voto continuerà con il ballottaggio tra Karzai e Abdullah fissato per il 7 novembre prossimo.Intanto sono circa 40.000 i morti civili che nessuno commemora, e dal 2001 ad oggi c’è stata una progressiva crescita, anno dopo anno, dei soldati stranieri morti.Nell’opinione pubblica internazionale è cresciuta la convinzione che la cosa giusta da fare è porre fine alla guerra.SMENTIAMO LA PREVISIONE DEL MINISTRO DELLA GUERRA LA RUSSA !Il 4 Novembre – festa delle forze armate e della retorica militarista – giornata di mobilitazione nazionale per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, il taglio delle spese militari, per rendere omaggio alle centinaia di migliaia di civili ignoti morti in Afghanistan, Iraq, Palestina.Patto Permanente contro la Guerrainfo: Roberto Luchetti (3381028120) ; Nella Ginatempo (3772110687)