Informazione

(srpskohrvatski / italiano)

Il vaso di Pandora kosovaro

1) Il processo che ha diviso il mondo / Proces koji je podelio svet
2) L'Inghilterra ha accusato la Serbia di ingannare il tribunale / Engleska optužila Srbiju da obmanjuje sud

(sul procedimento in corso alla Corte Internazionale di Giustizia - Cig, che ha sede a L'Aja ma non va confusa con il paralegale "Tribunale ad hoc per i crimini commessi sul territorio della ex Jugoslavia" - in merito alla dichiarazione di "indipendenza" kosovara ed al suo riconoscimento da parte di alcuni Stati si veda anche:


=== 1 ===

Il processo che ha diviso il mondo

I sostenitori dell'indipendenza del Kosovo hanno affermato che i loro Stati non avrebbero riconosciuto mai più questo diritto a nessuno, mentre i difensori degli interessi della Serbia hanno avvertito che il "vaso di Pandora" non si potrà mai più chiudere.

 


Non era mai accaduto, nei 54 anni di storia della Corte Internazionale di Giustizia, che un processo provocasse tanta attenzione nell'opinione pubblica mondiale, com'è avvenuto con la procedura appena terminata, per cui i giudici delle Nazioni Unite dovranno deliberare il parere se la provincia meridionale serba abbia il diritto alla secessione. Davanti al consiglio di quindici giudici si sono presentati tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza - Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna e Francia - e hanno potuto dimostrare la loro perizia giuridica quasi tutti i maggiori esperti in diritto internazionale.

Nel corso di dieci giorni, le lance nel Palazzo della Pace si sono spezzate sulla questione se il principio di integrità territoriale, su cui si basano l'ONU e l'ordine di tutto il mondo, abbia ancora un significato, come aveva fino al 1 dicembre di quest'anno. In particolare, i sostenitori dell'indipendenza del Kosovo e soprattutto i rappresentanti delle grandi potenze che hanno sostenuto gli albanesi del Kosovo e riconosciuto loro il diritto a un loro Stato, hanno cercato di dimostrare che nel caso specifico si dovrebbe fare un'eccezione, ammettendo che una nazione abbia il diritto alla secessione da uno Stato sovrano esclusivamente a causa della repressione a cui è stata sottoposta per molti anni. I sostenitori di queste opinioni hanno costantemente ribadito nei giorni scorsi che adottano questa tesi solo nel caso del Kosovo e che i loro paesi non riconosceranno tale diritto a nessun altro popolo nel mondo.

Contrapponendosi a loro, i paesi che hanno difeso il diritto della sovranità serba sul tutto il suo territorio hanno argomentato che la repressione, per quanto grande possa essere stata, non poteva essere la ragione per la secessione, perché se una tale posizione si assumesse in questo momento, nel mondo si potrebbero costituire molti nuovi Stati.

La contesa ha anche riguardato il fatto che l'inviato speciale ONU per i negoziati sul Kosovo, Martti Ahtisaari, ha potuto deliberare da solo in modo tale da porre praticamente fine agli eventuali futuri colloqui sul Kosovo, "legalizzando" la indipendenza del Kosovo. E mentre i paesi che hanno riconosciuto il Kosovo hanno spesso fatto riferimento alla decisione di Ahtisaari, i difensori degli interessi serbi hanno sostenuto che egli non aveva alcun diritto di farlo, e che è diritto esclusivo del Consiglio di Sicurezza dichiarare la fine del processo negoziale.

Anche intorno alla Risoluzione 1244 son state sollevate molte controversie, cosicchè si sono potute sentire delle interpretazioni completamente divergenti di questo atto - da quella secondo cui la Risoluzione non vieta esplicitamente la secessione da nessuna parte, fino all'opinione per cui essa garantisce l'integrità territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia, e della Serbia come suo successore legale.

Secondo Kesic, analista politico di Washington, la comparizione dell'America in questo processo parla delle sue contraddizioni, perché essa partecipa solamente ai processi in cui non è parte convenuta.
 
"Le argomentazioni statunitensi in questo processo minacciano direttamente le posizioni espresse dall'amministrazione di Barack Obama, e da lui stesso. Quando ha ricevuto il Nobel per la Pace, Obama ha detto che i cambiamenti fondamentali nella politica estera degli Stati Uniti sono che l'America rispetta il diritto internazionale, mentre ora il principale argomento che l'America utilizza per l'indipendenza del Kosovo è che sussistono delle eccezioni nel diritto internazionale. Si tratta dello stesso atteggiamento del presidente Bush", ha detto Kesic.

Egli ritiene che il parere della Corte sarà molto interessante, perché vi è la possibilità di aprire più ampia instabilità in tutto il mondo. Se il quesito posto ai giudici si discutesse nel modo tradizionale, la conclusione deliberata dal Tribunale potrebbe essere positiva per la Serbia. Tuttavia, tutti sostengono che è irrealistico aspettarsi qualcosa del genere, e che, come dice Kesic, si assume un elemento nuovo nel diritto internazionale, che può essere pericoloso.

"Qualunque fosse il verdetto, esso apre la possibilità che l'argomentazione espressa possa già da adesso venire utilizzata in varie aree di crisi ed in vari contesti. Abbiamo visto che i palestinesi e gli abitanti di Timor Est stanno già utilizzando parallelismi con il Kosovo. Se ora si ottenesse una base giuridica per tali richieste, questo provocherebbe ancora più rischi per la stabilità internazionale", ha avvertito Kesic.

Per Dusan Reljic del German Institute for International and Security Policy, è chiaro che al di fuori dell'esito del processo, il Kosovo nel prossimo futuro non diventerà membro delle Nazioni Unite.

"L'emersione di nuovi paesi è politicamente molto costosa, perché si può trasformare in violenza. Se ora si sta creando una sorta di precedente, sono tutti interessati a vederne l'esito, perché potrebbe diventare un percorso o una costruzione di cui certi attori si potrebbero servire in future richieste per la creazione di nuovi Stati," sottolinea Reljic.

Molti paesi, dice, adegueranno il loro comportamento a proposito del Kosovo per adattarsi a ciò che il giudice comunicherà. Per coloro che sostengono l'indipendenza del Kosovo, come gli Stati Uniti, questo potrebbe significare che possono attendersi una situazione in cui un gran numero di paesi, forse decine, riconosceranno il Kosovo. D'altra parte, se la decisione fosse contro la fondatezza giuridica dell'indipendenza del Kosovo, gli Stati marginali rispetto a questi eventi si tratterrebbero e non lo riconoscerebbero. In ogni caso, entrambe le parti guadagnerebbero alcuni punti politici. Così ora tutte le parti stanno facendo il massimo lobbying possibile per facilitare il percorso alle loro argomentazioni politiche.

Reljic ritiene che, tuttavia, qualunque parere si raggiunga, non si può sperare che le grandi potenze cambino i loro atteggiamenti, cosa che non ci si può aspettare neanche da Belgrado e da Pristina.

"E' illusorio credere che gli Albanesi cambino opinione e cerchino negoziati. Non vedo alcuna base per questo, viste le mutate relazioni su scala globale tra Russia e America. Così come neanche la Serbia cambierà il proprio parere, qualora la sentenza della Corte fosse a favore del Kosovo. Inoltre, nessuno sarà in grado di convincere i Curdi che loro, per via della decisione del Tribunale, non dovranno un giorno tentare di crearsi il proprio Stato. Il nazionalismo è più forte delle frontiere. Molti sperano che sarà ad ogni modo stabilita una specie di regola e che avranno l'opportunità di fare riferimento a qualcosa. Io questo non chiamerei la storia, ma una nota a piè di pagina della storia," valuta Reljic.

A suo avviso, il processo politico tra Pristina e Belgrado deve funzionare in un modo diverso. Il Presidente Boris Tadić, ricorda, ha detto più volte che sarebbe necessaria una maggiore flessibilità nei negoziati. Così si prepara il pubblico alla parte successiva del processo politico, che seguirà dopo il verdetto dell'Aja".

Jelena Cerovina
[pubblicato il: 13/12/2009]

---


Nezavisnost Kosova pred sudom

Proces koji je podelio svet

Zagovornici kosovske nezavisnosti tvrdili da njihove zemlje više nijednom narodu neće priznati to pravo, dok su zastupnici interesa Srbije upozoravali da se „Pandorina kutija“ više neće moći zatvoriti

U 54 godine dugoj istoriji Međunarodnog suda pravde nije se desilo da jedan proces izazove toliku pažnju svetske javnosti kao što je to bio slučaj sa upravo završenim postupkom u kome sudije UN treba da donesu mišljenje da li je južna pokrajina Srbije imala pravo na otcepljenje. Pred petnaestočlanim sudskim većem pojavilo se svih pet stalnih članica Saveta bezbednosti, SAD; Kina, Rusija, Velika Britanija i Francuska, a svoje pravno umeće pokazali su gotovo svi vodeći stručnjaci za međunarodno pravo.
Tokom deset dana u Palati mira koplja su se lomila oko toga da li princip teritorijalnog integriteta na kome počivaju UN i ceo svetski poredak još uvek ima takav značaj kakav je imao do 1. decembra ove godine. Naime, zagovornici kosovske nezavisnosti, a pre svega predstavnici velikih sila koje su podržale kosovske Albance i priznale im pravo na sopstvenu državu, pokušavali su da dokažu da se u slučaju ovog principa mora napraviti izuzetak i priznati jednom narodu da je imao pravo na secesiju od jedne suverene države i to isključivo zbog represije kojoj je dugo godina bio izložen. Zastupnici ovakvih stavova uporno su proteklih dana ponavljali da takav stav zastupaju samo u slučaju Kosova i da to pravo njihove države neće priznati nijednom drugom narodu u svetu.
Oponirajući im, zemlje koje su branile pravo Srbije na suverenost na čitavoj svojoj teritoriji iznosile su argumente da represija koliko god velika bila ne može biti razlog za secesiju, jer ako bi se takav stav usvojio u ovom trenutku u svetu bi moglo biti formirano još mnogo novih država.
Borba se vodila i oko toga da li je specijalni izaslanik UNza pregovore o Kosovu Marti Ahtisari mogao da sam donese rešenje kojim je praktično stavio tačku na dalje razgovore o Kosovu čime je „ozakonio“ nezavisnost Kosova. I dok su se one države koje su priznale Kosovo često pozivale upravo na Ahtisarijevu odluku, branioci srpskih interesa su tvrdili da on nije imao pravo da to uradi već da je isključivo pravo Saveta bezbednosti da kaže kada je kraj pregovaračkog procesa.
Mnogo sporenja izazvala je i Rezolucija 1244 jer su se čula potpuno različita tumačenja ovog akta –od onoga da ona ne zabranjuje nigde izričito secesiju do toga da garantuje teritorijalni integritet SRJ, odnosno Srbije kao njene pravne sledbenice.
Prema rečima Obrada Kesića, političkog analitičara iz Vašingtona, pojavljivanje Amerike u ovom procesu govori o njenoj nedoslednosti, jer učestvuje isključivo u procesima u kojima nije tužena strana.

„Argumenti Amerike u ovom procesu direktno ugrožavaju stavove koje je iznosila administracija Baraka Obame, ali i on sam. Kada je primao Nobelovu nagradu za mir rekao je da su ključne promene u američkoj spoljnoj politici to što će Amerika da poštuje međunarodno pravo, a sad glavni argument koji Amerika koristi za nezavisnost Kosova jeste da postoji izuzetaka u međunarodnom pravu što je isti stav koji je imao i predsednik Buš“, kaže Kesić.
On smatra da će mišljenje suda biti jako zanimljivo, jer postoji mogućnost da otvori širu nestabilnost po ceo svet. Ako se pitanje koje je postavljeno sudijama tretira u tradicionalističkom smislu zaključak suda bi morao da bude pozitivan za Srbiju. Međutim, svi govore da je to nerealno očekivati tako da se, kako kaže, unosi novi elemenat u međunarodno pravo koji može biti opasan.
„Kakva god presuda bila to otvara mogućnost da se argumentacija koja je iznesena već sada može koristiti u raznim kriznim područjima i u raznim kontekstima. Videli smo da Palestinci i stanovnici Istočnog Timora već koriste paralele sa Kosovom. Kada bi se sad dobio i pravni temelj za takve zahteve to bi izazvalo još veću opasnost za međunarodnu stabilnost“, upozorava Kesić.
Za Dušana Reljića iz nemačkog Instituta za međunarodnu politiku i bezbednost jasno je da bez obzira na to kakav bude ishod procesa Kosovo u dogledno vreme neće postati član UN.
„Nastanak novih država je politički vrlo skupa stvar jer može da se pretvori u nasilje. Ako se sada stvara neka vrsta presedana svi su zainteresovani da vide kako će to izgledati jer bi to bila putanja odnosno konstrukcija za koju bi mogli da se uhvate kada se pojave budući zahtevi za stvaranje novih država“, ističe Reljić.
Mnoge zemlje će, kako kaže, svoje ponašanje u odnosu na Kosovo prilagoditi onome što sud bude saopštio. Za one koji podržavaju nezavisnost Kosova, kao što su SAD to bi značilo da mogu da očekuju da jedan veliki broj zemalja, možda nekoliko desetina, prizna Kosovo. S druge strane, ako odluka bude protiv pravne zasnovanosti nezavisnosti Kosova zemlje koje su na periferiji svih tih zbivanja ostale bi suzdržane i ne bi ga priznale. U svakom slučaju neki politički poeni bi se dobili, na jednoj ili drugoj strani. Zato sada sve strane lobiraju koliko god mogu svuda okolo da olakšaju put svojim političkim argumentima.
On smatra da se ipak, ma kakvo mišljenje bilo doneto ne može očekivati da velike sile promene svoje stavove kao što se to ne može očekivati ni od Beograda i Prištine.
„Iluzorno je verovati da će se Albanci predomisliti i tražiti pregovore. Ne vidim nikakvu osnovu za to pri promenjenim globalnim odnosima između Rusije i Amerike. Kao što ni Srbija neće promeniti svoje mišljenje ako sud presudi u korist Kosova. Isto tako niko neće moći da ubedi Kurde da zbog odluke međunarodnog suda oni ne treba da pokušaju jednog dana da stvore državu. Nacionalizam je jači od granica. Mnogi se nadaju da će se ipak neka vrsta pravila uspostaviti, da će imati priliku da se pozovu na nešto. Ja ovo ipak ne bih nazvao istorijom već jednom fusnotom u istoriji“, ocenjuje Reljić.
Prema njegovom mišljenju,politički proces između Prištine i Beograda mora drugačije da funkcioniše. Predsednik Boris Tadić je, podseća, već nekoliko puta rekao da je potrebna veća fleksibilnost u pregovorima što je, kaže, priprema javnosti za naredni deo političkog procesa koji sledi posle presude u Hagu“.

Jelena Cerovina
[objavljeno: 13/12/2009]


=== 2 ===

L'Inghilterra ha accusato la Serbia di ingannare il tribunale

Rappresentanti rumeni hanno dichiarato che la Serbia nel febbraio 2008 quando fu dichiarata l'indipendenza del Kosovo, era un paese completamente diverso rispetto al 1999.
 
Con la tesi che i giudici non possono obbligare le coppie litigiose a rimanere sposate, il rappresentante britannico Daniel Bethlehem ieri davanti alla Corte internazionale di giustizia ha cercato, usando un modo figurativo, di dare sostegno al suo paese che ha riconosciuto l'indipendenza del Kosovo. "La Serbia ha chiarito che non accetterà mai l'indipendenza del Kosovo, mentre il Kosovo non vuole mai più far parte della Serbia", ha detto Bethlehem, come informano le agenzie di stampa.

Un altro rappresentante britannico, James Crawford, accusa la Serbia di avere un approccio "fuorviante" perché desidera che la Corte valuti la legittimità della dichiarazione, ma ignori gli eventi che hanno portato ad essa. I giuristi britannici hanno concluso  la loro esposizione dicendo che la posizione del loro paese, la Serbia non dovrebbe recepirla come antagonistica. Londra, come hanno detto, auspica un ravvicinamento della Serbia e del Kosovo all'interno della UE, tra l'altro, anche "perché la democrazia serba non è molto più vecchia della kosovara". Egli ha sottolineato che la Gran Bretagna non ha sostenuto frettolosamente né facilmente l'indipendenza del Kosovo.

Difendendo la posizione del suo paese, secondo cui l'indipendenza del Kosovo è contraria al diritto internazionale, il rappresentante della Romania Kosmin Dinesku ha detto che la Serbia nel febbraio 2008, quando fu dichiarata l'indipendenza del Kosovo, era un paese completamente diverso rispetto al 1999 e che, quindi, la decisione sulla dichiarazione di indipendenza non può essere basata su circostanze di 10 anni fa. La Serbia, ha detto lui, nell'ultimo decennio del secolo scorso ha violato i diritti umani fondamentali della popolazione in Kosovo, ma nel febbraio del 2008 Belgrado non aveva alcun controllo sul Kosovo. Sebbene questa provincia abbia uno status particolare in Jugoslavia, questo non giustifica la secessione. Dinesku ha fatto ricordare che la disintegrazione della Jugoslavia era terminata nel 1992, e che da allora, il Kosovo era parte integrante della Serbia.

J. Cerovina

[pubblicato il: 11/12/2009]

---


Engleska optužila Srbiju da obmanjuje sud


Rumunski predstavnici konstatovali da je Srbija bila u februaru 2008, kada je proglašena nezavisnost Kosova, potpuno drugačija država u odnosu na 1999.

Argumentom da sudovi ne primoravaju zavađene parove da ostanu u braku, zastupnik velike Britanije Danijel Betlehem juče je pred Međunarodnim sudom pravde pokušao na slikovit način da potkrepi stav svoje zemlje koja je priznala jednostrano proglašenu nezavisnost Kosova. „Srbija je jasno stavila do znanja da nikada neće pristati na nezavisnost Kosova, a Kosovo da nikada više ne želi da bude deo Srbije”, rekao je Betlehem, a prenose agencije.
Drugi britanski zastupnik Džejms Kroford optužio je Srbiju da ima „obmanjujući” pristup jer želi da sud oceni legalnost deklaracije, a da zanemari događaje koji su do nje doveli. Svoje izlaganje britanski pravnici su zaključili tvrdnjom da stav njihove zemlje Srbija ne bi trebalo da shvati kao protivnički. London se, kako je rekao, nada približavanju Srbije i Kosova u okviru EU, između ostalog, i zato što „srpska demokratija nije mnogo starija od kosovske”. On je naglasio da Britanija nije naprečac ni olako podržala nezavisnost Kosova.
Braneći stav svoje zemlje da je nezavisnost Kosova protivna međunarodnom pravu, predstavnik Rumunije Kosmin Dinesku rekao je da Srbija bila u februaru 2008,kada je proglašena nezavisnost Kosova, potpuno drugačija država u odnosu na 1999. godinu te da zato odluka o proglašenju nezavisnosti ne može biti zasnovana na okolnostima od pre 10 godina. Srbija je, kako je rekao, u poslednjoj deceniji prošlog veka kršila osnovna ljudska prava stanovništva na Kosovu, ali u februaru 2008. godine Beograd nije imao nikakvu kontrolu nad Kosovom. Iako je ova pokrajina imala specifičan status u SFRJ, to ne opravdava secesiju. Dinesku je podsetio da je raspad SFRJ okončan 1992. godine i da je od tada Kosovo bilo sastavni deo Srbije.
J. Cerovina

[objavljeno: 11/12/2009]




STEPINAC, SYMBOLE DE LA POLITIQUE À L’EST DU VATICAN

Annie Lacroix-Riz, professeur d’histoire contemporaine à l’université Paris VII
Publié dans Golias, n° 63, novembre-décembre 1998, p. 52-59


Ce texte peut être téléchargé en version PDF en cliquant ICIhttp://www.historiographie.info/arch/stepinac.pdf

I. PRÉAMBULE: JEAN-PAUL II ET L’HÉRITAGE ROMAIN, DES JUIFS À LA YOUGOSLAVIE

La presse a fait grand cas des récentes célébrations historiques du Vatican de Jean-Paul II (octobre 1998), de la béatification de Mgr Stepinac à la canonisation d’Édith Stein, peut-être conçue à titre de compensation au caractère provocateur de la première initiative. La seconde ne vaut pourtant pas moins approbation d’une vieille politique que le présent pape incarne aussi nettement que ses prédécesseurs considérés comme les plus « intégristes », de Pie X à Pie XII. Malgré des apparences trompeuses ou par lesquelles des moyens d’information complaisants se sont laissé duper, une série de démarches ont valu ces dernières années consécration d’une politique antisémite romaine dont l’entre-deux-guerres puis la Deuxième Guerre mondiale avaient donné toute la mesure . Plusieurs initiatives de Jean-Paul II attestent qu’il ne renie rien de son auguste prédécesseur et inspirateur Pacelli-Pie XII - sans parler de Pie XI, qui, malgré les légendes tenaces n’assura ni la défense ni la protection des juifs, italiens inclus. Je ne retiendrai que trois éléments de cette continuité dans la récente action du pape en exercice:

1° le brûlot qu’il a entretenu depuis des années sur Auschwitz, avec la tentative de « catholiciser » le lieu le plus symbolique de La destruction des juifs d'Europe : l’affaire, parsemée de provocations diverses, de la création d’un carmel à la plantation de croix avec la bénédiction des évêques - donc du pape -, montre à quel point la Pologne catholique institutionnelle continue à servir une stratégie orientale du Vatican décrite plus loin à propos du cas yougoslave;

2° la « repentance » pontificale alléguée intitulée « Réflexion sur la Shoah » du 16 mars 1998, qui met au compte du « nazisme païen » les abominations du régime hitlérien dont le Saint-Siège reconnut solennellement le caractère catholique en lui octroyant entre autres le « concordat du Reich » de juillet 1933. L’immense cadeau fut apprécié à sa juste valeur par Mussolini, qui déclara le 4 juillet à l’ambassadeur d’Allemagne que Pie XI offrait ainsi à celle-ci « dans la position isolée où [elle] se trouvait actuellement (...) une immense victoire morale » qui permettrait enfin au fascisme de « se rallier l'opinion catholique à travers le monde ». Hitler jugea de même, estimant sobrement, dans son communiqué à la presse du 9 juillet, que cet accord lui donnait « la garantie suffisante que les citoyens allemands de la foi catholique et romaine se mettr[aie]nt désormais sans réserve au service du nouvel État national-socialiste » .

3° le dossier Stein, qui relève de la logique des pontificats de l’ère des persécutions, dont nous bornerons l’examen aux traits fixés dès l’installation au pouvoir des nazis. Le sort vatican des juifs fut en effet scellé alors, qu’ils demeurassent juifs ou qu’il s'agît de juifs qui avaient souhaité ne plus l’être en se convertissant. Le Saint-Siège n’avait rien trouvé à redire à la persécution nazie officialisée par le boycott des magasins juifs du 1er avril 1933 et les violences des SA et SS. Il fit davantage, puisque, selon François Charles-Roux, ambassadeur de France au Vatican de 1932 à 1940, le secrétaire d’État Pacelli veilla en personne aux « ménagements » romains envers Berlin: « les persécutions contre les juifs » ayant provoqué « l'indignation du monde » et avec lui celle de Mgr Verdier, archevêque de Paris, celui-ci adressa une lettre de solidarité au grand rabbin de France. « La publication [en] fut annoncée [en avril?] : elle ne fut pas publiée » . Reste la question du sort des « catholiques non aryens », lot auquel appartenait Édith Stein. Le Vatican ne parla que d’eux, mais fort peu et fort bas. Ce souci exclusif exprimé du bout des lèvres visait à figurer pour l'avenir dans le lot des notes communicables. L’atteste un épisode du feuilleton très long, mais vide de contenu réel, des pseudo-« négociations » et « notes de Pacelli » sur le concordat du Reich de 1933, exemples-types des courriers-paravents sans aucun lien avec la pratique réelle dont la correspondance officielle du Saint-Siège regorge. On y perçoit que le sort des « catholiques non aryens » rejoignit au plus tôt celui des autres « non-aryens ». Le 12 septembre 1933, Pacelli remit à Klee, chargé d'affaires d’Allemagne au Vatican, un « mémorandum en trois points », dont le troisième faisait allusion aux « catholiques d’origine juive », simple élément d’une rubrique intitulée « le renvoi des fonctionnaires catholiques et les catholiques d'origine juive ». Klee lui répliqua sèchement que le point 3 n'avait « rien à voir avec le concordat », « objection qu'il reconnut justifiée », puis ajouta que ce problème était « non pas religieux mais de race »: l’argument suscita la penaude réponse de Pacelli que ce texte « était remis à la demande du pape, qui n'était guidé que par des points de vue religieux et humains ». Poursuivant sa tactique « à la prussienne » , Klee « insista » sur l'engagement que le Vatican avait pris « depuis le début » des négociations-éclair sur le concordat de ne « pas se mêler des affaires politiques intérieures de l’Allemagne », sur la nécessité de rayer la partie juive du point 3 et de « baisser le ton sur le reste »: Pacelli « décid[a alors] de ne pas remettre le mémorandum ». Il adressa à Klee, le soir même, une note conforme à ses exigences et antidatée du 9 septembre (date antérieure d’un jour à la ratification du concordat du Reich, pour laisser croire qu’on continuait à « négocier » sur ce texte en réalité bouclé): elle comptait dix-huit lignes de pleurnicheries et requêtes sur « les fonctionnaires catholiques » dont les déclarations de mars du chancelier « et plus encore (...) la conclusion du Concordat » avaient « rendu possible la coopération pratique au sein du nouvel État »; 5 lignes et demi « pour ajouter un mot pour les catholiques allemands d'origine juive » récente ou lointaine, « et qui pour des raisons connues du gouvernement allemand souffrent également de difficultés économiques et sociales » .

Il reste donc de la canonisation d’une juive qui croyait ne plus l’être à déduire soit que les seuls juifs intéressants sont ceux qui ont cessé de l’être soit qu’un bon juif est un juif mort. Conclusion excessive? On ne risque en tout cas pas cette appréciation quand on aborde l’autre événement de ces dernières semaines, le premier par la chronologie, par son retentissement et par ses liens avec des tensions qui nous ramènent à l’avant 14 et à l’avant 39. Car la béatification de Stepinac consacre la continuité de la politique yougoslave c'est à dire anti-serbe de la Curie, en pleins déchirements balkaniques aux conséquences dramatiques sur le sort, non seulement de la Yougoslavie, mais de l’ensemble de l’Europe - France incluse.
J’ai naguère pour Golias étudié un aspect majeur de la politique à l’Est du Vatican, celui de la Pologne. Que la Pologne fût catholique ne la protégea jamais, en dépit de ses illusions à cet égard, des conséquences dramatiques d’une stratégie austro-vaticane puis germano-vaticane fondée sur l’espoir de domination de l’ensemble de l’Est européen . La politique de la Curie varia peu - jamais sur le fond -, que l’Est européen fût demeuré catholique, comme la Pologne officiellement appréciée mais en réalité détestée, ou qu’il eût échappé à l’influence germano-catholique et fût officiellement voué aux gémonies comme « schismatique ». Pendant des siècles, c’est aux côtés de l’empire apostolique et romain des Habsbourg que le Vatican mena le combat: l’influence autrichienne progressa en Europe, et notamment contre l’empire ottoman, en symbiose avec le catholicisme romain (latin ou uniate). Entre la fin du 19è siècle et celle de la Première Guerre mondiale, le puissant Reich tendit à supplanter pour la même mission l’empire des Habsbourg voué d’abord à l’agonie, puis à la mort. En 1919, dans les cénacles catholiques chapeautés par le grand pourvoyeur allemand des fonds vaticans de guerre (au nom de Berlin même), Erzberger, le chef du parti catholique (le Zentrum), le Vatican accepta définitivement de seconder le Reich dans l’ensemble de l’Europe: non seulement en lui apportant sa précieuse aide catholique pour la récupération de l’Altreich (celui des frontières de 1918) c'est à dire de tous les « territoires allemands provisoirement occupés par les Alliés », Alsace-Lorraine et Pologne incluse; mais aussi pour l’ensemble des « buts de guerre », allant de la saisie de l’héritage de la totalité du vieil empire austro-hongrois mort, à commencer par l’Anschluss, à la pénétration dans la profonde Russie, si riche de ressources .


II. STEPINAC, LE SYMBOLE D’UNE ANTIQUE POLITIQUE ANTI-SERBE 
LA POLITIQUE VATICANE JUSQU'AUX ANNÉES TRENTE


De cette politique à l’Est, la dimension anti-serbe - les Serbes apparaissant comme les principaux ennemis de l’expansion autrichienne - s’imposa avec une continuité totale, sans négliger un seul pontificat, à commencer par celui de Léon XIII, ouvert l’année même de la naissance définitive de la Serbie au congrès de Berlin de 1878. Le « serbisme » haï fut combattu à l’aide de l’élément croate: leur longue catholicisation par les Habsbourg et un analphabétisme général maintenu par l’Église au sein de ces « masses incultes » avaient fait oublier à ces « Slaves catholiques » qu’« un Croate n’est qu’un Serbe catholicisé, rien de plus ». À la veille de la Grande Guerre, cet ensemble compact dans l’empire austro-hongrois - en 1909, 18,9 millions contre 1,9 million de « Slaves orthodoxes », Bosnie-Herzégovine comprise - demeurait, dans sa masse, féal aux Habsbourg . Vienne s’appuya ouvertement dans sa mission anti-serbe sur la Curie et sur ses prélats, en tête desquels figurait Stadler, évêque croate de Sarajevo depuis les années 1890, chef de fait des jésuites voués à la catholicisation des masses, et décrit en ces termes par le consul de France à Sarajevo: « il est devenu en peu de temps un des gros capitalistes de Bosnie-Herzégovine comme il en est aussi un des politiciens les plus actifs. Ses seules préoccupations semblent être de thésauriser et d'autrichianiser » . « Très allemand d'origine et de sentiments », d’une extrême violence , cette brute était un spécialiste de la conversion forcée, dont les épisodes répétés étaient rapportés avec indignation par les diplomates français: les musulmans, population de même souche que tous les Slaves de cet ensemble balkanique, mais constituée des héritiers des propriétaires fonciers qui avaient emprunté à l’ère de la conquête ottomane la religion du vainqueur, et que Vienne s’efforçait de séduire contre les Serbes, se plaignaient à cet égard du prélat presque autant que les Serbes orthodoxes . La ligne Stadler, fixée par Vienne et le Vatican, incarnait la ligne d’expansion du germanisme et du catholicisme contre le slavisme et l’orthodoxie adoptée dans la perspective du règlement de comptes imminent. Le régime impérial, après avoir transformé en arsenal, croatisé et catholicisé en masse, de gré ou de force, la Bosnie-Herzégovine qu’elle dirigeait de fait depuis le congrès de Berlin de 1878, l’annexa enfin en octobre 1908. L’empire réalisait ainsi « ce but [qui] est depuis 30 ans la pensée directrice de [s]a diplomatie [,...] l'annexion de la Serbie », et qui « fera naître forcément, un jour ou l'autre, un conflit armé ». De Fontenay, attaché d’ambassade à Budapest de 1906 à 1914 (après un poste à Belgrade), comprit que derrière « la haine du Serbe (...) chauffée à blanc » par l’empire rival en décomposition et son obsessionnel « projet de réunion », avec « l’appui du Saint-Siège [,...] de la Bosnie-Herzégovine, de la Dalmatie et de la Croatie afin de former un royaume autonome sous la dépendance des Habsbourg» avançait le Reich: « l’Autriche-Hongrie en suivant pareille politique travaille donc, avant tout, pour l’Allemagne, dont l’unité s’étendra et se fortifiera, dont l’influence progressera vers les bords de la Méditerranée tant convoitée ». La poussée autrichienne vers le Sud s’inscrivait dans « le redoutable “Drang nach Osten” (poussée vers l’Est) » qui remettrait à Berlin, à la mort de l’État des Habsbourg, l’héritage balkanique convoité .
Nous avons montré ailleurs à quel point Vienne se réjouit avant l’hallali - le 29 juillet 1914 - de l’humeur « belliqueuse » de Pie X et de son secrétaire d’État Merry del Val, excités par la liquidation imminente de ce « mal qui ronge et pénètre la monarchie jusqu’à la moelle et qui finira par la désagréger » . La haine de la Serbie n’était pas moins recuite chez son successeur (depuis août 1914) Benoît XV, qui, de la guerre à ses lendemains, conduisit contre la Serbie des assauts contre lesquels la seule parade (provisoire) fut la victoire française. Au lendemain de la défaite des deux empires chéris, le mort et le bien vivant, la croisade fut menée avec la Serbie renforcée et devenue « État serbo-croato-slovène » les mêmes armes cléricales, et au bénéfice de deux alliés: l’un, l’italien, ne rêvant que de tailler en pièces la Dalmatie yougoslave, l’autre, moins connu, qui avait repris l’héritage du mort, le Reich. Les Serbes se heurtèrent si directement aux Italiens soutenus en permanence par la Curie qu’ils sous-estimèrent longtemps l’ennemi plus discret, l’allemand, dont on ne perçut concrètement la poussée qu’à partir des années trente. La première phase de la lutte acharnée contre la Yougoslavie fut menée au bénéfice apparent de l’Italie, servie par le solide tandem du Vatican et de l’épiscopat demeuré autrichien en territoire « yougoslave », devenu italien dans toutes les zones arrachées au royaume.
En Yougoslavie même, il ne s'agissait point d’« autonomie » croate ou slovène, mais de sécession, préparée en la compagnie militaire des Italiens, des Hongrois et des Allemands dès le début des années vingt. L’Église catholique assuma avec efficacité pour sa part, dans les régions catholiques héritées par l’alliée serbe de la France, le harcèlement visant la destruction intérieure du nouvel État. Tâche, il est vrai, facilitée par la politique de la dynastie régnante, qui ne régla aucun des problèmes économiques et sociaux des masses paysannes: de celles-ci l’élément catholique demeura donc aisément le jouet, comme naguère, de prélats qui en assuraient le contrôle de la naissance à la mort, en passant par l’école et presque tous les moments de la vie. Pendant plusieurs années la guérilla cléricale fut dirigée par l’ancien « protégé » puis successeur - depuis 1920 - de Stadler, Johannes Saric: ce chef politique des ultras anti-serbes avait été avant 1914 et pendant la guerre comme son maître « l’instrument en Bosnie [de...] la Cour de Vienne [qui] dressait les catholiques et les musulmans contre les orthodoxes » en vue d'aggraver « la désunion » propice à ses intérêts. « Député au Sabor de Bosnie avant la guerre », il avait mené, pendant, une violente action anti-serbe, et à son terme troqua brutalement le loyalisme autrichien contre « l'influence du Quirinal ». Aussitôt nommé, il s'autoproclama chef des Croates et des Slovènes contre les Serbes, et pratiqua dès les années vingt la provocation permanente, en un style éclairé par « son journal Istina » au « ton extrêmement violent » .
La politique italienne de conquête ou de grignotage de territoires dalmates yougoslaves - symbolisée notamment par le cas de Rieka-Fiume puis par les cessions du traité de Rapallo de novembre 1920 - fut servie dès lors autant par les prélats particulièrement brutaux contre tous les Slaves que par la police (de l’État fasciste depuis octobre 1922, après avoir été fasciste de fait en ces lieux avant cette date): le « Vénitien » Mgr Santin, originaire de Rovigno, sur la côte sud de l'Istrie, nommé en décembre 1922 dans le diocèse de Rieka (devenu Fiume), et Mgr Radossi (Radoslavic italianisé) dans celui de Pola et Porec (devenu Porenzo) « se distinguèrent dès leur arrivée par leur acharnement contre les Slaves, interdisant l’usage du croate dans les sermons, au catéchisme, dans les prières et même au confessionnal, supprimant l’enseignement des langues slaves au petit séminaire, faisant punir les élèves s’entretenant dans leur langue maternelle, envoyant le plus possible d’entre eux se former en Italie et, semble-t-il, dénonçant même à la police des religieux, des prêtres et des fidèles qui s'opposaient à la dénationalisation des Slaves » . Cette politique de force suscita des haines aussi fortes du côté slovène et croate que du côté serbe, ce qui risquait de souder contre les intérêts conjugués de la Curie et de l’État italien l’ensemble des populations yougoslaves. Jugeant ce « nationalisme » du bas clergé mortel pour les intérêts italiens, le Saint-Siège se débarrassa dès l'été 1920 des « curés croato-slovènes les plus militants, pour les remplacer par des religieux choisis dans un ordre international » : celui des franciscains en particulier, qui s’était partagé avec les jésuites la catholicisation des zones croates ou croatisées avant 1914. Cet ordre pivot d’une Église « fanatique » d’Inquisition, naguère au service, comme les jésuites rivaux, de l’expansion anti-serbe autrichienne, allait ainsi régner presque sans partage sur les régions catholiques, la Slovénie, la Croatie (dalmate ou non) et la Bosnie, y compris chez les curés de paroisse: au début des années 40, les franciscains représentaient en Croatie un tiers des prêtres eux-mêmes, et « les quatre cinquièmes des religieux du pays ». Cette tutelle aurait, compte tenu des « traditions spécialement violentes de leur résistance séculaire contre les Turcs et les orthodoxes, surtout en Bosnie » , des conséquences mortelles à partir d’avril 1941 pour les Serbes et les juifs de Yougoslavie.

STEPINAC, L’INCARNATION D’UNE POLITIQUE ALLEMANDE

Comme en tout point européen, au début des années trente, Berlin obtint de la Curie un soutien plus résolu, qui lui imposa d’opter parfois clairement entre les intérêts italiens et allemands. Ce soutien fut affiché par l’article 29 du fameux concordat du Reich, dont von Papen dit à Hitler les 2 et 14 juillet 1933 qu’il lui semblait un des plus importants de ce pacte: il « garantissait la protection des minorités allemandes » en reconnaissant leur droit à l’usage de la langue allemande dans le culte et autres activités, et améliorait encore cette « concession » par « le protocole additionnel final » qui garantissait le respect de ce droit dans les futurs concordats que le Vatican signerait avec les autres États étrangers: « c’est la première fois », s’enflamma-t-il, « que le Saint-Siège a affirmé son soutien (...) sous cette forme » . Bien qu’il y eût peu de « minorités allemandes » en Yougoslavie, le Vatican y agit comme dans les Sudètes. Le harcèlement « italien » ne disparut pas à l’ère hitlérienne, mais en Yougoslavie, le Reich fut plus qu’avant maître du jeu dès les premiers mois de 1933.
La Curie n’avait jamais négligé, dans la Yougoslavie maintenue, la carte germanique, représentée notamment par des prélats autrichiens ou allemands, parmi lesquels l’archevêque de Zagreb, l’Allemand Bauer. Il était, comme Saric, l’animateur de la guérilla conduite contre la dynastie, bien que le roi Alexandre crût sottement que sa dictature (depuis 1929) caractérisée par un solide antibolchevisme lui assurerait le soutien d’un épiscopat soucieux de stabilité politique et de conservation sociale. Les diplomates français avaient accordé en 1933 - année ouvrant la voie à un cortège d’avanies pour les « États successeurs » - grande importance à ce chef des pèlerinages croates: le 24 mai, Bauer dirigea un pèlerinage de 500 Croates et cinq évêques qui donna à Pie XI l’occasion de bafouer la Yougoslavie et d’honorer ses « bons fils de la Croatie », « notre chère Croatie » qui comptait parmi « les régions les plus éprouvées et qui souffrent le plus » : un des scandales de 1933 qui en compta une série et où le vieil archevêque allemand joua un rôle éminent. Mais l’attention du Quai d'Orsay fut vite attirée par un personnage devenu son adjoint depuis 1931, un certain Stepinac, tard venu à l’état ecclésiastique. Et qui ne vint pas au monde politique, comme semblent le croire tous les journalistes et publicistes français qui se sont récemment exprimés, en avril 1941 .
Ce Croate, fils d'un gros propriétaire foncier né en 1898 à Krasic près de Zagreb, fut, au contraire de ce que suggérait son autobiographie avantageuse et lacunaire largement diffusée à l’époque de sa nomination de coadjuteur de 1934, lié au séparatisme croate dès son arrivée, précoce, à la vie politique. Prisonnier de guerre austro-hongrois sur le front italien, il se fit passer pour un Croate rallié au « comité yougoslave (...) pour se faire engager dans le camp des officiers serbes » en Italie puis sur le front de Salonique, moyen de fournir des renseignements sur l’ennemi. Sa biographie officielle, qui présenta cette affaire en termes très « yougoslaves », est quasi muette sur ses activités entre la fin de la guerre et 1924 (retour à Krasic pour gérer une des importantes propriétés de son père, à Kamenarevo, études agronomiques inachevées ou au grand séminaire de Zagreb). Mais la diplomatie française savait que ce dirigeant des Jeunesses catholiques participa au Congrès international de Brno en 1922, où il « porta le grand drapeau croate à la tête d'[une] délégation croate » de 1 500 personnes. En 1924, ce protégé des jésuites entra pour sept ans au Germanicum - institut allemand de Rome qui, avec l’ordre et son chef, l’austro-« polonais » Ledochowski, servit au premier plan la réalisation de l’Anschluss de 1918 à 1938, et plus largement de reconquête « catholique » de l’Est européen que nous avons mentionnée plus haut . Devenu prêtre en octobre 1930, puis docteur en théologie à la Grégorienne, en juillet 1931, Stepinac fut nommé aussitôt après, à son retour de Rome, maître de cérémonies de Bauer, puis en mai 1934 son coadjuteur . À peine nommé, cet ennemi de la Yougoslavie, dont « la forte personnalité tend[ait...] à prendre le pas sur celle du vieux prélat », orchestra l’agitation sécessionniste croate avec une vigueur qui frappa tous les observateurs. Il fut notamment l’un des deux organisateurs d’une émeute, durement réprimée assurément, des « paysans catholiques » littéralement jetés contre la police serbe pour préparer les élections fixées au 5 mai 1935 . Lié au sécessionnisme de Macek et des oustachis d’Ante Pavelic, il anima, outre la guérilla préélectorale, l’agitation tous azimuts sur le « concordat » (avorté). Cette furie quotidienne acheva la désintégration de la Yougoslavie dans les trois années qui suivirent l’assassinat à Marseille du roi Alexandre, en octobre 1934, aux côtés de Barthou, ministre français des Affaires étrangères, par un complice de Pavelic. Assassinat perpétré avec la complicité de l’Italie fasciste et de l’Allemagne nazie; liquidation aussi des tentatives de Barthou d’une « politique de revers » française contre la poussée du Reich, qui réjouit tous les ennemis de la Yougoslavie, Curie en tête, représentée sur place par un nonce sur lequel la correspondance du Quai d'Orsay est féroce, Pellegrinetti. L’épiscopat ne parvint pas même à faire semblant de déplorer la mort du roi serbe haï: « le clergé croate », Bauer et Stepinac en tête, manifesta « un certain défaut de chaleur dans l'expression des sentiments », selon l’euphémisme de Charles-Roux .
À la mort de Bauer le 7 décembre 1937, le secrétaire d’État Pacelli, futur Pie XII, promut une fois de plus cet agent des Allemands, le préférant à l’autre « ennemi acharné des Serbes », l’oustachi Saric. Ayant cru enfin arrivée son heure quand on avait parlé au début de 1934 d’un successeur pour le vieux Bauer, l’instrument « anti-serbe (...) de Rome [sous] l'influence du Quirinal aussi bien que (...) du Vatican » était jugé trop « italien » bien qu’il eût rendu au Germanicum, notamment à l’automne 1932, les visites d’un prélat germanophile . C’est donc le germanisé Stepinac qui fut choisi et qui, aussitôt nommé président de la conférence épiscopale, dirigea officiellement la sécession de la « gens croatica » (« nation croate »). Pacelli devenu Pie XII depuis mars 1939 lui apporta sa caution officielle en bénissant, sans prononcer le mot de Yougoslavie, un pèlerinage mené par Stepinac le 14 novembre: il y célébra « notre peuple croate » et dit « tout ce que [devait] faire ce peuple » auquel étaient « ouvertes les voies lui assurant la liberté de sa voie nationale », sous la houlette de Macek, qualifié de « dux populi Croatici » (chef du peuple croate). La Yougoslavie agonisait de l’intérieur, comme l’attesta le silence de la presse serbe, muselée par les dirigeants d’un État déliquescent et gagné à la capitulation . Comme l’avait montré aussi l’octroi à la Croatie d’une « autonomie » qui fit de Stepinac le « Gouverneur de Zagreb »: il passait à ce poste en janvier 1939 pour le symbole d’une « influence hitlérienne » qui avait triomphé en Croatie dès l’installation du gouvernement hitlérien (la littérature croate aussi antisémite qu’anti-serbe provenait en large masse de Berlin, comme l’évidence s’en imposa dès les premiers mois de 1933) . Au tournant de 1939, Stepinac exulta devant Gueyraud, consul de France à Zagreb, sur l’imminence de la destruction de la Yougoslavie: il se déclara partisan de « la constitution d'un État croate autonome ou indépendant », mais dit « accepter, en cas de nécessité, une autre formule d'association avec la Hongrie ou l'Italie. “Tout, a-t-il dit, plutôt que de vivre avec les Serbes!” » . Il omit alors (devant un Français) le morceau essentiel - allemand - de cette « association » qui lui apporta l’invasion de l’Axe et la fondation de « l’État indépendant de Croatie » de Pavelic en avril 1941.
La thèse, très en vogue sous nos cieux, des douceurs de ce membre du Parlement oustachi pour les martyrs juifs, serbes, tsiganes, slovènes, croates dissidents et de ses condamnations de l’État croate repose sur: 1° les travaux hagiographiques de Stella Alexander, qui ne dispose que d’une source originale, Katolicki List, journal de l'archevêché: toutes les citations qu’elle en fournit ne révèlent que des signes d’adhésion au régime: tous les documents de défense qu’elle présente sont de seconde main ; 2° des hagiographies romaines et « révélations » de Guerre froide de l’Osservatore Romano qui suscitèrent en janvier 1951 l’ironie de l’ambassadeur de France Wladimir d’Ormesson à l’ère où Stepinac était érigé en martyr des bourreaux communistes de Tito: « on peut s'étonner » que le quotidien du Vatican « n’ait pas donné plus tôt une large publicité » à ces informations sur la thèse d’un Stepinac résistant de la première heure à Pavelic .
Les sources originales décrivent à l’inverse ce que l’écrivain catholique italien Falconi appelait en 1965, fonds de l’État croate à l’appui, « hideux mélange de boucheries et de fêtes» . Les franciscains, dont Stepinac était le chef sur place, y participèrent à la masse, à la hache et au poignard avec un allant inédit en notre siècle: destruction des bâtiments des cultes « ennemis », tortures, assassinats en masse de Serbes, juifs et tsiganes, dans les villages (dont celui de Glina en mai 1941: 2 000 morts dans la nuit, hommes, femmes et enfants, pillés ensuite) et les camps de concentration (tel l’abominable camp de Jasenovac, ouvert dès mai 1941), lutte contre la résistance, etc. L’Américain Biddle, ministre auprès du gouvernement yougoslave en exil, évalua en septembre 1942 les seuls « atroces massacres de Serbes », poursuivis alors « avec frénésie », à « 600 000 hommes, femmes et enfants » . Les archives oustachies furent à l’époque de la déroute, regroupées, symbole d’une exceptionnelle fusion de l'Église et de l'État, dans le palais de Stepinac. Le régime yougoslave nouveau n’y découvrit en 1945 « aucun document protestant contre les crimes commis en Croatie par les Oustachis et les Allemands »; mais quantité de photos de l’archevêque, faisant à travers la contrée le salut oustachi (bras levé) auprès des hauts fonctionnaires; et des textes, telle sa circulaire du 28 avril 1941 aux évêques glorifiant « l’État croate ressuscité » et « le chef de l’État croate », et ordonnant un « Te Deum solennel dans toutes les églises paroissiales ». Comme Saric et bien d’autres en Yougoslavie, Stepinac pilla aussi biens juifs (fait clérical retrouvé dans l’ensemble de l’Europe orientale catholique, Slovaquie en tête) - et serbes, avec l’aval écrit (en latin) du Saint-Siège, via son légat Marcone les 9 décembre 1941 et 23 décembre 1943 (et fut convaincu par ses héritiers d’avoir détourné les biens de Bauer, de « plusieurs dizaines de millions de dinars »).
Stepinac fut aussi l’exécutant du décret « oustachi » du 3 mai 1941 de « conversion forcée » des orthodoxes, intelligentsia exclue car considérée comme irrécupérable: ce retour à « l'Inquisition espagnole » donnait aux Serbes non massacrés d'emblée le « choix » (qu’Henri Tincq déclarait « musclé » dans son article du Monde du 1er octobre 1998) entre adhésion immédiate au catholicisme et mort. Ce texte non étatique mais vatican fut contresigné, en tant que secrétaire de la Congrégation de l’Orientale, par le cardinal français Tisserant. « Contre son gré », insista Belgrade tout en le révélant en 1952, au cours d’une année particulièrement riche en provocations vaticanes, dans un Livre Blanc sur les relations Vatican-« État indépendant de Croatie » puisé au « journal » de l’archevêque et aux archives oustachies. Tisserant, juge impitoyable en privé du régime de Pavelic (comme le précise le Livre blanc), confirma l’information à l’attaché français à Rome de Margerie .
Les monastères-arsenaux des franciscains, dont certains furent arrêtés armes à la main en 1945, s’étaient depuis la certitude de la défaite mués en receleurs de trésors et de criminels de guerre en instance de départ pour l’Ouest. Dans leur couvent du Kaptol, à Zagreb, on trouva au début 1946 le trésor oustachi, contenant bijoux, or, dents en or scellées à des mâchoires, bagues sur des doigts coupés, etc., arrachés aux orthodoxes et juifs assassinés; un PV d'emballage rédigé pour chaque caisse attestait la présence de fonctionnaires à chaque opération. La masse de la correspondance est telle sur les horreurs accumulées par « l'occupant et (...) les Oustachis [, avec lesquels] beaucoup de (...) chefs [musulmans] ont collaboré » que je renvoie le lecteur, pour les sources, à mon ouvrage sur le Vatican. L’Église catholique yougoslave s’était « compromise à tel point qu'il serait possible de dresser contre elle un réquisitoire en n'invoquant que des témoignages religieux », résuma en août 1947 Guy Radenac, consul de France à Zagreb, qui en entendait encore de nouveaux, racontés par des clercs français en poste pendant l’occupation allemande .
Resté à Zagreb, Stepinac organisa la fuite des bourreaux, clercs (tel Saric) ou non (tel Pavelic), sur mandat du Vatican, avec les fonds alloués par les États-Unis à un recyclage jugé nécessaire à leurs intérêts dans la zone adriatique et ne relevant pas, comme on le croit volontiers, de la seule lutte idéologique dite de « Guerre froide ». Zagreb fut un pivot des Rat Lines décrits par le renseignement américain: 30 000 criminels croates s’échappèrent par la filière du père Draganovic, secrétaire de Saric et familier de guerre de Maglione (secrétaire d’État mort en 1944), Montini (futur Paul VI) et Pie XII. Ils étaient regroupés par l’archevêché de Zagreb, les couvents et autres institutions croates (dont la Croix-Rouge) de « croisés » sous la tutelle de Stepinac; ils gagnaient ensuite l’Autriche, accueillis par le haut-clergé autrichien et la « mission pontificale » de Salzbourg; puis rejoignaient Rome, étape souvent avant le départ depuis Gênes, aidés par la Curie, l'archevêque de Gênes, « la police italienne » et des chefs de la Démocratie chrétienne (tel de Gasperi). Selon Radenac, « les milieux oustachis de Zagreb » diffusaient encore en 1947 les adresses connues des couvents accueillant les fugitifs, pris en charge par des bourses de l’association catholique « Pax romana »; lui-même en connaissait « de source directe » maint cas. En Yougoslavie même, l’association catholique Caritas subventionnait les secours aux familles d'émigrés et d'oustachis terroristes restés fort actifs sur place .
Ce qui précède rend étonnante l’indulgence infinie de Tito pour le prélat, dont il ne voulait pas faire un martyr. Car Stepinac conduisit contre le régime - ou plutôt, comme naguère, contre l’existence même de la Yougoslavie ressurgie de l’incendie - une guérilla sans répit. Elle est bien reflétée par la lettre pastorale issue de la conférence épiscopale de Zagreb, le 20 septembre 1945, qui exigeait pour l'Eglise une totale liberté en tout domaine, école incluse, pestait contre la laïcité infâme et stigmatisait l'expropriation et l'exécution de 243 prêtres convaincus de collaboration. Elle fut menée non plus en compagnie des Allemands mais des Américains - notamment du « régent de la nonciature » Hurley, arrivé en février 1946 à Belgrade, et porte-parole de ce qu’on appelait aux États-Unis mêmes pendant la Guerre froide « le lobby Stepinac de Spellman ». Elle atteignit une telle intensité que Tito ne cessa de demander au Vatican son départ pour n’avoir pas à sévir. Il ne put obtenir d’Hurley, qui participait en personne à la mise en ébullition des masses catholiques, l’éloignement de « cet évêque encombrant », qui couvrait « les attentats ou coups de force » surgis « ici et là » et « des manifestations [à...] allure politico-religieuse » . Ce veto motiva sa décision du fameux procès pour collaboration, ouvert le 10 août 1946, contre 16 accusés dont 9 franciscains, auxquels fut à la mi-septembre joint Stepinac. Ses subordonnés profitèrent de l’occasion pour conter tout ou presque de ses oeuvres depuis l’avant-guerre. La presse occidentale, américaine en tête - la France ne fut pas la dernière - , ne cessa dès lors de s’indigner du « martyre » de cet « innocent », condamné le 11 octobre à 16 ans de travaux forcés. La sentence fut comprise partout, Vatican inclus, comme visant à ménager un compromis (chacun ayant attendu la mort); elle ne fut d'ailleurs « jamais appliquée » jusqu'à la libération de Stepinac début décembre 1951 - « geste (...) dicté sous la pression de l'opinion américaine » .
J’ai expliqué ailleurs avec plus de précision pourquoi le problème était insoluble, la Curie menant après 1945 la même guerre contre la Yougoslavie, désormais « communiste », qu’elle avait conduite du temps de la dynastie serbe des Karageorgevic, et avec les mêmes prélats catholiques qui, à travers le territoire yougoslave, contestaient ouvertement le tracé de ses frontières. Les diplomates français fulminèrent parfois, en pleine guerre froide, de les voir agiter le pays avec la même arrogance que vingt ans auparavant, tels Mgrs Santin et Radossi: « On est étonné de la responsabilité prise par le Vatican en laissant des agents italiens à la tête du diocèse d'Istrie et on est non moins surpris de voir l'armée yougoslave les supportant patiemment au lieu de les chasser à coups de botte comme les carabiniers leurs prédécesseurs », commenta Radenac, consul à Zagreb en octobre 1947 . Les archives que j’ai consultées mettent, comme dans la première décennie du premier après-guerre, l’accent sur la dimension italienne de cette politique de harcèlement de l’État yougoslave. Belgrade ne pratiqua à aucun moment de politique de persécution contre l’Église catholique, et, comme le régime précédent, fit parfois preuve d’un sens du compromis aiguisé (depuis la rupture avec Staline de 1948) par les nécessités de son alliance avec les États-Unis et ses besoins de crédits américains.
Malgré des apparences pesantes, le problème ne relevait pas de la Guerre froide, pas plus que le caractère ultra-réactionnaire du régime serbe des années trente n’avait arrêté la main des sicaires. Trieste, acquise à l’Italie (origine de débordements d’enthousiasme de Pie XII) le 8 octobre 1953 et le souci d’élargir les frontières italiennes expliquaient comme naguère la frénésie de la politique romaine anti-yougoslave. Elle culmina au tournant de 1952 par la promotion de Stepinac à la pourpre cardinalice, injure insigne à la « Serbie, où le souvenir du comportement des Croates a laissé de profondes et durables blessures » . L’ambassadeur de France à Belgrade Philippe Baudet, comme tous ses collègues confrontés à la question, avait admis en juillet 1951 que le veto du Vatican contre le compromis sans trêve sollicité par Belgrade - la demande de libération de Stepinac en échange d’un exil romain - donnait « un fond de vérité » à l’argumentaire yougoslave d’une coalition Stepinac-Pie XII-la Curie « dans la main des Germano-Italiens » et de Pavelic: Stepinac « leur est plus utile en prison », sa libération « affaiblirait le bloc chauviniste italien anti-yougoslave, puisqu’elle le priverait d’une de ses sources de propagande » . Libéré, on l’a dit, dès 1951, Stepinac fut laissé sur place pour transformer son village de Krasic en « lieu de pèlerinage » et entretenir à loisir la flamme .
La fin des années cinquante commença cependant à laisser percevoir la deuxième phase, comme après l’autre guerre, d’une politique vaticane dont Stepinac, aussi coopératif fût-il, n’avait été qu’un pion en Yougoslavie: celle du service au Reich. La nomination, dès 1955, d’Allemands comme délégués apostoliques sous le prétexte « que la majorité des membres du clergé et des fidèles catholiques yougoslaves parlent allemand » rappela l’entre-deux-guerres. La suite des événements confirme que cette alliance allemande l’emporta de façon décisive dans les décennies suivantes: elle aboutit à l’éclatement de la Yougoslavie dès le début des années 1990, salué officiellement par le tandem germano-vatican, soutien et avocat de la sécession croate. « L’élévation à la dignité de Cardinal de Mgr Stepinac » qui choquait l’ambassadeur Baudet en décembre 1952 préparait les grandes festivités sur l’acquisition de Trieste à l’Italie - cadeau américain qui ulcéra également ce diplomate sans que Paris trouvât le courage politique de le proclamer . Au terme des deux décennies qui ont achevé d’ériger en allié privilégié de l’Allemagne un pape « polonais » au sens où l’entendait Pie XII, artisan initial de son ascension cracovienne, que prépare la canonisation d’un des plus grands criminels de guerre cléricaux de la Deuxième Guerre mondiale? La question soulève une interrogation plus générale. Si on la compare aux sources originales, l’« information » dont dispose aujourd'hui la population française est le fruit d’une véritable entreprise d’intoxication, centrée en octobre 1998 sur le « martyr » Stepinac. La mise en cause du droit réel à l’information s’est accompagnée d’une effarante désinformation sur les problèmes balkaniques, chape de plomb dont on aimerait connaître les raisons profondes. Jusqu’à quand sera-t-il de fait interdit d’éclairer à titre autrement que confidentiel les liens entre les misères balkaniques du temps et la puissance grandissante de l’Allemagne réunifiée ?


(francais / italiano)

Ungheria, Ucraina: 20 anni dopo

1) L'UE et la Hongrie: colonisation, désindustrialisation et déstructuration
(Judit Morva, transform-network.net )

2) Ucraina 20 anni dopo
(Denis Neceporuk, komunist.com.ua )


=== 1 ===

(the original text in english:
The EU and Hungary: Colonisation, De-industrialisation, De-structuring

Avec l'adhésion des pays d'Europe de l'Est, les dirigeants européens, sans avertissement, ni déclaration formelle, ont modifié le projet d'intégration européenne. Au lieu de mettre en place un programme de développement et d'intégration économique avec un plan de finance à long terme, l'élargissement de l'UE a créé une division territoriale durable entre deux catégories de pays. Les pays d'Europe de l'Est - qui totalisent pourtant 100 millions de personnes - sont pris au piège en tenant le rôle de pays sous-développés. 


Sans le dire ouvertement, la Commission a imposé une zone de libre-échange, et ces pays n'ont plus aucun contrôle sur leur propre évolution. Au nom de la concurrence et de l'efficacité, l'Union a exigé une privatisation rapide, l'ouverture des frontières et une politique libérale, bien au-delà de ce qui s'est produit pour les membres historiques de l'UE. Afin de décrire la situation des derniers arrivés, les mots « colonisation », « désindustrialisation » et  « déstructuration » ne sont pas trop forts.  
 
En Hongrie, l'agriculture et l'industrie ont été entièrement privatisées. Les nouveaux propriétaires - souvent des multinationales - étaient d'abord intéressés par les opportunités, non pas par la production, ce qui a conduit à la fermeture de nombreuses usines. Prenons l’exemple de la fabrication du sucre : alors que le pays comptait six usines, il n’y en a plus une seule depuis que le secteur a été privatisé. Et tout le sucre doit être désormais importé.

La situation sociale est tout aussi désastreuse. La Hongrie est un pays de dix millions d'habitants, et depuis 1990, 1,4 million d’emplois ont été supprimés, ce qui représente plus d'un quart des emplois réguliers. En retour, le travail non-réglementé représente entre un quart et un tiers de l'activité économique du pays. Des centaines de milliers de travailleurs travaillent au noir, sans aucune protection. Leurs conditions de travail et le nombre d'heures ne sont pas réglementés. Ils ne cotisent  pas pour leur retraite, ni pour la sécurité sociale.  

La conséquence directe est une baisse des recettes provenant de ces revenus. Le pays est dans une spirale sociale négative. Au nom des budgets équilibrés, l'UE fait pression sur la Hongrie pour réduire drastiquement les avantages acquis sous le régime socialiste et privatiser sans fin tandis que la pauvreté augmente chaque année.  

La sous-traitance industrielle, qui crée une concurrence entre les travailleurs d'Europe centrale et orientale avec ceux des pays les plus anciens de l'Union, est basée sur cette combinaison de faibles salaires et de travail illégal. Les multinationales embauchent aux conditions locales, régulières, mais  sur un marché du travail non-réglementé. La désindustrialisation, qui a suivi la privatisation et le démantèlement des services sociaux, a créé un environnement économique qui  fait de la Hongrie un pays fournisseur de main-d'œuvre bon marché. Cela ne peut pas créer une structure industrielle viable et cohérente. Cela n'offre aucune perspective pour le peuple magyar. C'est une impasse pour le développement.  
 
En Hongrie, l'État providence a disparu ou est en voie de disparition. La structure socio-économique est une source de tension permanente, mais aussi d'instabilité durable car cette dynamique de développement ne peut pas aider le pays sortir de cette impasse. L'écart de niveau de vie entre les deux parties de l'Europe crée des tensions et déstabilise la construction de l'Union. La crise financière aggrave encore la situation budgétaire de chaque pays sans aucune solution en vue, pas même dans le long terme. Cette crise systémique est un appel ouvert à la réflexion sur le projet même de l'Union comme région de stabilité et de bien-être. 

Traduit par Cédric Rutter pour Investig'Action

Image: base militaire soviétique désaffectée, Debrecen, Hongrie, 2006. Par Cédric Rutter  

Source: Transform Network 


=== 2 ===

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=18593
 
Ucraina 20 anni dopo
 
di Denis Neceporuk
 
L’articolo, apparso nel giornale del Partito Comunista di Ucraina, Kommunist, delinea il disastroso bilancio dei quasi 20 anni trascorsi dalla restaurazione del capitalismo.
 
Subito dopo la criminale disintegrazione dell’URSS, l’Ucraina era tra i paesi più sviluppati del mondo. Ciò è riconosciuto dagli stessi nazionalisti borghesi. Avevamo prestazioni sociali straordinarie, del cui valore allora la gente non sembrava rendersi conto. Istruzione gratuita e un sistema sanitario di qualità e soprattutto gratuito. Secondo quanto aveva previsto il partito, entro l’anno 2000 tutti avrebbero dovuto disporre di un alloggio gratuitamente. I prezzi dei principali prodotti alimentari, le spese per l’alloggio, le tariffe del trasporto pubblico erano gli stessi da 50 anni. Le spese comunali, le tariffe del gas e dell’energia elettrica, ammontavano a pochi centesimi. La gente consumava prodotti naturali. Disoccupazione, inflazione, vita senza un tetto, licenziamenti, indebitamenti, crediti al 30% di interesse, ecc., erano cose che conoscevano solo quelli che non vivevano nell’URSS.

Per la generazione attuale tutto ciò sembra fantascienza. Nel 2009 è impossibile immaginare che ciò sia possibile.

Eravamo 52 milioni. Non solo avevamo armi nucleari (il terzo arsenale nel mondo, dopo Russia e USA), ma un esercito di un milione di effettivi, capace di difendere la popolazione da qualsiasi nemico. Il paese esisteva e si sviluppava. Ne eravamo orgogliosi. Ma in modo incredibile, in solo 20 anni, il che equivale a quattro piani quinquennali sovietici, ci hanno trasformato in uno dei paesi più arretrati, non solo d’Europa, ma del mondo. Il più arretrato e indifeso ad ogni livello. Per quanto sembri incredibile, il tradimento e il capitalismo hanno assolto fino in fondo al loro ruolo.

Tutto è iniziato con l’avvio delle riforme di mercato e la sostituzione del sistema sociale socialista con quello capitalista. Tutto è iniziato con Gorbaciov. Dopo la caduta dell’URSS, i vecchi ideologi del comunismo hanno iniziato a costruire il capitalismo in ognuno dei loro paesi, sostituendo il dollaro alla falce e martello. A noi è toccato Kravchuk, ai russi Eltsin, ai georgiani Shevarnadze, ecc.

Occorre riconoscere che allora, all’inizio degli anni 90, la gente credeva ancora nei propri governanti. Ogni cittadino sapeva che i dirigenti del paese, i deputati, il partito e i funzionari, per definizione avevano l’obbligo di lavorare per il bene del popolo e dello stato. Ma disgraziatamente la gente non ha tenuto conto di un dettaglio importante: i cosiddetti democratici e patrioti di osservanza europeista, avevano come unico obiettivo il lucro, accumulare immense fortune a spese dei comuni mortali. 

Tutte le riforme di mercato perseguivano il medesimo scopo: appropriarsi della proprietà statale, distruggere le aziende collettive e successivamente instaurare un regime liberale a vantaggio dei grandi proprietari. Disgraziatamente tutto ciò che favoriva il successo di pochi e conduceva all’impoverimento della maggioranza, fu messo in pratica.

Tutte le disgrazie del nostro paese sono opera di Kravchuk, Kuchma, Yuschenko e di tutti coloro che hanno occupato il potere negli ultimi 20 anni. E’ bene sapere che nessuno ha mai chiesto al popolo se sceglieva la via capitalista. Tutto è stato fatto di nascosto, sotto l’apparenza di un presunto amore per l’Ucraina e la nazione, con la scusa della democrazia e dell’umanismo europeo.

Come risultato della controrivoluzione capitalista, il popolo ucraino ha perso il potere e il controllo su tutto ciò che riguarda il paese. Oggi una minoranza governa sulla maggioranza. 50 persone possiedono la terza parte del PIL del paese. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Dopo averci procurato la crisi economico-finanziaria, i capitalisti pretendono di uscirne a spese della gente di buon senso. Il governo della Timoshenko ha indebitato tutto il popolo. Gli “arancioni” continuano imperterriti a vendere imprese e a chiedere crediti. E osano pure farsene un vanto.

Il “garante” Yuschenko nei suoi interventi insiste continuamente sulla sua intenzione di indirizzarsi unicamente ad una delle nazionalità dell’Ucraina. In questo gli fa eco l’altra “politicante”, armandosi di ideologia filo-fascista per attrarre l’elettorato.

Ma il caso vuole che, giorno dopo giorno, siano sempre meno quelli che danno ascolto a tali “pseudo-patrioti”. Per non parlare di coloro che vengono qualificati come “nazionalità aliene” (russi e altre minoranze, ndt). In Ucraina, a soffrire siamo tutti, senza distinzione.

Purtroppo, dobbiamo constatare che la nazione che hanno “forgiato” si può riassumere nelle seguenti cifre:

Siamo circa 46 milioni, di cui

Circa 10 milioni vivono sotto il livello della povertà.

Più di 3 milioni sono disoccupati.

Circa un milione e mezzo soffre la fame.

Circa 190.000 muoiono ogni anno di cancro. Su 1.500 ammalati, 900 muoiono.

700.000 sono malati di tubercolosi, secondo cifre del Ministero della Sanità.

440.000 persone sono colpite dal virus VIH.

150.000 sono i reclusi nelle carceri.

Circa 900.000 sono alcolisti cronici.

Ufficialmente sono 500.000 i tossicodipendenti, secondo le statistiche del Ministero degli Interni.

In Ucraina, quasi 200.000 bambini vivono nelle strade.

In Ucraina, ci sono circa 1 milione di vagabondi.

In Ucraina ci sono 19 milioni di fumatori. Il 66% degli uomini e il 20% delle donne.

Se sommiamo queste cifre al crescente analfabetismo, al degrado morale della gioventù, il quadro che ne risulta è molto triste.

Devono essere richiamati alle loro responsabilità questi politici di destra, liberali, che hanno applicato e continuano ad applicare le riforme capitaliste di mercato. Sono al governo. Non c’è differenza tra loro. Sono di diverso aspetto, ma tutti allo stesso modo capitalisti.

In considerazione di quanto abbiamo esposto, ogni cittadino oggi è obbligato a trovare una risposta logica al perché in passato ha dato il suo voto ai milionari e al perché dovrebbe continuare a farlo.


fonte: http://www.komunist.com.ua:80/article/27/10381.htm 


(auf deutsch / sullo stesso argomento, in italiano:


The Mafiosi State (II)
 
2009/12/09

PRISTINA/BERLIN
 
(Own report) - A new mafia scandal involving Berlin's Kosovo partner is creating unrest in Pristina. A former agent of the Kosovo intelligence service explained that a close associate of Kosovo's incumbent Prime Minister, Hashim Thaci, had commissioned the assassinations of political opponents. According to his report, spies from Thaci's entourage were also responsible for threats and assaults on witnesses, who were to testify against former UCK commanders before the ICTY war crimes tribunal. The European Union, who's "Rule of Law Mission" (EULEX) has known of the accusations for months, is still dragging its feet. Hashim Thaci, who, from the beginning has been rumored to have been involved in organized crime, has been collaborating closely with Berlin and Brussels. In the German capital, he is considered to be the guarantee for preventing unrest in Kosovo, whose secession is being examined for its compatibility with international law by the International Court of Justice since last week. Whereas German jurists, with eccentric argumentation, are seeking to lend the illegal secession from Serbia an appearance of legality, Spanish jurists are confirming that the act was illegal.

Commissioned Assassinations

The newest mafia scandal involving Pristina's secessionist regime was set in motion by the former secret agent Nazim Bllaca. Bllaca alleges that he had been in the employ of the secret service, SHIK, since the end of the war waged against Yugoslavia in 1999 by NATO and the troops of Kosovo's terrorist UCK militia. This secret service had been created by the UCK during the war and placed under the command of former UCK commander, Hashim Thachi's Partia Demokratike e Kosoves (PDK, Democratic Party of Kosovo) founded in 1999. Agents of the SHIK were active in organized crime. (Thaci is also rumored to have been heavily involved in organized crime.)[1] The agents extorted protection money and were mainly dealing in real estate.[2] One of their victims was a Pristina architect, who had wanted to take steps against the extremely widespread illegal construction activities. Bllaca explained that he had personally committed 17 crimes in the course of his SHIK activities, including extortion, assassination assaults, torture and serving as a contract killer. He reported that the SHIK crimes were also aimed at Thaci's political rival, Ibrahim Rugova and his party assistants in the Lidhja Demokratike e Kosoves (LKD, Democratic League of Kosovo). As a matter of fact, since 1999 several people from Rugova's close entourage had been killed.
Sexual Slave Trade
Bllaca is making grave accusations, directly implicating the entourage of Kosovo's Prime Minister, Hashim Thaci. For years Berlin and the EU have been cooperating with Thaci and are using his clan's influence to maintain control over Kosovo. No one has illusions about his activities. Already three years ago, a study commissioned by the German military, noted that on "the international level," Thaci is in control of wide ranging "criminal networks."[3] The German Foreign Intelligence Service, BND, concluded even earlier, that Thaci has commissioned "professional killers." Whether this was referring to the professional killer, Nazim Bllaca, is not yet known. Bllaca says that he received his orders for contract killings from Azem Syla. Syla, who in the 90s had been the UCK general chief of staff, is one of Thaci's close collaborators. Today he is honored as a businessman in Pristina. According to Bllaca, another high-ranking politician in Thaci's entourage had given SHIK agents criminal contracts - Xhavit Haliti. Haliti is currently a member of the Kosovo Parliament's Presidium and its foreign policy committee. Years ago, the BND has accused him of being involved in organized criminal activities, particularly the sexual slave trade.[4]

Intimidation of Witnesses

It is not yet clear what role the EU's "Rule of Law Mission," EULEX is playing in this current scandal. Bllaca claims to have confessed to EULEX months ago, to permit them to solve the crimes. It is unknown that EULEX has undertaken necessary measures. A few days ago, Bllaca found himself forced to go public with his confession and divulge additional information. Since then he has been jailed and placed under EU guard.[5] The evidence he has exposed could prove helpful for the UN's ICTY war crimes tribunal, for example that SHIK agents had threatened and assaulted witnesses, who were supposed to testify against the UCK before the tribunal. Several suspected war criminals had been acquitted because witnesses repudiated their previous testimonies or had even been murdered. Bllaca, who will now stand trial for his alleged murders, has not been able to find a defense lawyer willing to take the risk of defending him in a Pristina courtroom.

Entity

While the new accusations against Hashim Thaci and his entourage are stirring unrest in Pristina, the International Court of Justice in The Hague opened its hearing, December 1, into the case surrounding the secession of Kosovo. Following the secession of its southern province, Serbia had filed suit to receive confirmation of the secession's illegality. Last week three German international jurists testified, seeking to create the impression that the secession was legal with very eccentric argumentation. For example, the German government's legal advisor, Susanne Wasum-Rainer, claimed that in the aftermath of the invasion by NATO troops and the installation of a UN administration, Kosovo became an "entity," to which the principle of territorial integrity could not apply.[6] A "declaration of independence" had not been prohibited by international law and was therefore acceptable. The international jurist from Heidelberg, Jochen Frowein, who on various occasions has been commissioned by the Berlin government, admitted that secession could be in violation of international law, if it is achieved through the intervention of external powers, but this was not the case in Kosovo.[7]

Non-Binding

The representative of the Spanish government at the hearing in The Hague proved not quite as imaginative. Spain, along with four other EU nations [8] and more than two-thirds of the other nations around the world, does not recognize the secession of Kosovo. In The Hague, Madrid's international legal advisor pleaded her case on the basis that Serbia is a nation and therefore enjoys its claim to territorial integrity. The Western nations under German-US American leadership had deceived the United Nations in their recognizing this secession. "In light of their policy of faits accomplis," she said, "we are appealing to the power of rights."[9] In case The Hague, rather than succumb to Berlin's legal fantasies, upholds prevailing law, declaring the secession illegal, media organs in Germany are already spreading the rumor that the decision of the International Court of Justice is non-binding. In such a case, Germany will recognize the Kosovo secessionist Mafiosi regime that has illegally declared the province independent - even against the verdict of the UN's International Court of Justice.

Further information on German cooperation with criminal structures in Kosovo can be found here: Political Friendships"Thank You Germany!"Arbitrariness in PowerIn Accordance With NATO Standards and The Sorcerer's Apprentice.
[1] see also Organhandel and Die Mafia als Staat
[2] Angeblicher Killer erschüttert Kosovo; Basler Zeitung 02.12.2009
[3] see also "Thank You Germany!"
[4] see also Unter deutscher Aufsicht
[5] Angeblicher Killer erschüttert Kosovo; Basler Zeitung 02.12.2009
[6], [7] Berlin: Kosovo ist kein Präzedenzfall; Frankfurter Allgemeine Zeitung 03.12.2009
[8] Neben Spanien erkennen auch die EU-Mitglieder Slowakei, Rumänien, Griechenland und Zypern die Sezession des Kosovo nicht an.
[9] España apela al derecho internacional para declarar ilegal la independencia de Kosovo; El País 08.12.2009


(srpskohrvatski / italiano)

Una operazione Tempesta anche in Bosnia? / Pripremana i "Oluja 2" ?


=== srpskohrvatski ===


Pripremana i "Oluja 2" ?

Francuski obaveštajac Jugoslav Petrušić Dominik tvrdi da je tokom prethodnog rata bila planirana akcija "Oluja 2" u kojoj bi Srbi bili proterani iz BiH u što većem broju. 

Petrušić navodi da je kao francuski obaveštajac bio svedok akcije oslobađanja francuskih pilota u BiH 1995. godine, zbog čije je navodne likvidacije bila predviđena "Oluja 2".

"To su pojedinci u Francuskoj smislili isključivo zbog svojih privatnih interesa", rekao je Petrušić i dodao da je plan bio da strada mnogo ljudi.

On naglašava da je Francuzima nosio žive dokaze da su piloti živi i da je tada znao da su spremali pakleni plan za BiH.

"Učestvovao sam u vrlo važnoj akciji oslobađanja francuskih pilota. Kada su pripadnici Vojske Republike Srpske oborili dva francuska aviona 1995. godine u BiH, tadašnji francuski ministar odbrane i ministar unutrašnjih poslova hteli su francuskoj javnosti da prikažu da su nekontrolisane srpske bande otele pilote i da su ih likvidirale", ističe Petrušić za sarajevski nedeljnik "Slobodna Bosna".

Prema njegovim riječima, u to vreme pilote su čuvali ljudi iz 10. diverzantskog odreda, ali je tadašnji francuski predsednik Žak Širak sve vreme tu činjenicu krio od roditelja pilota, ali i od javnosti.

"To je radio smišljeno, jer je imao plan da na pilotima profitira. Za to vreme, navodno Ratko Mladić u zamenu za pilote traži oružje i to sisteme S-300. Rusi šalju te sisteme Francuzima i oni kreću prema Srbiji. Oružje je stiglo do Mađarske, a potom je preusmereno prema Angoli da bi na kraju završilo u Iranu. Ti sistemi su prodati za 600 miliona dolara", rekao je Petrušić.

On je naveo da je zbog te afere i krađe 600 miliona dolara nedavno suđeno Širaku, tadašnjim francuskim ministrima odbrane i unutrašnjih poslova i još 50 osoba iz Francuske obaveštajne službe.

Petrušić tvrdi da su mudžahedine u BiH poslale britanske, američke i francuske tajne službe da bi se, kako je rekao, imao uvid kako funkcionišu sve strane.

"Cele grupe takvih ljudi koje su došle u BiH, a koji su pušteni da pobegnu iz zatvora, bile su instruisane da naprave zločin kako bi se rukovodstvo BiH u određenom momentu stavilo uza zid. Mnogi, pre svega, bosanski muslimani, ne vide te stvari", naglasio je Petrušić.

On je rekao da je 1997. godine u Bočinji kod Maglaja nastao rat oko mudžahedina između dve službe, američke i francuske, jer su i jedna i druga želele kontrolu nad njima.

"Pri tome, ni jednoj službi nije u interesu da prave informacije o njima dostavi nadležnim institucijama u BiH kako bi imali argumente da ih proteraju . Niko ne želi i nikome nije u interesu da ih zaustavi. Oni su ostavljeni tu, prevashodno, kako bi formirali svoje ćelije", naglasio je Petrušić.

Petrušić, koji je kao francuski obaveštajac bio zadužen da prati kretanje sarajevskog kriminalca i vođe muslimanske paravojne formacije Jusufa Juke Prazine u Francuskoj i Belgiji, kaže da je dok je bio na zadatku postao živi svedok njegovog ubistva.

On je rekao da je Prazina izveden iz Sarajeva preko Hercegovine i Hrvatske kada je počeo da predstavlja problem muslimanskoj tajnoj službi, odnosno pukovniku bezbednosti Sarajeva.

Petrušić kaže da su uz Prazinu uvek bila dva muslimana i jedan Hrvat, a postojao je i četvrti koji je išao do BiH i donosio mu informacije.

"Oni su 4. decembra 1994. godine inscenirali tuču u jednoj kafani u Belgiji u blizini holandske granice kod sela Vambroš u kojem sam se ja nalazio. Bilo je potezanja i oružja. Prazina je tukao neke ljude. Međutim, oni su rekli Prazini `mi ćemo da te spasimo, idemo odavde`", kaže Petrušić.

Prema njegovim rečima, oni su od Prazine tražili informacije o velikim parama, tukli su ga i držali sve dok im nije rekao sve što su od njega tražili, nakon čega su ga ubili.

On je dodao da je Prazina nađen tek 29. decembra, a iako se znalo gde se on nalazi ozbiljna potraga za njim nije izvedena. Ubice su uhapšene dva meseca kasnije i osuđeni su na kaznu od četiri do osam godina.

"Četvrti čovek se vratio u Sarajevo, a on je bivši vozač Alije Delimustafića, sa Naserom Orićem je bio u 72. izviđačko-diverzantskoj jedinici i danas se nalazi na vrlo odgovornoj funkciji. Ja koji sam sa određen udaljenosti gledao šta se dešava, javio sam kome je trebalo. Prazinu su po instrukcijama ubili njegovi ljudi", ističe Petrušić, koji je dugo godina bio pratilac francuskog predsednika Fransoa Miterana.

Izvor: Srna / Slobodna Bosna: http://www.slobodna-bosna.ba/Secured/?ID=17327


=== italiano ===

Era prevista anche l'operazione "Oluja 2" (Tempesta 2)?

Jugoslav Petrusic Dominique, ufficiale dell'intelligence francese, sostiene che durante la guerra era stata pianificata l'operazione "Oluja 2", allo scopo di espellere il maggior numero possibile di Serbi dalla Bosnia ed Erzegovina.

---
Petrusic ha detto che, in qualità di ufficiale francese di intelligence, aveva assistito all'azione del rilascio dei piloti francesi in B-E nell'anno 1995, la cui presunta liquidazione avrebbe dovuto fungere da movente per la operazione "Oluja 2".

"Alcuni personaggi in Francia l'avevano pianificata esclusivamente per i loro interessi privati", ha detto Petrusic, aggiungendo che il piano era di creare il maggior numero possibile di vittime.

Egli sottolinea che ai francesi portò delle prove viventi che i piloti erano salvi, ed era al corrente che i francesi preparavano questo piano infernale per la Bosnia-Erzegovina.

"Ho partecipato all'intervento molto importante del salvataggio dei piloti francesi. Quando i militari dell'Esercito della Repubblica Serba avevano abbattuto due aerei francesi nel 1995 in Bosnia-Erzegovina, l'allora ministro francese della Difesa e il ministro degli Interni volevano mostrare al pubblico francese che bande incontrollate serbe avevano rapito i piloti e li avevano uccisi", dice Petrušić a "Slobodna Bosna", settimanale di Sarajevo.

Secondo lui, in quel momento i piloti sono stati sotto sorveglianza del 10-mo distaccamento serbo guastatori, ma l'allora presidente francese Jacques Chirac teneva nascosto questo fatto ai genitori e al pubblico.

"Lo faceva apposta, avendo il piano di sfruttare la situazione creatasi con il sequestro dei piloti. Durante questo periodo, Ratko Mladic ha presumibilmente chiesto delle armi, più precisamente i sistemi S-300, in cambio dei piloti. I russi hanno spedito questi sistemi ai francesi e sono in seguito stati inviati verso la Serbia. Le armi sono arrivate in Ungheria, reindirizzate in Angola per poi finire in Iran. Questi sistemi sono stati venduti per 600 milioni di dollari", ha detto Petrusic.

Petrusic ha detto che a causa di questi scandali e del furto di 600 milioni di dollari, Chirac di recente è stato messo sotto accusa, assieme con gli allora ministri francesi della Difesa e degli Interni e ad altre 50 persone del servizio di intelligence francese.

Petrusic afferma che i mujaheddin in Bosnia-Erzegovina sono stati inviati dai servizi segreti britannici, americani e francesi, allo scopo di conoscere l'operato di tutte le controparti.

"Erano giunti in B-E interi gruppi di queste persone, precedentemente lasciate fuggire dalle carceri ed istruite per commettere dei reati per far sì che la leadership della Bosnia-Erzegovina ad un certo momento venisse messa spalle al muro. Sono in tanti oggi, soprattutto i musulmani bosniaci, a non recepire queste cose", ha detto Petrusic.

Egli ha detto che nel 1997 a Bocinj nei pressi di Maglaj era scoppiato uno scontro riguardo ai mujaheddin tra due servizi, cioè tra gli Stati Uniti e la Francia, perché entrambe volevano il controllo su di essi.

"Perciò, non è nell'interesse di alcun servizio di intelligence rendere note le informazioni su di loro, presentandole alle istituzioni competenti in B-E affinché queste abbiano degli argomenti per la loro espulsione. Nessuno vuole e non è nell'interesse di nessuno di fermarli. In primo luogo, furono  lasciati sul territorio per formare le cellule", ha detto Petrusic. [...]




L'ITALIANITA' PREISTORICA


Notizia ANSA di oggi, 12 dicembre:
TRIESTE - P.zza Hortis 4 - ore 11. Presentazione studio su ''una nuova specie di dinosauro italiano dal Carso triestino''.
 
Commento:
Sembra definitivamente dimostrato che ancora prima che l'Italia esistesse esistevano gli italiani o quantomeno l'italianità, anche se si esprimeva tramite i dinosauri.
 
Altro che le palle del premier... queste sì che sono notizie.
Claudia





www.resistenze.org - popoli resistenti - iraq - 16-09-09 - n. 286

Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
La guerra USA contro l'Iraq: la distruzione di una civiltà
 
di James Petras
 
Agosto 2009
 
Introduzione
 
I sette anni di guerra statunitense e l'occupazione dell'Iraq sono stati condotti da diverse grandi forze politiche e ispirati da una varietà di interessi imperiali. Tuttavia, questi interessi da soli non spiegano la profondità e la portata delle prolungate, massicce e incessanti distruzioni di un’intera società e la sua riduzione ad uno stato di guerra permanente. Di seguito (in ordine di importanza), la serie delle forze politiche che hanno contribuito alla realizzazione della guerra e alla successiva occupazione statunitense:
 
La forza politica più importante è stata anche la meno apertamente considerata. La Configurazione di Potere Sionista (Zionist Power Configuration - ZPC), in cui spicca il ruolo fondamentale degli ebrei da sempre e incondizionatamente sostenitori della linea dura a favore dello Stato di Israele e nominati nelle posizioni di vertice del Pentagono di Bush (Douglas Feith e Paul Wolfowitz), nei punti operativi chiave presso l'Ufficio del Vicepresidente (Irving - Scooter - Libby), nel Dipartimento del Tesoro (Stuart Levey), nel Consiglio di Sicurezza Nazionale (Elliot Abrams), e una falange di consulenti, di scrittori dei discorsi presidenziali (David Frum), di funzionari subordinati e consiglieri politici al Dipartimento di Stato. Questi impegnati sionisti “interni” sono stati sostenuti da migliaia di funzionari del “prima Israele” a tempo pieno nelle 51 principali organizzazioni ebraiche americane, che costituiscono la Presidents of the Major American Jewish Organizations(PMAJO). Essi hanno apertamente dichiarato come loro priorità assoluta il portare avanti l'agenda di Israele, che, in questo caso, era una guerra degli Usa contro l'Iraq per rovesciare Saddam Hussein, occupare il paese, dividere fisicamente l'Iraq, distruggere la sua capacità militare e industriale ed imporre un regime fantoccio pro-Israele/Usa. Se l'Iraq fosse pulito etnicamente e diviso, come auspicato dal Primo ministro israeliano di estrema destra Benyamin Netanyahu e dal “liberale” Presidente emerito del Consiglio per le Relazioni Estere e militarista-sionista, Leslie Gelb, non ci sarebbero che vari “regimi clienti”.
 
I massimi politici sionisti che hanno promosso la guerra, pur non avendo inizialmente perseguito in modo diretto la politica di distruzione sistematica di ciò che, in effetti, era l'intera civiltà irachena, hanno fornito il loro sostegno e l’elaborazione di una politica di occupazione, che comprende lo smembramento totale dell'apparato dello Stato iracheno e il reclutamento di consulenti israeliani per il passaggio di “competenze” nelle tecniche di interrogatorio, di repressione della resistenza civile e di contro-insurrezione. L’esperienza israeliana ha certamente avuto un ruolo nel fomentare il conflitto etnico e religioso inter-iracheno, che Israele ha padroneggiato in Palestina. Il “modello” israeliano di guerra e occupazione coloniale - l'invasione del Libano nel 1982 - e la pratica della “distruzione totale” con l’uso delle divisioni settarie e di carattere etnico-religioso era già evidente nei famigerati massacri dei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut, che si svolsero sotto la supervisione militare israeliana.
 
La seconda potente forza politica dietro la guerra in Iraq è rappresentata dai militaristi dell’amministrazione civile (come Donald Rumsfeld e il Vicepresidente Cheney) che hanno cercato di estendere la potenza imperiale degli Stati Uniti nel Golfo Persico e di rafforzarne la posizione geopolitica, eliminando un forte sostegno laico e nazionalista alle insorgenze arabe antimperialiste in Medio Oriente. Questi militaristi hanno cercato di estendere le base militari che accerchiano la Russia e controllano in modo deciso le riserve petrolifere irachene come punto di pressione contro la Cina. Essi erano mossi meno dai passati legami del Vicepresidente Cheney con l'industria del petrolio e più interessati al suo ruolo di amministratore delegato della Kellogg Brown and Root, società controllata della Halliburton, gigante nella fornitura alle basi militari, che andava consolidando l'impero degli Stati Uniti attraverso l'espansione in tutto il mondo delle basi militari. Le grandi compagnie petrolifere statunitensi, che temevano di essere tagliate fuori da concorrenti europei e asiatici, desideravano trattare con Saddam Hussein, e alcuni dei sostenitori di Bush nell’industria petrolifera erano già impegnati in traffici illegali con il regime iracheno sotto embargo. L’industria del petrolio non era incline a promuovere l'instabilità della regione con una guerra.
 
La strategia militarista di conquista e occupazione è stata concepita per stabilire una presenza coloniale militare di lungo termine sotto la forma di basi militari strategiche con un significativo e permanente contingente di consiglieri militari coloniali e unità di combattimento. La brutale occupazione coloniale di uno stato laico e indipendente con una forte storia nazionale e un’infrastruttura avanzata, con un sofisticato apparato militare e di polizia, estesi servizi pubblici e un ampio grado di alfabetizzazione ha naturalmente portato alla crescita di un’ampia serie di militanti e movimenti armati che si oppongono all’occupazione. In risposta, i funzionari coloniali statunitensi, la CIA e le Agenzie di Intelligence della Difesa hanno messo a punto la strategia del “divide et impera” (la cosiddetta “soluzione El Salvador” in collaborazione con l'ex ambasciatore e direttore della National Intelligence americana, John Negroponte) fomentando conflitti armati su base settaria e promovendo omicidi interreligiosi per indebolire ogni sforzo indirizzato verso un movimento nazionalista e antimperialista unificato. Lo smantellamento della burocrazia civile e militare è stata progettata dai sionisti dell’amministrazione Bush per consolidare il potere di Israele nella regione e per favorire il sorgere di gruppi islamici militanti, che erano stati repressi dal deposto regime baathista di Saddam Hussein. Israele aveva già padroneggiato questo tipo di strategia in quanto sponsorizzò e finanziò gruppi militanti islamici settari, come Hamas, in opposizione alla laica Organizzazione per la Liberazione della Palestina e preparò il terreno per la lotta settaria tra i palestinesi.
 
L’esito delle politiche coloniali degli Stati Uniti è il finanziamento e la moltiplicazione di una vasta gamma di conflitti interni in modo che mullah, capi tribù, gangster politici, signori della guerra, squadroni della morte e gli espatri proliferassero. La “guerra di tutti contro tutti” ha servito gli interessi delle forze di occupazione Usa. L'Iraq è diventato un bacino di giovani disoccupati armati fra i quali reclutare un nuovo esercito mercenario. La “guerra civile” e il “conflitto etnico” hanno fornito un pretesto agli Stati Uniti e ai loro fantocci iracheni per scaricare centinaia di migliaia di soldati, poliziotti e funzionari del precedente regime (soprattutto se di famiglie sunnite, miste o laiche) e minare le basi per un impiego di tipo civile. Sotto la copertura di una generalizzata “guerra contro il terrorismo”, le forze speciali statunitensi e la CIA hanno diretto squadroni della morte che hanno seminato terrore nella società civile irachena, colpendo chiunque venisse sospettato di criticare il governo fantoccio - in particolare tra le classi istruite e professionali, proprio quegli iracheni maggiormente in grado di ricostruire una repubblica laica e indipendente.
 
La guerra in Iraq è stata condotta da un influente gruppo di ideologi neo-conservatori e neo-liberali con forti legami con Israele. Hanno visto il successo della guerra in Iraq (per successo intendevano lo smembramento totale del paese) come il primo tassello in una serie di guerre per “ri-colonizzare” il Medio Oriente (con le loro parole: “per ridisegnare la mappa”). Hanno mascherato la loro ideologia imperiale con la sottile patina di retorica sulla “promozione della democrazia” in Medio Oriente (escludendo, ovviamente, le politiche non-democratiche della loro “patria” Israele nei confronti dei palestinesi sottomessi). Assimilando le ambizioni egemoniche regionali israeliane con gli interessi imperiali degli Stati Uniti, i neo-conservatori e i loro compagni di viaggio neo-liberali nel Partito Democratico prima sostenevano il Presidente Bush e dopo il Presidente Obama nella loro escalation delle guerre contro Afghanistan e Pakistan. Hanno unanimemente sostenuto la feroce campagna di bombardamenti di Israele contro il Libano, gli attacchi aerei e di terra e il massacro di migliaia di civili intrappolati a Gaza, i bombardamenti degli impianti siriani e la grande pressione (di Israele) per un attacco preventivo su vasta scala contro l’Iran.
 
I sostenitori statunitensi delle guerre multiple e in successione in Medio Oriente e in Asia meridionale hanno ritenuto di poter scatenare tutta la forza del loro potere distruttivo di massa soltanto dopo essersi assicurati il controllo totale della loro prima vittima, l'Iraq. Erano certi che la resistenza irachena sarebbe crollata rapidamente dopo 13 anni di sanzioni brutali e riducenti alla fame imposte alla Repubblica da parte degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite. Al fine di consolidare il controllo imperiale, i politici americani hanno deciso di ridurre al silenzio permanente tutti i civili iracheni dissidenti indipendenti. Si sono quindi indirizzati al finanziamento del clero sciita e degli assassini sunniti tribali, ingaggiando decine di migliaia di mercenari privati tra i signori della guerra peshmerga curdi per effettuare assassini selettivi di leader dei movimenti della società civile.
 
Gli Stati Uniti hanno creato e addestrato un esercito di 200.000 unità dell’esercito del fantoccio coloniale iracheno composto quasi interamente da sciiti, escludendo i militari esperti iracheni di estrazione laica sunnita o cristiana. Una conseguenza poco conosciuta della costituzione di questi squadroni della morte e dei fantocci iracheni addestrati e finanziati dagli americani è stata la virtuale distruzione dell’antica popolazione cristiana irachena che è stata deportata, le sue chiese bombardate e i suoi leader, vescovi e intellettuali, accademici e scienziati assassinati o costretti all'esilio. Gli Stati Uniti e i suoi consulenti israeliani sono stati ben consapevoli del fatto che i cristiani iracheni avevano svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo storico dei movimenti laici, nazionalisti, anti-britannici/anti-monarchici e la loro eliminazione, come forza influente durante i primi anni di occupazione, non è stata casuale. Il risultato delle politiche statunitensi è stata l’eliminazione della maggior parte dei dirigenti e dei movimenti laici, democratici e antimperialisti e la presentazione della loro rete omicida di collaboratori “etnico-religiosi” come indiscussi “partner” nel sostenere una presenza coloniale americana di lungo termine in Iraq. Con i loro fantocci al potere, l'Iraq potrebbe fungere da piattaforma di lancio per la ricerca strategica di altri “domini”(Siria, Iran, Repubbliche dell'Asia centrale...).
 
La costante e sanguinosa epurazione dell’Iraq sotto occupazione ha causato l'uccisione di 1,3 milioni di civili iracheni nel corso dei primi 7 anni dopo l’invasione decisa da Bush nel marzo 2003. Fino a metà del 2009, l’invasione e l'occupazione dell'Iraq è ufficialmente costata al Tesoro americano oltre 666 miliardi di dollari. Questa spesa enorme ne testimonia la centralità all’interno della più larga strategia imperiale americana per l'intero Medio Oriente e per la regione dell’Asia Centro-Meridionale. La politica di Washington di politicizzazione e di militarizzazione delle differenze etnico-religiose, di armare e incoraggiare le rivalità tra i leader tribali religiosi ed etnici affinché si impegnino in salassi reciproci è servita a distruggere l'unità e la resistenza nazionale. La tattica del “divide et impera” e l’affidarsi a organizzazioni sociali e religiose retrograde, è la più comune e più conosciuta pratica di conquista e sottomissione di uno Stato unificato, nazionalista e sviluppato. Annientare lo Stato nazionale, distruggere la coscienza nazionale e incoraggiare primitive fedeltà etnico-religiose, feudali e regionali, ha richiesto l'eliminazione sistematica delle principali fonti della coscienza nazionale, della memoria storica e del pensiero laico e scientifico. Provocare l'odio etnico-religioso ha portato alla distruzione di matrimoni misti, di comunità e istituzioni miste con le loro antiche amicizie personali e legami professionali nei diversi contesti. L'eliminazione fisica di docenti accademici, scrittori, insegnanti, intellettuali, scienziati e professionisti, soprattutto medici, ingegneri, avvocati, giuristi e giornalisti, è stata decisiva per imporre le regole etnico-religiose allo stato di occupazione. Per stabilire una posizione dominante di lungo periodo e sostenere i governi clienti etnico-religiosi, l’intero edificio culturale preesistente, che aveva sostenuto uno Stato indipendente nazionale laico, è stato fisicamente distrutto dagli Stati Uniti e dai loro fantocci iracheni. Ciò ha incluso la distruzione delle biblioteche, degli uffici per il censimento e degli archivi di tutti i documenti catastali e giudiziari, i servizi sanitari, i laboratori, le scuole, i centri culturali, le strutture mediche e, soprattutto, l'intera classe sociale dei professionisti scientifico-letterario-umanistici. Centinaia di migliaia di professionisti iracheni con le loro famiglie sono stati cacciati dal terrore verso un esilio interno ed esterno. Tutti i finanziamenti alle istituzioni nazionali, laiche, scientifiche ed educative sono stati tagliati. Gli squadroni della morte hanno praticato l'assassinio sistematico di migliaia di accademici e professionisti sospettati del minimo dissenso, del più lieve sentimento nazionale; chiunque possedesse le minime capacità di ricostruzione della repubblica venne bollato.
 
La distruzione di una civiltà araba moderna
 
L’Iraq indipendente e laico possedeva il più avanzato sistema scientifico-culturale del mondo arabo, nonostante il carattere repressivo e poliziesco del governo di Saddam Hussein. C’era un sistema di assistenza sanitaria nazionale, di istruzione pubblica universale e servizi di welfare generosi, combinati con livelli di parità tra i sessi senza precedenti. Questo ha contrassegnato il carattere avanzato della società civiltà irachena alla fine del XX secolo. La separazione tra Stato e Chiesa e la rigorosa tutela delle minoranze religiose (cristiani, assiri ed altri) in netto contrasto con quanto provocato dall'occupazione degli Stati Uniti e la loro distruzione delle strutture governative e civili irachene. Il duro dominio dittatoriale di Saddam Hussein ha pertanto diretto una civiltà evoluta moderna in cui il lavoro scientifico avanzato è andato di pari passo con una forte identità nazionale e antimperialista. Ciò si è espresso soprattutto nella solidarietà del popolo e del regime iracheno per le sofferenze del popolo palestinese sotto il dominio e l'occupazione israeliana.
 
Un mero “cambio di regime”non poteva estirpare questa cultura laica e repubblicana profondamente radicata e avanzata in Iraq. I pianificatori di guerra statunitensi ed i loro consulenti israeliani erano ben consapevoli del fatto che l’occupazione coloniale avrebbe fatto aumentare la coscienza nazionale irachena a meno che la nazione laica non fosse stata distrutta e, da qui, l' assunto imperiale di sradicare e distruggere i detentori della coscienza nazionale e di eliminare fisicamente gli istruiti, i dotati, gli scienziati, ovvero gli elementi maggiormente laici della società irachena. La regressione è diventata per gli Stati Uniti lo strumento principale per imporre i loro fantocci coloniali, con le loro primitive lealtà “pre-nazionali”, al potere in una Baghdad culturalmente purgata e spogliata dei suoi strati sociali più sofisticati e nazionalistici. Secondo il Centro studi Al-Ahram del Cairo, più di 310 scienziati iracheni sono stati eliminati nel corso dei primi 18 mesi di occupazione - una cifra che il Ministero per l'Educazione iracheno non ha contestato.
 
Un altro rapporto denuncia l'uccisione di oltre 340 intellettuali e scienziati tra il 2005 e il 2007. I bombardamenti degli istituti di istruzione superiore hanno spinto in basso le iscrizioni fino al 30% rispetto alle cifre pre-invasione. In un attentato nel gennaio 2007 alla Baghdad Mustansiriya University, 70 studenti sono stati uccisi con centinaia di feriti. Queste cifre hanno costretto l'UNESCO ad avvertire che il sistema universitario in Iraq era sull'orlo del collasso. Il numero di autorevoli scienziati e professionisti iracheni che hanno lasciato il paese si avvicina a 20.000. Dei 6.700 professori universitari iracheni fuggiti dal paese dal 2003, il Los Angeles Times ha riferito che all’ottobre 2008 solo in 150 erano tornati. Nonostante le assicurazioni statunitensi di un miglioramento della sicurezza, il 2008 è stato contrassegnato da numerosi omicidi, tra cui l'unico neurochirurgo di Bassora, la seconda più grande città irachena, il cui corpo è stato gettato nelle strade della città.
 
I dati approssimativi su accademici, scienziati e professionisti iracheni assassinati da Stati Uniti e forze di occupazione alleate, e dalle milizie e forze oscure che essi controllano, sono tratti da un elenco pubblicato dal Pakistan Daily News (www.daily.pk) il 26 novembre 2008. Questa lista costituisce una lettura molto scomoda della realtà dell’eliminazione sistematica degli intellettuali in Iraq sotto il tritacarne dell’occupazione statunitense.
 
Le uccisioni
 
L'eliminazione fisica di un individuo tramite l’assassinio è una forma estrema di terrorismo, che ha effetti di ampia portata in tutta la comunità da cui proviene l'individuo - in questo caso il mondo degli intellettuali iracheni, gli accademici, i professionisti e i leader creativi nel campo artistico e scientifico. Per ogni intellettuale iracheno ucciso, migliaia di iracheni istruiti sono fuggiti dal paese o hanno abbandonato il loro lavoro per un’attività più sicura e meno vulnerabile.
 
Baghdad era considerata la “Parigi” del mondo arabo, in termini di cultura e arte, di scienza e istruzione. Negli anni ‘70 e ‘80, le sue università erano l'invidia del mondo arabo. La campagna statunitense “shock and awe” [colpisci e terrorizza] piovuta su Baghdad ha suscitato emozioni simili ad un bombardamento aereo del Louvre, della Sorbona e delle biblioteche più grandi d'Europa. L’Università di Baghdad era fra le più prestigiose e produttive nel mondo arabo. Molti dei suoi accademici erano in possesso di un dottorato ed impegnati in studi post-dottorato all'estero presso prestigiose istituzioni. Ha formato e laureato molti dei migliori professionisti e scienziati del Medio Oriente.
 
Anche sotto la morsa mortale delle sanzioni economiche imposte da Stati Uniti e Nazioni Unite che hanno affamato l'Iraq nei 13 anni precedenti l'invasione del marzo 2003, migliaia di giovani laureati e professionisti vennero in Iraq per la formazione post-laurea. Giovani medici provenienti da tutto il mondo arabo hanno ricevuto una formazione medica avanzata nei suoi istituti. Molti dei suoi accademici hanno presentato lavori scientifici alle principali conferenze internazionali e pubblicato su riviste prestigiose. Più importante ancora, l’Università di Baghdad ha formato e mantenuto una cultura scientifica laica altamente rispettata, scevra da discriminazioni settarie - con docenti accademici di tutte le provenienze etniche e religiose.
 
Questo mondo è stato ridotto per sempre in frantumi: sotto l'occupazione americana, fino a novembre 2008, 83 docenti e ricercatori che insegnavano all'Università di Baghdad sono stati uccisi e diverse migliaia di loro colleghi, studenti e familiari sono stati costretti a fuggire.
 
La selezione in base alla disciplina insegnata dei docenti assassinati
 
Nel novembre 2008 un articolo pubblicato dal Pakistan Daily News elencava i nomi di un totale di 154 prestigiosi docenti accademici di Baghdad, rinomati nel loro campo, assassinati. Complessivamente, un totale di 281 ben noti intellettuali che insegnavano nelle università in Iraq sono caduti vittima degli “squadroni della morte” sotto l'occupazione statunitense.
 
Prima dell’occupazione, l’Università di Baghdad possedeva, per ricerca e insegnamento, la migliore Facoltà di medicina in tutto il Medio Oriente, che attraeva centinaia di giovani medici per la formazione avanzata.
 
Tale programma è stato devastato durante l'ascesa del regime degli squadroni della morte Usa, con poche prospettive di recupero. Di quelli uccisi, il 25% (21) erano i professori e docenti più anziani della Facoltà di medicina dell'Università di Baghdad, la percentuale più alta di qualsiasi facoltà. La seconda percentuale più alta per professori e ricercatori massacrati è la Facoltà di ingegneria (12), seguita dai migliori accademici delle discipline umanistiche (10), scienze fisiche e sociali (8 ciascuna), e quelle educative (5). I restanti migliori docenti assassinati all'Università di Baghdad sono suddivisi tra le facoltà di agraria, economia, scienze motorie, della comunicazione e degli studi religiosi.
 
In tre altre università di Baghdad, 53 docenti di alto livello sono stati massacrati, di cui 10 nella Facoltà delle scienze sociali, 7 in giurisprudenza, 6 ciascuno in quella di medicina e scienze umane, 9 in quella di fisica, 5 in ingegneria. Il Segretario della Difesa Rumsfeld, il 20 agosto 2002 in una battuta prima dell’invasione diceva "... si deve supporre che essi (i ricercatori) non stiano giocando al 'Gioco delle pulci' (un gioco da bambini)", affermazione che giustifica la sanguinosa purga degli scienziati iracheni nei campi della fisica e chimica. Un inquietante segnale del macello accademico che sarebbe seguito all’invasione.
 
Analoghe sanguinose purghe di accademici si sono verificate in tutte le università della provincia: 127 anziani accademici e ricercatori sono stati assassinati in diverse rinomate università a Mosul, Kirkuk, Bassora e altrove. Le università di provincia con il maggior numero di elementi di spicco uccisi sono state nelle città dove i militari statunitensi, britannici e i mercenari curdi loro alleati erano più attivi: a Bassora (35), Mosul (35), Diyala (15) e Al-Anbar (11).
 
L'esercito iracheno e gli squadroni della morte suoi alleati hanno effettuato la maggior parte delle uccisioni di accademici nelle città sotto controllo USA o degli “alleati”. L'uccisione sistematica di docenti accademici è avvenuta secondo un piano, su scala nazionale, interdisciplinare, per distruggere le basi culturali ed educative di una civiltà araba moderna. Gli squadroni della morte che hanno effettuano la maggior parte di questi omicidi erano gruppi etnico-religiosi primitivi, pre-moderni, “sciolti” o strumentalizzati dagli strateghi militari americani per spazzare via ogni intellettuale e specialista politicamente consapevole e con sentimenti nazionali, che avrebbero potuto perseguire un programma per la ricostruzione di una moderna, laica e indipendente repubblica unitaria.
 
Nel tentativo angoscioso di impedire l'invasione degli Stati Uniti, la Direzione nazionale irachena di controllo il 7 dicembre 2002 fornì un elenco alle Nazioni Unite che individuava oltre 500 fra i principali scienziati iracheni. Ci sono pochi dubbi che questo elenco sia diventato un elemento fondamentale nell’elenco predisposto dai militari americani per eliminare l’élite scientifica in Iraq. Nel suo famoso intervento alle Nazioni Unite che precedette l’invasione, il Segretario di Stato Colin Powell citò un elenco di oltre 3.500 scienziati e tecnici iracheni che avrebbero dovuto essere “accolti” per impedire che la loro esperienza venisse utilizzata da altri paesi. Gli Stati Uniti avevano addirittura predisposto uno stanziamento di centinaia di milioni di dollari, prelevati dal denaro iracheno di “Oil for Food” in possesso delle Nazioni Unite per promuovere programmi di “ri-educazione civile” per riqualificare gli scienziati e gli ingegneri iracheni. Questi programmi fortemente propagandati non sono mai stati attuati seriamente. Divennero evidenti modi meno costosi di contenimento di quello che un esperto di politica americana ha definito “eccesso di scienziati, ingegneri e tecnici” dell’Iraq (RANSAC Policy Update Aprile 2004). Gli Stati Uniti avevano deciso di adottare ed espandere su scala industriale un'operazione segreta del Mossad israeliano volta ad assassinare gli scienziati chiave iracheni selezionati.
 
Le campagne “Surge” e “Peak Assassination”: 2006-2007
 
L’ondata di terrore contro i docenti accademici coincide con il rinnovo dell’offensiva militare statunitense a Baghdad e nelle province. Del numero complessivo di omicidi fra gli accademici di Baghdad per i quali il dato è conosciuto (110 noti intellettuali trucidati), quasi l'80% (87) si è verificato nel 2006 e 2007. Una proporzione simile si ha per le province, con il 77% su un totale di 84 studiosi uccisi al di fuori della capitale durante lo stesso periodo. Lo schema è chiaro: il tasso di omicidi tra gli accademici cresce in concomitanza all’organizzazione da parte delle forze di occupazione di un esercito mercenario iracheno e delle forze di polizia e alla fornitura di denaro per la formazione e il reclutamento di uomini e milizie di tribù rivali sciite e sunnite come mezzo per ridurre le vittime americane e per liberarsi di potenziali dissidenti critici verso l’occupazione.
 
La campagna di terrore contro il mondo accademico ha registrato un’intensificazione a metà del 2005 ed ha raggiunto il suo picco nel biennio 2006-2007, causando una fuga di massa all'estero di decine di migliaia di studiosi, scienziati, professionisti iracheni e delle loro famiglie. L’intera facoltà di medicina si è rifugiata in Siria e altrove. Chi non poteva permettersi di abbandonare i genitori anziani o i parenti, rimanendo in Iraq, ha adottato misure straordinarie per celare la propria identità. Alcuni hanno scelto di collaborare con le forze di occupazione o con il regime fantoccio nella speranza di essere protetti o di ottenere il permesso di emigrare con la famiglia negli Stati Uniti o in Europa, anche se gli europei, soprattutto gli inglesi, sono poco inclini ad accettare studiosi iracheni. Dopo il 2008, c'è stato un netto calo degli omicidi nel mondo accademico - con soli 4 assassinati l'anno. Questo riflette la fuga in massa degli intellettuali iracheni che ora vivono all’estero o in clandestinità piuttosto che un cambiamento di politica da parte degli Stati Uniti e dei suoi fantocci mercenari. Di conseguenza, le strutture di ricerca irachene sono state devastate. Le vite di chi è rimasto fra il personale docente, compresi tecnici, bibliotecari e studenti sono state devastate, con poche prospettive di lavoro per il futuro.
 
La guerra e l'occupazione statunitense dell'Iraq, come i Presidenti Bush e Obama hanno dichiarato, è un “successo” - una nazione indipendente di 23 milioni di cittadini è stata occupata con la forza, un regime fantoccio vi è stato impiantato, truppe mercenarie coloniali obbediscono ad ufficiali americani ed i campi petroliferi sono stati messi in vendita. Tutte le leggi nazionali irachene che proteggevano il suo patrimonio, i suoi tesori culturali e risorse nazionali sono state annullate. Gli occupanti hanno imposto una “costituzione” favorevole all'impero degli Stati Uniti. Israele ed i suoi lacchè sionisti nelle amministrazioni di Bush e Obama celebrano la scomparsa di un avversario moderno... e la trasformazione dell'Iraq in un deserto politico-culturale. In linea con un presunto accordo presentato dal Dipartimento di Stato americano e dal Pentagono ai collezionisti influenti del Consiglio Americano per la Politica Culturale nel gennaio 2003, i tesori depredati dell’antica Mesopotamia hanno “trovato” la loro strada nelle collezioni delle élite di Londra, New York e altrove. I collezionisti possono ora anticipare il saccheggio dell’Iran.
 
Avvertimento per l'Iran
 
L'invasione, l'occupazione e la distruzione di una moderna civiltà scientifico-culturale, come esisteva in Iraq, è un preludio di ciò che il popolo iraniano può aspettarsi se e quando un attacco militare USA-Israele si verificasse. La minaccia imperiale alle basi culturali e scientifiche della nazione iraniana è stata del tutto assente dal resoconto sulle manifestazioni di protesta dei benestanti studenti iraniani e delle loro ONG di matrice americana nella “Rivoluzione dei rossetti” post elettorale. Essi dovrebbero tenere a mente che nel 2004, gli istruiti ed i sofisticati iracheni di Baghdad si consolavano con un fatalmente errato ottimismo dicendo “almeno non siamo come l'Afghanistan”. Le stesse élite sono ora negli squallidi campi profughi in Siria e in Giordania e il loro paese è quello più simile all’Afghanistan rispetto ad ogni altro in Medio Oriente. La raggelante promessa del presidente Bush nell’aprile 2003, di trasformare l'Iraq nell’immagine del “nostro appena liberato Afghanistan” è stata mantenuta. E le indicazioni che i consiglieri dell’amministrazione USA hanno riesaminato la politica del Mossad israeliano di assassinio selettivo degli scienziati iraniani, dovrebbe portare gli intellettuali liberali filo-occidentali di Teheran a riflettere seriamente sulla lezione impartita dalla campagna omicida che ha praticamente eliminato gli scienziati e i docenti accademici iracheni nel corso del 2006 - 2007.
 
Conclusione
 
Che cosa hanno da guadagnare gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna e Israele) nello stabilire in Iraq un regime retrogrado protetto, su basi etnico-clericali e strutture socio-politiche medievali? In primo luogo, l'Iraq è diventato un avamposto per l'impero. In secondo luogo, si tratta di una regime debole e incapace di impegnare Israele sul piano del predominio economico e militare nella regione e senza la volontà di mettere in discussione la pulizia etnica in corso degli arabi nativi palestinesi da Gerusalemme, Cisgiordania e Gaza. Terzo, la distruzione delle istituzioni scientifiche, accademiche, culturali e giuridiche di uno Stato indipendente significa accrescere la dipendenza dalle corporazioni multinazionali occidentale e le loro infrastrutture tecniche – favorendo la penetrazione economica imperiale e lo sfruttamento.
 
Alla metà del XIX secolo, dopo le rivoluzioni del 1848, il sociologo francese conservatore Emil Durkheim riconosceva che la borghesia europea si era confrontata con un conflitto di classe in aumento e una sempre più anticapitalista classe operaia. Durkheim osservava che, qualunque fossero i suoi dubbi filosofici circa la religione e il clericalismo, la borghesia avrebbe dovuto utilizzare i miti della religione tradizionale per “creare” coesione sociale e tagliare dal basso la polarizzazione di classe. Egli ha invitato l’istruita e sofisticata classe capitalista parigina a rinunciare al suo rifiuto del dogma religioso oscurantista a favore di una religione strumentale in funzione del mantenimento del suo predominio politico. Allo stesso modo, gli strateghi degli Stati Uniti, tra i quali i sionisti del Pentagono, hanno strumentalizzato i mullah tribali, le forze etnico-religiose per distruggere la leadership politica nazionale laica e la cultura avanzata dell’Iraq, al fine di consolidare il dominio imperiale - anche se questa strategia ha richiesto l’eliminazione delle classi scientifiche e professionali. Il regime imperiale contemporaneo degli Stati Uniti è basato sul sostegno ai settori socialmente e politicamente più arretrati della società e l’applicazione delle più avanzate tecnologie di guerra.
 
Consiglieri israeliani hanno svolto un ruolo importante nell’addestrare le forze di occupazione USA in Iraq sulle pratiche di contro-guerriglia urbana e di repressione dei civili, sfruttando i loro 60 anni di esperienza. Il massacro di centinaia di famiglie palestinesi a Deir Yasin, nel 1948, è stato l’emblema della eliminazione sionista di centinaia di villaggi agricoli produttivi, che erano stati abitati per secoli da un popolo nativo con la sua civiltà autoctona e suoi legami culturali con la terra, al fine di imporre un nuovo ordine coloniale. La politica di sradicamento totale dei palestinesi è un punto centrale nei consigli di Israele ai politici americani per l’Iraq. Il suo messaggio è stato fatto arrivare dai suoi accoliti sionisti nelle amministrazioni Bush e Obama, ordinando lo smembramento di tutta la moderna burocrazia civile e statale irachena e usando squadroni della morte pre-moderni e tribali composti da curdi ed estremisti sciiti per eliminare le moderne università e gli istituti di ricerca di questa nazione a pezzi.
 
La conquista imperiale degli Stati Uniti in Iraq è costruita sulla distruzione di una repubblica laica moderna. Il deserto culturale che rimane (un biblico “deserto spaventoso” intriso del sangue dei preziosi studiosi dell’Iraq) è controllato da mega-truffatori, mercenari criminali che si presentano come “funzionari iracheni”, personaggi tribali illetterati e figure religiose medievali. Essi operano sotto la guida e la direzione dei laureati di West Point che tracciano “schemi per l’impero”, formulati dai laureati di Princeton, Harvard, Johns Hopkins, Yale e Chicago, desiderosi di servire gli interessi delle corporazioni multinazionali americane ed europee.
 
Questo si chiama “sviluppo combinato e diseguale”: Il matrimonio dei mullah fondamentalisti con i sionisti della Ivy League [le otto più prestigiose università private degli USA, NdT] al servizio degli Stati Uniti.
 
 


(Il separatismo su base etnica-razziale trionfa da vent'anni sul suolo europeo. Tale ideologia - antagonista al modello di Stato laico di diritto per tutti i cittadini, eventualmente dotato di plurilinguismo e autonomie speciali, che nel bene o nel male pareva essere prevalso in Europa fino a tutta la Guerra Fredda - è da sempre fomentata dalla politica estera tedesca. Non fa eccezione il separatismo sudtirolese, che cerca il distacco dall'Italia e l'annessione all'Austria. Il caso kosovaro potrebbe legittimamente spianargli la strada.

Auf deutsch: Das deutsche Blutsmodell. Österreich und der Südtirol-Separatismus


The German Ethnic Model (III)
 
2009/11/26

BOLZANO/VIENNA/BERLIN
 
(Own report) - Ethnic chauvinist forces in Austria are demanding the practical application of German "ethnic rights" to the German speaking population of northern Italy. According to these forces, the government in Vienna should issue Austrian passports to the approx. 300,000 northern Italians (South Tyroleans), whose ancestors had been Austrian up until the First World War. Germany has a long practice of absorbing the citizens of its East European neighboring countries, but this would be the first time involving a West European neighbor. This demand accompanies talks about the addition of a paragraph to the Austrian Constitution, declaring Vienna the "protective power" of the "South Tyroleans" - a direct infringement on the national sovereignty of the EU member nation, Italy. At the same time demands are gaining momentum in South Tyrol for an ethnic based right of secession, also along the lines of German concepts. Already last spring, the word was going around in Northern Italian Green Party circles that the foundation of a "Free State South Tyrol," along the lines of the Liechtenstein model was being considered. The ethnic chauvinist rightwing is seeking annexation by Austria.

Protective Power

Austria's new "South Tyrol" debate originated with plans to amend the country's constitution to include a protective power clause. This would mean that Austria would officially declare itself the "protective power" of all German language citizens of northern Italy. These plans, with which Vienna would presume a de facto right of intervention in northern Italy, have been in discussion for several years;[1] but a corresponding 2006 resolution, accepted by nearly all parties represented in parliament (SPÖ, ÖVP; BZÖ and FPÖ), has yet to be implemented. The ruling government coalition partner, Austrian People's Party (ÖVP), would now like to see it implemented. The spokesperson for South Tyrolean Affairs of the conservative ÖVP, Hermann Gahr, announced "that a common resolution will be tabled in parliament by December."[2] The protective power claim will not be merely inserted into the preamble of the constitution, but will be expounded upon in its own paragraph. Protests from Rome, according to Gahr, have no impact. The South Tyrolean Affairs spokesperson of the ÖVP declared "this concerns the acknowledgement of Austria's political approach, already in practice for decades."

Convergence

The debate has grown sharper through a demand by the FPÖ. The party tabled a motion for a resolution in the National Council in Vienna, in which all "former Austrians" in northern Italy, and their descendents be granted Austrian citizenship. "Former Austrians" are former citizens of the Habsburg Empire, to which South Tyrol had belonged until the end of World War I. Nearly all of the German speaking citizens in northern Italy trace their origins back to this group. The FPÖ's motion, calling for placing the approx. 300,000 German speaking North Italians under the protection of Vienna, by issuing them Austrian passports, is under consideration in the Interior Committee of the Austrian National Council. As Werner Neubauer, speaker for South Tyrolean Affairs of the FPÖ, openly declared, this motion is "about convergence."[3] Already in October, the South Tyrolean Freedom, a northern Italian party, calling for South Tyrol's secession from Italy, was in Vienna, according to the party, for "talks on the question of double citizenship" with "the parties represented in the Austrian National Council." According to a regional parliamentarian of that secessionist organization, "a basic approval of dual citizenship for South Tyroleans could be discerned among all of the parties present at the talks."[4]

German Practice

The ethnic chauvinist forces in Vienna and Northern Italy, who support these plans, can invoke the practice in use by Germany since the 1990s. The Federal Republic of Germany issues German speaking citizens of its eastward neighboring countries German papers, transforming, for example 200,000 former Poles into Germans. This German practice, which completely ignores the national sovereignty of its bordering countries, has repeatedly been the source of tensions in eastern and southeastern Europe. Back in the 1990s, Italy offered Italian speaking Slovenians the possibility of obtaining Italian citizenship. In Hungary measures are currently being planned that would affect approx. 500,000 Slovakians and 1.3 million Rumanians.[5] Rumania, on the other hand is toying with the idea of granting about a million Moldavians ("ethnic Rumanians") Rumanian citizenship. (german-foreign-policy.com reported.[6]) Moldavia has a population of approx. 3.3 million.

German Tradition

While claims of protective power and the incorporation of Italian citizens are being discussed in Austria, demands for an ethnic based right of secession are gaining momentum in Northern Italy. In Bolzano, South Tyrol, the November 22 - 23, 1969 referendum leading to the so-called autonomy package will soon be commemorated. This package granted extensive special rights to the German speaking minority in Northern Italy. The German minority subsequently renounced its plans to secede - but only temporarily, as the current development shows. On the occasion of the 40 anniversary celebrations, demands for an ethnic based "right to self-determination" can be heard, granting ethnic minorities the right of decision to secede from the nation. International law does not recognize such a right; but it corresponds to the tradition of German ethnic policy. (German-foreign-policiy.com reported.[7]) "Cheers to the package, but we prefer the road to freedom", one could hear in the Union for South Tyrol Party, which is demanding the "right to self-determination," including an option to secede from Italy.[8]

Courage to Change

Last Saturday's meeting of the "South Tyrolean Freedom" can be considered paradigmatic. The "South Tyrolean Freedom" includes the milieu of the former "South Tyrolean Bombers", ethnic chauvinist terrorists, who, in the 1960s and later, were pursuing South Tyrol’s secession from Italy with - occasional deadly - bomb attacks. At the meeting, Hermann Gahr, ÖVP speaker for South Tyrolean Affairs, demanded more "courage for change in South Tyrol". The former Austrian justice minister demanded that Vienna intensify its struggle for the "preservation and development of self determination of the South Tyrolean people separated from Tyrol." A parliamentarian of the "South Tyrolean Freedom" in the state assembly declared that there remains only "10 to 15 years" to "exercise the right to self-determination" of the German speaking population because of the steady influx of "foreigners".[9] The South Tyrolean Freedom has observer status in the "European Free Alliance" that unites organizations from all over Europe seeking secession. In the European Parliament, the "Alliance" cooperates with the German Green Party in a parliamentary caucus. (This map excerpt is taken from the webpage of the "European Free Alliance" presenting a "Tyrol" formed through the unification of the Austrian federal land, Tyrol, with South Tyrol joining a new Greater Germany.)

Liechtenstein Model

These current demands for secession are not limited to ethnic rights. Already last spring, Green Party circles in Northern Italy were discussing the founding of a "Free State South Tyrol", "Liechtenstein Model".[10] The development shows the real purpose behind the "South Tyrolean Autonomy", so heavily praised in Berlin. Whereas Germany is repeatedly using the South Tyrolean autonomy rights as a model for the peaceful settlement of secessionist conflicts while safeguarding the territorial integrity of the countries concerned, the current debate in Austria and Northern Italy show that the secessionist potential has only been suppressed - until there is another opportunity to secede. This is not only disastrous for Italy, but for all those states whose minorities seek advice on autonomy rights and their implementation in Bolzano - particularly in the "European Academy Bozen". Among those who sought advice over the past few years were Iraq [11] and Tibetan separatists [12]. Godfather of the founding of this "European Academy Bozen" was the Foreign Ministry of the Federal Republic of Germany. The academy cooperates with front institutions of Berlin's ethnic chauvinist foreign policy, including the European Center for Minority Issues [13] as well as the Federal Union of European Nationalities [14].

[1] see also Schutzmacht-Klausel
[2] "Schutzmacht für Südtirol kommt in die Verfassung"; Tiroler Tageszeitung 15.11.2009
[3] Diplomatische Spannungen wegen Südtirol-Engagement; Tiroler Tageszeitung 23.11.2009
[4] JA zur doppelten Staatsbürgerschaft: In Wien bereits Gespräche mit allen Parteien geführt; www.suedtiroler-freiheit.com 25.11.2009
[5] see also The German Ethnic Model (I)
[6] see also Das deutsche Blutsmodell (II)
[7] see also Self DeterminationLogik der Dekomposition and Moral Basis
[8] "Paket in Ehren, aber besser der Freiheit entgegen"; Südtirol Online 23.11.2009
[9] "Für Selbstbestimmungsrecht bleiben uns noch 10 bis 15 Jahre"; Südtirol Online 22.11.2009
[10] "Eine überaus reizvolle Idee"; ff - Das Südtiroler Wochenmagazin 12/2009
[11] see also Multi-Partisan Directorate
[12] see also Strategies of Attrition (III) and À la Südtirol
[13] see also Hintergrundbericht: Das Europäische Zentrum für Minderheitenfragen
[14] see also Freund und KollegeSchwelende KonflikteCultivating Relationships and Hintergrundbericht: Die Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen



Un viaggio in Kosovo 

1) Viaggio di solidarietà nel "Kosovo liberato" - Novembre 2009 (Enrico Vigna)
2) SoS Kosovo! (Alessandro Di Meo)


=== 1 ===


www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 09-12-09 - n. 298

Viaggio di solidarietà nel "Kosovo liberato" - Novembre 2009
 
Dopo molto tempo, avendo finalmente riavuto l'assegnazione della scorta militare il 23 ed il 24 novembre, sono potuto tornare nel Kosovo Meohija per continuare i Progetti di solidarietà, che la nostra Associazione "SOS Yugoslavia - SOS Kosovo Metohija" ha nella provincia serba da molti anni, provincia autoproclamatasi indipendente dallo scorso anno, sotto la protezione della NATO.
 
Nello specifico il viaggio doveva proseguire e rafforzare il Progetto con l'Associazione "Sclerosi Multipla del Kosovo", il Progetto "Decani Enclavi Metohija" ed un incontro all'enclave di Gorazdevac per riprendere una possibilità di solidarietà del Progetto "Gorazdevac"; oltre ad una visita ad una famiglia del Progetto "Figli dei rapiti".
 
Non tutto è andato come si era programmato e ne illustro i motivi, che sono strettamente legati alla situazione sul campo, di una realtà tra l'assurdo e l'incredibile, ma nella sostanza terribile per la minoranza serba che là vive e resiste, giorno per giorno, ma non si sa ancora per quanto.
 
Il viaggio era organizzato insieme all'Associazione Sclerosi Multipla del Kosmet, la delegazione era formata da Ilija Spiric, Presidente della stessa e nostro referente, da Jasmina, Presidente dell'Associazione per la Sumadia, da Rajka nostra referente dei Progetti in Serbia, oltre ad altri membri dell'Associazione di SM e KG, a cui si è aggiunto Alessandro di Roma.
 
Quanto successo è significativo della situazione e della vita dei serbi nel "nuovo Kosovo democratico".
 
La possibilità della scorta (che, per informazione, è decisa e stabilita dalle Forze Internazionali KFOR/EULEX), ci era stata data per i giorni 23 e 24 novembre, con orari e percorsi fissi e prestabiliti, come sempre forniti in anticipo e per iscritto. La novità delle ultime settimane è che le scorte sono ora affidate alla KPS (Kosovo Police Service, Forze Polizia del Kosovo), cioè a poliziotti albanesi kosovari, TUTTI ex guerriglieri dell'UCK, cioè come se ad un rapinatore fosse affidata la sicurezza di una banca e della gente all'interno. Questa nuova situazione è legata ai motivi di sganciamento dei vari paesi dell'UE dalla "missione Kosovo", a causa dei pesanti ed ormai decennali costi ed all'evidenza del suo sostanziale fallimento, seppur non ammissibile ufficialmente. Per poter perseguire questo, viene detto e sbandierato che ormai la situazione è normalizzata, gli "standard" democratici raggiunti e la coesistenza etnica, sia pure con qualche problema (!) è raggiunta.
 
In questo modo soprattutto Francia, Germania, Inghilterra, Italia, stanno man mano smobilitando e lasciando il campo totale agli uomini dell'ex UCK, come braccio armato e politico degli USA, che al contrario non ha nessuna intenzione di smobilitare, non per niente Camp Bondsteel, la base USA più grande dai tempi del Vietnam è stata concepita per 99 anni!
 
La mattina del 23/11 arriviamo a Mitrovica nord, dove inizia la protezione delle scorte e formiamo con gli amici di lì, la delegazione per il viaggio; neanche scesi dal furgone ci viene comunicato dalla scorta del KPS che abbiamo 5 minuti per fare benzina e ripartire, altrimenti loro se ne vanno.
 
Questo è un inizio che si replicherà per tutta la giornata; salta così l'incontro con i soci dell'ASM-KM e la consegna del sostegno economico per il Progetto Sclerosi Multipla Kosovo, che avevo con me, che decidiamo di rimandare al giorno dopo.
 
Da quel momento comincia per la nostra delegazione un itinerario non certo turistico per le strade del Kosovo Metohija, per fare 60 Km ci abbiamo messo 6 ore! Con continue discussioni, fermate lungo le strade, inversioni di marcia, richiami, cambi delle scorte, tensioni, velate minacce e sbeffeggiamenti (..."lasciamoli qui e chi se ne frega...", " decidiamo noi se ci sono o no problemi...", "...cosa avete da ridere, volete che vi facciamo ridere veramente...", e così via i toni). Il tutto con intorno un ambiente ostile e pericoloso se si fosse verificata una qualche situazione particolare.
 
Alle 17 arriviamo al Patriarcato di Pec, controllato dai militari italiani con check point ed autoblindo. Alle 18 arriviamo al Monastero di Decani (anch'esso protetto da militari italiani: check point, barriere protettive, autoblindo, ecc.), dove avremmo dovuto discutere del Progetto "Decani Enclavi Metohija" con il nostro referente Padre Petar. In realtà, appena arrivati ci danno 7 minuti e poi intendono andarsene. Vojkan dell'Associazione di Mitrovica cerca una mediazione ma i poliziotti non accettano discussioni; mi si chiede di far intervenire i Padri ortodossi o qualche ufficiale italiano. Corro a cercare i Padri con cui da anni abbiamo forti e fraterni legami nell'impegno per le genti abbandonate del Kosmet, i militari italiani con cortesia mi dicono che non possono far nulla... in 7 minuti, e soprattutto non hanno possibilità di darci una loro scorta e ancor più di notte, nel nuovo Kosovo per i non albanesi, non è consigliabile aggirarsi. Grazie alla mediazione dei Padri ed un lavoro prezioso "diplomatico" di Vojkan con i poliziotti albanesi, otteniamo 50 minuti e poi se andranno. Questo ci fa saltare tutti i programmi, infatti avremmo dovuto restare con la scorta fino al 24 sera, invece dobbiamo tagliare gli impegni che erano in programma e dopo avere frettolosamente consegnato il sostegno economico per la famiglia Milatovic all'interno del Progetto Figli dei rapiti (una madre con una figlia di 12 anni, due anziani genitori, il padre rapito ed assassinato nel 1999), che vivono in una stalla, senza acqua e possibilità di uscire, isolati in una zona abitata solo da albanesi, dobbiamo ripartire.
 
Avremmo dovuto andare a visitarli il giorno dopo e documentare la loro situazione, ma sarà Padre Petar, che li visita periodicamente e che è nostro referente del Progetto, a consegnarlo.
 
Alle 19 ripartiamo dopo una sosta all'interno del Monastero, un oasi di pace, spiritualità e profondità di emozioni, unici.
 
Rinunciamo con amarezza e rabbia al programma del 24/11, siamo nelle loro mani e... non sono mani amiche o fraterne... Arrivati alle 20 a cinque Km da Mitrovica nord, la scorta si ferma nella parte albanese e ci dice che loro hanno finito il servizio e che dobbiamo proseguire da soli; alle nostre rimostranze ridono e ci dicono di stare tranquilli che tutto andrà bene e se ne vanno. Quei 5 Km nel buio di Mitrovica sud, non sono stati del tutto rilassanti e sereni.
 
Il 24/11 nella stanza di un caseggiato dismesso, dove ha sede l'ASM-KM, senza acqua nè riscaldamento, c'è stata la consegna dei 5.000 euro ed il dono di una stampante; poi una visita al Monastero di Sokolica (anche questo bellissimo), che ha una storia particolare. Infatti è situato in una zona di montagna sopra Mitrovica, abitata interamente da albanesi, ma è uno dei pochissimi luoghi ortodossi non attaccato o distrutto dal terrorismo UCK. Il motivo è che da centinaia di anni le donne albanesi della zona e non solo, si recano lì a chiedere la grazia per la fertilità ad una statua di una Madonna che si trova nel Monastero; l'unica statua che c'è in un luogo di culto ortodosso di tutti i Balcani, in quanto la religione ortodossa non contempla la presenza di statue nei luoghi di preghiera.
 
Mi rendo conto in queste poche righe ed attraverso una sintetica cronaca di quarantott’ore, quanto sia difficile far comprendere la realtà di fatto di questo stato fantoccio, creatura ad uso di esclusivi interessi geostrategici degli USA.
 
Ma soprattutto è difficile dare l'idea di quale è la realtà della vita quotidiana della minoranza serbo kosovara, rimasta a cercare di sopravvivere, resistere e difendere la propria terra, le proprie case, la propria vita, i propri luoghi sacri, non solo espressione religiosa, ma anche storica, culturale ed identitaria di un popolo intero, non solo credente. Ed in ultima istanza il proprio diritto ad "esistere" in quanto popolo, in un Europa ed un occidente che blaterano, sproloquiano, filosofeggiano e vanno per il mondo a fare guerre "umanitarie", guerre "intelligenti", guerre "terapeutiche"; che "esportano" democrazie, progresso, presunte civiltà superiori; dalla Jugoslavia all'Iraq, dalla Somalia al Sudan, dalla Palestina all'Afghanistan.
 
Ma che soprattutto lasciano un infinita scia di sangue dei popoli, di morte, violenze, dolore, devastazioni umane e sociali; e seminano odio, rancori, sentimenti di ira reconditi.
 
Come nel caso di questo "Kosovo liberato" dove, con la presenza, la supervisione, il controllo, in questi 10 anni, di decine di migliaia di militari di 32 paesi, in una sempre più decadente, prona e corrotta Europa, una minoranza di un popolo, quello serbo kosovaro, vive una quotidianità di apartheid, senza i più elementari diritti umani sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite (di cui il popolo serbo, come popolo costituente della Jugoslavia, fu paese fondatore... tanto per ricordare agli smemorati).
 
Oggi nel 2009, qualsiasi persona onesta, indipendente, non asservita a qualche interesse politico, economico o personale, deve sapere che vi è un popolo, quello serbo kosovaro (... le altre minoranze sono tutte già scappate), che, in uno stato creato, finanziato, sostenuto dalle potenze occidentali, sta vivendo da dieci anni un agonia quotidiana. Umiliato, offeso, vessato, violentato in tutti i suoi aspetti: umani, politici, economici, sociali, culturali, religiosi e morali.
 
Ma questo, se non si vede, è sempre più difficile spiegarlo qui.
 
Eppure è ancora lì: piegato ma non ancora vinto, senza ormai più voce... e forse senza futuro, ma dignitoso e con animo e sguardi ancora fieri.
 
E noi, come SOS Kosovo Metohija, con i nostri modesti e piccoli Progetti di solidarietà, tenacemente e caparbiamente, gli siamo ancora al fianco da molti anni ormai; nutrendo così, grazie ad essi, le nostre coscienze e le nostre dignità di uomini e donne, che hanno scelto di non essere assoggettati alle politiche imperialiste e di profitti, costruite sull’oppressione e sullo sfruttamento dei popoli.
 
Con un' angoscia sempre più dolorosa e intensa, che ulula fortemente nell’anima e nella coscienza, ogni volta che si viene via e si lascia dietro di sé questo scenario reale di tristezza e desolazione, si ha la consapevolezza di un debito e di un profondo rispetto che si ha e si deve avere per questi... "dannati del Kosovo", rimossi, dimenticati, silenziati ma che resistono nonostante tutto e tutti, e ci danno una lezione di dignità, coraggio, di radici e di identità forgiate nella propria storia di popolo... ed anche di speranza e lotta per un futuro diverso e migliore... lungi da venire ma necessario per i popoli e gli uomini onesti ed operosi.
 
“...ora viviamo come in gabbia, prigionieri, ma gli stranieri dicono che siamo liberi...”
(Jovan R., 10 anni, bambino dell’enclave di Orahovac, Kosovo Metohija)
 
2 Dicembre
 
Mentre terminavo questa relazione del viaggio, mi veniva comunicata dall’Ambasciatrice della Serbia in Italia, Signora Sanda Ivic Raskovic, la notizia ufficiosa ma che sarà ufficiale a giorni, del ritiro nei prossimi mesi del contingente italiano della KFOR dal Kosovo per spostarlo sul fronte dell’Afghanistan, lasciando qualche decina di militari con compiti speciali. Dato che gli ultimi Monasteri ortodossi della provincia sono presidiati dai militari italiani e, come ho avuto più volte modo di riportare in questi anni, con un rigore e rispetto del compito affidatogli altamente riconosciuti da tutti, questa notizia, che è una conseguenza della richiesta USA di aumentare lo sforzo bellico e militare in Afghanistan, se confermata rappresenterebbe per le ultime enclavi serbe (comprensive dei Monasteri rimasti, tra cui Decani e Pec, di cui scrivevo sopra ) una prospettiva
tragica e drammatica: restare alla mercè della leadership albanese kosovara, che è la stessa ad aver guidato e diretto la pulizia etnica del Kosmet dal 1999 ad oggi.
 
Con le campagne di rapimenti ed assassinii (1300 rapiti e scomparsi, ed oltre 3000 assassinati... dall’UCK), con i 148 monasteri e luoghi sacri distrutti e attaccati, le decine di migliaia di case serbe, rom e delle altre minoranze incendiate e distrutte, questa leadership è stata pianificatrice e responsabile della situazione in cui versano le minoranze non albanesi (comprese molte migliaia di famiglie albanesi kosovare, profughe in Serbia perché considerate lealiste e jugoslaviste), confinate nelle enclavi.
 
Penso che la descrizione fatta nella relazione sopra sia la fotografia di quale potrà essere il destino inesorabile a cui andrà incontro quella parte di popolo serbo kosovaro che, nelle condizioni quasi subumane di apartheid e oppressione, ancora resiste a sud del fiume Ibar.
 
Chi conosce la situazione sul campo direttamente, a qualsiasi livello, non può che prevedere ed immaginare un nuovo esodo, pena il rischio della vita, nel caso di restare soli; nelle telefonate di questi giorni, in cui mi è stato richiesto di fare un lavoro di pressione ai livelli più alti, politici istituzionali e culturali del nostro paese, anche le personalità contattate hanno confermato il timore concreto che questa prospettiva possa riaprire scenari di nuove violenze, se non proprio materiale (sarebbe stupido da parte loro) ma di sicuro psicologiche, fatte di minacce velate e pressioni dirette ed anonime, per terrorizzare ulteriormente i civili e indurli a scegliere la via dell’esodo finale. In una situazione di questo tipo, la stessa esistenza di questi patrimoni culturali dell’umanità che sono i Monasteri ortodossi, si troverebbe esposta a rischi di distruzione; tanto per dare un idea della situazione, il sindaco della cittadina di Decani (dove oltre al Monastero non vive neanche più un solo serbo) ed il capo della Polizia del KPS sono due ex comandanti guerriglieri secessionisti, che ripetutamente in pubbliche occasioni hanno ribadito l’impegno a cancellare la presenza dei luoghi sacri ortodossi come compimento della cosiddetta “liberazione” finale del Kosovo.
 
Dopo la “pulizia etnica” della gente, l’obiettivo sarà quello dell’epurazione della memoria storica. Cancellare le simbologie concernenti il passato. Via ciò che testimonia, soprattutto quello che è più profondo: chiese, monasteri, luoghi sacri, il resto è stato già distrutto, compresi i cimiteri non albanesi ed i monumenti jugoslavi. Fare piazza pulita per violentarne l’identità come popolo e togliere ogni pretesto di ritorno per i serbi.
 
Penso che tornino di estrema attualità le parole del sindaco di Venezia e professore universitario M. Cacciari, dette a marzo 2003:
 
“ Ma se i militari italiani si ritirano dai presidi, il rischio è elevatissimo:
 
M.C.: Sarebbe come se facessero saltare in aria San Marco a Venezia. E' una follia, bisogna tenere lì i militari, bisogna assolutamente impedire che un'eventualità del genere accada...
 
...Allora io dico: se nell'ambito delle operazioni che l'Italia deve fare, non tutela un patrimonio di questo genere che non ha confronti al mondo, si fa corresponsabile della distruzione. Siamo da fucilare. Non ho altre parole: siamo da fucilare. Saremmo noi i liberatori, quelli che sono andati a portare la pace, che hanno scelto la civiltà contro la barbarie? Sono cose dell'altro mondo...
 
...Finché non siamo assolutamente certi che nessuno può mettere in pericolo queste chiese, non bisogna assolutamente sguarnire i presidi militari. Questo patrimonio artistico è unico, non esistono altri esempi. E' come San Marco, ripeto: chiese uguali in Europa non ce ne sono, non perché San Marco sia la più bella, ma perché quel linguaggio artistico non esiste altrove. Purtroppo nessuno ne parla...”.  Da: "La Nuova di Venezia e Mestre", “La Tribuna di Treviso”, 4 marzo, 2003 (*)
 
Il problema è comunque intricato: negli accordi di ritiro dell’esercito e della polizia serbi, interni alla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, sia l’UNMIK che la KFOR (anche se in realtà come tutti sanno, era la NATO a guidare l’operazione “Kosovo liberato”) avevano sottoscritto l’impegno alla preservazione dei siti storici e religiosi della provincia e a non lasciare questi punti finché non fossero state ristabilite le condizioni per una vita normale e sicura per tutti i cittadini del Kosovo, senza discriminazioni di nazionalità, etnia o di religione. Questa solfa viene ripetuta da oltre 10 anni, ma purtroppo finora è rimasta solo una promessa o, al peggio, una filastrocca. A giudicare dalle sofferenze e violenze a cui è stata esposta la minoranza serba, anche in presenza della Kfor e dell'Umnik, meglio non pensare a cosa succederebbe se andassero via, prima che sia stata raggiunta una soluzione che configuri un Kosovo multietnico e democratico realmente, che era l’obiettivo, RICORDIAMOLO, della cosiddetta guerra “umanitaria” o meglio dell’aggressione del 1999! Ma così era il Kosovo prima del giugno ’99!
 
Com’è oggi, dopo 10 anni di occupazione NATO, il “nuovo Kosovo” libero e democratico?
 
A cosa e a chi è servita questa guerra “umanitaria” ?!
 
Coscienti che, per chi conosce la realtà del Kosovo Metohija e del popolo serbo, la difesa di quei luoghi sacri è una battaglia che va la di là dell’aspetto religioso: è una battaglia di giustizia e di diritti sanciti ovunque, tranne che in questo protettorato creatura della NATO.
 
Significa difendere il diritto storico, in questo caso del popolo serbo kosovaro, di vivere, esistere, abitare dove, da centinaia di anni è stato, come dato e fatto storico. Significa denunciare il carattere arrogante, violento, prevaricante di questa entità fantoccio, creata ed edificata, tramite bombardieri che per 78 giorni, da diecimila metri, hanno sganciato decine di migliaia di bombe (comprese quelle all’uranio “impoverito”), devastando e distruggendo un paese per sottometterlo e strappargli, ad uso criminale, questo pezzo di terra.
 
Significa ancora una volta, per l’ennesima volta, stare dalla parte dei popoli e della gente comune, prevaricata e sopraffatta dai potenti della terra, costi quel che costi.
 
Significa stare dalla parte della verità e della giustizia, che giorno dopo giorno, come semi indistruttibili, faticosamente, stoicamente, emergono dall’oscurità e dalle catacombe in cui sono relegate dai “disinformatori strategici” e dai “servi stupidi”.
 
Significa stare dalle parte di chi non ha più voce o televisioni, ma ha la ragione della dignità della propria storia.
 
La nostra piccola Associazione in tutti questi anni ha fatto la sua modesta parte, si è schierata ed ha operato una Solidarietà che definimmo “concreta e consapevole”, senza timori e spesso in amara solitudine, insieme a poche altre realtà.
 
Ed è con profonda dignità e serietà legate agli eventi, che ribadiamo la nostra scelta di campo ed il nostro impegno, caparbiamente, a testa alta dalla parte dei... "dannati del Kosovo Metohija".
 
30 Novembre 2009
Enrico Vigna, Presidente di SOS Kosovo Metohija - SOS Yugoslavia
 
 
(*) 


=== 2 ===

VENERDÌ 27 NOVEMBRE 2009

SoS Kosovo!

Mancava questo tassello nella nostra presenza nella Serbia del dopoguerra.
Mancava, per provare a ristabilire verità storiche, attualità inconfutabili, certezza di dubbi.
Mancava, perché bisogna conoscere anche le altrui solidarietà, con un popolo che è stato vittima di ingiustizia. E lo è tuttora.
Così, dopo aver conosciuto e collaborato con Gilberto Vlaić e la sua associazione “Non bombe ma solo caramelle”, andiamo a conoscere una fra le voci più preparate della contro informazione sul tema ex Jugoslavia… Enrico Vigna, di “SoS Yugoslavia”.
Da Kragujevac, dove arriviamo in una serata che sembra annunciareproleče, primavera, e non žima, inverno, partiamo la mattina presto del 24 novembre alla volta di Kosovska Mitrovica.
Siamo in sette nel pulmino. Ci sono Rajka Veljović, storica interprete coordinatrice dell ufficio internazionale adozioni e rappresentante per anni, anche in Italia, del sindacato della “Zastava” di Kragujevac, la “Fiat dei Balcani”, testimone militante delle sue disgrazie, ultima in ordine cronologico “l’avvento” della Fiat di Marchionne (vedere i preziosi resoconti di Gilberto Vlaić )… c’è Jasmina Brajković, dell’associazione Malati di Sclerosi Multipla di Kragujevac… e ci sono Milija, Darko, figlio di Jasmina che guida il pulmino e Boris, figlio di Rajka. E poi ci siamo noi, Enrico Vigna, di “SoS Yugoslavia”, che porta a conclusione due iniziative a sostegno dell’associazione Malati di Sclerosi Multipla di Mitrovica e a sostegno di figli di scomparsi, attraverso i padri di Dečani, in Kosovo (SoS Kosovo). E ci sono io, Alessandro Di Meo, di “Un Ponte per…”, da dieci anni impegnato in iniziative di solidarietà con i profughi del Kosovo, quelli fuggiti “dalla parte sbagliata”, come dicevamo in un volantino del 1999, la parte dove non c’erano televisioni ad aspettare… che mi sono aggregato per capire come si muovono anche altre realtà nel Kosovo. Il Kosovo, però, dei serbi ghettizzati, criminalizzati, vilipesi, insultati, defraudati della loro terra, della loro memoria e delle proprie radici.
A Mitrovica salgono con noi anche Žarko, Ilija e Voikan, della locale associazione Malati di Sclerosi Multipla. Continuiamo in dieci, quindi, scortati da una pattuglia della polizia kosovara, alla volta del Kosovo. Passiamo il ponte sull’Ibar, non quello divenuto tristemente famoso,bensì un altro, parallelo, poche centinaia di metri distante.
Visiteremo il patriarcato di Peć dove, fra non molto, verrà insediato il nuovo patriarca che sostituirà il defunto Pavle. Non incontriamo madama Dobrila, che conosco, molto impegnata con i numerosi gruppi di visitatori. La ascolterò da lontano, descrivere le tre chiese che formano il patriarcato.
Fra molti imprevisti e problemi creati dalle pattuglie di scorta della polizia kosovara che si alterneranno (sono poliziotti albanesi, non so quanto felici di farci da scorta) che faranno perdere anche del tempo, arriviamo a Dečani che è già sera. Per le strade di Peć, imbottigliati nel traffico, la pattuglia aziona la sirena per passare prima attirando, in tal modo, la curiosità della gente che subito, in strada o da auto di passaggio, individuando targa serba, inizia l’opera di scherno e minacce, fatta di gestacci e urla.
Comunque, arriviamo a destinazione, non senza aver prima sventato il subdolo tentativo della pattuglia di riportarci indietro, verso Mitrovica, lamentando una mancanza di comunicazione in proposito, prontamente vanificata dalla consegna della corretta documentazione presentata in tempo utile alle “autorità” kosovare...
C’è molta gente, al monastero di Dečani, i tavoli per gli ospiti sono imbanditi, domani, 24 novembre, sarà la festa di Sveti Stefan Dečanski, re fondatore del monastero, venerato come santo. In pratica, la loro slava. Per questo non riusciremo a dormire al monastero. Circa duecento persone provenienti dalla Serbia, ma non solo, lo hanno preso letteralmente d’assalto, e la cosa fa veramente effetto. Assisteremo, comunque, alla funzione delle sei, ipnotica e magica nell’atmosfera serale, scoprendo che anche alcuni nostri militari impegnati a guardia del monastero sono da non molto divenuti ortodossi. Da una parte li capisco. Venuti in missione per continuare il “lavoro” iniziato dalla Nato e dalle sue bombe, si ritrovano nel mezzo di contraddizioni così evidenti da non poter evitare coinvolgimenti emotivi nei confronti di coloro che furono descritti come nemici. E per qualcuno, il coinvolgimento si è manifestato in questo modo. Effettivamente, qualcosa nell’aria c’è di affascinante, di ammaliante, di avvolgente.
Anche io accendo candele nel candeliere, parte bassa rigorosamente per i morti, parte alta per i vivi, dove intreccio fiammelle da mantenere accese. Ma i miei anticorpi, fondamentalmente atei, cercano strade per difendersi, anche se la sfida è alquanto impegnativa.
Riuscirò a incontrare rapidamente padre Andrej, che parla bene italiano e che sarà in Italia dal 30 novembre ad accompagnare padre Teodosije, figura primaria della chiesa ortodossa in Kosovo, col quale mi accordo per un appuntamento. C’è determinazione a spostare il nostro intervento a favore dei serbi rimasti, e in questo il ruolo dei padri di Dečani è davvero centrale.
A tarda sera, non senza aver gradito un piatto di zuppa calda di verdure, dell’aivar (peperoni cotti alla brace, macinati e messi sotto vuoto), del buon riso e del vino rosso, offertoci come rituale dei festeggiamenti, saremo costretti, nostro malgrado (la scorta ci attende fuori, puntuale), a fare ritorno a Mitrovica, dove dormiremo.
Il giorno dopo, 24 novembre, martedì, ci recheremo, sempre a Mitrovica, in una specie di mercatino fatto di piccoli negozi e qualche bancarella apparentemente improvvisata, fra le vie della parte nord che, però, è gestita da albanesi. I serbi ci vanno a fare “shopping”, perché si trovano cose a basso prezzo. Comprerò dei calzettoni, fatti a Prizren, mentre le donne del nostro gruppo, fatalmente, si perdono nei negozietti.
In questa parte, delimitata da bandiere rosse con l’aquila bicefala e dalle immancabili bandiere a stelle e strisce… forse in onore del padre della patria kosovara albanese, Bill Clinton… serbi e albanesi sembrano convivere ancora oggi. E le auto che passano, con targhe albanesi del nuovo Kosovo, con targhe serbe del vecchio Kosovo, con targhe serbe della Serbia o con targhe senza targa, perché immatricolate chissà dove e chissà come… oppure senza targa semplicemente perché sono taxi e, attraversando di continuo i ponti sull’Ibar, non vogliono rischiare troppo… le auto che passano ce lo confermano.
Verrebbe istintivo andare dall’altra parte, quella albanese, ma la cosa viene considerata rischiosa e da evitare. Strano, però, o forse no… che i serbi non possano andare dall’altra parte, attraversando ponti sull’Ibar, quando di qua, al contrario, gli albanesi ci vivono e fanno affari!
Ma tanto è, e ce lo conferma quanto avvenuto pochi giorni fa, quando un gruppo di serbi, per fare visita al cimitero serbo ortodosso situato nella parte sud, ha avuto bisogno della scorta armata che non ha evitato, però, di lasciarli insultare a distanza durante la visita al cimitero, in gran parte distrutto dalla violenza razzista kosovara albanese. Strano anche, o forse no… vedere nella parte nord di Mitrovica, il cimitero musulmano intatto e libero di ricevere visite.
Impossibilitati ad andare ancora a Dečani, dove una funzione religiosa straordinaria avrebbe celebrato il santo fondatore, andiamo in visita a un vicino monastero, quello di Sokolica, situato al di qua del ponte, quindi, per intenderci, nella parte serba oltre Mitrovica.
Pochi chilometri percorsi in salita e ci ritroviamo accanto a un villaggio albanese, ben tenuto e ristrutturato che vede eretta, in una vecchia casa in pietra, una scuola frequentata dai ragazzini albanesi del villaggio. Pare fosse la casa natia di Isa Shala “Boletini”, eroe kosovaro albanese vissuto a cavallo fra fine 800 e inizio 900, precursore del Kosovo indipendente e nominato “eroe del Kosovo” da Ibrahim Rugova nel 2004.
Dubbi, nei racconti di parte serba, sull’eroismo di Boletini, nativo di Mitrovica, ne fanno uomo esperto nella “risoluzione” delle controversie fra clan albanesi. Si dice ci si rivolgesse a lui quando si intendeva, dopo uno sgarbo subito, fare “giustizia”, uccidendo uno di un altro clan.
Allora, trattasi di sicario, prezzolato assassino o di eroe fautore della Grande Albania dove far confluire il Kosovo etnicamente ripulito dai serbi? Nemmeno ai posteri, ormai…
Ma la cosa davvero stupefacente, o forse no… è che in questo piccolo monastero, tenuto da monache, una statua della Madonna col bambino (Sokolica è l’unico monastero ortodosso a esporre al suo interno una statua, anche se pare ve ne sia un altro dalle parti di Prizren, a Orahovac, sud del Kosovo, verso il confine fra Albania e Macedonia) viene adorata e venerata soprattutto dalle donne albanesi con problemi di sterilità, omaggiata di oggetti in argento e oro per ricevere grazia di gravidanza. Questo è uno dei motivi per cui fu risparmiata dalle violenze che hanno prodotto la distruzione di oltre 150 monasteri ortodossi, fra il giugno del 1999 e il 17 marzo del 2004.
Dopo aver constatato di persona le qualità artistiche di queste monache, che stanno affrescando gli interni della chiesa, le loro capacità nel coltivare orto e giardino, arriva l’ora di tornare.
Sulla strada incontriamo indicazioni per altri monasteri, Studenica e Gradac fra tutti. Sarà per un’altra volta. Ci fermiamo per un caffè sotto il fantastico castello di Maglić e ricordi tornano alla mente.
Lascio la bella compagnia a Kraljevo, che è di strada, dove devo assolvere ad alcuni impegni, non richiesti ma moralmente (e affettivamente….) irrinunciabili.
Il tempo è davvero poco, così visito solo alcune di quelle famiglie dove è istintivo, ormai, sentirsi a casa propria. Ricevo inviti per prossimi compleanni di ex fanciulle ormai diciottenni (Tanja Vuković, della quale assaggio deliziosi cornetti preparati nella scuola che frequenta), inviti da estendere ad amici, con scambi di promesse e accordi… fettuccine contro cancellazioni di lacrime da un quadro!
Si incontrano volti aperti e preda del futuro, ma pure volti stanchi e preda di angosce.
Figli con negli occhi speranze di crescita, università, lavoro e vita, padri e madri con sguardi rassegnati, sempre più incapaci e inadeguati ad affrontare realtà quotidiana, fatta di disillusioni, bocconi amari, umiliazioni, lavori dimezzati, malpagati, se e quando, pagati.
Resta la solita alternanza di energia e stanchezza, gioia e tristezza, sorriso e lacrima.
Unica certezza… il pullman dell’una e mezza di notte, dove proverò a dormire, da Kraljevo mi porterà a Belgrado, dove alle sei e quaranta mi attende l’aereo che mi riporterà a Roma e, quindi, al mio posto di lavoro. Poche ore dopo l’incanto di Dečani e Peć, le contraddizioni di Sokolica e Mitrovica, le atmosfere del castello di Maglić e… quelle di Kraljevo. Ma i giorni di ferie sono quasi finiti e non posso passarli tutti in Serbia. E questo è davvero un peccato.



La NATO, dal Kosovo all’Afghanistan: guerre senza frontiere 

di Diana Johnstone

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova – articolo segnalato dal Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus:
L´Otan du Kosovo à l´Afghanistan : guerres sans frontières


Mercoledì, 18 novembre 2009, Comitato Valmy

Esistono, riconosciute, 761 basi americane nel mondo, fra cui quella gigantesca di Bondsteel in Kosovo, che è stato strappato illegittimamente alla Serbia con la guerra e con l’aiuto decisivo degli imperialisti euro-atlantici.   
Sono vent’anni che la fine della Guerra Fredda doveva dare origine ad un’era di pace. Tuttavia, dopo dieci anni, la NATO fa la guerra, prima al Kosovo, oggi in Afghanistan. È la guerra, e non la pace, che sta ritornando. Perché?
Desidero presentare diverse proposizioni che, a mio avviso, sono evidenze, ma evidenze che non risultano nel discorso ufficiale propagandato dai mezzi di comunicazione di massa. 
1. Prima proposizione. Lo scopo principale della guerra condotta dalla NATO nel 1999 contro la Jugoslavia, conosciuta come “guerra del Kosovo”, era quello di mantenere ancora in attività la NATO, assegnandole la nuova missione di condurre guerre in posti e per motivi, comunque, decisi da essa.  
(Un obiettivo secondario consisteva nel liberare la Serbia da un capo considerato troppo poco sollecito nel seguire il modello economico neo-liberista, ma lascio da parte questo aspetto della vicenda, che avrebbe potuto essere affrontato in ben altro modo che attraverso la guerra, sebbene i bombardamenti abbiano accelerato la privatizzazione delle industrie così colpite in modo tanto sbrigativo.)
2. Questo obiettivo è stato raggiunto, con l’accettazione da parte degli alleati europei della nuova strategia della NATO, che raccomanda la possibilità di interventi militari in tutto il mondo, non importa dove e nemmeno sotto quale pretesto – basta esaminare la lista delle “minacce” alle quali la NATO ha dovuto far fronte.
3. Questo cambiamento di politica estera, con le conseguenti pesanti implicazioni, è stato realizzato senza il benché minimo dibattito democratico nei parlamenti europei o di altri paesi. È stato realizzato con modalità unicamente burocratiche dietro una fitta cortina di fumo emozionale – si potrebbe anche dire di gas lacrimogeni – per la necessità di salvare le popolazioni da minacce assolutamente inesistenti e completamente inventate, precisamente per giustificare un intervento che doveva servire agli interessi degli Stati Uniti e, nel contempo, dei secessionisti albanesi del Kosovo. In altre parole, la nuova politica di guerra senza limiti è stata decisa quasi a porte chiuse e venduta all’opinione pubblica come una grande missione umanitaria di una abnegazione tanto generosa, senza precedenti nella storia dell’umanità.
Ed è così che la “guerra del Kosovo” continua ad essere celebrata, soprattutto negli Stati Uniti, come la prova provata che la guerra non costituisce più il peggiore dei mali da evitare, ma il migliore dei veicoli del ”Bene”.
4. In seguito agli attacchi criminali dell’11 settembre 2001 contro le Torri del World Trade Center, gli alleati europei degli Stati Uniti hanno accettato senza batter ciglio l’interpretazione più che dubbia fornita dall’amministrazione americana Bush-Cheney, secondo cui quegli attacchi costituivano un “atto di guerra”. 
Nuovamente presi da un tourbillon sentimentale – “siamo tutti Americani” – le donne e gli uomini politici europei non si sono affatto mobilitati per fare osservare che si trattava piuttosto di attacchi criminali – internazionali, forse, ma che erano stati scatenati da individui o da gruppi, e non da qualche Stato, e che esigevano logicamente una risposta di polizia e non di una guerra. 
Invece di andare in soccorso al popolo americano portandogli come contributo una dose di buon senso, che visibilmente mancava ai suoi dirigenti, i dirigenti europei hanno per la prima volta fatto appello all’Articolo 5 del Trattato della NATO per seguire gli Stati Uniti aggrediti nella loro guerra contro i fantasmi in Afghanistan. Capiscono sempre tutto..!
5. Quinta proposizione. Tutto questo ha messo in evidenza l’assenza quasi totale in Europa di un dibattito politico, o persino di un’opinione, sulle questioni fondamentali della sicurezza, della guerra e della pace, e ancor meno sul diritto internazionale. 
6. Sesta proposizione. Senza dubbio, la più essenziale e controversa. La deplorevole inesistenza morale ed intellettuale dell’Europa in questo suo cammino verso il disastro è dovuta soprattutto ad una causa: la sedicente “costruzione europea”.  
Ora mi accingo a ritornare su questa serie di avvenimenti che ci conducono dallo slancio “umanitario” del Kosovo fino al pantano insanguinato dell’Afghanistan.

L’Europa e la Jugoslavia

È fatto ordinario biasimare l’Europa per la sua inazione nella questione jugoslava. Ma, più spesso, questo rimprovero assume la forma di una lamentazione secondo cui l’Europa avrebbe dovuto intervenire militarmente per salvare le vittime, bosniache, s’intende. Questa non è un’analisi ma uno sfruttamento moralizzatore da parte di uno degli attori in campo – i Musulmani di Bosnia – di una tragedia  nella quale costoro contano sì il più alto numero di vittime, ma per la quale i loro dirigenti politici (soprattutto il signor Izetbegovic) avevano la loro parte di responsabilità. 
In questa lamentazione senza un’effettiva analisi, l’inerzia dell’Europa viene attribuita spesso alla sua “mollezza” collettiva, ed anche, da certuni, ad un suo supposto razzismo anti-musulmano. Oggettivamente, qua e là esiste un razzismo di questa natura, ma nel caso jugoslavo i motivi del fallimento europeo sono da ricercarsi in una diversa direzione. 
In questa sede, vorrei offrire una diversa interpretazione di questo fallimento, che risulta più complicata, e meno moralista.
Già negli anni 1980, la Jugoslavia affondava in una crisi sia economica che politica. L’indebitamento del governo centrale, che risultava soprattutto dalle crisi petrolifere e dalle speculazioni sul dollaro, favoriva la spinta separatista delle repubbliche più ricche, la Slovenia e la Croazia. Paradossalmente, l’auto-gestione socialista contribuiva al movimento centrifugo. Eppure, il sentimento unitario restava probabilmente ancora maggioritario. 
Questo è il tempo in cui appunto una meno superficiale politica europea di allargamento avrebbe potuto impedire il disastro.  Dopo tutto, la Jugoslavia, situata fra la Grecia e l’Italia, godeva di un sistema socialista più libero e più prospero rispetto a quello del blocco sovietico, stava evolvendo più verso una democrazia di stile occidentale, e per logica era il candidato all’adesione alla Comunità europea in un immediato futuro. 
Alcune voci isolate sottolineavano questa evidenza, senza ricevere ascolto. Agli inizi degli anni 1990, ecco il dramma! Non posso raccontare tutta questa storia adesso, che comunque è riportata nel mio libro “La Crociata degli inganni”. 

Tuttavia, in breve, nel 1991 esistevano due mondi paralleli che si sono scontrati con modalità gravide di sventura. Esisteva il mondo jugoslavo, in cui le repubbliche – è così che si denominavano le componenti della Federazione jugoslava – di Slovenia e Croazia optavano per la secessione, appoggiate dalla Germania.  Ed esisteva il mondo della costruzione europea, in cui in particolare il governo francese era totalmente assorbito dal tentativo di convincere il governo tedesco ad amalgamare il suo prezioso marco, il deutschemark, in una nuova moneta europea, che avrebbe servito da collante nella trasformazione della Comunità europea in Unione europea.
Il risultato è ben noto. Nella fase iniziale, nessun altro membro della Comunità voleva seguire la Germania nel riconoscimento delle secessioni della Slovenia e della Croazia, se non in presenza di un negoziato, ma quando la Francia, in piena trattativa sulla moneta europea con la Germania, ha ceduto sulle secessioni jugoslave, allora tutta la Comunità l’ha seguita in questa decisione, che violava il principio di inviolabilità delle frontiere e portava inevitabilmente alla guerra civile.
Capisco come tutto questo possa risultare un po’ complicato, ma desidero sottolineare un aspetto che è relativamente sottile, ma essenziale. 
Per favorire la sacrosanta “costruzione europea”, la Comunità europea si è allineata sulla posizione tedesca, che all’inizio non era condivisa da nessun altro Stato membro. Gli Stati membri non hanno esaminato in modo scrupoloso né i veri motivi della posizione germanica, né la sua giustificazione, nemmeno le sue conseguenze programmate. Al posto di tutto questo, hanno adottato una versione moralistica ed unilaterale di un conflitto complesso, versione che serviva soprattutto a giustificare la loro violazione di normali procedure, come il non-riconoscimento di secessioni non-negoziate. Ma il risultato ottenuto è stata la stura alle accuse moralistiche di non avere fatto molto per “salvare le vittime”.  Una volta che si accoglie una visione manichea, si impone anche una soluzione manichea.   Essendosi incastrata da sola, l’Europa ha tentato di combinare il suo discorso manicheo, che attribuiva tutta la responsabilità al solo “nazionalismo serbo”, con gli sforzi per trovare una soluzione negoziata, azioni del tutto contraddittorie e votate allo scacco matto.  
Per contro, immaginiamo che gli Stati membri avessero agito come Stati indipendenti, senza sentirsi costretti dalla “costruzione europea”. La Germania, senza dubbio, avrebbe sostenuto i suoi clienti storici, i separatisti sloveni e croati,  ma avrebbe dovuto ascoltare anche altri punti di vista. Infatti, la Francia e la Gran Bretagna, certamente seguite da altri paesi, avrebbero pensato agli interessi dei loro alleati storici, i Serbi. Con questo non si vuole assolutamente affermare che si sarebbe ripetuta la Prima Guerra Mondiale – nessuno è così folle. Ma si sarebbe potuto riconoscere, da una parte e dall’altra, che esistevano autentici conflitti non solamente di interesse ma anche di interpretazioni giuridiche in quello che concerneva lo statuto delle frontiere fra repubbliche, delle minoranze e via di seguito. Riguardando il problema jugoslavo da questa visuale, invece di considerarlo come un conflitto fra il Bene e il Male, le potenze europee avrebbero potuto incoraggiare una mediazione e un negoziato per evitare il peggio.
L’argomento che desidero sottolineare è il seguente. Uno dei dogmi della Costruzione europea è che l’accordo fra gli Stati membri è un bene così grande che il contenuto di questo accordo diviene secondario. Ci si felicita di essere d’accordo, quale che sia la qualità o le conseguenze di questo accordo. Cessa ogni riflessione. E l’accordo si fa, e si è pronti a giustificarlo nel modo più facile tramite qualche luogo comune moralizzatore – in primo luogo, i “diritti dell’uomo”.
La “costruzione europea” rassomiglia al “processo di pace” in Medio Oriente, nel senso che il miraggio di un futuro in sicurezza paralizza il presente, e serve come scusa per non importa che cosa. 
Vorrei segnalare che, nel caso jugoslavo, gli Stati Uniti non erano del tutto propensi a sostenere secessioni senza negoziato della Slovenia e della Croazia. L’amministrazione di Bush padre era incline a lasciare questo problema agli Europei. Dunque, è troppo facile biasimare gli Stati Uniti. Ma davanti all’ignavia europea, ed essi stessi sempre predisposti alle interpretazioni manichee, gli Americani dell’amministrazione Clinton hanno approfittato della situazione per sfruttare il disastro jugoslavo per i loro stessi scopi, vale a dire, l’affermare il ruolo di dirigenza degli Stati Uniti in Europa, la rinascita della NATO e qualche briciola sentimentale gettata ai Musulmani per compensare l’appoggio senza alcuna incrinatura fornito ad Israele dagli Stati Uniti.  

La NATO e le “minacce”

L’evoluzione degli ultimi due decenni  pone la questione dell’uovo e della gallina. In altre parole, è l’ideologia la causa delle azioni, o l’inverso? Sarei tentata, viste le mie considerazioni a proposito della Jugoslavia, di affermare che è l’inverso – almeno a volte. O, piuttosto, in assenza di un pensiero rigoroso e franco, si è facilmente trascinati in avventure nefaste da una dialettica fra ideologia e burocrazia. 
Il mio secondo esempio è il ruolo della NATO nel mondo, e dell’Europa nella NATO.
Tramite la NATO, la maggior parte dei paesi dell’Unione Europea hanno già partecipato a due guerre di aggressione, o almeno ad una delle due, e altri si preparano. E tutto questo in assenza di un effettivo dibattito, senza una visibile strategia decisionale. Aspettando la realizzazione della Costruzione europea, l’Unione Europea allo stato attuale prosegue come una sonnambula nel percorso di guerra che le è stato tracciato dagli Stati Uniti.
Questo stato di incoscienza è conservato da un mito che diviene più infantile con l’età, tipico della demenza senile: il mito dell’America protettrice, potente e generosa, ultimo ricorso per salvare l’Europa da tutto e soprattutto da se stessa. Si potrebbe obiettare che a questo mito non crede più nessuno. Ma si agisce sempre come se a questo mito si credesse. Che gli si creda o no - ed io non posso saperlo – la maggior parte dei dirigenti europei non esitano a raccontare ai loro popoli delle panzane, sul tipo: 
 “Gli Stati Uniti vogliono posizionare il loro scudo anti-missile in Europa per difendere gli Europei da attacchi iraniani;” “La guerra in Afghanistan è necessaria per impedire attentati terroristici in Europa;” “La Francia è rientrata nell’ambito del comando NATO per influenzare gli Stati Uniti;”
 “Noi siamo la Comunità Internazionale, il mondo civilizzato, e le nostre azioni sono in difesa dei diritti dell’uomo.” E via così!
 Gli Europei accettano il vocabolario“newspeak” della NATO, punta massima dell’informazione. Quindi, per designare i molteplici pretesti per le guerre, viene utilizzato il termine “minacce”. Un paese o una regione che si ha l’intenzione di attaccare sono naturalmente “strategici”. E qualsiasi azione aggressiva è chiaramente un atto di “difesa”. 
Qui, ancora, è l’ideologia che segue la burocrazia, ma che diviene una forza estremamente pericolosa. Mi spiego.
La NATO è prima di tutto una struttura burocratica pesante, tenuta in piedi da interessi economici e da carriere molteplici. Alla base della NATO si trova il complesso militar-industriale americano (così definito da Eisenhower nel 1961, ma che dovrebbe comprendere anche il Congresso in questa sua denominazione, in quanto l’industria militare è sostenuta politicamente per gli interessi economici localizzati in quasi tutte le circoscrizioni elettorali degli Stati Uniti, difesi accanitamente dai rappresentanti della specifica circoscrizione al Congresso nel momento di votare il bilancio).  
Dopo cinquant’anni, questo complesso costituisce ancora la base dell’economia degli Stati Uniti – un keynesismo militare che impedisce un keynesismo sociale, che andrebbe a tutto beneficio della popolazione, ma che viene decisamente ostacolato a causa di un dogmatico anti-socialismo. 
Al momento della “Caduta del muro”, vent’anni fa, vale a dire del crollo del blocco sovietico, c’è stata come una ventata di panico nel campo avversario. Cosa sarebbe accaduto senza la “minaccia”, che faceva vivere l’economia? Risposta semplice: trovare altre “minacce”. 
Per individuare gli obiettivi sono pronti i “think tanks”, queste scatole di idee, questi centri studi riccamente finanziati da settori privati per fornire al settore pubblico – che vuol dire il Pentagono e i suoi emuli al Congresso e all’esecutivo – le ragioni d’essere e di agire al momento del bisogno.
Il seguito è noto. Sotto Reagan è stato individuato il paradigma del terrorismo, e Saddam Hussein sotto Bush primo, poi il nazionalismo serbo e le violazioni dei diritti dell’uomo, poi nuovamente il terrorismo, ed attualmente vi è una autentica esplosione di “minacce”, a cui la “Comunità internazionale”, altrimenti detta NATO, deve rispondere.
Un elenco non esaustivo di minacce alla sicurezza: 
il sabotaggio cibernetico; i cambiamenti climatici; il terrorismo; le violazioni dei diritti dell’uomo; il genocidio; il traffico di droghe; gli stati in disastro; la pirateria; l’aumento del livello del mare; la penuria di acqua; la siccità; i trasferimenti di popolazioni; il probabile declino della produzione agricola; la diversificazione delle fonti di energia. (Fonte: NATO; conferenza tenuta l’1 ottobre 2009 ed organizzata congiuntamente da NATO e Lloyd’s di Londra, “the world’s leading insurance market”, il cosiddetto numero uno nel mercato mondiale delle assicurazioni.) 
Comunque, bisogna mettere in evidenza che la risposta congetturata a tutte queste minacce è necessariamente militare, e non mai diplomatica. Qualche volta è possibile giocare alla diplomazia, ma dal momento che si trova in una posizione di predominio militare, Washington è decisamente indotta a preferire il trattamento militare di qualsiasi problema. 
Tutte queste minacce sono necessarie per giustificare l’espansione burocratica del complesso militar-industriale e del suo braccio armato, la NATO. 
Ad unificare non è più un sistema di pensiero, una ideologia, ma una emozione: la paura. La paura del diverso, la paura dell’incognito, la paura...  non importa di cosa! E a questa paura la sola risposta è quella di natura militare.
Questa paura uccide la diplomazia. La paura uccide l’analisi e il dibattito. La paura uccide il pensiero. L’incarnazione di questa paura aggressiva è lo Stato di Israele. E l’Occidente, invece di calmare la paura israeliana, l’adotta e la interiorizza.

La Minaccia per abitudine: la Russia

Ma esiste una minaccia che non si trova sulla lunga lista ufficiale, ma che potrebbe essere la più pericolosa di tutte, per l’Europa in particolare. Se ne parla poco, ma assume una posizione di qualità nelle attività frenetiche dell’Alleanza atlantica: questa minaccia è la Russia. 
La Russia, o piuttosto l’Unione Sovietica, era il nemico contro il quale tutto era organizzato, ebbene, tutto questo continua. Siamo in presenza della “minaccia per abitudine”, o per inerzia burocratica.
Passo dopo passo, la NATO si trova impegnata nell’accerchiamento strategico della Russia, ad ovest della Russia, a sud della Russia e a nord della Russia.
In particolar modo ad ovest, tutti gli ex membri del defunto Patto di Varsavia sono divenuti membri della NATO, così come gli Stati Baltici, un tempo membri dell’Unione Sovietica stessa. Alcuni di questi nuovi membri richiedono con grande strepito un maggiore dispiegamento di forze americane in vista di un eventuale conflitto con la Russia. 
Qualche giorno fa, a Washington, il ministro per gli affari esteri della Polonia, Radek Sikorski, ha reclamato la dislocazione di truppe americane nel suo paese, “come scudo contro l’aggressione russa”. L’occasione si è presentata ad una conferenza organizzata dal centro studi CSIS, Center for Strategic and International Studies, Centro per gli Studi Strategici ed Internazionali, sul tema “Gli Stati Uniti e l’Europa centrale”, per celebrare la caduta del muro di Berlino. 
Tutto questo è caratteristico di ciò che l’ex ministro della guerra americano Donald Rumsfeld ha definito come “la Nuova Europa”: Sikorski ha ricevuto la cittadinanza britannica nel 1984 (aveva 21 anni), ha compiuto i suoi studi a Oxford e ha sposato una giornalista americana, e lui stesso ha lavorato come corrispondente per diversi giornali e televisioni americane. Prima di diventare ministro degli affari esteri della Polonia, Sikorski ha trascorso parecchi anni (dal 2002 al 2005) a Washington in centri studi dell’American Enterprise Institute, vivaio di neo-conservatori, e alla New Atlantic Iniziative nel ruolo di direttore esecutivo.  
Dunque, questo Polacco appartiene a quella schiera molto particolare di strateghi originari dell’Europa centrale che, dopo l’inizio della Guerra Fredda nel 1948, hanno influenzato in modo considerevole la politica estera americana. Uno dei più importanti fra costoro, anche lui Polacco, Zbigniew Brzezinski, alla stessa conferenza ha parlato delle “aspirazioni imperiali” della Russia, delle minacce di questa nei confronti della Georgia e dell’Ucraina e dell’intenzione della Russia di diventare “una potenza mondiale imperiale”.  
Viene largamente dimenticato che la Russia aveva volontariamente e pacificamente lasciato andare questi Stati, che oggigiorno pretendono di essere “minacciati”. 
Ancora di più è stato dimenticato che il 9 febbraio 1990 gli Stati Uniti, in occasione delle trattative sul futuro dei due stati tedeschi, avevano rassicurato Gorbachev  che, se la Germania unificata veniva assimilata nella NATO, “non sarebbe avvenuto alcun allargamento delle forze della NATO ad est, nemmeno di un centimetro.” E quando Gorbachev era ritornato su questo argomento, puntualizzando che “questo allargamento della zona di influenza della NATO è inaccettabile”, il segretario di Stato americano  James Baker aveva risposto, “Io sono d’accordo”. 
Allora, rassicurato, Gorbachev ha accettato l’appartenenza della Germania riunificata alla NATO credendo – ingenuamente – che le cose si sarebbero fermate a quel punto e che la NATO avrebbe impedito efficacemente il “revanscismo” tedesco. Ma, già l’anno seguente, il governo della Germania riunificata ha dato fuoco alle polveri balcaniche, appoggiando le secessioni della Slovenia e della Croazia...  

Ma ritorniamo al presente. La mobilitazione contro la pretesa “minaccia” russa non si limita ai discorsi. Mentre Sikorski lasciava a bocca aperta per lo stupore i suoi ex colleghi dei think tanks di Washington, i militari erano al lavoro.
In ottobre, delle navi da guerra americane sono arrivate direttamente da manovre al largo delle coste scozzesi per partecipare a delle esercitazioni militari con le marine da guerra della Polonia e dei Paesi Baltici. Questo faceva parte di ciò che il portavoce della Marina da guerra americana descriveva come la “presenza continua” nel Mar Baltico, a due passi da San Pietroburgo. 
In questa occasione, i responsabili dei governi baltici parlavano di “nuove minacce, dopo l’invasione russa della Georgia” e di esercitazioni navali a vasto raggio da compiersi nell’estate prossima. Tutto questo, mentre si progettano aumenti di bilanci militari – 60 miliardi di euro solo da parte della Polonia per modernizzare le sue forze armate.
È importante sottolineare che questa attività nel Mar Baltico serve anche a far entrare ufficiosamente i paesi scandinavi, Svezia e Finlandia, storicamente neutrali, nelle manovre e nei piani strategici della NATO. I paesi scandinavi, con il Canada, avranno un ruolo da esercitare nella corsa all’accaparramento delle risorse minerali che potrebbero rendersi accessibili con il ritirarsi della calotta glaciale. 
In questo modo prosegue l’accerchiamento della Russia dalla parte settentrionale. 
Attualmente, non contenti di avere assorbito gli Stati baltici, la Polonia, la Cechia, la Slovacchia, l’Ungheria, la Bulgaria e così via, i dirigenti americani, sostenuti vigorosamente dalla “Nuova Europa”, insistono sulla necessità di far entrare nel girone dell’Alleanza cosiddetta “Atlantica” due paesi strettamente confinanti con la Russia, la Georgia e l’Ucraina.
Relativamente a questi due casi, soprattutto per quel che concerne l’Ucraina, si avvicina pericolosamente la possibilità di un effettivo conflitto con la Russia. 
L’Ucraina costituisce una grandissima “Krajina” jugoslava...   in lingua slava i due termini hanno il significato di “frontiera”...  divisa fra Ortodossi e Cattolici- Uniati, che ospita la grande base navale russa di Sebastopoli, in una Crimea la cui popolazione è di maggioranza russa...   base reclamata dagli attuali dirigenti ucraini che la trasferirebbero volentieri agli Stati Uniti. 
Ecco il punto vagheggiato per scatenare la Terza Guerra Mondiale – che sarebbe senza ombra di dubbio la vera “ultimissima”.
I dirigenti baltici traducono l’inquietudine russa davanti a questa espansione della NATO come la prova della “minaccia russa”. Così, in una “lettera aperta all’amministrazione Obama dall’Europa centrale ed orientale” del luglio scorso, Lech Walesa, Vaclav Havel, Alexander Kwasniewski, Valdas Adamkus e Vaira Vike-Freiberga hanno dichiarato che “la Russia in quanto potenza revisionista ritorna a perseguire un programma da 19.esimo secolo con le tattiche e i metodi da 21.esimo secolo”. Secondo costoro, il pericolo sta in quello che loro definiscono come “l’intimidazione larvata” e “l’influenza propagandata” (da venditore ambulante!) della Russia, che potrebbe alla lunga portare ad una “neutralizzazione de facto della regione”.  
Ci si potrebbe domandare dove starebbe il male? Ma il male sta nel passato e il passato è nel presente. 
Questi Americanofili continuano: “La nostra regione ha sofferto quando gli Stati Uniti hanno dovuto soccombere al ‘realismo’ di Yalta...  Se agli inizi degli anni Novanta avesse prevalso un punto di vista ‘realistico’, oggigiorno noi non saremmo nella NATO... ” 
Ma adesso ci sono, ed esigono “un rifiorimento della NATO”, che deve “riconfermare la sua funzione centrale di difesa collettiva allo stesso tempo in cui noi ci prepariamo ad affrontare le nuove minacce del 21.esimo secolo.” Ed aggiungono, un po’ ricattatori, che la loro “capacità di partecipare a spedizioni lontane è collegata alla loro sicurezza domestica.”
La Georgia è là per mostrare il pericolo rappresentato da questi piccoli paesi, pronti a coinvolgere l’Alleanza Atlantica nelle loro dispute di frontiera con la Russia. 
Ma quello che è decisamente curioso sta nel fatto che questi dirigenti particolarmente bellicosi di piccoli paesi dell’Est hanno spesso trascorso anni negli Stati Uniti in istituzioni vicine al potere e possiedono la doppia nazionalità. Diventano patrioti dei loro piccoli paesi in quanto si sentono protetti dall’unica superpotenza mondiale, cosa che può indurre ad una aggressività particolarmente irresponsabile.   
Questo presidente georgiano, Mikeil Saakachvili, che nell’agosto 2008 non ha esitato a provocare una guerra contro la Russia, è stato borsista del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti negli anni Novanta, conseguendo i diplomi delle università di Columbia e di George Washington, nella capitale.
Fra i firmatari della lettera citata, bisogna far notare che Valdas Adamkus è in buona sostanza un Americano, immigrato dalla Lituania negli anni Quaranta, che ha servito nel servizio informazioni militare americano e nell’amministrazione Reagan, che lo ha decorato, e che è rientrato in pensione in Lituania nel 1997... per essere immediatamente eletto come Presidente di questo Stato dal 1998 fino al luglio scorso. 
Il percorso di Vaira Vike-Freiberga è esemplificativo: di una famiglia fuggita dalla Lettonia verso la Germania nel 1945, ella ha fatto carriera in Canada prima di rientrare in Lettonia giusto in tempo per essere eletta Presidente della Repubblica dal 1999 al 2007.  

La Costruzione europea contro il mondo

Abbracciando queste paure, che sono all’origine di costrutti per giustificare una militarizzazione, gli Stati membri dell’Unione Europea si pongono in contrapposizione con il resto del mondo, visto che questo sembra essere una fonte inesauribile di “minacce”. 
La capitolazione incondizionata dell’Europa dinanzi alla burocrazia militar-industriale e alla sua ideologia del terrore è stata confermata recentemente dal ritorno della Francia nell’ambito del comando NATO. 
Una delle ragioni di questa capitolazione è la psicologia dello stesso presidente Sarkozy , la cui adorazione per gli aspetti più superficiali degli Stati Uniti si è espressa nel suo discorso imbarazzante tenuto al Congresso degli Stati Uniti nel novembre 2007.
L’altra causa, meno evidente ma più decisiva, è costituita dalla recente espansione dell’Unione Europea (UE). L’inglobamento rapido di tutti gli ex satelliti dell’Europa dell’Est, così come delle ex repubbliche sovietiche di Estonia, Lettonia e Lituania, ha radicalmente cambiato gli equilibri di potere in seno alla stessa UE. 
Le nazioni fondatrici, la Francia, la Germania, l’Italia e i paesi del Bénélux, non possono più guidare l’Unione verso una politica estera e di sicurezza unitariamente. 
Dopo il rifiuto della Francia e della Germania di accettare l’invasione dell’Iraq, Donald Rumsfeld ha gettato il discredito su questi due paesi, come facenti parte della “vecchia Europa” e si è compiaciuto della volontà espressa dalla “nuova Europa” di seguire l’esempio degli Stati Uniti. 
La Gran Bretagna ad ovest e i “nuovi” satelliti europei ad oriente sono più affini agli Stati Uniti, che non all’Unione Europea, che li ha accolti e che fornisce loro un considerevole aiuto economico per lo sviluppo e un “diritto di veto” su importanti questioni politiche. 
È vero anche che, pur estranea al comando integrato della NATO, l’indipendenza della Francia era solo relativa. La Francia ha seguito gli Stati Uniti nella prima guerra del Golfo – il Presidente François Mitterrand sperava inutilmente di guadagnare crediti a Washington, il solito miraggio che attira gli alleati nelle operazioni statunitensi poco trasparenti. La Francia si è unita alla NATO nel 1999 nella guerra contro la Jugoslavia, malgrado le perplessità e i dubbi raggiungessero i più alti livelli. 
Ma nel 2003, il Presidente Jacques Chirac e il suo ministro per gli affari esteri Dominique de Villepin hanno realmente messo in campo la loro indipendenza rigettando l’invasione dell’Iraq. Viene generalmente riconosciuto che la posizione francese ha permesso alla Germania di fare lo stesso. Il Belgio si accodava. 
Il discorso di Villepin, il14 febbraio 2003, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che assegnava la priorità al disarmo e alla pace sulla guerra, riceveva una rara ovazione tutti-in-piedi, una “standing ovation”. Il discorso di Villepin divenne immensamente popolare in tutto il mondo ed accrebbe enormemente il prestigio della Francia, in particolare nel mondo arabo. Ma, al suo ritorno a Parigi, l’avversione personale fra Sarkozy e Villepin raggiungeva vertici di contrapposizione passionale e la persecuzione di Villepin coinvolto nel poco chiaro “affaire Clearstream” rappresenta  l’affossamento delle ultime velleità di indipendenza politica della Francia sotto una valanga di fango vendicatore.   
Oggi, chi parla per conto della Francia? Ufficialmente Bernard Kouchner, profeta dell’ingerenza umanitaria che, lui sì, aveva approvato l’invasione dell’Iraq. Ufficiosamente, i cosiddetti “neo-conservatori”, che sarebbe meglio definire come “imperialisti sionisti”, visto che il loro autentico progetto è un nuovo imperialismo occidentale aggressivo, in seno al quale ad Israele spetterebbe un posto in prima fila.
Il 22 settembre 2009, “The Guardian” di Londra ha pubblicato una lettera che faceva appello all’Europa perché prendesse le parti della Georgia nel conflitto per l’Ossezia del Sud. 
Sottoscritta da Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Mart Laar, Vytautas Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn Bendit, Timothy Garton Ash, André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik e Josep Ramoneda, la lettera profferiva le solite banalità pretenziose sulle “lezioni della storia”, si intende, tutte giustificanti l’utilizzazione della potenza militare occidentale: Monaco, il patto Ribbentrop-Molotov, il muro di Berlino.
I firmatari esortavano i 27 dirigenti democratici dell’Europa a “definire una strategia in grado di produrre cambiamenti per aiutare la Georgia a riprendersi pacificamente la sua integrità territoriale ed ottenere il ritiro delle forze russe stazionanti illegalmente sul suolo georgiano... ” 
Nel frattempo, gli alleati della NATO continuano ad ammazzare e a farsi ammazzare in Afghanistan. Ci si potrebbe domandare quali sono i veri obiettivi di questa guerra, che, all’inizio, si incentravano nella cattura e nella punizione di Osama bin Laden. Un diverso obiettivo, più riservato, è valido quale che sia lo sbocco di questo conflitto: l’Afghanistan serve a forgiare un esercito internazionale come forza di polizia per controllare sullo stile americano la “globalizzazione”.  
L’Europa è soprattutto una “scatola degli attrezzi” nella quale gli Stati Uniti possono attingere per perseguire ciò che in buona sostanza è un progetto di conquista planetaria. 
O, come viene dichiarato ufficialmente, di “buona governance”, la buona conduzione di un mondo “globalizzato”.
Gli “imperialisti sionisti” sono sicuramente consapevoli di questo obiettivo e lo sostengono. Ma gli altri? A parte alcuni “illuminati”, si ha l’impressione di un’Europa sonnambula, senza un pensiero e senza volontà, che segue la voce del suo maestro americano, nella speranza che Obama salverà il mondo. Più triste che ai tropici! 
Per concludere, vorrei ritornare alla famosa “Costruzione europea”. Sono consapevole che esisteva un’epoca  in cui era lecito, e quasi sensato, sperare che le vecchie nazioni europee si mettessero insieme pacificamente in quello che Gorbatchev, questo grande “cornuto” della storia, chiamava “la nostra casa comune”. Ma dopo, ci sono stati Maastricht, il neo-liberismo, il Trattato costituzionale respinto e poi adottato contro ogni procedura democratica, e soprattutto gli allargamenti sconsiderati verso i paesi i cui dirigenti pensano di proseguire la Guerra fredda fino alla totale umiliazione della Russia. 
Attualmente, questa costruzione ha del paradossale: si nutre di Utopia, che distoglie dal presente, in attesa di un avvenire che domina l’orizzonte. E perciò, è vuota di contenuti. È molto più ispirata dalla paura e dalla vergogna del passato che da speranze per il futuro. 
L’Europa delle nazioni ha perso la sua fierezza e la stessa sua ragion d’essere nelle due grandi guerre del ventesimo secolo, nel “totalitarismo”, ma soprattutto – e questo è relativamente recente, per essere precisi dopo il 1967 – a causa dell’Olocausto. 
L’Europa deve mettersi nell’impossibilità di commettere una nuova  Shoah con l’abolizione dello Stato nazione, giudicato intrinsecamente colpevole, per divenire “multiculturale” e con l’unirsi alla Crociata guidata dal suo salvatore storico, gli Stati Uniti, per recare il buon governo e i Diritti dell’Uomo al mondo intero.    
L’Unione Europea non ha contenuti, è votata a fondersi nella “Comunità Internazionale”, a fianco degli Stati Uniti. Dunque, la Costruzione europea è anzitutto una “decostruzione”, per mutuare un termine filosofico.  
Questo miraggio nasconde un futuro totalmente imprevisto e, all’oggi, imprevedibile. 

Diane Johnstone è l’autrice di  “Fools' Crusade: Jugoslavia, Nato, and
Western Delusions – La Crociata degli Inganni: Jugoslavia, Nato e Allucinazioni Occidentali” pubblicato da Monthly Review Press.




ZastavA annoZERO

foto di bruno maran

camera del lavoro brescia
via folonari venti
dal nove al ventitre dicembre

collaborazione:
associazione zastava brescia - cgil camera del lavoro - samostalni sindikat kragujevac

La Zastava è stata fondata nel 1862, già produttrice di cannoni per l’impero ottomano e austro-ungarico, divenne nel secondo dopoguerra la più importante realtà industriale dei Balcani. Produsse per anni auto derivate da modelli Fiat, da ricordare l’equivalente della 600, prodotta in quasi un milione di esemplari. Produsse poi modelli elaborati direttamente dagli uffici tecnici interni, la più famosa fu la Yugo, esportata anche negli Stati Uniti.
Durante la guerra “umanitaria “ del 1999 fu pesantemente bombardata con 36 missili Cruise. Colpiti tra l’altro il centro elaborazione dati e la centrale termica, che produceva energia per la città, provocando una preoccupante situazione ambientale con pericolosi effetti, ancora presenti, nella popolazione oltre che negli operai.
I pochi operai oggi impiegati montano il modello Punto con motori e materiali provenienti da Italia e Polonia. La situazione economica è ulteriormente complicata dai problemi di capitalizzazione della nuova Fiat Auto Srbija, in cui Torino sta giocando un pericoloso braccio di ferro complice la crisi mondiale dell’auto.
Questa inchiesta fotografica porta la testimonianza sulla fabbrica dopo i bombardamenti, sullo smantellamento degli impianti delle ”vecchie” linee, ancora formalmente di proprietà degli operai per gli effetti dell’auto-gestione jugoslava e la situazione del lavoro nei reparti di montaggio. Stimolare il dibattito sulle condizioni operaie, sui rapporti sindacali, affinché certe manovre aziendali vengano alla luce, sollevando il velo di oblio che è calato sulla realtà serba.

---

sulle altre iniziative di questi giorni e per informazioni sulla situazione alla Zastava vedi anche:



(italiano / deutsch)

Kosovo bleibt Sorgenkind Europas

1) Die Mafia als Staat (GFP)
2) Das Kosovo bleibt Sorgenkind Europas (Harald Neuber)
3) Le confessioni di un assassino

siehe auch: Die Mafia als Staat (I) (01.12.2008)


=== 1 ===


Die Mafia als Staat (II)
 
09.12.2009

PRISTINA/BERLIN
 
(Eigener Bericht) - Ein neuer Mafia-Skandal um die Kooperationspartner Berlins im Kosovo sorgt für Unruhe in Priština. Wie ein früherer Agent eines kosovarischen Geheimdiensts erklärt, habe ein enger Mitarbeiter des aktuellen Ministerpräsidenten Hashim Thaçi Morde an politischen Gegnern in Auftrag gegeben. Spione aus Thaçis Umfeld verantworteten demnach auch die Bedrohung und Misshandlung von Zeugen, die vor dem UNO-Kriegsverbrechertribunal gegen ehemalige UÇK-Kommandeure aussagen sollten. Die EU, deren "Rechtsstaatsmission" EULEX seit Monaten Kenntnis von den Vorwürfen hat, verschleppt ihre Aufklärung bis heute. Hashim Thaçi, dem seit je Verbindungen zur Organisierten Kriminalität nachgesagt werden, arbeitet eng mit Berlin und Brüssel zusammen. Er gilt in der deutschen Hauptstadt als Garant für die Verhinderung von Unruhen im Kosovo. Dessen Sezession unter Thaçis Führung wird seit letzter Woche vom Internationalen Gerichtshof in Den Haag auf ihre Vereinbarkeit mit dem Internationalen Recht überprüft. Deutsche Anwälte versuchen mit abenteuerlichen Konstruktionen, der illegalen Abspaltung vom serbischen Staat den Anschein von Legalität zu verleihen. Spanische Juristen bestätigen die Rechtswidrigkeit des Akts.

Auftragsmorde

Den neuen Mafia-Skandal um das Sezessionsregime in Priština hat der frühere Geheimagent Nazim Bllaca ausgelöst. Bllaca gibt an, seit dem Ende des Krieges, den die NATO und die kosovarische Terrortruppe UÇK 1999 gegen Jugoslawien führten, für den Geheimdienst SHIK tätig gewesen zu sein. Der Dienst war während des Kriegs von der UÇK aufgebaut und dann vom vormaligen UÇK-Führer Hashim Thaçi seiner 1999 gegründeten Partia Demokratike e Kosovës (PDK, Demokratische Partei des Kosovo) unterstellt worden. Die SHIK-Agenten betätigten sich auf dem Feld der Organisierten Kriminalität, auf dem auch Thaçi umfangreiche Aktivitäten nachgesagt werden [1]; so erpressten sie Schutzgeld und widmeten sich der Immobilienbranche.[2] Zu ihren Opfern wird ein Architekt aus Priština gezählt, der gegen die dort stark wuchernde illegale Bautätigkeit einzuschreiten plante. Bllaca erklärt, im Rahmen seiner SHIK-Tätigkeit 17 Verbrechen begangen zu haben, darunter Erpressung, Anschläge, Folter und Auftragsmorde. Ihm zufolge richteten sich die SHIK-Verbrechen auch gegen Thaçis Rivalen Ibrahim Rugova und dessen Mitarbeiter in der Partei Lidhja Demokratike e Kosovës (LDK, Demokratische Liga des Kosovo). Tatsächlich wurden seit 1999 mehrere Personen aus Rugovas direktem Umfeld ums Leben gebracht.

Frauenhandel

Bllacas Vorwürfe wiegen schwer, da sie das unmittelbare Umfeld des kosovarischen Ministerpräsidenten Hashim Thaçi betreffen. Berlin und die EU kooperieren mit Thaçi seit Jahren und benutzen den Einfluss seines Clans, um das Kosovo beherrschen zu können. Über seine Tätigkeit macht sich niemand Illusionen. Schon vor fast drei Jahren hieß es in einer im Auftrag der Bundeswehr erstellten Studie, Thaçi verfüge "auf internationaler Ebene" über recht weit reichende "kriminelle Netzwerke".[3] Schon zuvor hatte der deutsche Auslandsgeheimdienst BND festgestellt, Thaçi sei Auftraggeber eines "Profikillers" gewesen. Ob es sich bei diesem Profikiller um Nazim Bllaca gehandelt hat, ist bislang unbekannt. Bllaca selbst gibt an, die Befehle für seine Auftragsmorde von Azem Syla erhalten zu haben. Syla, der in den 1990er Jahren als Generalstabschef der UÇK auftrat, ist ein enger Vertrauter von Thaçi. Er wird heute in Priština als Geschäftsmann geehrt. Bllaca zufolge soll auch ein weiterer hochrangiger Politiker aus Thaçis Umfeld an SHIK-Agenten Aufträge zu Verbrechen erteilt haben - Xhavit Haliti. Haliti gehört heute dem Vorstand des kosovarischen Parlaments und dessen außenpolitischem Ausschuss an. Der BND brachte ihn schon vor Jahren mit Organisierter Kriminalität in Verbindung, insbesondere mit Frauenhandel.[4]

Druck auf Zeugen

Unklar ist die Rolle, die die EU-"Rechtsstaatsmission" EULEX in dem aktuellen Skandal spielt. Bllaca behauptet, schon vor Monaten mit einem Geständnis an EULEX herangetreten zu sein, um die Aufklärung der Verbrechen zu ermöglichen. Von entsprechenden Maßnahmen der EU-"Mission" ist nichts bekannt. Bllaca sah sich schließlich vor wenigen Tagen gezwungen, mit seinem Geständnis sowie weiteren Informationen an die Öffentlichkeit zu gehen. Seitdem befindet er sich, bewacht von EU-Personal, in Haft.[5] Seine Hinweise könnten auch dem UNO-Kriegsverbrechertribunal wichtige Erkenntnisse bringen: Demnach haben SHIK-Agenten Zeugen bedroht und misshandelt, die vor dem Tribunal gegen die UÇK aussagen sollten. Das Gericht konnte mehrere mutmaßliche Kriegsverbrecher nicht überführen, weil Zeugen ihre Aussagen zurückzogen oder sogar ermordet wurden. Bllaca, der nun wegen seiner mutmaßlichen Morde vor Gericht gestellt wird, hat bislang keinen Anwalt finden können, der das Risiko auf sich nimmt, ihn in Priština vor Gericht zu vertreten.

Gebilde

Während in Priština die neuen Vorwürfe gegen Hashim Thaçi und sein Umfeld für Unruhe sorgen, hat der Internationale Gerichtshof in Den Haag am 1. Dezember mit Anhörungen zur Sezession des Kosovo begonnen. Serbien hatte den Gerichtshof nach der Sezession seiner Südprovinz angerufen, um deren Rechtswidrigkeit bestätigen zu lassen. Letzte Woche wurden drei deutsche Völkerrechtler angehört, die mit abenteuerlich anmutenden Konstruktionen der Abspaltung den Anschein von Legalität zu verleihen suchten. So behauptete die Völkerrechtsberaterin der Bundesregierung, Susanne Wasum-Rainer, das Kosovo sei nach dem Einmarsch der NATO und der Installierung einer UN-Verwaltung zu einem "Gebilde" geworden, auf welches das Prinzip der territorialen Integrität keine Anwendung finden könne.[6] Eine "Unabhängigkeitserklärung" werde vom Internationalen Recht nicht verboten und sei deswegen zulässig. Der Heidelberger Völkerrechtler Jochen Frowein, der bereits mehrfach Auftragsarbeiten für Berlin erledigt hat, räumte zwar ein, eine Sezession könne internationales Recht brechen, wenn sie durch eine Intervention äußerer Mächte zustande komme; im Falle des Kosovo treffe dies aber nicht zu.[7]

Unverbindlich

Nicht ganz so erfindungsreich gab sich am gestrigen Dienstag die Vertreterin der spanischen Regierung bei der Anhörung in Den Haag. Spanien erkennt ebenso wie vier weitere EU-Staaten [8] und mehr als zwei Drittel sämtlicher Staaten weltweit die Sezession des Kosovo nicht an. Die Völkerrechtsberaterin Madrids stützte ihre Position in Den Haag darauf, dass Serbien ein Staat ist und deshalb territoriale Integrität beanspruchen kann, und darauf, dass der Westen unter deutsch-amerikanischer Führung mit der Anerkennung der Sezession die UNO hintergangen hatte. "Angesichts der Politik der vollendeten Tatsachen appellieren wir an die Kraft des Rechtes", erklärte sie.[9] Für den Fall, dass Den Haag sich nicht den juristischen Fantasien Berlins, sondern dem geltenden internationalen Recht unterwirft und die Sezession für illegal erklärt, verbreiten deutsche Medien, das Urteil des Internationalen Gerichtshofs sei nicht verbindlich. Die Bundesrepublik wird in diesem Fall das mafiöse Sezessionsregime der unter Rechtsbruch abgespaltenen Provinz Kosovo auch gegen das Votum des zentralen Gerichts der Vereinten Nationen anerkennen.

[1] s. dazu Organhandel und Die Mafia als Staat
[2] Angeblicher Killer erschüttert Kosovo; Basler Zeitung 02.12.2009
[3] s. dazu "Danke, Deutschland!"
[4] s. dazu Unter deutscher Aufsicht
[5] Angeblicher Killer erschüttert Kosovo; Basler Zeitung 02.12.2009
[6], [7] Berlin: Kosovo ist kein Präzedenzfall; Frankfurter Allgemeine Zeitung 03.12.2009
[8] Neben Spanien erkennen auch die EU-Mitglieder Slowakei, Rumänien, Griechenland und Zypern die Sezession des Kosovo nicht an.
[9] España apela al derecho internacional para declarar ilegal la independencia de Kosovo; El País 08.12.2009

=== 2 ===

Das Kosovo bleibt Sorgenkind Europas


Harald Neuber 


26.11.2009


Weniger als die Hälfte der Kosovo-Bevölkerung beteiligte sich an den Kommunalwahlen. Grund dafür sind auch die sozialen Probleme


Eineinhalb Wochen nach den Kommunalwahlen in der Kosovo-Region herrscht in europäischen Medien und Regierungsbüros verschämtes Schweigen. Zum ersten Mal seit der von der NATO unterstützten Sezession ( Kosovo:  Sprung ins dunkle Ungewisse Polit-Choreografie  auf dem Balkan) im Februar 2008 haben in der ehemaligen südserbischen Provinz unabhängige Wahlen stattgefunden, zuvor waren dafür die UN-Verwaltung UNMIK und die OSZE verantwortlich. Gelungen ist die Premiere nicht. Nur 45 Prozent der rund 1,5 Millionen Wahlberechtigten nahmen an der Abstimmung teil. Der Urnengang war zudem von Unregelmäßigkeiten überschattet und nun folgt auch noch eine Regierungskrise. Während nach außen positives Bild gezeichnet wird, nehmen innerhalb der EU die Sorgen zu.

   

Die Probleme begannen am Ende des Wahltags. Über Stunden hinweg warteten die Menschen im Kosovo am 16. November auf die Ergebnisse. Doch die Wahlbehörde konnte – nach eigenen Angaben wegen technischer Probleme – kein Ergebnis vorlegen.

Am Tag nach der Wahl dann erklärte sich der ehemalige UCK-Milizionär und amtierende Ministerpräsident Hashim Thaci zum Sieger. Seine Demokratische Partei ( PDK ) habe 20 der 36 Gemeinden, in denen neue Kommunalvertreter gewählt wurden, gewonnen. Angesichts der geringen Beteiligung wirkten Thacis Stellungnahmen skurril. Die Wahl sei ein Votum für seine gute Regierungsführung im Kosovo gewesen, sagte er. Beobachter sehen das freilich anders. Die verschwindend geringe Wahlbeteiligung sei eine Quittung für die massiven Wirtschaftsprobleme, hieß es in Meldungen von Nachrichtenagenturen, die zugleich auf die Arbeitslosigkeit von rund 40 Prozent verwiesen.

Vor wenigen Tagen dann folgten Berichte über eine drohende Regierungskrise. Die bislang amtierende PDK wolle ihren Koalitionsvertrag mit der Demokratischen Liga ( LDK ) kündigen. Beide Kräfte waren Mitte des Monats gegeneinander angetreten.


Berlin und Brüssel versprechen wirtschaftliche Zusammenarbeit

Neben den internen Problemen sorgt in der EU vor allem der Konflikt mit Serbien, das die Unabhängigkeit des Kosovos nicht anerkennt, für Kopfzerbrechen. Am Tag nach der Kosovo-Wahl bekräftigte Präsident Boris Tadic bei einem  Besuch  in Berlin erneut seine ablehnende Position. Belgrad sei jedoch bereit, auf "regulärem Weg" nach Lösungen des Konfliktes zu suchen, sagte der konservative Politiker. Wenige Tage später weihte Tadic nur wenige Kilometer von der Grenze zum Kosovo entfernt den größten Armeestützpunkt seines Landes ein. Rund eintausend Soldaten werden auf der Militärbasis  Jug  (Süden) ständig stationiert sein. In der Region hatten bis 2001 kosovo-albanische Milizen ihr Unwesen getrieben. Nach wie vor ist die Sicherheitslage labil. Und Serbien, so scheint es, will nach den Erfahrungen der vergangenen Jahre nicht auf die EU vertrauen.

Dabei unternimmt vor allem die deutsche Regierung alles Denkbare, um die serbische Staatsführung trotz des Kosovo-Problems an sich zu binden. Kurz nachdem der EU-Erweiterungskommissar Olli Rehn Serbiens Außenminister Vuk Jeremic zum Beitrittsgesuch aufforderte, bescheinigte Angela Merkel ihrem serbischen Amtskollegen Tadic in Berlin Erfolge bei der Annäherung an die Union.

Während der Zusammenkunft wurden weitreichende Kooperationsverträge zwischen dem deutschen Energiekonzern RWE und dem staatlichen serbischen Energieunternehmen EPS geschlossen. Der Kontrakt, so hieß es, könne der Beginn einer weiteren Zusammenarbeit auch in anderen Bereichen sein. Angekündigt wurden Machbarkeitsstudien über den  Bau  von Wasserkraftwerken. Mit derartigen Angeboten soll Serbien offensichtlich aus dem Einfluss Russlands gelöst werden, das den Kurs der Nichtanerkennung des Kosovos aktiv unterstützt.


Moskau beobachtet die Entwicklung gelassen

In Moskau ist man sich dieser außenpolitischen Konkurrenz zwar bewusst, reagiert aber gelassen. Nach Angaben des Abteilungsleiters des Europa-Instituts der  Russischen  Akademie der Wissenschaften, Pawel Kandel, waren 70 Prozent der jungen Serben noch nie in der EU. Grund dafür ist die restriktive Visa-Politik Brüssels. Zwar verspricht die EU Belgrad seit geraumer Zeit einen Abbau der Reisebarrieren. Geschehen ist bislang aber wenig.

Kandel beschreibt in einem Sammelband über den "Kosovo-Konflikt und internationale Sicherheit" die Folgen dieser Politik: Nach einer Umfrage des Belgrader Meinungsforschungsinstituts NSRM sei die Zahl der EU-Befürworter in Serbien von 72 Prozent im Jahr 2007 auf 63 Prozent in 2008 gesunken. Diese Zahlen zitiert auch die russische Nachrichtenagentur RIA Nowosti. In seinem  Kommentar  kommt Mitarbeiter Dmitri Babitsch zu dem Schluss: "Heute erreichen die EU- und Nato-Beamten durch ihre Politik das, was die S-300-Raketen, die Moskau 1999 Serbien versprach, aber nicht lieferte, nicht hätten erreichen können. Wir dürfen auf den Balkan zurückkehren - nicht weil wir so überaus gut wären, sondern weil sich die 'Eurokraten' als absolut schlecht erwiesen haben."

Informationen aus Brüssel geben der russischen Haltung Recht. Innerhalb der Union wird eine weitaus negativere Bilanz der Demokratieentwicklung in der Kosovo-Region gezogen, als dies in öffentlichen Stellungnahmen der Fall ist. Nach Informationen aus diplomatischen Kreisen wird vor allem die serbische Ablehnung der Gemeinsamen Außen- Sicherheitspolitik ( GASP ) der EU als Problem gesehen. Die Sezession des Kosovo von Serbien ist ein Kernstück dieser EU-Politik auf dem Balkan.

In einer internen Beratung zählte der Erweiterungsbeauftragte der EU,  Lawrence  Meredith, unlängst zudem die Probleme des "jüngsten Staates Europas" auf: Es gebe erhebliche Defizite bei den staatlichen Institutionen, eine schwache Justiz, Geldwäsche und andere Machenschaften der organisierten Kriminalität. Minderheiten würden diskriminiert und bei der Zusammenarbeit mit der EU-Justizmission  EULEX  hapere es. Der Titel des Papiers, in dem diese Probleme aufgelistet sind, wirkt da fast schon zynisch. Das Dokument heißt "Fortschrittsbericht".


=== 3 ===


Le confessioni di un assassino


04.12.2009
Nazim Bllaca, ex membro dei servizi d'intelligence dell'UCK, ambienti ritenuti vicini al PDK, partito del primo ministro Hashim Thaçi, ha ammesso il suo coinvolgimento in numerosi assassinii politici. Thaçi smentisce le accuse contro il suo partito ma promette giustizia imparziale
Di Arben Atashi, Fisnik Minci e Vehbi Kajtazi, Koha Ditore, 1 dicembre 2009 (selezionato da Le Courrier des Balkans e Osservatorio Balcani e Caucaso). 


La polizia della missione europea Eulex ha arrestato, la sera di lunedì 31 novembre, Nazim Bllaca. Quest'ultimo ha riconosciuto pubblicamente di aver partecipato a 17 omicidi e a tentati omicidi svelando inoltre nomi di funzionari di Stato, del partito PDK e della polizia che sarebbero come lui implicati in questi crimini. 

Bllaca, 37 anni, originario di un villaggio nei pressi di Lipjan/Ljipljan afferma d'essere un ex agente dei servizi segreti dell'UCK, SHIK. E' stato interrogato lunedì stesso dall'ufficio del Procuratore speciale. Dopo la lunga ammissione è stato incriminato per omicidi e partecipazione al crimine organizzato. 

(…) 

Alla vigilia dell'arresto, la domenica, Nazim Bllaca aveva riconosciuto pubblicamente di essere l'autore di almeno un assassinio e di aver preso parte ad altri atti criminali simili. Lo ha fatto rivolgendosi ai media davanti all'edificio del Parlamento del Kosovo. Lo stesso giorno un filmato amatoriale era stato diffuso da Gani Geci, ex comandante delle Forze armate della Repubblica del Kosovo (FARK) a Drenica e attualmente importante dirigente della Lega democratica della Dardania (LDD). Gani Geci ha dichiarato di aver inviato questo filmato già un mese fa alle autorità competenti Eulex ma che si è poi convinto, a seguito della mancanza di reazione delle autorità europee, a renderlo pubblico. 

Nel filmato Nazim Bllaca spiega di essere stato membro del SHIK, i servizi d'intelligence dell'UÇK durante la guerra, ambienti poi rimasti vicini al PDK di Hashim Thaçi dopo il conflitto. Nazim Bllaca accusa il suo diretto superiore, Azem Syla, di avergli ordinato di eliminare supposti collaboratori dell'UDB, i servizi segreti serbi, che erano dei quadri dei rivali politici del PDK, la Lega democratica del Kosovo fondata da Ibrahim Rugova. 

Le istituzioni del Kosovo hanno rapidamente reagito alle dichiarazioni di Nazim Bllaca. Il primo ministro Hashim Thaçi ha promesso l'apertura di un'inchiesta in merito all'accusatore e sugli accusati ricordando che “nessuno è al di sopra della legge”. Da parte sua, il Presidente Fatmir Sejdiu ha chiesto ai cittadini kosovari di mantenere la calma ed ha garantito che la giustizia del Kosovo farà il suo dovere. Nella sua prima dichiarazione in merito alla vicenda Yves de Kermabon, a capo della missione Eulex, ha dichiarato che ora è necessario che non avvenga alcuna pressione politica sui giudici istruttori. 

L'opposizione è stata invece fin da subito molto critica, affermando che la giustizia in Kosovo non funziona tant'è che Nazim Bllaca ha fatto le sue esternazioni davanti al Parlamento del Kosovo senza essere immediatamente arrestato. 

(…) 

Adem Salihaj, un dirigente della LDD (all'opposizione) ha chiesto all'LDK di rivedere, alla luce delle dichiarazioni di Bllaca, la sua coalizione di governo con il PDK. 

Dal PDK sono state rimandate al mittente tutte le accuse. Ciononostante il primo ministro Thaçi ha chiarito di aver avuto molti incontri, nella giornata di martedì, per essere meglio informato sugli sviluppi della vicenda. “Da questa mattina ho incontrato il presidente Sejdiu, poi ho riunito il Consiglio di sicurezza nazionale, poi ho incontrato i rappresentanti di Eulex, numerosi ambasciatori occidentali e infine abbiamo nuovamente convocato il Consiglio di sicurezza nazionale. Tutti I miei sforzi sono mirati ad affrontare le questioni emerse in questi giorni. E' chiaro che si sta cercando di attentare all'ordine costituzionale e alla sicurezza nazionale”. 

(…) 

Il primo ministro kosovaro ha ribadito più volte che tutti sono uguali davanti alla legge. Lo ha ripetuto anche quando gli è stato chiesto se alcuni alti funzionari dello stato e del suo partito, tirati in ballo da Bllaca, potrebbero essere arrestati: “Nessuno è al di sopra della legge. Tutto si baserà sulla verità. I cittadini del Kosovo devono aver fiducia nella giustizia, quella del Kosovo e quella internazionale”. 

Da parte sua Azem Sylla, ex comandante dell’UCK e in passato a capo del SHIK ha presentato un esposto contro Nazim Bllaca. E quest'ultimo è stato infine arrestato.