Informazione
II SETTIMANA ANTIREVISIONISTA
oltre la mitologia degli "italiani brava gente", oltre le amnesie della repubblica... NOI RICORDIAMO TUTTO!
cimitero di Prima Porta: "E questo è il fiore del partigiano..."
* sabato 13 febbraio 2010 - ore 19,30
al Blow (via di Porta Labicana 24 - San Lorenzo): Il revisionismo e l'uso politico della storia
Collettivo Militant - Collettivo studentesco Senza Tregua
Oggetto: [vocedelgamadi] Partigiani jugoslavi in Appennino: una storia ignorata
Data: 05 febbraio 2010 22:21:12 GMT+01:00
PARTIGIANI JUGOSLAVI IN APPENNINO
Una storia ignorata
La vicenda degli jugoslavi rinchiusi nei campi di detenzione fascisti della Penisola fino all’ 8 Settembre del 1943, ed il contributo da questi offerto alla Resistenza antifascista e antinazista italiana, sono stati finora noti solo a pochi specialisti e in modo frammentario.
Eppure, questi partigiani animarono la lotta di Liberazione nelle sue prime fasi lungo quasi tutta la dorsale appenninica, da Genova fino alla Puglia con episodi rilevanti soprattutto in Umbria e nelle Marche dove gli “slavi” furono presenti quasi ovunque e presero parte a quasi tutte le azioni più importanti.
Gli jugoslavi erano in maggioranza già esperti nella guerriglia perché l’avevano condotta nel loro paese, contro gli eserciti di occupazione tedesco e italiano, nonché contro i collaborazionisti locali, fino alla cattura e alla deportazione in Italia. Inoltre, la gran parte di loro erano giovanissimi militanti della SKOJ (la struttura giovanile del Partito Comunista jugoslavo), con una formazione ideologica solida ed una piena coscienza del nemico da affrontare. Con la loro esperienza e con la loro determinazione antifascista, essi dettero, fin dall’inizio, un valido contributo alla formazione del movimento partigiano in Italia e al consolidamento della capacità combattiva delle giovani reclute.
Abbiamo cominciato ad interessarci a questa storia negli ultimi anni, per esserne venuti a conoscenza in maniera pressochè casuale, nell'ambito delle nostre attività di solidarietà internazionalista e controinformazione sulla Jugoslavia e nell'ambito delle battaglie contro il revisionismo storico e la diffamazione della Resistenza, divenute purtroppo sempre più necessarie e frequenti. Con rammarico, abbiamo dovuto constatare che vicende di così vaste dimensioni ed implicazioni hanno trovato uno spazio pressoché trascurabile nella scrittura della storia dell’Italia contemporanea e della stessa lotta antifascista: nell’Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza (1) - che, tra la letteratura che abbiamo trovato, è l’unico caso in cui si sia perlomeno tentata una ricostruzione complessiva di questi fatti attraverso una specifica voce “Jugoslavi in Italia”, in chiusura della stessa è scritto: “la partecipazione jugoslava alla Resistenza Italiana non è stata ancora esaminata in modo organico”. Questo dopo tre decenni dalla conclusione di quella lotta.
Oggi sono passati ormai quasi 65 anni e la situazione non è cambiata, anzi il passare del tempo ha reso ovviamente più difficile ogni ricostruzione e indagine da fonte diretta: i testimoni ancora in vita sono rimasti in pochi e naturalmente anziani; le fonti documentarie, che già negli anni ’70 erano disperse e mal gestite, sono spesso diventate irreperibili; ed infine, l’approccio a quelle vicende è diventato “indigesto” a molti sia dal punto di vista politico che professionale.
Consapevoli di tutte queste difficoltà, abbiamo in ogni caso deciso di intraprendere un lavoro di ricerca e di divulgazione al grande pubblico che mettesse in risalto quel carattere internazionalista che fu anche della Resistenza italiana, oltrechè – ed è cosa nota, anche se abbastanza trascurata anch'essa - della omologa Lotta Popolare di Liberazione in Jugoslavia cui parteciparono centinaia di migliaia di italiani, soprattutto ex militari delle truppe di occupazione. Abbiamo inteso così tra l'altro contrastare le tendenze revisionistiche che vogliono presentare la Lotta di Liberazione in Europa in termini esclusivamente nazionali se non nazionalistici. (2)
E' nato dunque il progetto Partigiani Jugoslavi in Appennino, in virtù del quale si è via via costituita una rete molto ampia di contatti e di collaborazioni - con storici professionisti, sezioni ANPI ed Istituti di Storia, appassionati conoscitori delle vicende in questione e testimoni dei fatti residenti in molte province italiane. Infatti se in un primo momento abbiamo cominciato a seguire le tracce degli Jugoslavi, in gran parte sloveni e montenegrini, che erano fuggiti dopo l’8 Settembre dal campo d’internamento di Colfiorito, nei pressi di Foligno, e da quello di Renicci nei pressi di Anghiari in provincia di Arezzo, subito ci siamo resi conto che la questione abbracciava un'area geografica molto più ampia.
Gli jugoslavi che fuggirono dai campi d’internamento si dispersero nelle campagne circostanti accolti dalle popolazioni locali, molti di essi si unirono o contribuirono alla formazione delle brigate partigiane che si stavano componendo in quei giorni del settembre 1943.
A Bosco Martese, prima tappa della Resistenza Teramana, ma anche italiana, tra il 12 e il 25 settembre si concentrarono tutte le forze antifasciste della provincia di Teramo; si trattava di soldati italiani sbandati, ma anche di moltissimi ex prigionieri stranieri appena scappati dai campi di concentramento della zona: neozelandesi, inglesi, americani e numerosi prigionieri politici della Jugoslavia, in particolare montenegrini.
Nella mattinata del 25 settembre del ’43, l'avanguardia di una colonna tedesca motocorrazzata che transitava per Teramo, dietro informazione dei fascisti, si portava verso il bosco e catturava 7 partigiani. Ma nei pressi di Bosco Martese la colonna tedesca fu investita dal fuoco dei cannoni e delle mitragliatrici dei partigiani. Furono bloccati 30 camion e fu catturato il comandante della colonna, il maggiore austriaco Hartmann. I sette partigiani furono fucilati, e di conseguenza il comando partigiano teramano decise di giustiziare Hartmann.
Questo episodio divenne noto come “la prima battaglia campale in campo aperto della Resistenza Italiana” (così la definì Ferruccio Parri), meno noto è, però, il fatto che gli “slavi” giocarono un ruolo fondamentale in quella vicenda e nelle successive operazioni della Resistenza nell’Italia Centrale. Le formazioni di Bosco Martese erano state suddivise in tre compagnie, sotto la guida del capitano dei carabinieri Ettore Bianco e del medico condotto Mario Capuani. Di queste compagnie la seconda era comandata da Dušan Matijašević aiutato da Svetozar Čućković.
Dopo il 25 settembre le compagnie si dispersero, ma gli stranieri si diressero in massa verso la zona di Acquasanta Terme in provincia di Ascoli. La “sacca” dell’acquasantano divenne presto il rifugio di un numero impressionante di fuggiaschi stranieri, in particolare antifascisti jugoslavi. Arrivarono infatti molti altri da nord, dai campi di reclusione delle Marche - Servigliano presso Fermo, Collegio Gentile presso Fabriano, eccetera - ma anche dall’Umbria e dalla Toscana. In Umbria, anche grazie al recente interesse degli storici dell'ISUC di Perugia, è particolarmente noto il campo di Colfiorito presso Foligno dove nelle “casermette” furono internati migliaia di Montenegrini.
Memorie commosse di quei giorni sono contenute nei libri di Dragutin “Drago” Ivanovic, classe 1923, che abbiamo intervistato nella sua casa dove vive ancora a Lubiana. Drago ha scritto moltissimo su quelle vicende sin dagli anni ’70. Subito dopo la pensione ha preso a ripercorrere i sentieri della sua detenzione e della sua resistenza antifascista sul suolo italiano. Le sue memorie sono note alla storiografia italiana solamente per quanto riguarda il campo di Colfiorito in cui anch’egli fu detenuto, ma altrettanto interessante per la nostra storia è il periodo successivo, fino al suo trasferimento in Puglia ed il rientro in Jugoslavia di nuovo inquadrato a combattere in una delle cosiddette Brigate d’Oltremaredell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.
Dopo l’8 Settembre altri internati montenegrini di Colfiorito erano invece rimasti in Umbria unendosi alla Brigata Garibaldi nei dintorni di Foligno e di Spello (3); altri ancora si unirono alle formazioni partigiane delle Marche centro-settentrionali oppure andarono più a sud e si unirono al nucleo dei fuggiaschi dal carcere di Spoleto.
Il battaglione degli jugoslavi formatosi a partire da questo nucleo spoletino fu chiamato “ Tito”, il suo comandante militare era Svetozar Leković, detto Tozo, di Berane (Montenegro), che nel dopoguerra lavorerà come ingegnere presso l’Istituto Tecnico Militare di Belgrado; vice commissario politico era Bogdan “Boro” Pesić, il quale diventerà invece redattore del quotidiano belgradese Politika. Con alterne vicende, visto che talvolta gli “slavi” tennero un profilo politico – militare più autonomo, il battaglione Tito fu collegato all’importante Brigata Gramsci il cui commissario politico era Alfredo Filipponi. Gli “slavi” della Gramsci compirono una serie di azioni di disturbo tali da costituire una vera e propria spina nel fianco per lo schieramento tedesco impegnato a fronteggiare l’avanzata da sud delle truppe alleate. Nei primi mesi del ’44 il territorio di ben 12 comuni della Valnerina era sotto il controllo della Brigata Gramsci che era stata suddivisa in 5 battaglioni, tra cui appunto il battaglione Tito. Il territorio dei comuni di Scheggino, S. Anatolia di Narco, Vallo di Nera, Cerreto di Spoleto, Preci, Visso, Norcia, Cascia Poggiodomo, Monteleone e Leonessa venne praticamente abbandonato dalle forze nazifasciste costituendo il primo territorio libero dell’Italia Centrale. Per oltre quattro mesi in Umbria visse la Prima Repubblica Partigiana, esempio di una nuova era che le popolazioni sentivano avvicinarsi ineluttabilmente.
Nell’aprile del ’44 il comando tedesco di concerto con quello fascista, decise una massiccia “operazione di polizia” in Valnerina: una serie di battaglie contro forze preponderanti impegnarono i partigiani, che tuttavia riuscirono a sganciarsi con il minor danno possibile grazie anche alla capacità dei comandanti ed in special modo di Tozo. Dopo questa azione il battaglione Tito si diresse verso Visso ed il versante marchigiano.
Questo è proprio il periodo della sanguinosa controffensiva tedesca. La pressione degli Alleati sulla linea Gustav, in particolare i durissimi scontri presso Cassino, avevano creato tra i tedeschi una tensione crescente imponendo la elaborazione di piani e di manovre per il consolidamento del controllo del territorio, incluse azioni di “bonifica” nelle retrovie. Un obiettivo prioritario di tali azioni non poteva che essere la cancellazione della presenza delle “bande” partigiane del Centro Italia: con le loro azioni di disturbo, compiute con frequenza e decisione crescenti lungo le strade consolari quali la Salaria e la Flaminia tali “bande” diventavano inammissibili per il gigante tedesco. Protagonisti di tali importantissime azioni erano molto spesso proprio gli jugoslavi: quelli organizzati attorno al comandante Tozotra le provincie di Terni e di Rieti, e quelli attivi nell’entroterra marchigiano.
Un’altra storia interessante è quella che riguarda i prigionieri del campo di Renicci, in provincia di Arezzo. In questo campo erano stati fatti confluire i deportati della cosiddetta “provincia di Lubiana”, dunque molte migliaia di sloveni la gran parte dei quali avevano già fatto tappa prima nell’inferno di Arbe/Rab, poi a Gonars (UD); oltre a costoro c’erano anche prigionieri politici albanesi, croati e antifascisti italiani soprattutto anarchici, molti tra questi ultimi erano stati trasferiti a Renicci dai lager del sud e delle isole che nei primi mesi del ’43 dovettero essere sgomberati per l’avanzare degli Alleati.
Nel campo di Renicci i reclusi avevano già espresso anche apertamente, quando era stato loro possibile, la loro opposizione e resistenza ai trattamenti più vessatori. Tra l’altro nel campo esisteva una cellula politica comunista clandestina che faceva capo a Lojze Bukovac. (4)
Bukovac dopo la sua fuga da Renicci si unirà all’VIII Brigata Garbaldi Romagnola. In seguito all’offensiva tedesca che si stava spingendo dal sud verso il nord delle Marche fino all’alta Marecchia e alla Romagna, Bukovac ripiegherà in Toscana e di nuovo nell’aretino. Bukovac ricorda : “... [dopo il 18 aprile 1944, provenienti dall’ Emilia Romagna] ci ritirammo in Toscana dove ci siamo riuniti alla brigata “Pio Borri” verso la metà del mese di maggio. Il commissario della brigata “Borri” Dušan Bordon, un giovane studente originario del capodistriano, divenuto poi nostro eroe nazionale (nel dopoguerra a Capodistria gli è stata intitolata una scuola) era caduto in un combattimento nei pressi di Caprese Michelangelo il 13 aprile 1944...” (5)
In effetti in quel durissimo scontro a fuoco avvenuto nel corso di un rastrellamento fascista, per proteggere la ritirata dei compagni erano caduti, oltre allo studente Dušan Bordon, comandante del reparto, il russo Piotr Fesipović, mentre un altro montenegrino, tale Pelović, era stato catturato e immediatamente fucilato. Il reparto della GNR comunque paga con 12 morti e 10 feriti.
Non mancano gli episodi che coinvolgono gli jugoslavi anche più a Nord, fino a Genova, dove il comandante della brigata partigiana che liberò la città era jugoslavo: Anton “Miro” Ukmar. Ukmar in effetti era sfuggito da un lager in Francia; unitosi alla Resistenza italiana, venne nominato comandante della VI zona operativa, che sugli Appennini, poco lontano da Genova, disponeva di un vasto territorio liberato. Con le sue divisioni il compagno “Miro” prese parte alla liberazione di Genova e ne fu comandante della piazza al termine del conflitto. Ukmar – che sarà poi decorato con l’Alta onorificenza americana “Stella di Bronzo” ed eletto cittadino onorario di Genova - contribuì alla formazione di ben otto divisioni partigiane in Liguria. Di queste divisioni facevano parte alcune brigate comandate da Jugoslavi, tanto che portavano il nome di battaglia degli stessi come “Istriano”, “Montenegrino” eccetera. (6) Molti di questi partigiani jugoslavi caddero in combattimento e la maggioranza di loro , negli anni '50, si trovava sepolta nel cimitero di Genova.
Partigiani jugoslavi risultano caduti e sepolti fin nella provincia di Piacenza, a Cairo Montenotte e a Torino (ben 10 nel cimitero della città piemontese).
Il comandante partigiano Giuseppe Mari “Carlo”, in alcuni testi del dopoguerra provò a ricostruire gli organigrammi di tutte le formazioni della Resistenza marchigiana in cui gli jugoslavi avevano svolto un ruolo di primo piano, elencando molte centinaia di nomi... Non è questa la sede per ricordare questi nomi, o quelli dei combattenti jugoslavi delle altre regioni, nemmeno i più importanti. Bisogna invece sapere che negli anni '70 la RFS di Jugoslavia promosse la costruzione di alcuni Sacrari in cui furono raccolte la stragrande maggioranza delle spoglie dei partigiani caduti nelle diverse regioni italiane dopo l'8 Settembre, assieme alle spoglie di chi era caduto di stenti e di malattie nei campi di internamento prima dell’8 Settembre. I più importanti tra tali Sacrari si trovano a Roma (Prima Porta), nel cimitero di Sansepolcro (Arezzo), e a Barletta. Al di là delle spoglie contenute nei Sacrari, molte sepolture sono rimaste in diverse piccole località dell’Italia Centrale, dal cimitero internazionale di Pozza e Umito (Acquasanta Terme, in provincia di Ascoli), a Cantiano (PU: tre i fucilati), alla tomba di Franko Tugomir a Penna San Giovanni (AP)... Tante sono poi le lapidi e i monumenti in cui tutti questi partigiani sono ricordati.
Per quelli che sopravvissero, l’epilogo della vicenda è nelle Puglie. La regione dalla fine del ’43 diventò base strategica e retrovia dei partigiani slavi: sia per quelli che combattevano lungo la dorsale appenninica e che, attraverso le Puglie, dovevano tornare in patria, sia per quelli che combattevano nei Balcani e che talvolta, feriti, proprio in Puglia potevano essere trasferiti e curati in appositi centri, in seguito agli accordi intercorsi tra Churchill e Tito.
Questi avvenimenti sono ben ricordati anche da “Drago” e da Bukovac. I combattenti jugoslavi erano ospitati in centri di raccolta, ricoverati in ospedali, addestrati militarmente in località sparse in tutta la regione da Bari fino al Salento passando per Gravina e Grumo Appula. A Gravina un’epigrafe tuttora collocata all’ospedale ricorda i medici partigiani jugoslavi che prestarono opera di generosa assistenza medica al popolo nel 1944 – 45. A Grumo Appula è rimasta traccia della presenza dei soldati jugoslavi presso l’attuale scuola elementare (allora ospedale militare), e traccia della sepoltura di molte decine di loro nel locale cimitero, dove esiste una stele con iscrizione in serbocroato “riscoperta” solo di recente. La principale testimonianza, però, è nel cimitero di Barletta che ospita l'altro impressionante Sacrario jugoslavo, in cui giacciono le spoglie di oltre 800 partigiani jugoslavi.
Molti ex combattenti jugoslavi sono tornati varie volte in Italia, in forma privata o ufficiale, a ritrovare i loro compagni di lotta, i vecchi amici, le persone che fraternamente li avevano protetti e nascosti. Sempre sono stati “accolti come fossero fratelli per tanto tempo rimasti lontano da casa”. (7) Ciononostante, il complesso delle loro vicende è stato via via avvolto dall'oblio. Il mancato approfondimento sul contributo degli jugoslavi alla Resistenza Italiana ha causato, a nostro avviso, un danno imperdonabile e probabilmente irreparabile, per lo meno dal punto di vista strettamente storiografico, ma anche dal punto di vista sociale e politico, per il mancato consolidarsi dei legami di fratellanza e solidarietà. Crediamo di non allontanarci dal vero se affermiamo che la mancata comprensione da parte italiana della tragedia Jugoslavia alla fine del XX secolo, con la cancellazione sanguinosa dello Stato unitario degli "slavi del sud", sia stata anche frutto di questo colpevole oblio. In ogni caso questo vuoto storiografico, sul quale noi interveniamo adesso apponendo il nostro enorme "punto interrogativo", dovrà essere oggetto di una riflessione collettiva e di serie, anche se talora assai scomode, considerazioni storiche e politiche.
Il progetto Partigiani Jugoslavi in Appennino si sta concretizzando in queste settimane nella preparazione di un primo testo, di carattere sintetico-divulgativo corredato di materiali fotografici e tabelle, che contiamo di dare alle stampe entro il 65.mo della Liberazione. Si tratta di un testo scritto a più mani, con il coinvolgimento e l'aiuto di alcuni storici professionisti. (8) Altra documentazione che stiamo raccogliendo – ad esempio, interviste e riprese video – potrebbe essere utilizzata successivamente per interventi multimediali. Saranno approntate anche alcune pagine internet con le informazioni essenziali. Si tratta comunque di un lavoro collettivo, per il quale potrebbero ancora rivelarsi preziosi i contributi di chiunque abbia informazioni o documentazione inedita da fornire. (9)
Andrea Martocchia
Susanna Angeleri
per il Progetto Partigiani Jugoslavi in Appennino
Oggetto: Serbia e la NATO
Data: 02 febbraio 2010 12:52:35 GMT+01:00
In questo senso volevo porre la vostra attenzione su un esempio di manipolazione da parte di questa società civile serba (della quale fa parte anche CEAS, Center for Euroatlantic studies, l'agenzia di lobbing finanziata dagli USA per tali scopi, nda.) del sentimento di amerezza di una madre affranta.
Quindi, ho tradotto la lettera scritta da una madre della vittima, un ragazzo serbo, operatore della Televisione serba ucciso nei bombardamenti della NATO nel 1999, e letta in uno degli incontri organizzati da questa agenzia.
Distanza da questa lettera invece hanno subito preso gli altri famigliari delle vittime dichiarando di non essere minimamente d'accordo con le posizioni prese da una loro rappresentante.
Ora, se anche i fatti citati fossero del tutto veri come descritto dalla Sig.ra Stojanović (ed è probabile che lo siano), resta la perplesità di come l'entrata nella NATO possa aiutare la società civile in questa operazione di maggiore democratizzazione della Serbia.
Questa lettera è stata per prima postata sul blog di Jasmina Tešanović su b92, rappresentante delle Donne in nero di Belgrado (Žene u crnom), di cui vi ho scritto anni addietro.
http://blog.b92.net/text/14138/Srbija-i-NATO/
Ufficialmente lei è d'accordo con i principi delle DIN (ŽUC), ma ufficiosamente ha sempre propagato la politica degli USA e deriso la resistenza dei serbi durante i bombardamenti tacciandola come consapevole appoggio a Milošević. Che lui li abbia strumentalizzati è indubbio, ma tacciare il presidio dei ponti come volgare, turbo folk e nazionalista è lapalissiana derisione e demonizzazione del popolo serbo che in quel preciso momento storico ha fatto quello che chiunque altro avrebbe fatto: diffendere con i propri corpi, l'unica cosa che avevano a disposizione, i loro ponti.
Mi meraviglia l'assenza di reazione delle Donne in nero di Belgrado per questa aperta promozione e strumentalizzazione della vittima per motivi militaristici dalla parte di Jasmina Tešanović, membro attivo delle DIN.
E cosa direbbe Luisa Morgantini a proposito di questo?
Spero che questa lettura possa mettere in luce tutta la perversa manipolazione alla quale è sottoposta la società serba da anni.
Aggiungo inoltre che il blog di b92 è un mezzo potente per la creazione della pubblica opinione in Serbia e abilmente usa il mescolamento delle denunce autenticamente civili con la oramai aperta propaganda USA.
Fra pochi giorni vi tradurrò anche l'appello fatto da 200 personaggi pubblici (Kusturica, Koštunica etc.) per organizzare un referendum sull'eventuale entrata della Serbia nella NATO per la paura che questo si decida nell'oscurita' del Palazzo.
Jasmina Radivojević
dal Blog di Jasmina Tešanović su B92, membro attivo delle Donne in nero di Belgrado
La Serbia e la NATO
Questione di responsabilità e di colpa per le vittime collaterali
relazione di Zanka Stojanovic alla tribuna “Hajde da razgovaramo o NATO-u” (Let's talk about NATO), organizzata da CEAS (Center for Euro-Atlantic Studies)
Žanka Stojanović
Mi è molto difficile parlare dalla posizione della vittima su questo tema, sulla colpa della NATO per la uccisione dei civili durante l'intervento in Serbia del 1999, anche se a qualcuno potrebbe sembrare, dal punto di vista morale, la cosa più semplice, in quanto l'accusa diretta sarebbe una posizione del tutto naturale.
Questa posizione sarebbe facilitata dal fatto che la NATO, in alcuni casi, con la stessa scelta dell'obbiettivo civile, come la Televisione della Serba, ha indubbiamente commesso un crimine di guerra.
Le famiglie delle vittime hanno evitato la trappola di accusare l'Alleanza atlantica e così diventare la parte della propaganda ufficiale sui "criminali della NATO", consapevoli dell'inevitabilità dell'intervento Occidentale nella ex Jugoslavia (perché Milošević diversamente non poteva essere fermato). Anzi, seconda la mia profonda convinzione, questo intervento è arrivato troppo tardi, quando i crimini principali erano già compiuti per cui, dalla parte della NATO questo intervento aveva anche gli elementi della vendetta per le promesse non mantenute di Milošević. Proprio per questo, credo, durante i bombardamenti, i portavoce dell'Alleanza parlavano continuamente di "messaggi decisi a Milošević", il che è un evidente eufemismo per la dimostrazione della forza.
Inoltre, siamo consapevoli del fatto che le vittime non erano nell'interesse della NATO, confrontatasi con una parte della sua opinione pubblica avversa all'intervento in Serbia: la politica generale dell'Alleanza occidentale era senza un ombra di dubbio di evitare le vittime civili a costo di inferiore efficienza, ed è per questo che la NATO durante i bombardamenti ha spesso utilizzato le comunicazioni aperte ed ha permesso la fuoriuscita delle informazioni sui obbiettivi futuri e così via.
Siamo altrettanto consapevoli che le vittime civili andavano ad avvantaggiare Milošević nell'impresa di mobilitare la pubblica opinione Occidentale contro l'intervento, in quanto l'unica sua arma contro il mondo civile. In un momento, la NATO, confrontata con il fatto che le immagini di distruzioni dal terreno andavano a rinforzare la resistenza all'intervento, ha dichiarato la Televisione serba come obbiettivo legittimo. Milošević però rifiutava di evacuare gli uomini ed i mezzi. Anzi, conoscendo l'ora esatta dell'attacco, decide di far rimanere le persone nel palazzo per farle morire - con la piena collaborazione dei vertici politico militari - e per poter così raccogliere importanti punti propagandistici.
Così, sta decorrendo il decimo anno come le famiglie delle vittime stanno raccogliendo le prove, dirette ed indirette su quel crimine, le prove che i Tribunali di questo paese rifiutano di trattare, apertamente violando le leggi. La NATO, dal canto suo, sul crimine tace arrogantemente, rifiutando sistematicamente gli inviti delle famiglie delle vittime ad aiutare di fare la luce sul accaduto. Come ha testimoniato Carla del Ponte, anche i poteri serbi hanno rifiutato la richiesta del Tribunale dell'Aia di fornire sufficienti prove le quali permetterebbero un avvio dell'indagine contro la NATO nel caso RTS (Radio televisione serba). Questo silenzio, da entrambe le parti, non è naturalmente il frutto dell'ignoranza, piuttosto di cattiva coscienza.
Il comandante in capo per l'Europa nei tempi dell'intervento NATO, il generale Wesley Clark, nel gennaio del 2004 nell'intervista ad una radiotrasmittente americana dichiara che Milošević era stato avvisato in tempo per l'attacco, tramite il giornalista sul terreno. "Personalmente ho chiamato corrispondente della CNN informandolo (sul imminente attacco alla RTS)". Queste sue parole sono state confermate dallo stesso corrispondente di guerra da Belgrado, Alessio Vinci: "Noi lo sapevamo e lo sapevano anche i manager principali della RTS, perché noi glielo abbiamo detto".
Dopo quella intervista, il generale Clark però, ignora la lettera nella quale i familiari delle vittime lo pregano che gli permetta di utilizzare la sua testimonianza come la prova legale per poi, qualche tempo dopo, dare alla stessa Radio un altra intervista, con l'evidente intenzione di occultare tutto quello nella prima.
In opposizione alla combutta di fatto fra la NATO e le strutture di Milošević riguardo l'occultamento dei colpevoli per questo crimine concreto, l'interesse della Serbia è che la verità esca fuori e che i colpevoli siano puniti. A lungo termine, se per null'altro che per i motivi di mera umanità, questo potrebbe diventare anche l'interesse della NATO, in quanto la sua di colpa per aver sacrificato i civili, impiegati della RTS, sono considerevolmente inferiori: la NATO nel caso della uccisione dei 16 tecnici della Televisione, è apparsa per così dire, come un mezzo nelle mani di Milošević.
Anche se i familiari delle vittime dalla NATO fino ad ora non hanno ricevuto nemmeno una parola di scuse (semplicemente hanno tagliato corto dicendoci di rivolgerci al Tribunale per i diritti umani il quale a sua volta ha dichiarato la sua non competenza nel caso), noi crediamo che questa organizzazione ci debba l'aiuto nella nostra lotta per la verità: è il minimo che possono fare per le vittime. Se desideriamo una società degli uomini onesti e giusti su questo globo terrestre, dove tutti siamo ospiti per un po' di tempo, allora dobbiamo rispettarci l'un l'altro.
Rischiando di suonare ingenui, noi, le famiglie delle vittime, continuiamo ad aspettarci che la NATO ci fornisca dei documenti, le prove e gli indizi su come e quando le strutture statali di Milošević potevano essere arrivate ai dati circa la scelta dell'obbiettivo ed il tempo dell'attacco della Televisione serba. Che ruolo in questo aveva la stessa NATO e quale era il ruolo di alcuni paesi dell'Alleanza? Potrebbero di questo testimoniare i diplomatici o altre persone?
Ai famigliari delle vittime sono necessari i dati sui tipi di aerei che hanno eseguito l’attacco, sulle modalità delle comunicazioni dei pulito con la base, le registrazioni video di queste comunicazioni (e tutto per poter fare un confronto con le prove che nasconde il Ministero della difesa serbo) nonché le registrazioni aeree dello svolgimento dell’attacco. La NATO, durante il suo intervento ha regolarmente pubblicato le registrazioni degli obbiettivi colpiti sul suo sito ma non la registrazione dell’attacco sul RTS.
In Serbia, i Pubblici Ministeri come anche i tribunali, oggi, 10 anni dopo il cambio di potere, continuano a non prendere in considerazione le prove sulla colpa di Milošević e dei suoi generali per la uccisione dei 16 lavoratori della Televisione serba.
Le vittime dei bombardamenti NATO della Televisione serba per questo saluterebbero l’entrata del nostro paese nella NATO per un motivo semplice: l’alleanza occidentale è probabilmente l’unica che potrebbe stabilire un qualche controllo effettivo sulle strutture serbe militari, ne riformate ne lustrate ancora. La fragile società civile serba non sarà ancora a lungo capace di farlo da se. E credo di non dire nulla di nuovo se sottolineerò che senza un controllo civile sulle strutture militari, in particolar modo quelle della sicurezza militare, la democratizzazione e la guarigione della Serbia resteranno la mera illusione.
L’entrata della Serbia nella NATO indubbiamente chiuderebbe l’epoca delle guerre per le frontiere e la cosiddetta questione statale serba e uno stato di emergenza che perdura da quasi due secoli, per cui fermerebbe la necessità della imminente creazione delle unità speciali per gli stati di emergenza. I nostri figli non andrebbero più a morire.
Žanka Stojanović,
maestra in pensione
Iniziativa promossa da Guernica, da Rifondazione Comunista e dal Coordinamento Lavoratori Resistenti Modenesi
INTERVIENE SANDI VOLK
Ricercatore storico della sezione Storica della Biblioteca Nazionale slovena e degli studi di Trieste e Presidente dell’Associazione Promemoria di Trieste.
Seguirà dibattito
Firmatari:
Da: Claudia CernigoiData: 01 febbraio 2010 19:09:19 GMT+01:00Oggetto: aggiornamento sito
Comunico che sul sitosono stati inseriti due nuovi articoli. nella sezione Attualità "Rosarno Italia" e nella sezione Storia e revisionismo storico "2010, Giornata della Memoria Parziale?".Buona letturaciaoClaudia
Consideriamo queste parole di Primo Levi, dette nel 1980 nel corso dell’inaugurazione del Memorial in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazisti:
“La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo, non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle Camere del Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto. È vecchia sapienza, e già così aveva ammonito Heine, ebreo e tedesco: chi brucia libri finisce col bruciare uomini, la violenza è un seme che non si estingue.
È triste ma doveroso rammentarlo, agli altri ed a noi stessi: il primo esperimento europeo di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia è nato in Italia. È il fascismo, scatenato dalla crisi del primo dopoguerra, dal mito della “vittoria mutilata”, ed alimentato da antiche miserie e colpe; e dal fascismo nasce un delirio che si estenderà, il culto dell\'uomo provvidenziale, l’entusiasmo organizzato ed imposto, ogni decisione affidata all’arbitrio di un solo” .
Così noi siamo piuttosto propensi a considerare la Giornata della Memoria nella sua accezione più ampia, vogliamo considerarla la giornata in cui si ricordano TUTTI i crimini dei nazifascisti. Crimini che fanno parte della politica fascista prima e nazista poi, crimini che sono iniziati con l’eliminazione degli oppositori politici, poi con la soluzione finale che non aveva come scopo solo il genocidio del popolo ebraico, ma anche lo sterminio dei Rom, l’eliminazione degli omosessuali, dei disabili, degli asociali, dei Testimoni di Geova, dei prigionieri di guerra (primi fra tutti i sovietici che pagarono un prezzo altissimo in termini di vittime) e delle popolazioni civili deportate dai territori occupati nell’ambito della politica espansionista dell’Asse, tra i quali i civili (uomini, ma anche vecchi, donne e bambini) rastrellati nella Jugoslavia occupata dai fascisti e dai nazisti furono i primi ad essere deportati ed internati in campi che non erano ufficialmente di sterminio ma dove la mortalità era altissima a causa delle condizioni di prigionia.
Nel corso della celebrazione alla Risiera di San Sabba di quest’anno è intervenuto il presidente del senato Schifani, che si è presentato addirittura esibindo la stella gialla con la scritta “Jude”. Nel primo intervento il sindaco di Trieste, Roberto Di Piazza, dopo avere affermato che Trieste “è stata testimone diretta della svolta dello stato fascista che nel 1938 annunciò proprio qui l’emanazione delle leggi razziali” (questo richiamo al fascismo ha suscitato le rimostranze del vicesindaco Paris Lippi, che d’altronde va spesso a festeggiare a Predappio la ricorrenza della Marcia su Roma, quindi…) ha aggiunto che la persecuzione antiebraica è stata “uno sfregio” per una città come la nostra il cui sviluppo economico è dovuto anche al talento di esponenti della comunità ebraica. Affermazione piuttosto infelice, perché potrebbe lasciar intendere che un popolo che non ha dato alcun impulso al “progresso” potrebbe venire invece decimato? Mah! in circostanze come le commemorazioni ufficiali bisognerebbe pesare bene tutto ciò che si dice per non dare adito ad equivoci.
Riconosciamo però al sindaco di Trieste di avere aggiunto che nella Risiera trovarono la morte “ebrei, zingari, sloveni, croati, partigiani, civili vittime del progetto nazista di genocidio su larga scala”. Così come abbiamo apprezzato l’intervento del sindaco di Monrupino-Repentabor Marko Pisani cha ha concluso parlando della “banalità del male”, che trasforma persone normali in mostri, ma ha fatto notare che esiste anche una “banalità del bene”, che trasforma piccoli uomini in angeli: e noi abbiamo la possibilità di scegliere.
L’intervento del senatore Schifani (reperibile qui:
http://www.expoitalyonline.it/schifani-tutti-dovrebbero-visitare-auschwitz-discorso-alla-risiera-di-san-sabba/articolo-00132935 è stato invece sostanzialmente incentrato sulle persecuzioni antiebraiche. Leggiamo alcuni passaggi significativi:
La storia ebraica è sempre stata legata nei secoli a continue persecuzioni. Oggi dobbiamo continuare a conoscere e a ricordare e dobbiamo impedire che l’ignoranza e l’indifferenza abbiano la prevalenza perché l’orrore e il buio dell’umanità non si ripetano mai più. Questa giornata del 27 gennaio deve servire a tutti noi a costruire una memoria condivisa. Oltre alla follia ideologica del nazismo, una delle maggiori cause dell’antisemitismo è stata, infatti, l’ignoranza di quello che è stato il contributo degli ebrei allo sviluppo della civiltà. Malgrado siano passati decenni dalla fine traumatica e dalla sconfitta bellica del nazifascismo, sarebbe ottimistico pensare che con la fine di quell’ideologia sia venuto meno anche il razzismo. Il razzismo e l’antisemitismo esistevano già da prima e continuano purtroppo ad essere presenti anche oggi, seppure in ambiti circoscritti ed episodici.
Qui si potrebbe osservare che, tranne per qualche odioso (ma fortunatamente isolato) episodio di intolleranza rivolto contro il popolo ebraico, chi oggi in Italia è bersaglio di sentimenti razzisti e xenofobi sono altri soggetti: gli immigrati (di qualunque etnia e di qualunque colore o religione, da questo punto di vista bisogna riconoscere ai razzisti italiani di essere privi di preferenze) ed i Rom, molti dei quali non sono neppure stranieri, ma italiani. E qui a Trieste si respira più livore anti-sloveno che non anti-ebraico.
Proseguendo con il discorso di Schifani, dalla sua affermazione Il giorno della memoria non è stato creato solo per gli ebrei ci saremmo aspettati un discorso sulle altre vittime del nazifascismo, così come fatto da Di Piazza, però ha invece proseguito ma soprattutto per chi non lo è, affinché sappia ricordare.
Va aggiunto che Schifani ha anche detto: Mai più Shoah per gli ebrei, ma anche per coloro che ancora adesso, alcuni di noi si ostinano a ritenere diversi.La “diversità” deve essere bandita. L’odio razziale, la xenofobia che purtroppo albergano in taluni, sono veicolo di pericolosi pregiudizi, di falsi convincimenti che possono degenerare in violenza morale e fisica.
Parole che però nella conclusione del discorso hanno perso il senso di universalità: Oggi i confini di Israele non sono mero dato geografico, sono i confini della nostra stessa Patria, i confini della nostra civiltà, i confini della nostra storia. Questo significa ricordare: non gettare lo sguardo solo al passato, ma gettare ponti per un futuro di pace vera.
In questo senso, ogni uomo oggi è ebreo.Anche io oggi sono ebreo.
Ci sarebbe piaciuto sentire Schifani aggiungere “oggi io sono anche zingaro, comunista, anarchico, omosessuale, asociale, disabile, sloveno, croato…”, ma forse pretendiamo troppo.
In conclusione ci sembra che sempre più la Giornata della Memoria si stia trasformando nella Giornata della Memoria Parziale, della Memoria Negata, dato che c’è questa tendenza a voler dimenticare che non solo gli Ebrei furono perseguitati dal nazifascismo, e che il governo italiano iniziò la pulizia etnica delle minoranze linguistiche all’interno dei propri confini (sloveni e croati al confine orientale, tedeschi nel Sud Tirolo, francesi al confine occidentale) ancora prima che Mussolini marciasse su Roma, quindi più di dieci anni prima dell’avvento di Hitler al potere. Così come la negazione del sacrificio degli antinazisti in Germania (ricordiamo che, ben prima di teorizzare e poi cercare di realizzare la soluzione finale del problema ebraico, il nazismo stava già mettendo in pratica – senza averla teorizzata perché era insita nel suo essere – l’eliminazione totale dei propri oppositori, all’inizio anarchici e comunisti ma poi anche cristiani, liberali e militari dissidenti) ha portato a criminalizzare tutto il popolo tedesco per le responsabilità del nazismo. Dove è curioso che a fare questo ragionamento sia quella stessa cultura italiana che rifiuta l’equazione “italiano=fascista” (che viene invece attribuita falsamente ai membri dell’Esercito di liberazione jugoslavo quando si parla di “foibe”) e che nel contempo cerca di ribadire il concetto degli “italiani brava gente”, che se commisero dei crimini di guerra lo fecero solo al seguito dei nazisti (cosa del tutto inesatta) e che invece si prodigarono per salvare gli Ebrei (dove il comportamento meritorio di un Perlasca o di un Palatucci non possono assolvere tutti i crimini commessi dal fascismo e dagli ufficiali che ordinarono massacri e rastrellamenti).
Di questo negazionismo strisciante è emblematico il fatto che il programma della cerimonia in Risiera dopo il discorso di Schifani prevedesse un brano musicale che è stato presentato come la “marcia dei prigionieri di Mauthausen”: però le note che sono partite erano quelle della canzone “Die Moorsoldaten”, il canto dei prigionieri politici antinazisti composto nel 1934 nel lager di Boergermoor, uno dei primi lager istituiti dal regime nazista per rinchiudervi i più pericolosi oppositori politici (comunisti ed anarchici).
Attribuire un’origine sbagliata ad una canzone è forse un piccolo modo di stravolgere la storia (forse neanche voluto dagli organizzatori ma semplicemente causato dalla non-conoscenza), ma è pur sempre un modo che lascia il sapore amaro in bocca a chi certe cose le sa e desidererebbe che nel corso di iniziative istituzionali sulla Memoria, venisse presentata una memoria corretta e non una memoria parziale o non corrispondente al vero.
Gennaio 2010.
Da: "Comitato antifascista e per la memoria storica - Parma" <comitatoantifasc_pr @ alice.it>Data: 31 gennaio 2010 14:50:49 GMT+01:00Oggetto: iniziative antifasciste a Parma il 10 e l'11 febbraio 2010 in alternativa al "giorno del ricordo"L'11 febbraio a Parma al cinema "Astra" (p.le Volta) quinta edizione della manifestazione antifascista promossa dal Comitato antifascista e per la memoria storica-Parma alternativa alla "Giornata del ricordo delle vittime delle foibe". Alle 21 il giornalista e saggista Franco Giustolisi, che nel '94 scoprì l' "armadio della vergogna", parlerà su: "L'armadio della vergogna, disinformazione, Costituzione", seguirà il prof. Gorazd Bajc, storico, docente presso l' Università del Litorale a Capodistria e coautore del libro "Foibe" (Einaudi 2009), sul tema: "Il problema foibe e il confine italo-jugoslavo". Alle 22.15 saranno proiettate sequenze del filmato della BBC "Fascist Legacy" ("Il lascito fascista") sui crimini dell'Italia fascista in Jugoslavia.Il 10 febbraio a Parma in largo Tito (piazzetta della periferia sud est della città su via Budellungo) si terrà dalle 12 alle 13 un presidio democratico antifascista per ribadire il grande valore della Resistenza e della lotta armata jugoslava contro il nazifascismo guidata da Tito.
il 10 febbraio in Italia è dal 2004 la “giornata del ricordo delle vittime delle foibe”
Quando l’Italia riconoscerà i crimini del fascismo in Jugoslavia?
dopo le “scuse” di Berlusconi a Gheddafi per l’occupazione coloniale italiana della Libia
Vittime delle foibe, al confine nordorientale, nel settembre-ottobre 1943 e nel maggio 1945 sono state alcune centinaia di italiani, in gran parte militari, capi fascisti, dirigenti e funzionari dell’amministrazione italiana occupante la Jugoslavia, collaborazionisti. Si è trattato, nel complesso delle cinquecento,seicento vittime, di atti di giustizia sommaria, di vendette ed eccessi, per mano di partigiani jugoslavi, derivanti dall’odio popolare e dalla rivolta nei confronti dell’Italia fascista. Sulla base degli studi storici, questi tragici fatti non hanno assolutamente avuto le dimensioni che destre e fascisti vogliono far credere, né si è trattato di un’operazione organizzata e programmata dall’alto del vertice jugoslavo di Tito.
Violenza di gran lunga maggiore, sistematica e pianificata, precedente, usata per costruire l’ impero sull’Adriatico, è stata l’aggressione e l’occupazione della Jugoslavia da parte del fascismo. A partire dal 1920, azioni delle squadracce contro centri culturali, sedi sindacali, cooperative agricole, giornali operai, politici e cittadini di “razza slava”, poi, nel ventennio, la chiusura delle scuole slovene e croate, il cambiamento della lingua e dei nomi, l’italianizzazione forzata, quindi, dalla primavera del ’41, la guerra d’aggressione alla Jugoslavia e l’occupazione di suoi vasti territori. E con la guerra la distruzione di interi villaggi sloveni e croati, dati alla fiamme, il massacro di decine di migliaia di civili, i campi di concentramento. “Si ammazza troppo poco in Jugoslavia” affermava nel 1942 il generale Mario Robotti, comandante dell’XI Corpo d’Armata italiano in Slovenia e Croazia. Questo spiega la rivolta contro l’Italia fascista, lo sviluppo impetuoso del movimento partigiano guidato da Tito, la grande lotta antifascista e antinazista nei Balcani. E nessuno degli oltre 700 – tanti sono stati secondo la Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra – criminali di guerra italiani, a cominciare dai generali Roatta e Robotti, è stato mai condannato né estradato e consegnato alle autorità jugoslave.
Enorme è stato il tributo jugoslavo alla guerra contro il nazifascismo: su una popolazione di 18 milioni di abitanti dell’intero Paese, furono al comando di Tito 300.000 combattenti alla fine del ’43 e 800.000 al momento finale della liberazione, 1.700.000 furono i morti in totale, sul campo 350.000 i partigiani morti e 400.000 i feriti e dispersi. Da 400.000 a 800.000, ovvero da 34 a 60 divisioni, furono i militari tedeschi e italiani tenuti impegnati nella lotta, con rilevanti perdite inflitte ai nazifascisti.
Alla Resistenza jugoslava si unirono, l’indomani dell’8 settembre ’43, quarantamila soldati italiani, la metà dei quali diedero la vita in quell’epica lotta nei Balcani; accolti come fratelli dalle popolazioni jugoslave, essi, col loro sacrificio, riscattarono l’Italia dall’onta in cui il fascismo l’aveva gettata. A questi italiani devono andare il ricordo e la riconoscenza della Repubblica democratica nata dalla Resistenza.
11 febbraio 2010 Parma cinema “Astra” (p.le Volta)
ore 21 conferenza
di Franco Giustolisi autore de “L’armadio della vergogna”
e Gorazd Bajc storico, Università del Litorale-Capodistria
ore 22.15 proiezione di sequenze di “Fascist Legacy”
filmato inglese della BBC sui crimini dell’Italia fascista in Jugoslavia
COMITATO ANTIFASCISTA E PER LA MEMORIA STORICA – PARMA - comitatoantifasc_pr@...
L’annunciata drastica riduzione del contingente Kfor (compresa la prevista diminuzione del contingente italiano da duemila unità a cinquecento), attuata in risposta alle richieste Usa di un maggiore impegno nella guerra in Afghanistan, rischia di alimentare ulteriormente il dramma che da oltre un decennio vivono le popolazioni di Kosovo e Metohija, che in questo modo si vedrebbero abbandonate al proprio destino.
Preoccupati della sorte dei villaggi serbi che da più di dieci anni vivono sotto protezione, isolati, ghettizzati, minacciati dalle frange estremiste e violente del terrorismo ex Uck oggi al potere… preoccupati per la sorte dei monasteri ortodossi, patrimonio culturale dell’umanità intera, la cui distruzione è stata tentata e realizzata con la perdita definitiva di circa 150 monasteri della regione… con la reale possibilità che un popolo intero, che da secoli abita il Kosovo e Metohija scompaia definitivamente dalla propria terra, ci appelliamo:
a personalità della politica, della cultura, dell’arte e a tutte quelle associazioni del pacifismo militante, che da anni si sono impegnate per ristabilire la verità storica di quanto accaduto nella ex Jugoslavia e in Kosovo e Metohija, in totale contrasto con quanti hanno di fatto cooperato al distacco definitivo del Kosovo dalla Serbia e della comunità serba dal Kosovo, affinché:
- di fronte alla situazione venutasi a creare in questi anni nel Kosovo e Metohija, di fatto controllato e governato da clan malavitosi retti da ex criminali di guerra che hanno impedito lo sviluppo di ogni possibilità di dialogo fra le parti in causa, l’Italia faccia un passo indietro e si pronunci contro la proclamazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, in questi giorni in discussione presso la Corte di Giustizia internazionale;
- si denunci con forza che in questo momento storico, senza che si siano realizzate le condizioni minime e sufficienti a preparare il terreno per un ritiro totale delle truppe, la drastica diminuzione del contingente italiano in Kosovo e Metohija, posto a garanzia della minoranza serba e dei monasteri Ortodossi, abbandonerà a se stesse tutte le realtà “resistenti” nella regione, fatte di villaggi abitati da serbi e poche altre etnie (compresi quegli albanesi non collusi con mafia e terrorismo), da monasteri e cimiteri ortodossi, patrimonio culturale e artistico dell’umanità;
- si lavori affinché tutte le parti in gioco nel Kosovo, comprese le confessioni religiose, tornino a recitare il proprio fondamentale ruolo nel rispetto dei diritti di tutti;
- si arrivi alla istituzione di una commissione internazionale che verifichi la situazione delle proprietà abbandonate dalla popolazione serba in fuga, per poi procedere alla restituzione del patrimonio ai profughi, perché questi possano rientrarne in possesso, smascherando chi se ne è illegalmente impossessato.
Tutto questo perché si possa restituire il territorio del Kosovo e Metohija a tutti coloro che, da sempre, in quel territorio hanno convissuto.
A nostro avviso, il ruolo dell’Italia potrà tornare determinante, come lo fu per la sciagurata scelta dell’intervento armato. E, per una volta, potremo essere d’accordo.