Informazione
Una protagonista del jet set inglese, ex rifugiata della guerra balcanica, crea un caso diplomatico
pagando la cauzione per l'allora presidente musulmano Ganic ricercato in Serbia
Londra, ex leader bosniaco libero
grazie ai soldi della bella Diana
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA - Lei è Diana Jenkins, una ex rifugiata bosniaca diventata la moglie di un banchiere della City miliardario. Emigrata di nuovo, stavolta con i soldi, i figli e il consenso del marito, a Malibù, la spiaggia più chic di tutta la California perché in Inghilterra si sentiva trattata dalle altre donne del suo ambiente come "una moglie comprata su catalogo", insomma come una puttana. Lui è Ejup Ganic, ex presidente della Bosnia, arrestato una settimana fa all'aeroporto londinese di Heathrow e sbattuto in un tetro carcere di Londra in attesa che il tribunale valuti la richiesta di estradizione nei suoi confronti presentata dalla Serbia con l'accusa di crimini di guerra. Una corte inglese aveva rifiutato la libertà provvisoria, mettendo una cauzione di 300 mila sterline, circa 350 mila euro, nel timore che il carcerato, se rilasciato, sarebbe fuggito. Ma la moglie del banchiere ha pagato la cauzione di tasca sua e lo ha fatto tornare libero.
Sembra una favola. "La bella e la bestia", la riassumono furibondi i serbi. Ma di fiabe ce ne sono almeno due, in questa storia dall'ancora incerto lieto fine. La prima riguarda soltanto la protagonista femminile, Diana maritata con Roger Jenkins, nata 36 anni fa a Sarajevo col nome di Sanela Dijana Catic, fuggita a piedi dalle macerie e dalle stragi dell'ex Jugoslavia, approdata a Londra senza conoscere nessuno, senza sapere l'inglese, senza un lavoro e senza una sterlina. Nella capitale britannica ha fatto i mestieri più umili, si è messa a studiare e un giorno a una lezione in una scuola di business ha conosciuto un professore estemporaneo il cui vero lavoro è fare il banchiere, anzi, il superbanchiere, anzi, uno dei banchieri più ricchi della City. E' amore a prima vista tra Diana e Roger, che si sposano e inziano a fare la bella vita nel jet-set londinese. Lei si rivela non solo affascinante e seducente come una top-model, ma anche intelligente e scaltra come un banchiere: durante una vacanza in Costa Smeralda diventa amica di un'altra musulmana, la moglie dello sceicco del Qatar, attraverso la quale suo marito conosce lo sceicco e ottiene un favoloso prestito da 7 miliardi di sterline con il quale salva dalla bancarotta la Barclays Bank. E il superbanchiere diventa ancora più ricco.Secondo capitolo della favola. Un bel giorno, o brutto dal suo punto di vista, Diana pianta tutti e se ne va. Dice che le feste e le cene a cui partecipa insieme al marito la fanno sentire "vuota, umiliata e perfino sporca", per il modo in cui la trattano le altre donne, le altre mogli, facendola sentire come una "moglie ordinata su catalogo", modo elegante di dire che la fanno sentire una bella puttana, "comprata" dal marito per la sua bellezza e basta. Così, stufa di sopportare, lei accusa Londra e l'Inghilterra di classismo, snobberia, discriminazione sessuale e razziale verso una ex-povera ma bellissima ragazza musulmana bosniaca, fa le valige e si trasferisce con i figli a Malibù, dove si vive un'atmosfera più democratica, dice lei. Il marito la viene a trovare quando può, ogni tanto fa un salto lei a Londra, e intanto si occupa di filantropia e cause nobili.
Il terzo capitolo della fiaba è, per adesso, l'ultimo. Una settimana fa viene arrestato mentre cerca di partire dall'aeroporto di Heathrow un professore di ingegneria bosniaco. Si chiama Ejup Ganic, è stato vicepresidente e poi presidente della Bosnia negli anni Novanta, durante la guerra civile che mandò in frantumi la Jugoslavia e fece scorrere fiumi di sangue in conflitti inter-etnici. Indagato a suo tempo dal tribunale internazionale dell'Aja, Ganic non venne perseguito. Ma ora la Serbia ci riprova e ha presentato alla Gran Bretagna, dove Ganic risiede, richiesta di estradizione. Il crimine di cui è accusato risale a 18 anni fa. E' un famoso incidente che risale ai giorni in cui le forze serbo-bosniache circondavano Sarajevo, all'inizio di un assedio che durò 44 mesi e in cui morirono 10 mila persone. L'allora leader bosniaco Alija Izetbegovic fu preso in ostaggio dalle forze serbe all'aeroporto di Sarajevo mentre rientrava da colloqui di pace in Portogallo. Come risposta, la principale caserma serba di Sarajevo fu circondata dalle truppe bosniache. Un negoziato ad alta tensione, mediato dall'Onu, produsse un accordo per la liberazione di Izetbegovic e simultaneamente dei soldati della caserma serba. Ganic, che era il vice di Izetbegovic, condusse la trattativa e comandava di fatto le truppe della Bosnia in quel delicato frangente. Sembrava che la crisi fosse risolta ma, mentre Izetbegovic veniva liberato, il convoglio su cui viaggiavano le truppe serbe, che stava lasciando la caserma circondata, fu attaccato. Nell'agguato morirono 40 soldati. I serbi accusano oggi Ganic di diretta responsabilità nella morte di 18 di essi.Frottole, protesta la bella Diana. "Che Ganic sia arrestato per un crimine che secondo il Tribunale dell'Aja non sussiste è uno scandalo", dice. "Ora potrà contrastare queste accuse ridicole da uomo libero". Lei non lo ha mai incontrato o conosciuto, precisa, ma non ha esitato a tirare fuori le 300 mila sterline per riparare "un'ingiustizia". A Sarajevo, migliaia di persone protestano da giorni davanti all'ambasciata britannica. E l'attuale presidente della Bosnia, Haris Silajdzic, è appena stato a Londra dove ha incontrato il ministro degli Esteri David Miliband, chiedendo il rilascio di Ganic e protestanto per il trattamento "irriguardoso" che ha sofferto: "In carcere gli hanno tolto le sue medicine e non gli hanno lasciato usare il telefono". Ma senza i soldi di Diana sarebbe rimasto in prigione. Il seguito alla prossima puntata.
La Repubblica 13-11-09
Da profuga bosniaca a protagonista della finanza lascia Londra e attacca l´alta società: mi ha snobbato
La moglie del banchiere "Ho salvato la City ma ora devo fuggire"
La sua storia «dalle stalle alle stelle» era già degna di un film: una giovane bellissima bosniaca fugge a piedi da Sarajevo mentre infuria la guerra, arriva miracolosamente in Inghilterra, fa la sguattera e la cameriera nella capitale, finché non incontra un ricco banchiere, che se ne innamora e la sposa. Lieto fine? Non ancora: in vacanza col marito in Costa Smeralda, diventa amica della moglie dello sceicco del Qatar, e lo convince a investire un po´ dei suoi soldini nella banca londinese per cui lavora il suo sposo banchiere. Lo sceicco inietta 8 miliardi di euro nella Barclays, salvandola dalla tempesta finanziaria, e il banchiere che ha mediato l´investimento, o meglio che l´ha ottenuto grazie alla simpatia e all´arte della persuasione di sua moglie, diventa ancora più ricco, il più ricco della City.Lieto fine? No, non ci siamo ancora per concludere il film della vita di Diana Jenkins, come si chiama ora, nata Sanela Catic nell´ex-Jugoslavia 36 anni fa. Con un´intervista di fuoco a Tatler, il mensile dell´high society inglese, adesso la moglie di Riger Jenkins, il banchiere più famoso di Londra, lancia un sorprendente «j´accuse» contro la metropoli che l´ha accolta. Non contro la città intera, bensì contro l´alta società, la classe dirigente, l´aristocrazia della finanza e della nobiltà, insomma il cerchio di persone di cui era parte da quando non faceva più la sguattera e si è sposata con un uomo da 50 milioni di euro l´anno.L´accusa è pesante: «Sono un branco di snob. Le mogli del bel mondo londinese mi hanno trattata in un modo da farmi sentire inutile, vuota, perfino sporca. Come se fossi stata scelta da mio marito su un catalogo di ragazze dell´est». Non dice: mi hanno trattato come se fossi una puttana slava, ma poco ci manca. Perciò Diana se n´è andata: via da Londra, lontano dalla classista Gran Bretagna, dove a farla accettare non bastavano nemmeno i suoi soldi e il diamante che portava al dito, «mio marito me ne comprò uno grosso così, perché stava male a vedere come mi snobbavano le altre». Ed è approdata, insieme ai figli e al marito (quando sarà libero dagli impegni di lavoro) in America, in California, a Los Angeles: per la precisione a Malibù, non proprio una località proletaria, essendo la spiaggia dei divi del cinema, ma dove per venire accettati è sufficiente esseri ricchi, belli e famosi, non importa avere frequentato Eton, Oxford e avere il sangue blu.Londra, per il momento, non l´ha presa bene. Sui giornali fioccano editoriali di due tipi: o la prendono in giro, notando che gli snob non mancano certamente neppure a Malibù; o contestano la sostanza delle sue accuse, affermando che Londra non è più la società classista di alcuni decenni or sono, bensì un ambiente democratico, vibrante, creativo, dove chiunque può fare fortuna, come in America, come del resto è capitato anche a lei. La stizzita reazione conferma che qualcosa di vero, nelle sue parole, c´è: un pizzico di Old England, nei salotti buoni della City, esiste e resiste. La snobberia di una nazione dove un accento rivela la provenienza non solo geografica, ma anche sociale, non è un´invenzione di Diana Jenkins. I padroni dell´universo, per citare il celebre romanzo di Tom Wolfe su Wall Street, non sono necessariamente più umili negli Stati Uniti: ma un tantino meno snob forse sì.Se diventerà un film o perlomeno un romanzo, questa vicenda, potrebbe essere lei stessa a produrlo o pubblicarlo. Ancora prima di trasferirsi a Hollywood, Diana era diventata amica di George Clooney, Elton John, Cindy Crawford e altre personalità dello show - business. Insieme a Clooney ha lanciato un´associazione di beneficenza che ha raccolto 10 milioni di dollari per i bambini del Darfur. «I soldi sono una cosa meravigliosa e li rispetto e mi piace spenderli, possono comprarti la libertà e anche darti la felicità, ma non sono tutto nella vita», dice a Tatler. «A certi party della buona società londinese con tutte le signore ingioiellate, mi chiedevo: cosa ci sto a fare io qui? Starei meglio a casa in pigiama a mangiare la pizza con i miei due figli». Diana ha portato via da Sarajevo i genitori, ma non ha fatto in tempo a salvare suo fratello, morto sotto le bombe. Su come fece a scappare lei, camminando dalla Bosnia alla Croazia nel mezzo della guerra, e poi a finire a Londra, preferisce tacere: «Non fu bello, ma non sono ancora pronta per raccontare come andò». Neanche i suoi primi tempi nella capitale britannica sono stati facili: «Parlavo a malapena la lingua. Mi aggiravo per le strade in cerca di qualcosa da mangiare o di un lavoro. Pensavo solo a sopravvivere. Certe settimane mangiavo solo una tavoletta di Toblerone». Poi ha trovato lavoro, si è messa a studiare business, si è iscritta a una palestra alla moda e lì un giorno ha conosciuto il banchiere. «Non sarei quello che sono oggi, se non avessi incontrato Diana», giura lui. Chiedere allo sceicco del Qatar, per una conferma.
Strategic Culture Foundation - February 3--9, 2010
New Balkan Wars Loom on the Horizon
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The contours of the Kosovo separatists' plan to suppress the Serbian resistance in the northern part of the province with the help of the US and the EU are becoming increasingly visible.
The statements emanating from Pristina and the intensifying international debates over the Kosovo theme do not only show that the Albanian separatists are preparing an attack against their opponents but also give an idea of its potential scenario, the distribution of roles in it, and the extent to which Hashim Thaci and other former leaders of the terrorist Kosovo Liberation Army are relying on international support in the process.
The debates at the January 22 open session of the UN Security Council on Kosovo were unprecedentedly heated. It was the first time since the summer of 2007 (when Russia managed to derail the Resolution recognizing Kosovo independence, proposed by the West on the basis of UN Special Envoy Martti Ahtisaari's plan) that the parties to the dispute over Kosovo defined their positions with such utmost clarity.
There was an impression that the world's major powers were speaking different languages. UN Secretary General Ban Ki-moon, the US, and West European countries “urged flexibility” in admitting Kosovo to regional and international mechanisms and forums, whereas Russia and Serbia regarded the approach as an attempt to dilute the role of the UN in the province and to legitimize its independent status.
The discussions were centered around Pristina's so-called final solution plan for North Kosovo, which Thaci inadvertently unveiled several days prior to the session. He said the plan was being drafted jointly with international representatives and was aimed at strengthening what he called Kosovo sovereignty and territorial integrity.
Thaci said 2010 would be the year of consolidation for Kosovo. The priorities in the framework of the plan include the elimination of Serbian self-government established in Kosovska Mitrovica and nearby Serbian communities based on the May, 2008 elections held in accordance with the laws of Serbia. Another blow will be dealt to Serbian police forces and the custom service, which at the moment are maintaining at least partial control over the traffic across the administrative border between Kosovo and the rest of Serbia.
NATO's KFOR deployed in Kosovo will render military assistance to Albanians. There is information that on the whole the corresponding decision was made during Commander of Joint Force Command Naples, Admiral Mark Fitzgerald's January visit to Kosovo, after which he described the Serbian self-government as... a threat to the security of Kosovo. “All violations of UN Security Council Resolution 1244 pose a threat to security. Since the resolution does not approve of parallel institutions, they are cause for concern”, said Fitzgerald.
Pristina's priority is international support for the operation, which the US and the EU are supposed to ensure. The US will be blocking attempts by Russia and China to have a response resolution passed by the UN Security Council. At the same time Brussels will be exerting ever greater pressure on Serbia to make it deny support to the Serbs of Kosovo and seal off the border with the province so as not let Serbian volunteers reach Albania.
Chances are that the operation will be launched already this April after the International Court of Justice issues an indefinite verdict on the Kosovo independence and the establishment of the Mitrovica municipality headed by Albanians and the few Serbs ready to cooperate with them.
Serbia's pro-Western President Boris Tadic spoke with great caution of the anti-Serbian plan harbored by Pristina, NATO, and the EU, essentially saying little more than that the “final solution” promised nothing good to the Kosovo population. Russia's Deputy Permanent Representative to UN I. Shcherbak was much more outspoken. He said that from Russia's standpoint it is necessary to stop decisively any attempts to float concepts harmful to Kosovo regardless of their source, as they do not only breach UN Security Council Resolution 1244 but also destabilize the province and provoke tensions.
There is information that the plan was co-authored by EU Special Representative and UN Civil Administration head Peter Feith. The Administration was established in the spring of 2008, shortly after the declaration of Kosovo independence and its recognition by the US and major EU counties.
The Administration that no UN documents regulate comprises representatives of 14 EU and NATO countries and Switzerland, which are implementing the Ahtisaari plan, a EU brainchild the UN Security Council never approved.
It is noteworthy that Kosovo separatist government foreign minister Skender Hyseni who represented Kosovo at the UN Security Council session made no comments concerning the plan for the northern part of Kosovo. Speaking to the media after the session, he claimed without elaborating that the EU mission and the Civic Administration were not promoting any final solution for North Kosovo.
A survey of recent developments leads to the conclusion that the blueprint for suppressing the Serbian resistance in Kosovo is being drafted at a level much higher than that of the province. Given its basic parameters (a snap offensive supported by the NATO and EU pseudo-peacekeepers with international political backing plus the installation of a puppet administration), the plan for a final solution for North Kosovo is similar to the one Georgian President M. Saakashvili had in mind launching an attack against South Ossetia in August, 2008. Even the stated objectives – the restoration of the constitutional jurisdiction in Saakashvili's wording – is the same in both cases.
Even earlier, in August, 1995, a similar scenario was imposed on the Serbs of Krajina when Croatia sent regular army forces to attack them while the US and the EU backed the operation diplomatically. Actually, at that time the diplomatic support played no practical role as neither Yugoslavia nor the Russian leadership demonstrated any will to help Serbian Krajina in its tragedy....
It is hard to predict the outcome of the current developments as the Bosnian front, no less important to Serbs, Russia, and the Orthodoxy, is likely to gain a place on the map of the new Balkan war alongside the Kosovo one. Outgoing Croatian President Stipe Mesic said the Republic's army should launch an offensive against the Bosnian Serb Republic in case it holds a Kosovo-style self-determination referendum.
Its aim is not to let the leaders of Sarajevo, the US and EU put an end to Republika Srpska. The outgoing Croatian President, Stjepan Mesic, promised that in case the referendum takes place, the regular army of Croatia will enter the territory of Bosnia and Herzegovina to cut off the 15-km Posavina corridor, which connects the western and the eastern parts of Republika Srpska in the area of Brcko, close to the Croatian border.
“If Milorad Dodik (Prime Minister of Republika Srpska) decides to hold a referendum on separation, I will send troops to divide the region inhabited by Bosnian Serbs”, the Croatian President said, adding that in case of success, a sovereign state of Bosnian Serbs will 'cease to exist'. He made the announcement during an informal press conference in Zagreb on January 18.
A military campaign against Banja Luka may be held simultaneously with an armed action by Kosovo`s Albanian authorities against the city of Kosovska Mitrovica and Serbian communities in Northern Kosovo.
In this case the US, NATO and the EU will manage to complete the separation of Serbian territories. The Serbian Republic will be surrounded by hostile states and thus will be no longer able to carry out an independent foreign policy. The defeat of the Kosovan and Bosnian Serbs will become Russia`s biggest loss in the Balkans over the past two decades and will harm Moscow's attempts to play an active role in other strategically important regions in Eurasia.
The first reaction of Serbia and Russia to such rude interference of the Croatian leader into the affairs of a neighboring state was surprisingly reserved. Serbia's President Boris Tadic made an attempt to respond to the remarks made by his Croatian counterpart at the UN Security Council meeting on Kosovo on January 22. But he commented on the issue not during his main speech (though parallels between what was going on then in Bosnia and Herzegovina and in Kosovo were more than obvious). He spoke during the debates because he found such kinds of issues could not be discussed during official reports. Mr. Tadic also met the UN Chief Ban Ki-moon to tell him that Mesic`s 'dangerous words were unwelcome in political discourse' but immediately noted that Serbia did not want to worsen relations with Croatia.
Such peace-loving rhetoric was accepted in Zagreb. Croatia's Prime Minister Jadranka Kosor told journalists that Serbia and Croatia should abandon debates and work together to develop neighborly relations. However, the Prime Minister did not disavow the President's announcement.
Russia's reaction is still too vague. Summing up the results of 2009 at a press conference on January 22 in Moscow, Russia's Foreign Minister Sergei Lavrov commented on Mr. Mesic`s announcement: “We insist that all sides involved respect the Dayton Agreement and avoid the use of force”. (1)
Meanwhile, the way the situation is developing in the region in recent months proves quite the contrary: the West and the leaders of Sarajevo are definitely going to undermine the Dayton agreement.
Two rounds of talks held by the heads of the Bosnian political parties in October 2009 at a NATO base in Butmir outside Sarajevo revealed the western strategy toward Bosnia and Herzegovina.
The Bosnian Serbs are demanded to abdicate their authorities settled in the Dayton Peace Agreement. Though formally Russia is a member of the Dayton Agreement Peace Implementation Council, it did not take part in the discussions in Butmir. So, it would be a fatal mistake to expect the US, EU and NATO to abandon their new political course. It would also mean to be inexcusably weak in regard to Russia's interests in Bosnia and Herzegovina and in the Balkans in general.
It was not accidental that the International Crisis Group, which traditionally deals with promoting western political propaganda in conflict regions, in every detail commented on the future of the Balkans a few months before recent events. Experts in the Group believe that Moscow and Belgrade remain the West`s major rivals in the region because “an international approach to the Balkans is dominated by concern over Serbia`s reaction to the independence of Kosovo”. In their opinion, Russia “has become stronger in opposing a Western policy it sees hostile to its interests”. (2)
Under these circumstances, Moscow should better revise its policy in the Balkans. Russian diplomats should no longer view the Dayton agreements as too weak to withstand political attacks.
This all will make it logical to put in question the political status of Bosnia and Herzegovina. This approach will help Moscow to no longer be an outsider in Bosnia and launch a series of international talks on territorial, political and ethnocultural problems in the Balkans, where peoples and their interests are in jeopardy.
Taking into consideration intentions of the West to put an end to the Serbian Orthodox community in the Balkans, revision of the existing borders in the conflict regions may become the only way for Russia to defend its interests. As of today, there are at least three self-proclaimed states whose status is in doubted: Bosnia and Herzegovina, Kosovo and Macedonia. Their territorial and administrative revision could become the least painful way to avoid new wars in the Balkans.
It is remarkable that recently the authorities of Sarajevo have been urging Russia to contribute to the 'implementation of the Dayton Peace Agreement', the Bosniak Muslim member of the Presidency of Bosnia and Herzegovina, Haris Silajdzic, said at a meeting with the Russian special envoy for Kosovo, Alexander Botsan-Kharchenko. And this is a very disturbing sign because Silajdzic has long been known for his extremist views about Republika Srpska. The majority of people in Western Europe cannot but be aware that the Bosnian Serbs remain the only counterbalance to radical pan-Islamic tendencies in Bosnia and Herzegovina. And this it what gives Russia the right to boost its activities in the Balkans.
(1) Http://www.mid.ru/brp_4.nsf
(2) Bosnia`s Incomplete Transition: Between Dayton and Europe. Sarajevo-Brussels, 2009. P.14
With my acknowledgment for the solidarity and understanding which you expressed by accepting to receive me to come for medical treatment and by giving guarantees, I would like to inform you about the following:
I think that the persistence, with which the medical treatment in Russia was denied, in the first place is motivated by the fear that through careful examination it would be discovered, that there were active, willful steps taken, to destroy my health, throughout the proceedings of the trial, which could not be hidden from Russian specialists.
In order to verify my allegations, I'm presenting you a simple example which you can find in the attachment. This document, which I received on March 7, shows that on January 12th (i.e. two months ago), an extremely strong drug was found in my blood, which is used, as they themselves say, for the treatment of tuberculosis and leprosy, although I never used any kind of antibiotic during this 5 years that I'm in their prison.
Throughout this whole period, neither have I had any kind of infectious illness (apart from flu).
Also the fact that doctors needed 2 months (to report to me), can't have any other explanation than we are facing manipulation. In any case, those who foist on me a drug against leprosy surely can't treat my illness; likewise those from which I defended my country in times of war and who have an interest to silence me.
Dear Sirs, it is known to you that Russian physicians, who rank among the most respected physicians in the world, came to the conclusion that the examination and treatment of the vascular problems in my head are inevitable and urgent. I know very well that this is true, as I feel very bad.
I'm addressing you in expectation that you help me defend my health from the criminal activities in this institution, working under the sign of the U.N., and that I be enabled as soon as possible to get adequate treatment in your hospital, in whose physicians, as well as in Russia, I have absolute confidence.
Yours sincerely,
Slobodan Milosevic
Il y a deux ans, le Kosovo proclamait son indépendance. Il le faisait de façon unilatérale, presque contre la Serbie, et il était aussitôt reconnu par la plupart des grands pays européens. Ou en est le Kosovo aujourd'hui ? Qu'a-t-il fait de cette indépendance ? A-t-il laissé la place qu'il fallait aux 100 000 serbes qui vivent dans cette province ? Est ce que le Kosovo est viable ? Est ce que la sécurité y est assurée ? Autant de questions auxquelles répondront Benoit Duquesne et ses invités dans le débat cette semaine.
Da: Vladimir KapuralinData: 03 marzo 2010 1:36:34 GMT+01:00Oggetto: International appeal Socialist Workers Party of CroatiaIntroductory note
Dear comrades,
We would like to notify the drastic uncivilized act of
jeopardizing existencies of the entire
category of the Croatian citizens, that has already been lasting
for two decades in manner that has never had precedent within
this region of frequent social- political turbulences, for the
last century and a half at least.
Consequently we would like you if possible, to utilize your
presence and influence in the European and other institutions,
as well as on the common political scene, to urge them and
spread the news on the intolerable practice.
The present moment is evaluated and assessed as suitable for such
an activity, due to the current negotiations between the EU and
Croatia, on opening the Legal system Chapter within the
pre-admittance proceedings' frame.
With the high expectations of your good judgement and
understanding we remain.
With the cordial comradely regards on behalf of
Pula, 25 February 2010
Socialists Workers´Party
The International Relationships Dep.
Vladimir KapuralinSOCIJALISTIČKA RADNIČKA PARTIJA HRVATSKESOCIALIST WORKER´S PARTY OF CROATIAHeadoffice Hr 10000 ZAGREB, Pavla Hatza 14 Tel/Fax 00385 1 4835340ODJEL ZA ODNOSE S INOZEMSTVOMDEPARTMENT FOR INTERNATIONAL RELATIONSe-mail: vladimir.kapuralin @ pu.t-com.hr
A former member of Bosnia's wartime presidency has been held at
Heathrow Airport over alleged war crimes.
Ejup Ganic, 63, was arrested in London after Serbia issued an
extradition warrant, the Metropolitan Police said.
He and 18 others officials are accused of conspiracy to murder 40
soldiers, in breach of the Geneva Convention.
Mr Ganic was later remanded in custody at Westminster Magistrates
Court, where he is expected to remain until another court hearing on
29 March.
Extradition hearing
The provisional extradition warrant relates to an attack on Yugoslav
forces in Sarajevo at the beginning of the 1992-1995 Bosnian war.
Serbia claims more than 40 soldiers were killed in the so-called
Dobrovoljacka Street attack after Bosnia had declared independence
from the Serb-led former Yugoslavia.
Mr Ganic, a professor at the University of Sarajevo, is one of 19
people who were issued with arrest warrants in November.
Belgrade said it wanted to try Mr Ganic and other former Bosnian
officials "in respect of conspiracy and the killing of wounded
soldiers".
The Foreign Office confirmed the arrest, but said it was
"inappropriate" to comment further as the case was now before the
courts.
Serbia now has 45 days to provide full papers to the court supporting
its extradition request.
The former leader served two separate terms as president of the
Muslim-Croat Federation in Bosnia.
Il Ministro della Giustizia della Serbia Snezana Malovic ha dichiarato che agli organi giuridici della Gran Bretagna è stata inviata la richiesta che l’ex membro della Presidenza della Bosnia ed Erzegovina Ejup Ganic sia estradato alla Serbia. La decisione riguardo alla domanda serba sarà presa nel termine di 24 ore, ha comunicato il Ministero della Giustizia della Serbia. La Malovic ha dichiarato che a Ganic, il quale è stato rilasciato dopo che gli è stato imposto il fermo all’aeroporto londinese, è stata data la possibilità di entrare in Gran Bretagna, a patto che informasse la polizia sul luogo del suo soggiorno. All’inizio dell’anno 2009 il Ministero dell’Interno, su ordine del giudice istruttore, ha spiccato il mandato di cattura contro 19 cittadini della Bosnia ed Erzegovina, includendo gli ex membri della Presidenza della stato Ejup Ganic e Stjepan Kljujic, perché hanno preso parte all’attacco militare contro la colonna dell’esercito jugoslavo nella Strada Dobrovoljacka a Sarajevo, avvenuto nel maggio del 1992. In quell’attacco sono stati uccisi, feriti e sequestrati molti ufficiali e soldati dell’esercito jugoslavo.
Spasovic: l’arresto di Ganic non è una decisione politica
04. marzo 2010.
L’arresto del membro della Presidenza militare della Bosnia ed Erzegovina a Londra non è sicuramente una decisione politica che è stata presa a Belgrado, perché Belgrado ha accettato la candidatura di Borisa Arnaut per l’ambasciatore della Bosnia ed Erzegovina, nella speranza che i rapporti tra i due paesi possano migliorare, ha dichiarato l’ambasciatore della Serbia in Bosnia Grujica Spasovic al quotidiano Dnevni avaz di Sarajevo. In questo caso spetta agli organi giuridici prendere le decisioni, ha detto Spasovic. Ganic è stato arrestato alcuni giorni fa a Londra in base al mandato di cattura che è stato spiccato dal Interpool di Belgrado. La corte britannica gli ha imposto il fermo fino al 29 marzo. La corte ha respinto la richiesta di Ganic di essere rilasciato in libertà temporanea sotto la cauzione di 200 mila sterline, perché le accuse contro di lui sono molto serie. Il Ministero della Giustizia della Serbia ha annunciato che consegnerà a Londra la richiesta che Ganic sia estradato alla Serbia. Il Ministero dell’Interno della Serbia, all’inizio dell’anno 2009, ha spiccato il mandato di cattura contro gli ex membri della Presidenza militare della Bosnia ed Erzegovina Ejup Ganic e Stjepan Kljujic e le altre 17 persone della Bosnia ed Erzegovina che hanno preso parte all’attacco militare contro la colonna nella Strada dobrovoljacka a Sarajevo nell’anno 1992. In quell’attacco sono stati uccisi in modo crudele 42 ufficiali e soldati dell’esercito jugoslavo, 73 sono stati feriti e 215 sono stati fatti prigionieri.
Oggetto: giovedì 11 marzo al Magazzino Parallelo
Data: 08 marzo 2010 20:15:00 GMT+01:00
La resistenza al nazifascismo non si processa!
Giovedì 11 marzo 2010 ore 21.00
presso Magazzino Parallelo
in via Genova (zona ex mercato ortofrutticolo) Cesena
proiezione del video sui campi di concentramento italiani
“ Gonars 1942 – 1943”
Il simbolo della memoria italiana perduta
di Alessandra Kersevan
Interverrà F. Kobau (presidente ANPI Cesena)
seguirà dibattito
Associazione Pellerossa Cesena
La storia non può essere scritta da vecchi arnesi del fascismo e da chi ci porta alla barbarie e alla guerra.
Anche quest’anno le istituzioni, i partiti di centro destra e centro-sinistra hanno celebrato il 10 febbraio, “il giorno del ricordo”, commemorando in tutta Italia ed anche a Cesena le “vittime delle foibe”: la più grande menzogna storica divenuta per legge ricorrenza di Stato con una martellante campagna mediatica. Un’operazione politica dei due schieramenti che vuole, in sintesi, affossare l’antifascismo e la Resistenza allo scopo drammaticamente attuale di dividere i lavoratori, eliminare le conquiste sociali,rilegittimare le guerre neo-coloniali e la xenofobia,, favorire grandi capitalisti e banchieri. In realtà il vero sterminio è stato condotto dalle camice nere e dall’esercito italiano durante il secondo conflitto mondiale sulle popolazioni della Jugoslavia, Albania, Russia, Grecia e Africa. Le truppe italiane occuparono quei paesi e non viceversa! Le vittime civili furono centinaia di migliaia causate con ogni mezzo: bombe al gas nervino, campi di concentramento, fucilazioni, fame ... Denunciamo i tentativi di portare nelle scuole cesenati falsi “storici” dichiaratamente fascisti, antisemiti e xenofobi a parlare di foibe e “crimini” della resistenza partigiana facendoli passare come “eventi culturali”.
Il G.A.MA.DI. in collaborazione con CNJ-onlus pubblica un inserto mensile dedicato alla Jugoslavia all'interno del proprio periodico "La Voce".
E' ora in internet La Voce di MARZO 2010:
http://www.gamadila voce.it/lavoce/ 2010/marzo/ Madre/1.html
All'interno si trova come al solito l'inserto Jugoslavia:
http://www.gamadila voce.it/lavoce/ 2010/marzo/ Jugoslavia/ 21.html
Chiunque volesse segnalare errori o disguidi o formulare suggerimenti
può contattare il webmaster Roberto al suo email: r.gessi@tiscali. it .
I numeri precedenti sono linkati anche alla nostra pagina http://www.cnj. it/informazione. htm
I fondi, finora, sono venuti dal solo governo serbo, mentre gli unici effetti di questo solo in apparenza filantropico interesse, è stato quello di veder licenziati in modo definitivo migliaia di lavoratori che della Zastava sono stati, per anni, i veri finanziatori, con il loro lavoro, soprattutto durante e dopo i bombardamenti del 1999 quando, in modo commovente, fra macerie e fuoriuscite di materiale tossico cercarono comunque di non abbandonare e di rimettere in sesto quello che era il loro luogo naturale di lavoro e di sostentamento per le proprie famiglie.
Vedere come nella trasmissione di ieri alcune interviste abbiano fatto passare il messaggio che questi lavoratori serbi (che molti colleghi italiani hanno conosciuto e anche aiutato in questi terribili anni di dopoguerra), stanno di fatto togliendo il lavoro agli operai italiani, è per noi inaccettabile. Non è alimentando guerre fra poveri che si battono le politiche liberiste e selvagge del nostro tempo. >>
1) Sulle recenti elezioni presidenziali in Ucraina (Curzio Bettio)
2) La tecnica del “colpo di stato colorato” (John Laughland)
=== 1 ===
Sulle recenti elezioni presidenziali in Ucraina
Elaborazione di Curzio Bettio sulle recenti elezioni presidenziali in Ucraina, esempio di come sull’esito finale di una consultazione elettorale possa incidere incombente la minaccia di una “rivoluzione colorata”, in questo caso della cosiddetta “Rivoluzione Arancione”
Domenica 7 febbraio 2010, in Ucraina, Yulia Tymoshenko e Viktor Yanukovich si sono affrontati nelle elezioni presidenziali, ma la prospettiva di disordini post-elettorali minacciava qualsiasi ipotesi di veloce ritorno alla stabilità, secondo quanto prevedevano alcuni analisti.
Molti commentatori ritenevano possibile una vittoria di stretta misura di Yanukovich sulla Tymoshenko dopo un’aspra campagna elettorale, durante la quale ognuno dei due contendenti accusava l’altro di progettare brogli.
Se il margine di vittoria fosse risultato effettivamente ristretto, appariva per certo che lo sconfitto avrebbe contestato i risultati.
Comunque, un risultato elettorale chiaro sarebbe risultato decisivo, da un lato per una ripresa fruttuosa delle relazioni diplomatiche con la Russia compromesse dal 2004 dopo l’elezione di Viktor Yushchenko come presidente, data la sua posizione filo-occidentale, e d’altro canto per una accelerazione del processo di ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea.
Un ritorno alla stabilità, dopo cinque anni di dispute interne tra primo ministro e presidente, consentirebbe anche di fornire nuova fiducia agli investitori, fondamentale per l’economia dell’Ucraina duramente colpita dalla crisi globale.
Anche i 16,4 miliardi di dollari di prestito da parte del Fondo Monetario Internazionale dipendono dal risultato elettorale, dopo che l’ultima tranche del prestito è stato bloccata per il mancato rispetto, da parte ucraina, degli impegni sul bilancio.
Eventuali scontri post-elettorali provocherebbero solo ritardi.
“La possibilità, molto concreta, di una vittoria di stretta misura provocherebbe, quasi certamente, le contestazioni dello sconfitto, ritardando di fatto l’insediamento del nuovo presidente”, si legge in una nota del gruppo Eurasia.
Yanukovich è particolarmente popolare nell’est industriale e nel sud del paese, oltre ad avere il sostegno degli industriali e dei gruppi di interesse meridionali.
La Tymoshenko , invece, è molto forte nelle regioni occidentali e nel centro del paese, anche se molti commentatori dubitavano che questo potesse bastare a farle ottenere i voti necessari per battere il suo avversario.
Yanukovich, appena la sua vittoria al ballottaggio delle elezioni presidenziali gli è sembrata cosa fatta, ha promesso di “conquistare la fiducia di tutti gli Ucraini”, una volta al lavoro.
Quindi, dalla regione delle miniere alla presidenza, ma dietro l’ascesa del candidato filorusso ci sarebbero gli oligarchi dell'industria.
Massiccio di corporatura, sbrigativo, autoritario, a volte un po’ ruvido, il cinquantanovenne Viktor Yanukovich è un perfetto “testimonial” dell’Est ucraino, collettivista e filorusso, ancora lontanissimo dall’Ovest ucraino che guarda all’Europa.
Negli ultimi tempi ha cercato di ammorbidire la sua immagine di “uomo del Donetsk”, la regione mineraria dell’Ucraina, e ha perfezionato la lingua ucraina, che ancora pochi anni fa, abituato da sempre al russo, parlava decisamente male.
Yanukovich aveva subito una brutta sconfitta nel 2004, quando la sua vittoria venne annullata a suon di manifestazioni e al nuovo voto per la presidenza la spuntò Viktor Yushchenko.
“Dagli errori si impara, ci si rafforza”, ha ripetuto negli ultimi giorni pre-ballottaggio, deciso a non permettere di nuovo agli “ex arancioni” di sbarrargli la strada verso la massima carica del Paese. L’appoggio russo durante la campagna elettorale è stato all’insegna della massima discrezione e per staccarsi di dosso l’etichetta di “filorusso” Yanukovich ha parlato molto di democrazia e di Europa.
Questo candidato dell’Est ucraino, con un passato da metalmeccanico e poi da direttore di fabbrica, nel 1997 fu nominato governatore del Donetsk all’epoca della presa del potere economico e politico dei grandi oligarchi, quando diversi clan lottavano per il controllo delle industrie e delle miniere nella regione. Dietro la sua repentina ascesa ci sarebbe stato il potentissimo uomo d’affari locale Rinat Akhmetov, poi diventato l’uomo più ricco del Paese.
Nella parte orientale dell’Ucraina, politica e industria sono difficilmente scindibili e qui Yanukovich è davvero a casa sua: nessuno gli contesta errori linguistici e neppure gli vengono rinfacciati i suoi trascorsi giovanili burrascosi.
La sua popolarità è sempre altissima e all’uscita dei seggi tutti confermavano, senza esitazione, il voto per il candidato filorusso.
Messo fuori gioco dalla Rivoluzione arancione nel 2004, Yanukovich si è ripreso in fretta e già nel 2006 tornava primo ministro, sfruttando le divisioni nel campo filo-occidentale.
Ieri la resa dei conti, l’ultima battaglia con “gli arancioni”: il risultato sembra è ormai chiaro, il nuovo presidente ha raggiunto il 48,67% di preferenze, tre punti percentuale in più su Iulia Tymoshenko, che comunque non si dà per vinta e denuncia irregolarità nel voto.
La premier dichiara: “Serve un terzo turno”. Gli “arancioni” minacciano di tornare
in piazza. E a Kiev cresce la tensione.
La filo occidentale ucraina Yulia Timoshenko ha dato mandato ai suoi avvocati di impugnare in tribunale i risultati del ballottaggio presidenziale, suggerendo l’ipotesi di un terzo turno.
Come accadde nel 2004, quando le proteste di piazza della rivoluzione arancione portarono all’annullamento per brogli della vittoria del leader filorusso, Viktor Yanukovich - vincitore dell’attuale ballottaggio - e al successo del presidente uscente, Viktor Yushenko.
Ma “la vera vittoria sembrerebbe quella della democrazia”, come ha sottolineato l’Osce.
Secondo l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea , infatti, le elezioni si sono svolte “in modo trasparente e onesto”, nonostante le reciproche accuse di brogli. Anzi, “hanno dato una dimostrazione impressionante di democrazia”, e quindi sono “una vittoria per tutti in Ucraina”, ha sentenziato il presidente dell’assemblea parlamentare dell’Osce Joao Soares, invitando chiaramente la perdente ad una “transizione pacifica e costruttiva del potere”.
Il Paese, che con la protesta di piazza aveva detronizzato il neo vincitore Yanukovich per supposte frodi di massa, cinque anni dopo è pronto ad accettarne il legittimo successo voltando le spalle ai litigiosi arancioni, a Viktor Yushenko, uscito umiliato al primo turno, e in parte anche ad un’Europa che sembra sempre più lontana e indifferente, interessata solo al transito del gas russo.
Così un’Ucraina rassegnata si affida a Yanukovich e ai suoi agganci con la grande industria del sud-est russofono del Paese. Yanukovich ha già invitato la sua rivale a dimettersi e ha cominciato a corteggiare l’oligarca Serghiei Tighipko e l’ex presidente del parlamento Arseni Iatseniuk, entrambi usciti al primo turno. Il suo obiettivo dichiarato è creare una nuova maggioranza alla Rada, il parlamento ucraino, che deve riunirsi al più presto, per non dover essere costretto ad una conflittuale coabitazione con la Timoshenko.
Il vero nodo del dopo elezioni è proprio questo. La premier non è tenuta per legge a dimettersi, se riesce a mantenere la sua fragile maggioranza. Ma non è escluso che molti deputati salgano sul carro del vincitore.
In caso contrario, Yanukovich sarebbe costretto ad indire elezioni anticipate, con almeno due rischi: una nuova battaglia con la coriacea Timoshenko e l’ingresso nella Rada di Tighipko, astro nascente della politica ucraina (13% al primo turno) e possibile futuro premier.
È in questo contesto politico che la Yulia deve giocarsi il suo spazio di manovra, non tanto nei tribunali e non più nelle piazze, dopo le valutazioni dell’Osce che l’hanno indotta a posticipare due volte una conferenza stampa nella sede del governo.
Nella capitale, imbiancata da una nuova nevicata, non si sono colti segni di tensione e anche le diverse migliaia di militanti pro Yanukovich scesi in città per presidiare la commissione elettorale hanno un’aria festosa in piazza Maidan, già teatro della rivoluzione arancione.
Nel documento presentato di seguito si fa cenno alle minacce della Yulia Tymoshenko di portare in piazza i suoi elettori e di ripetere la cosiddetta “Rivoluzione Arancione”, già avvenuta nel 2004.
=== 2 ===
La technique du coup d’État colorépar John Laughland (4 Janvier 2010)
La technique des coups d’État colorés trouve son origine dans une abondante littérature du début du XXe siècle. Elle a été mise en application avec succès par les néo-conservateurs états-uniens pour « changer les régimes » de plusieurs États post-soviétiques. Elle a par contre échoué dans des univers culturels différents (Venezuela, Liban, Iran). John Laughland, qui couvrit certaines de ces opérations pour le Guardian, revient sur ce phénomène.
http://www.voltairenet.org/article163449.html
The Technique of a Coup d’État
by John Laughland (5 January 2010)
The technique of a coup d’état, more recently also referred to as "coloured revolution", finds its origins in abundant literature dating back to the beginning of the 20th century. It was successfully applied by the U.S. neo-conservatives to set the stage for "regime change" in a number of former Soviet republics. However, the technique backfired when it was tried in a different cultural environment (Venezuela, Lebanon, Iran). John Laughland, who reported on some of these operations for the Guardian, sheds new light on this phenomenon.
La tecnica di un colpo di stato, a cui più di recente si fa riferimento anche con “rivoluzione colorata”, trova riscontro delle sue origini in una ricca letteratura che ci fa risalire agli inizi del XX secolo. È stata applicata con successo dai neo-conservatori statunitensi per preparare il terreno a “cambiamenti di regime” in una serie di repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Comunque, la tecnica ha avuto un effetto contrario a quello desiderato quando è stata tentata in ambienti culturali diversi (Venezuela, Libano, Iran).
John Laughland, che per il Guardian ha prodotto articoli su alcune di queste operazioni, accende una nuova luce su questo fenomeno.
(Traduzione dal francese ed elaborazione a cura di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
La tecnica del “colpo di stato colorato”
di John Laughland*
4 gennaio 2010
Nel corso di questi ultimi anni, tutta una serie di “rivoluzioni” è esplosa in differenti parti del mondo.
Georgia
Nel novembre 2003, il presidente Edouard Chevardnadze è stato rovesciato in seguito a manifestazioni e ad asserzioni non comprovate di elezioni presidenziali truccate.
Ucraina
Nel novembre 2004, manifestazioni – la cosiddetta “Rivoluzione arancione” – hanno avuto inizio nel momento in cui venivano formulate accuse consimili di elezioni truccate. Il risultato è stato che il paese ha perso il suo antico ruolo geopolitico di ponte fra l’Est e l’Occidente ed è stato sospinto verso un’adesione alla NATO e all’Unione Europea. Considerato che la Kievan Rus è stato il primo Stato russo e che l’Ucraina attualmente ha assunto una posizione contraria alla Russia, siamo in presenza di un avvenimento storico.
Tuttavia, come affermava George Bush, “voi siete sia con noi che contro di noi”. Benché l’Ucraina abbia inviato un contingente di truppe in Iraq, evidentemente è stata considerata ancora troppo amica di Mosca.
Libano
Poco dopo le dichiarazioni da parte degli Stati Uniti e dell’ONU che le truppe siriane dovevano ritirarsi dal Libano, e successivamente all’assassinio di Rafik Hariri, le manifestazioni di Beirut sono state presentate come la “Rivoluzione dei Cedri”. Un’enorme contro-manifestazione di Hezbollah, il più importante partito filo-siriano, passava sotto silenzio nello stesso momento in cui la televisione mostrava senza fine la folla anti-siriana.
Esempio particolarmente eclatante di malafede orwelliana, la BBC spiegava ai telespettatori che “Hezbollah, il più grande partito politico del Libano, è fino a questo momento la sola voce dissidente che sostiene la permanenza dei Siriani nel Libano.”
Com’è possibile che la maggioranza popolare possa essere una “voce dissidente”? [1]
Kirgizistan
Dopo le “rivoluzioni georgiana ed ucraina”, numerosi sono coloro che predicevano che l’ondata di “rivoluzioni” si sarebbe abbattuta sulle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. E questo è quello che è avvenuto.
I commentatori sono sembrati divisi sulla questione di sapere quale colore attribuire all’insurrezione di Bichkek: rivoluzione “dei limoni” o dei “tulipani”? Non sono riusciti a mettersi d’accordo.
Ma erano sicuramente d’accordo su un punto: queste rivoluzioni sono “fredde”, anche se sono violente. Infatti, il presidente del paese, Askar Akaïev, è stato rovesciato il 24 marzo 2005 e i contestatori hanno preso d’assalto il palazzo presidenziale e lo hanno saccheggiato.
Uzbekistan
Quando ribelli armati si impadronirono di edifici governativi, liberarono dei prigionieri e presero ostaggi nella notte fra il 12 e il 13 maggio 2005 nella città uzbeka di Andijan (situata nella valle di Ferghana dove i torbidi si erano innescati parimenti per il vicino Kirgizistan), la polizia e l’esercito accerchiarono i ribelli e ne risultò uno stallo che procedette per lungo tempo. Vennero condotti negoziati con i ribelli, i quali non cessavano mai di rincarare le loro rivendicazioni.
Quando le forze governative li attaccarono, i combattimenti produssero qualcosa come 160 morti, di cui 30 fra le forze di polizia e dell’esercito.
Nondimeno, i media occidentali immediatamente presentarono in maniera distorta questi scontri violenti, pretendendo che le forze governative avessero aperto il fuoco su dei contestatari disarmati, sul “popolo”.
Questo mito, che si ripete senza posa, della rivolta popolare contro un governo dittatoriale è accettato a destra come a sinistra dello schieramento politico.
Una volta, il mito della rivoluzione era manifestamente riservato alla sinistra, ma quando il putsch violento ha avuto luogo nel Kirgizistan, il Times si è tanto entusiasmato a proposito delle scene di Bichkek, che ricordavano all’articolista i film di Eisenstein sulla rivoluzione bolscevica; il Daily Telegraph esaltava la “presa del potere da parte del popolo” e il Financial Times faceva ricorso ad una metafora maoista ben conosciuta quando vantava la “lunga marcia del Kirgizistan verso la libertà”.
Una delle idee chiave che stanno alla base di questo mito è naturalmente quella che il “popolo” appoggia questi avvenimenti e che questi ultimi sono spontanei. In realtà, sicuramente, queste sono operazioni ben concertate, spesso messe in scena tramite i mezzi di comunicazione, e, di abitudine, create e controllate da reti transnazionali di organizzazioni non governative, che sono strumenti del potere dell’Occidente.
La letteratura sui colpi di Stato
Il mito della rivoluzione popolare spontanea perde la sua pregnanza in considerazione della vasta letteratura sui colpi di Stato e sulle principali tattiche utilizzate per provocarli.
Ben inteso, è stato Lenin a sviluppare la struttura organizzativa dedicata al rovesciamento di un regime, struttura che attualmente ci è nota sotto il nome di partito politico.
Lenin differisce da Marx per il fatto che non pensava che il cambiamento storico avvenisse come risultato di forze anonime ineluttabili. Lenin pensava che era necessario provocare il cambiamento.
Ma è stato probabilmente Curzio Malaparte che per primo, nel suo Tecnica del colpo di Stato, ha dato una forma celebre a queste idee [2].
Pubblicato nel 1931, questo libro presenta il ribaltamento di regime come una procedura tecnica. Malaparte era in disaccordo con coloro che pensavano che i cambiamenti di regime avvenivano spontaneamente.
Egli inizia il suo libro riportando una discussione fra diplomatici a Varsavia nella primavera del 1920.
La Polonia era stata invasa dall’armata rossa di Trotskij, (comunque la Polonia aveva invaso l’Unione Sovietica occupando Kiev nell’aprile 1920), e i bolscevichi erano alle porte di Varsavia.
La discussione aveva luogo fra il ministro della Gran Bretagna, Sir Horace Rumbold, e il Nunzio papale, Monsignor Ambrogio Damiano Achille Ratti (che due anni più tardi sarebbe divenuto Papa con il nome di Pio XI).
L’Inglese affermava che la situazione politica interna alla Polonia era così caotica che era inevitabile una rivoluzione e che il corpo diplomatico doveva abbandonare la capitale e rifugiarsi a Poznan. Il Nunzio non era d’accordo, insistendo sul fatto che una rivoluzione era senza dubbio possibile in un paese civilizzato come l’Inghilterra, l’Olanda o la Svizzera e non in un paese in preda all’anarchia. Naturalmente, l’Inglese era sconvolto all’idea che una rivoluzione potesse scoppiare in Inghilterra. “Mai!” sbottò.
I fatti gli hanno dato torto, visto che in Polonia non è scoppiata alcuna rivoluzione e questo, secondo Malaparte, perché le forze rivoluzionarie non erano sufficientemente ben organizzate. Questo aneddoto permette a Malaparte di accostarsi alle differenze tra Lenin e Trotskij, due esperti in colpo di Stato. Egli sottolinea come il futuro Papa avesse ragione e che era sbagliato affermare essere necessarie certe condizioni perché avvenga la rivoluzione.
Per Malaparte, come per Trotskij, è possibile provocare un cambiamento di regime non importa in quale paese, anche nelle democrazie stabili dell’Europa occidentale, a condizione che vi sia un gruppo di uomini sufficientemente determinati ad effettuarlo.
Fabbricare il consenso
Questo ci porta a fare riferimento ad altri testi relativi alla manipolazione mediatica.
Lo stesso Malaparte non affronta questo aspetto, che però a) risulta decisamente importante e b) costituisce un elemento della procedura tecnica utilizzata per i cambiamenti di regime, anche al giorno d’oggi.
A dire il vero, il controllo dei media durante un capovolgimento di regime è così importante che una delle caratteristiche di queste rivoluzioni consiste nella costruzione di una realtà virtuale. Il controllo di questa realtà è esso stesso uno strumento di potere, tanto che al momento dei colpi di Stato classici nelle “repubbliche delle banane”, la prima cosa di cui si impadronivano i rivoluzionari era la radio.
Attualmente, le persone provano ancora una forte ripugnanza ad accettare l’idea che gli avvenimenti politici siano deliberatamente manipolati.
Questa stessa ripugnanza è un prodotto dell’ideologia dell’informazione, che lusinga la vanità delle persone e le induce a credere di avere accesso ad una somma considerevole di informazioni.
In effetti, l’apparente diversificazione di informazioni derivate dai media moderni nasconde una estrema povertà delle fonti originali, nella stessa maniera in cui una strada piena zeppa di ristoranti su una spiaggia della Grecia può nascondere la realtà di un’unica cucina nel retrostante.
Le informazioni sugli avvenimenti importanti provengono spesso da un’unica fonte, quasi sempre da un’agenzia di stampa, e anche coloro deputati alla diffusione delle informazioni, come la BBC , si accontentano di riciclare le informazioni ricevute da queste agenzie, comunque presentandole come farina del loro sacco.
I corrispondenti della BBC spesso stanno nelle loro camere di albergo quando spediscono i loro dispacci, leggendo per gli studi di Londra le informazioni che sono state loro trasmesse da colleghi in Inghilterra, che a loro volta le hanno ricevute da agenzie di stampa.
Un secondo fattore che spiega la ripugnanza a credere alla manipolazione dei media è legato al sentimento di onniscienza che la nostra epoca di mezzi di comunicazione di massa ama assecondare: criticare le informazioni della stampa è come dire alle persone che sono credulone, e questo messaggio non è gradevole da ricevere.
La manipolazione mediatica ha molteplici aspetti. Uno dei più importanti è l’iconografia politica. Questa è uno strumento molto importante utilizzato per difendere la legittimità dei regimi che hanno preso il potere attraverso una rivoluzione. Basti pensare ad avvenimenti emblematici, come la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, l’assalto al Palazzo d’Inverno durante la rivoluzione dell’ottobre 1917, o la marcia su Roma di Mussolini del 1922, per rendersi conto che certi avvenimenti possono essere elevati al rango di fonti pressoché eterne di legittimità.
Ciononostante, l’importanza della costruzione politica di immagini va ben al di là dell’invenzione di un emblema specifico per ciascuna rivoluzione. Essa implica un controllo molto più rigoroso dei mezzi di informazione e generalmente questo controllo deve essere esercitato su un lungo periodo, non solamente al momento del cambiamento di regime.
Risulta veramente essenziale che la linea del partito venga ripetuta ad nauseam.
Un aspetto della cultura mediatica di questo periodo, che numerosi dissidenti denunciano alla leggera, è che le opinioni degli oppositori possono venire espresse ed anche pubblicate, ma questo avviene precisamente perché, non rappresentando solo che gocce d’acqua in un oceano, queste non rappresentano mai una minaccia per la marea propagandistica.
Willi Münzenberg
Uno dei maestri moderni del controllo dei mezzi di comunicazione è stato il comunista tedesco, da cui Goebbels ha appreso il suo mestiere, Willi Münzenberg.
Münzenberg non è stato solamente l’inventore della manipolazione, ma anche il primo ad avere messo a punto l’arte di creare una rete di giornalisti formatori di opinioni, per diffondere le idee funzionali alle necessità del Partito comunista tedesco e dell’Unione Sovietica. Con ciò, fece una fortuna edificando un vasto impero mediatico.
Münzenberg è stato coinvolto nel progetto comunista fin dall’inizio. Apparteneva al circolo ristretto dei compagni di Lenin a Zurigo e nel 1917 accompagnò il futuro capo della rivoluzione bolscevica dalla stazione centrale di Zurigo alla stazione di Finlandia a San Pietroburgo in un treno piombato, con l’aiuto delle autorità imperiali germaniche.
Lenin richiese a Münzenberg di combattere la pubblicità deleteria suscitata dalla situazione di emergenza spaventosa del 1921, che sconvolgeva lo Stato sovietico di recente instaurato, per cui 25 milioni di contadini della regione del Volga rischiavano di morire di fame.
Münzenberg, che allora era rientrato a Berlino, dove in seguito veniva eletto come deputato comunista al Reichstag, fu incaricato di creare una organizzazione di soccorso operaio, il Foreign Committee for the Organisation of Worker Relief for the Hungry in Soviet Russia – Comitato Estero per l’organizzazione del Soccorso Operaio contro la fame nella Russia Sovietica, il cui obiettivo era quello di far credere che i soccorsi umanitari provenivano da fonti diverse dalla Herbert Hoover’s American Relief Administration – Amministrazione di Herbert Hoover del Soccorso Americano.
Lenin temeva non solamente che Hoover utilizzasse il suo progetto umanitario per inviare spie nell’URSS, (cosa che effettivamente avvenne), ma ugualmente – fattore forse più importante – che il primo Stato comunista al mondo non dovesse soffrire fatalmente della pubblicità negativa dovuta al fatto che l’America capitalista gli veniva in aiuto a qualche anno dalla Rivoluzione.
Münzenberg, dopo avere ottenuto un grande successo nella raccolta di fondi e cibo per le vittime della carestia russa, rivolse la sua attenzione verso attività di propaganda più generali.
Innalzò un vasto impero mediatico, conosciuto sotto il nome di “Trust Münzenberg”, che possedeva due quotidiani a larga diffusione in Germania, una rivista settimanale di massa e aveva interessi in altre pubblicazioni nel mondo.
Si mise in luce in modo particolare nel mobilitare l’opinione pubblica mondiale contro l’America in occasione del processo a carico di Sacco e Vanzetti (i due immigrati italiani anarchici condannati a morte innocenti per omicidio nel Massachusetts nel 1921) e nel contrastare l’idea propagandata dai nazisti secondo cui l’incendio del Parlamento tedesco, il Reichstag, nel 1933, fosse opera di un complotto comunista. Ricordiamo che i nazisti presero come pretesto questo incendio per procedere ad arresti e ad esecuzioni in massa di comunisti. (Attualmente si pensa che il fuoco sia stato appiccato in realtà a titolo individuale dall’uomo che fu immediatamente arrestato nell’edificio, un piromane di nome Martinus van der Lubbe).
Münzenberg riuscì a convincere una parte importante dell’opinione pubblica attraverso una menzogna opposta a quella dei nazisti, vale a dire che quelli che avevano dato fuoco erano gli stessi nazisti che cercavano un pretesto per sbarazzarsi dei loro principali avversari.
Il fatto più importante per la nostra epoca è che Münzenberg comprese bene come sia importante influenzare i facitori di opinioni.
Egli prendeva essenzialmente come obiettivo gli intellettuali, partendo dall’idea che erano i più facili da influenzare in ragione della loro grande vanità. In modo particolare, aveva contatti con un gran numero di personalità del mondo letterario degli anni Trenta. Münzenberg ne incoraggiò molti a sostenere i Repubblicani durante la guerra civile spagnola e a fare di questa lotta una causa celebre dell’antifascismo comunista.
Attualmente, la tattica di Münzenberg riveste una grande importanza nella manipolazione dell’opinione pubblica in favore del Nuovo Ordine Mondiale.
Più che mai, “esperti” fanno la loro comparsa sui nostri piccoli schermi per delucidarci sugli avvenimenti e costoro sono sempre veicoli della linea ufficiale di qualche partito o fazione. Essi vengono tenuti sotto controllo con modalità differenti, generalmente con il denaro o con lusinghe.
Psicologia della manipolazione dell’opinione pubblica
Esiste tutta una serie di opere che puntano il dito su un aspetto un po’ differente dalla tecnica specifica messa a punto da Münzenberg. Si tratta delle modalità con cui si inducono le persone ad agire collettivamente, ricorrendo a stimoli di natura psicologica.
Potrebbe essere che il primo teorico importante in questa materia sia stato il nipote di Freud, Edward Bernays, che scriveva nella sua opera Propaganda, apparsa nel 1928, come fosse del tutto naturale e giustificato che i governi plasmassero la pubblica opinione per fini politici [3].
Il primo capitolo porta il titolo rivelatore seguente: “Organizzare il caos”.
Per Bernays, la manipolazione consapevole ed intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse è un elemento importante delle società democratiche.
Coloro che manipolano i meccanismi segreti della società costituiscono un governo invisibile, che rappresenta il potere effettivo. Noi siamo eterodiretti, i nostri pensieri sono condizionati, i nostri gusti sono costruiti ad arte, le nostre idee sono suggerite essenzialmente da uomini di cui noi non abbiamo mai inteso parlare. È la conseguenza logica della maniera in cui la nostra società democratica è strutturata.
Un grande numero di esseri umani devono cooperare per potere vivere insieme in una società che funzioni bene. In quasi tutti gli atti della nostra vita quotidiana, che si tratti della sfera politica, di affari, dei nostri comportamenti sociali o delle nostre concezioni etiche, noi siamo dominati da un numero relativamente ridotto di persone che conoscono i processi mentali e le caratteristiche sociali delle masse. Sono queste persone che controllano la pubblica opinione.
Per Bernays, molto spesso questi membri del governo invisibile non conoscono essi stessi chi sono gli altri membri. La propaganda è il solo mezzo per impedire all’opinione pubblica di sprofondare nel caos.
Bernays ha continuato a lavorare su questo argomento dopo la guerra e nel 1947 ha pubblicato The Engineering of Consent – La costruzione del consenso [4], titolo al quale Edward Herman e Noam Chomsky hanno fatto riferimento quando hanno pubblicato nel 1988 la loro opera importantissima La fabrique du consentement [5].
Il rapporto con Freud è decisivo in quanto, come andremo ad esaminare, la psicologia è uno strumento capitale per influenzare l’opinione pubblica.
Secondo due degli autori che hanno collaborato a La fabrique du consentement, Doris E. Fleischmann e Howard Walden Cutler, ogni leader politico deve fare appello alle emozioni umane primarie al fine di manipolare le opinioni.
L’istinto di conservazione, l’ambizione, l’orgoglio, la bramosia, l’amore per la famiglia e per i bambini, il patriottismo, lo spirito di imitazione, il desiderio di comando, il gusto dell’azione, così come altri bisogni, sono le materie brute psicologiche che ciascun leader deve prendere in considerazione nei suoi tentativi per conquistare l’opinione pubblica alle sue idee.
Per mantenere la fiducia nei leader, la maggior parte delle persone hanno necessità di essere sicuri che tutto quello in cui credono sia corrispondente al vero.
Questo era quello che Münzenberg aveva ben compreso: il bisogno fondamentale degli uomini di credere in ciò che essi vogliono credere. Thomas Mann faceva allusione a questo fenomeno quando attribuiva l’ascesa di Hitler al desiderio collettivo del popolo tedesco di credere ad un “racconto di fate” che dissimulava la squallida realtà.
Su questo argomento, meritano di essere citate altre opere che non trattano per ragioni temporali della propaganda elettronica moderna ma che si rivolgono piuttosto verso la psicologia delle masse. Pensiamo ai classici come la Psychologie des foules – Psicologia delle masse di Gustave Le Bon (1895) [6], Masse und Macht – Massa e potere d’Elias Canetti (1960) [7]e Le viol des foules par la propagande politique – Lo stupro delle folle da parte della propaganda politica di Serge Tchakhotine (1939) [8].
Tutte queste opere fanno abbondante riferimento alla psicologia e all’antropologia. Non bisogna dimenticare l’opera grandiosa dell’antropologo René Girard, i cui scritti sulla logica dell’imitazione (mimesis) e sulle azioni violente collettive sono eccellenti strumenti per comprendere perché l’opinione pubblica può tanto facilmente essere indotta a sostenere la guerra e altre forme di violenza politica.
Tecnica della formazione dell’opinione pubblica
Dopo la guerra, numerosissime tecniche messe a punto dal comunista Münzenberg furono adottate dagli Stati Uniti, come dimostrato in modo magnifico dall’eccellente lavoro di Frances Stonor Saunders, Qui mène la danse ? La CIA et la Guerre froide culturelle – Chi conduce la danza? La CIA e la Guerra fredda culturale [9].
Saunders spiega in maniera estremamente dettagliata come, all’inizio della Guerra fredda, gli Statunitensi e i Britannici dettero inizio ad una importante operazione clandestina destinata a finanziare intellettuali anti-comunisti. [10].
L’elemento fondamentale è che essi concentrarono la loro attenzione su alcune personalità della sinistra, soprattutto su trotskisti che non avevano mai smesso di sostenere l’Unione Sovietica, se non nel 1939 quando Stalin firmò il Patto di non-aggressione con Hitler, e che avevano spesso collaborato in precedenza con Münzenberg.
Un gran numero di queste persone, che si situavano al punto di congiunzione fra il comunismo e la CIA all’inizio della Guerra fredda, sono divenuti dei neo-conservatori di primo piano, in particolare Irving Kristol, James Burnham, Sidney Hook e Lionel Trilling [11].
Le origini di sinistra, per meglio dire trotskiste, del neo-conservatorismo sono conosciute, anche se continuo ad essere sorpreso da nuovi particolari che vado scoprendo, ad esempio che Lionel e Diana Trilling sono stati sposati da un rabbino che considerava Felix Dzerjinski, fondatore della polizia segreta bolscevica, la Čeka ( antenata del KGB), il controaltare comunista della polizia politica di Himmler, come un modello di eroismo.
Queste origini di sinistra mantengono una relazione particolare con le operazioni clandestine evocate da Saunders, visto che l’obiettivo della CIA era precisamente quello di influenzare gli oppositori di sinistra al comunismo, vale a dire i trotskisti. Molto semplicemente, l’idea della CIA era che gli anti-comunisti di destra non avevano alcun bisogno di essere influenzati ed ancor meno di venire pagati.
Stonor Saunders cita Michael Warner quando scrive:
“Per la CIA la strategia di sostenere la sinistra anti-comunista doveva diventare il fondamento teorico delle operazioni politiche della CIA contro il comunismo nel corso dei due decenni successivi.”
Questa strategia veniva descritta in The Vital Center : The Politics of Freedom di Arthur Schlesinger (1949) [12], opera che costituisce una delle pietre angolari di quello che più tardi divenne il movimento neo-conservatore.
Stonor Saunders scrive:
“L’obiettivo di sostenere gruppi di sinistra, non era né di distruggere né di dominare questi gruppi, ma piuttosto di mantenere con loro una discreta prossimità e di dirigere il loro pensiero, di procurare loro un modo per liberarsi dalle inibizioni inconscie e, al limite, di opporsi alle loro azioni nel caso in cui fossero diventati eccessivamente... radicali.”
Le modalità attraverso cui questa influenza di sinistra fece sentire i propri effetti furono molteplici e variegate.
Gli Stati Uniti erano decisi a fornire di se stessi un’immagine progressista, che contrastasse con quella di una Unione Sovietica “reazionaria”. In altre parole, volevano mettere in attuazione le stesse cose che facevano i Sovietici.
Ad esempio, negli ambienti musicali statunitensi, Nicolas Nabokov (il cugino dell’autore di Lolita) era uno dei principali esponenti del Congresso per la libertà della Cultura.
Nel 1954, la CIA aveva finanziato un festival della musica a Roma nel corso del quale l’amore “autoritario” di Stalin per compositori russi come Rimski-Korsakov e Tchaïkovski veniva “contrato” dalla musica moderna non ortodossa ispirata dal dodecafonismo di Schoenberg. Per Nabokov, promuovere una musica che eliminava in modo eclatante le gerarchie naturali, era lanciare un chiaro messaggio politico.
Un altro progressista, il pittore Jackson Pollock, ex comunista, fu allo stesso modo sostenuto dalla CIA. I suoi “imbrattamenti” venivano considerati rappresentare l’ideologia americana di “libertà” opposta all’autoritarismo della pittura del realismo socialista.
(Questa alleanza con i comunisti aveva preceduto la Guerra fredda: il pittore di affreschi messicano comunista Diego Rivera venne patrocinato da Abby Aldrich Rockefeller ma la loro collaborazione ebbe bruscamente termine quando Rivera si rifiutò di ritirare un ritratto di Lenin da una scena di massa dipinta sui muri del Rockefeller Center nel 1933.)
Questa commistione fra la cultura e la politica venne incoraggiata apertamente da un organismo della CIA che portava un nome molto orwelliano, l’Ufficio di Strategia Psicologica, PSB.
Nel 1956, questa organizzazione sostenne una tournée europea della Metropolitan Opera (Met), che aveva lo scopo politico di incoraggiare il multiculturalismo.
L’organizzatore, Junkie Fleischmann, affermava:
“Noi, negli Stati Uniti, siamo un melting-pot e con questo dimostriamo che i popoli possono intendersi indipendentemente dalla razza, dal colore della pelle o dalla loro confessione.
Utilizzando il termine melting-pot, o una qualsiasi altra espressione, noi potremo presentare il Met come un esempio per cui gli Europei immigrati negli Stati Uniti hanno potuto intendersi, e, di conseguenza, suggerire che una specie di Federazione europea è sicuramente possibile.”
Sia detto per inciso, questo è esattamente l’argomento utilizzato da Ben Wattenberg che, nella sua opera The First Universal Nation, sostiene che gli Stati Uniti possiedono un diritto particolare all’egemonia mondiale in quanto inglobano tutte le nazioni e razze del pianeta.
L’identica idea è stata espressa da Newt Gingrich e da altri neoconservatori.
Fra gli altri temi proposti, alcuni sono al centro dell’ideologia neo-conservatrice di oggi. Il primo fra questi corrisponde all’opinione autenticamente liberale di un universalismo morale e politico. Questo ha costituito il nucleo della filosofia della politica estera di George W. Bush. In numerose occasioni Bush ha dichiarato che i valori politici sono i medesimi nel mondo intero ed ha utilizzato questa affermazione per giustificare l’intervento militare in favore della “democrazia”.
Agli inizi degli anni Cinquanta, Raymond Allen, direttore dell’Ufficio di Strategia Psicologica (l’Ufficio di Strategia Psicologica fu immediatamente designato unicamente attraverso le sue iniziali PSB, senza dubbio allo scopo di tenere nascosto quello che veniva direttamente espresso dal nome intero) era già pervenuto alla seguente conclusione:
“I principi e gli ideali contenuti nella Dichiarazione di Indipendenza e nella Costituzione sono destinati ad essere esportati e costituiscono il patrimonio degli uomini in tutto il mondo. Noi dovremo orientarci verso i bisogni fondamentali dell’umanità che, io credo, siano gli stessi per l’agricoltore del Texas come per quello del Pendjab.”
Certamente, sarebbe falso attribuire la diffusione delle idee unicamente alla manipolazione clandestina. Le idee si iscrivono in vasti movimenti culturali, le cui fonti originali sono molteplici. Ma è fuori dubbio che il dominio di queste idee può essere considerevolmente facilitato mediante operazioni clandestine, particolarmente in quanto i membri delle società dell’informazione di massa sono straordinariamente influenzabili. Non solamente essi credono a ciò che leggono sui giornali, ma immaginano di essere arrivati in modo autonomo alle conclusioni. Di conseguenza, l’astuzia per manipolare l’opinione pubblica consiste nell’applicare quello che è stato teorizzato da Bernays, introdotto e messo in pratica da Münzenberg ed elevato al rango di grande arte dalla CIA.
Secondo l’agente della CIA Donald Jameson, rispetto ai comportamenti che l’Agenzia desidera suscitare mediante le sue attività, è evidente che la CIA desidera formare delle persone intimamente persuase che tutto quello che il governo mette in esecuzione sia giusto. Altrimenti detto, quello che la CIA e altre agenzie hanno messo in esecuzione in questo periodo è stato di adottare la strategia che bisogna associare al marxista italiano Antonio Gramsci, che affermava che l’“egemonia culturale” era essenziale per la rivoluzione socialista.
Disinformazione
Sulle tecniche di disinformazione esiste una quantità enorme di testi.
Ho già fatto menzione sul fatto importante, formulato da Tchakhotine, che il ruolo dei giornalisti e dei media è fondamentale per assicurarsi che la propaganda avvenga in modo costante.
Tchakhotine scrive che la propaganda non dovrebbe interrompersi mai, formulando così una delle regole fondamentali della disinformazione moderna, vale a dire che il messaggio, per passare, deve essere ripetutamente reiterato.
Prima di tutto, Tchakhotine afferma che le campagne di propaganda devono essere dirette in modo centralizzato e ben organizzate, cosa che è divenuta prassi nel tempo della “comunicazione” politica moderna. Per esempio, i membri laburisti del Parlamento Britannico non possono comunicare con i media senza l’autorizzazione del Direttore per le Comunicazioni, al numero 10 di Downing Street.
Sefton Delmer era allo stesso tempo un teorico e un esperto esecutore della black propaganda (propaganda sporca, disinformazione). Aveva creato una falsa stazione radio che, durante la Seconda Guerra mondiale, trasmetteva dalla Gran Bretagna verso la Germania e diffondeva il mito che esistevano dei buoni patrioti tedeschi che si opponevano ad Hitler. [N.d.tr.: Gustav Siegfried Eins. Questo era il nome della stazione radio che fingendo di essere tedesca, riusciva a seminare tra i suoi ascoltatori (tedeschi) l’idea di una Germania non così monolitica come l’avrebbe voluta il Führer.] Si sosteneva la finzione che si trattasse in realtà di una stazione tedesca clandestina che trasmetteva utilizzando frequenze vicine a quelle delle stazioni ufficiali. Questo genere di “black propaganda” fa ancora parte dell’arsenale della “comunicazione” governativa statunitense.
Il New York Times ha rivelato che il governo emetteva dei bollettini informativi favorevoli alla sua politica, che venivano quindi diffusi nei programmi ordinari e presentati come produzioni delle stesse catene radiofoniche e televisive.
Esistono numerosi altri autori che hanno trattato questo argomento e di alcuni di loro ho già parlato nella mia rubrica All News Is Lies – Tutte le notizie sono falsità, ma forse l’opera che corrisponde al meglio al dibattito attuale è quella di Roger Mucchielli, La Subversion , pubblicata in francese nel 1971, che dimostra come la disinformazione, una volta ritenuta tattica ausiliaria durante la guerra, sia divenuta la tattica predominante [13].
Secondo Mucchielli, la strategia si è sviluppata al punto tale che l’obiettivo attualmente è quello di conquistare un paese senza assolutamente attaccarlo fisicamente, in particolare facendo ricorso ad agenti interni che condizionano l’opinione pubblica.
Essenzialmente, si tratta dell’idea proposta e posta in discussione da Robert Kaplan nel suo saggio pubblicato in The Atlantic Monthly nel luglio/agosto 2003 e intitolato “Supremacy by Stealth – Supremazia assunta furtivamente” [14].
Robert Kaplan, uno dei più sinistri teorici del Nuovo Ordine Mondiale e dell’Impero USamericano, difende esplicitamente l’utilizzazione illegale ed immorale della forza per permettere agli Stati Uniti di controllare il mondo intero.
Il suo saggio tratta del ricorso alle operazioni segrete, alla forza delle armi, a sporchi inganni, alla disinformazione, alle influenze clandestine, alla costruzione dell’opinione pubblica, perfino agli assassini politici, tutti mezzi che rivelano un’“etica pagana” destinati ad assicurare il predominio statunitense.
Un altro punto da sottolineare a proposito di Mucchielli è che è stato uno dei primi teorici a propugnare il ricorso a false organizzazioni non governative ONG, o “organizzazioni di facciata”, per provocare un cambiamento politico interno di un altro paese.
Come Malaparte e Trotskij, Mucchielli aveva capito che non erano le circostanze “oggettive” che procuravano il successo o il fallimento di una rivoluzione, ma la percezione di queste circostanze creata ad arte dalla disinformazione.
Inoltre, Mucchielli aveva compreso che le rivoluzioni storiche, che venivano invariabilmente presentate come il prodotto di movimenti di massa, in realtà erano frutto dell’azione di un gruppo assolutamente ristretto di cospiratori molto ben organizzati.
Come Trotskij, Mucchielli insisteva sul fatto che la maggioranza silenziosa doveva essere completamente esclusa dai meccanismi del cambiamento politico, precisamente perché i colpi di Stato sono opera di un ristretto numero di individui e non della massa.
L’opinione pubblica costituisce il “forum” dove si pratica la sovversione e Mucchielli descrive i differenti modi di utilizzare i mezzi di comunicazione di massa per creare una psicosi collettiva. Secondo lui, i fattori psicologici sono estremamente importanti a questo riguardo, in modo particolare nella ricerca di strategie importanti, come la demoralizzazione di una società. L’avversario deve essere indotto a perdere fiducia nella giustezza e nella fondatezza della sua causa e tutti gli sforzi devono essere prodotti per convincerlo che il suo avversario è invincibile.
Ruolo dei militari
Prima di affrontare questo punto, richiamiamo alla mente ancora una questione di ordine storico: il ruolo dei militari nella conduzione di operazioni segrete e nell’influenza esercitata sui mutamenti politici. Si tratta di una questione di cui alcuni analisti contemporanei ammettono tranquillamente la valenza attuale: Kaplan approva il fatto che l’esercito degli Stati Uniti venga utilizzato per “promuovere la democrazia”.
Si compiace di sottolineare come un colpo di telefono di un generale USamericano sia spesso un mezzo migliore per incoraggiare un cambiamento politico in un paese del Terzo Mondo piuttosto che una esortazione dell’ambasciatore degli Stati Uniti.
Kaplan cita un ufficiale addetto alle Operazioni Speciali dell’Esercito:
“Chiunque sia il presidente del Kenya, è sempre lo stesso gruppo di...giovanotti a dirigere le forze speciali e le guardie del corpo del presidente. Noi li abbiamo addestrati. Questo è quello che si dice influenza diplomatica!”
L’aspetto storico dell’argomento è stato di recente studiato da un accademico universitario svizzero, Daniele Ganser, in un suo libro Les Armées secrètes de l’OTAN [15].
Ganser comincia col menzionare il fatto che il 3 agosto 1990, Giulio Andreotti, allora Primo ministro, ammetteva l’esistenza di un’organizzazione armata segreta nel suo paese, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, conosciuta con il nome di Gladio, che era stata creata dalla CIA e dal MI6, e che era coordinata da una sezione poco ortodossa della NATO.
Inoltre, Andreotti confermava una delle vociferazioni più persistenti nell’Italia del dopo-guerra.
Tantissime persone, fra cui magistrati inquirenti, avevano l’opinione che Gladio non facesse parte solamente di una rete di organizzazioni armate segrete create dagli Stati Uniti in Europa occidentale per combattere un’eventuale occupazione sovietica, ma che queste reti si erano adoperate per influenzare il risultato delle elezioni, addirittura stringendo sinistre alleanze con organizzazioni terroristiche. L’Italia era un bersaglio particolare, in quanto il suo Partito comunista era decisamente potente.
All’inizio, questo gruppo armato segreto era stato messo in piedi con lo scopo di prepararsi ad affrontare l’eventualità di una invasione, ma sembra che abbia effettuato ben presto operazioni segrete miranti ad influenzare gli stessi processi politici, pur in assenza di invasioni.
Esistono numerose prove dell’ingerenza massicciamente invasiva degli Stati Uniti, soprattutto nelle elezioni italiane, in modo da impedire al Partito comunista l’accesso al potere. Per questa ragione molti miliardi di dollari erano stati offerti ai democratici cristiani.
Ganser continua nel sostenere che esistono le prove che alcune cellule della Gladio hanno organizzato attentati terroristici con lo scopo di fare accusare i comunisti e di indurre la popolazione spaventata a reclamare poteri speciali per lo Stato destinati a “proteggerla” dal terrorismo.
Ganser interpella l’individuo accusato di avere posizionato una delle bombe, Vincenzo Vinciguerra, che ha ben spiegato la natura della rete di cui era un semplice soldato.
Gladio faceva parte di una strategia mirante a “destabilizzare, al fine di stabilizzare”.
Le vittime degli attentati erano civili, donne, bambini, innocenti, sconosciuti, assolutamente estranei al gioco politico. La ragione era molto semplice: si trattava di forzare il popolo italiano a rivolgersi verso lo Stato per esigere una maggiore sicurezza. Questa era la logica politica che permeava tutti i massacri, di cui gli autori sono rimasti impuniti, dato che lo Stato non poteva dichiararsi colpevole di quello che era avvenuto.
Esiste un rapporto evidente con le teorie del complotto a proposito dell’11 settembre.
Ganser presenta tutta una serie di prove secondo cui si è agito là come con Gladio in Italia e le sue argomentazioni lasciano pensare che potrebbe essere avvenuta un’alleanza con dei gruppi estremisti, come in Italia ci si era affidati a gruppi dell’estrema sinistra come le Brigate Rosse. Dopo tutto, quando Aldo Moro fu rapito – e in seguito assassinato – egli si era recato in Parlamento per presentare un programma di coalizione fra democristiani, socialisti e comunisti, fatto che gli Stati Uniti erano assolutamente decisi a contrastare.
I tattici della rivoluzione del nostro tempo
Le opere storiche che ho citato ci aiutano a capire quello che sta avvenendo ai nostri giorni. I miei colleghi e il sottoscritto, del British Helsinki Human Rights Group, abbiamo potuto constatare che anche attualmente vengono utilizzate le stesse tenich
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Sahranjen Momo Kapor
Književnik, slikar, novinar, Momčilo Momo Kapor, koji je prekjuče, u 73. godini, preminuo na Vojno-medicinskoj akademiji, sahranjen je danas u Aleji zaslužnih građana na Novom groblju. Prethodno je u Skupštini grada Beograda održana komemoracijaMomo Kapor era nato a Sarajevo nel 1937. Da questa città aveva assorbito le sfumature più colte della sua multi etnicità nel periodo migliore. Notevole pittore, a Belgrado diventa romanziere, uno dei più apprezzati scrittori jugoslavi del dopoguerra. Ha scritto oltre 30 libri tradotti in molte lingue, ma anche sceneggiature per teatro e cinema. Opinionista per il quotidiano Politika, tracciava con raffinato humour ritratti o spaccati di vita quotidiana accompagnandoli con divertenti schizzi. Aveva viaggiato molto e filtrava le sue impressioni attraverso l'ironia che gli era tipica.Allo scoppio della guerra civile in Bosnia si era messo a disposizione della Republika Srpska. Non so che compito avesse, ricordo di averlo incontrato nei posti più assurdi dalla Krajina come a Pale in divisa mimetica.Dopo Dayton aveva fatto parte, come senatore, del Parlamento della RSB.In seguito si era ritirato a Belgrado scrivendo e creando dei quadri pieni di fascino spesso ispirati a zone della Bosnia. Lo hanno tacciato di nazionalismo, in realtà difendeva i diritti dei Serbi di Bosnia alla sopravvivenza e le tradizioni migliori della cultura serba e jugoslava.Si era ammalato alcuni anni or sono, come il suo amico Dragos Kalaijc, con il quale aveva prestato la sua opera in Bosnia. Aveva combattuto la malattia con un'alternanza di successi e ricadute sempre continuando a scrivere e dipingere.L'ho incontrato l'ultima volta a casa sua dopo il Forum di Belgrado del marzo 2009. Nel suo grande studio era appeso un quadro straordinario di ultima produzione. La tela rappresentava una piazza di Sarajevo vista dall'alto con una strada che monta verso altri quartieri della città, agli angoli della strada una chiesa ortodossa e una moschea. Nel mezzo della piazza una giostra con cavalli di legno, davanti alla giostra dal lato di chi guarda giacevano dei cavalli moribondi, morivano per ferite non evidenti, forse di melanconia. Una luce da tramonto invernale, un po' brumosa illuminava la piazza. Dal quadro percepivo una serena, struggente tristezza scevra di rabbia. Era il suo addio a Sarajevo. Ho capito che ci salutavamo per l'ultima volta.Eravamo molto amici. Anche se ci vedevamo poco, nutrivamo un profondo rispetto reciproco. Forse per aver condiviso alcune situazioni in guerra. Fra l'altro dopo un incontro casuale a Knin, scrisse un divertente articolo con mio schizzo-ritratto su Politika, dove raccontava con molto spirito quanto avevamo vissuto ad una colazione offerta da un generale. Ispirandosi ad un altro incontro in Bosnia, scrisse un surreale racconto su un pastore e una contessa.Con lui si chiude un'epoca. Momo Kapor è morto ieri mattina 4 marzo all'Ospedale militare di Belgrado, se n'è andato uno degli ultimi esponenti della raffinata ironica cultura belgradese.
UK Association of Gypsy Women concerns with the European Union Rule of Law Mission (EULEX) in Kosovo
28/02/2010 - The UK Association of Gypsy Women have registered grave concerns with the European Union Rule of Law Mission (EULEX) in Kosovo, on the disgraceful and degrading treatment metered out by the Kosovo Police in an incident on the 5th February where reportedly, batons were used in a brutal and cowardly attack on a small group of Roma people, beating elderly and young men, women and children with batons also calling for reinforcements, simply because the people voiced their protest against officials moving desperately needed aid.
According to our information EULEX, is the largest civilian mission ever launched under the common security and defense policy, with approx 3,000 personnel. Its central aim is supposed to be, to assist and support the Kosovo authorities in the rule of law, specifically in areas of police and judiciary etc.
UKAGW have appealed to EULEX to advise Kosovo Police of the procedures that should be followed in such cases of serious complaint as the one reported on the 5th February which, in our humble opinion is a clear case of Police Brutality, we are also of the opinion that the police in this instance are in dire need of EULEX assistance and advice. Moreover, we sincerely hope EULEX will advise that a full investigation be launched with the immediate suspension of the officer’s concerned until the investigation is concluded and action to be taken thereof decided.
Source: UK Association of Gypsy Women
“Scandalous treatment of Roma in Kosovo” |
16 February 2010 | 14:03 | Source: Tanjug |
KOSOVSKA MITROVICA -- Council of Europe Human Rights Commissioner Thomas Hammarberg called for an end to forcible return of Roma to Kosovo. After his second visit in ten months to the contaminated Roma camps in Česmin Lug and Osterode, Hammarberg said that the situation had not changed, and called for an urgent evacuation of the settlements. “The fact is that these camps have been inhabited for an entire decade is scandalous. The international community is partly to blame for this situation,” Hammarberg said. He said that the lead contamination posed a very serious danger for the people and children of the community. “New, safe housing is needed for about 600 people, in order to close the camps. They all need immediate medical care as well,” he said. Hammarberg said that he is concerned about the fact that Europe is implementing a forcible return of Roma to Kosovo. According to UN statistics, 2,500 people from EU countries were returned to Kosovo in 2009. Some of the Roma forced to go back to the province were sent to the contaminated camps, most of them being from Austria, Germany, Sweden and Switzerland. “I am calling on European countries to stop the forcible return until Kosovo is ready to secure the necessary conditions of life, medical care, education, social services and jobs,” he said. He reminded that Kosovo has already signed readmission agreements with several countries. “In Kosovo alone there are 20,000 internally displaced persons and the unemployment rate is at about 50 percent, which clearly shows that Kosovo still lacks the infrastructure needed to allow a sustainable reintegration of refugees,” Hammarberg said. He added that some of the refugees have lived in other countries for a long time and have children that were born in European countries, speak the languages of these countries fluently and have no ties to Kosovo. “The result is that many refugees are trying to return as soon as they can to the countries they used to live in,” the commissioner said. In a report published last summer, Human Rights Watch said that the Roma district in the northern city of Kosovska Mitrovica was attacked by ethnic Albanians in June 1999. "By June 24, the district had been looted and burned to the ground, and its 8,000 inhabitants had fled. Many were resettled by the UN in camps in a heavily contaminated area located near a defunct lead mine. The move was originally intended to be temporary, yet about 670 Roma still live in camps near the site, with damaging consequences for their health," said the report. |