Informazione

(italiano / english)


http://www.ansa.it/balcani/kosovo/20070611144234330230.html

KOSOVO: KOSTUNICA, USA NON POSSONO REGALARE TERRITORI SERBI
BELGRADO - ''La Serbia e' amareggiata con la politica americana per
la soluzione del problema del Kosovo. Gli Usa non hanno diritto di
regalare i territori serbi agli albanesi''. E' questa la risposta del
premier serbo, Vojislav Kostunica, alle posizioni del presidente Usa
George W. Bush che ieri a Tirana e oggi a Sofia ha detto che il
Kosovo deve diventare indipendente e che ''il momento per far
avanzare il piano Ahtsaari e' adesso''.

''L'America ha diritto di appoggiare alcuni popoli e Paesi, ma non
regalandogli qualcosa che non e' in loro possesso. L'America deve
trovare un altro modo di mostrare le sue preferenze e il suo amore
verso gli Albanesi invece di regalare loro territori Serbi'', ha
insistito Kostunica.

Secondo il premier serbo, con i bombardamenti della Serbia gli Usa
hanno fatto uno sbaglio come successo altre volte in questo secolo.

''Un nuovo sbaglio e' appoggiare l'indipendenza del Kosovo,
rappresenterebbe una ingiustizia che il popolo serbo non
dimenticherebbe mai. Se l'America ignorera' il diritto internazionale
deve sapere che la Serbia rigettera' e considera' nulla ogni forma di
indipendenza della sua regione'' ha concluso Kostunica.

Osservatori politici a Belgrado notano che i toni duri usati dal
Primo ministro serbo trovano fondamento molto probabilmente nei
risultati di un incontro con il presidente russo Vladimir Putin due
giorni fa a San Pietroburgo, nel quale la Russia ha ripetuto la sua
posizione contraria a una soluzione che non soddisfi le due parti in
causa.

11/06/2007 14:42



http://www.signonsandiego.com/news/world/20070611-0952-serbia-kosovo-
bush.html

Reuters
June 11, 2007

Serbs 'disgusted' by Bush Kosovo pledge – premier


By Douglas Hamilton

BELGRADE – Serbs will never forgive the United States
if it helps ensure Kosovo's Albanians win independence
for the Serbian province, Prime Minister Vojislav
Kostunica said on Monday.

In a bitter response to President George W. Bush's
promise to Albanians that Kosovo would soon be
independent, Kostunica said Serbia was 'justifiably
disgusted' by U.S. policy, the official Serbian news
agency Tanjug reported.

The row over Kosovo's future deepened as the province
marked the eve of the 8th anniversary of the June 12
deployment of 60,000 NATO troops who entered the
territory from Macedonia as Serb forces withdrew to
the north.

It has turned into a high-stakes diplomatic standoff
between Russia, which backs Serbia in opposition to
independence, and the West, which believes it is the
only viable solution to future stability in the
southern Balkans.

'The U.S. has a right to support certain states and
peoples in accordance with its interests, but not by
making them a present of something which doesn't
belong to it,' the Serb premier said.

'The U.S. bombing of Serbia was a big enough mistake
for the last century and this one as well,' added
Kostunica, who has suggested that Serbia would curtail
diplomatic ties with any state that recognises
independence.

'Supporting one-sided independence for Kosovo would be
a fresh mistake, a further act of unjustified
violence, which would not be forgotten by the Serbian
people,' he said.

EIGHT-YEAR WAIT

The United States led NATO military intervention in
the Kosovo crisis in 1999, bombing Serbia for 11
weeks....

Kosovo has been under U.N. administration and NATO
protection since June 1999, awaiting a decision on its
future.

French President Nicolas Sarkozy failed last week to
broker a compromise deal with Russia over Kosovo,
suggesting a six-month delay to any U.N. resolution in
exchange for Russian acceptance of independence.

France's foreign ministry said on Monday senior
officials from France, the United States, Britain,
Germany and Italy would meet in Paris on Tuesday to
discuss next steps on Kosovo.

Visiting Albania on Sunday, Bush said the United
States and European Union were convinced that
independence for Kosovo was the only viable solution,
as demanded by the province's 90 percent ethnic
Albanian majority.

Bush said Washington would make further diplomatic
efforts to convince Russia, which could veto a U.N.
resolution.

But Bush also said that 'at some point in time, sooner
rather than later, you have to say enough is enough,
Kosovo is independent'. The West could bring the issue
to a Security Council vote this month.

U.N. Secretary-General Ban Ki-moon on Monday urged the
Council to endorse a plan drafted by U.N. envoy Martti
Ahtisaari for an independent Kosovo supervised by the
European Union.

'I hope at this time we should not waste too much time
in making a decision,' said Ban. 'But I hope and I
expect that the consultations among the parties
concerned will continue.'


(Source: R. Rozoff through http://groups.yahoo.com/group/
yugoslaviainfo )


9 giugno 2007. Una soggettività plurale in movimento,
un passaggio strategico nella lotta contro politiche di guerra bypartisan.

 

COMUNICATO DELLA RETE NAZIONALE DISARMIAMOLI!


Nonostante i tentativi di criminalizzare, sminuire, boicottare, “circuire” la manifestazione nazionale contro le politiche belliciste di  Bush & Prodi, il corteo sfilato da Piazza Esedra a Piazza Navona ha evidenziato un dato oramai incontrovertibile: in Italia esiste una soggettività plurale capace di muoversi, sulla base di precise parole d’ordine, indipendentemente dalle mille sirene filo governative messesi in moto ben prima della risicata vittoria elettorale del governo di centro sinistra.

 

Inutile ripercorrere qui le tappe attraverso le quali i partiti dell’ex sinistra radicale e le associazioni di massa collaterali ( ARCI, FIOM, Tavola per la Pace, Un Ponte Per... ) hanno tentato di pianificare, sin dalla prima metà del 2004, la riduzione organizzativa e contenutistica del movimento pacifista italiano. In questi anni le posizioni coerentemente nowar si sono talvolta trovate in minoranza nelle assemblee nazionali dei forum pacifisti. L’obiettivo generale del piano, ora evidente e disvelato, era la costruzione di un movimento addomesticato, compatibile ai diktat delle politiche “di lotta e di governo”.

 

Dopo un anno di subalternità alle politiche del nocciolo duro del governo, il tentativo di “copertura a sinistra” ha prodotto un disastro, misurabile con il vuoto di Piazza del Popolo, che se abbinato alla debacle elettorale alle ultime amministrative danno la dimensione di una vera catastrofe.
Un intero ceto politico si ritrova solo, abbarbicato alle proprie poltrone ed ai propri indecenti stipendi, ma completamente isolato dalle piazze, dalle aspettative di milioni di ex “elettori”.
Come abbiamo detto ripetutamente in questi mesi: il re è nudo, e tutti lo hanno potuto vedere nella impietosa rappresentazione di quella piazza vuota.

 

I 150.000 scesi in piazza contro Bush e le politiche militariste del governo Prodi esprimono - questo è il dato di novità assoluta - una soggettività plurale indipendente da politiche estere con connotati chiaramente bypartisan.  
Su questa capacità di autonomia ed indipendenza è bene che tutti riflettano, compresi coloro i quali, sovradimensionati in questi giorni da un sistema mediatico e politico all’affannosa ricerca di portavoce ufficiali, hanno parlato in nome di... Il movimento contro la guerra più che di leader avrà bisogno nei prossimi mesi di unità e radicamento, di contenuti in grado di amalgamare settori sociali diversi colpiti quotidianamente dai costi bellici, di coerenza nelle campagne contro la militarizzazione dei territori, a partire dalla battaglia che ci aspetta a Vicenza contro la base al Dal Molin.

 

Le esperienze concrete delle realtà che da anni si battono contro le basi militari, la militarizzazione e lo scempio dei territori sono punti di riferimento imprescindibili per il rafforzamento di questo nuovo movimento cresciuto nel paese. Su questo reticolo di comitati, forum sociali, associazioni pacifiste, strutture antimperialiste la Rete nazionale Disarmiamoli ha scommesso in questi mesi e continuerà a scommettere nel prossimo futuro, proponendo già alla fine di giugno un incontro nazionale per “rinserrare le fila” delle tante strutture incontrate dalle carovane contro la guerra che dal 19 al 9 giugno hanno attraversato l’Italia, per concentrarsi nelle manifestazioni romane.

 

Le lotte contro la base a Vicenza, lo scudo antimissilistico, le basi USA NATO, la presenza all’estero delle truppe coloniali italiane e la militarizzazione dei territori e della vita sociale escono enormemente rafforzata dalla manifestazione del 9 giugno. A noi la capacità di socializzare e radicare questa grande energia nelle lotte dei prossimi mesi.

 

La Rete nazionale Disarmiamoli!
www.disarmiamoli.org  info@...



30 giugno 2007, Roma -
Centro congressi Cavour, ore 10
 
PER UNA AGENDA DI LAVORO CONTRO
 
BASI MILITARI, INVESTIMENTI BELLICI,
MILITARIZZAZIONE DEI TERRITORI E DELLA VITA SOCIALE
 
Incontro della Rete nazionale Disarmiamoli!
 
Il movimento contro la guerra italiano ha raggiunto in questi mesi un alto grado di maturità politica.
Nonostante i tentativi di criminalizzare, sminuire, boicottare, “circuire” la manifestazione nazionale del 9 giugno contro le politiche belliciste di  Bush & Prodi, il bellissimo e partecipato corteo sfilato da Piazza Esedra a Piazza Navona ha evidenziato un dato oramai incontrovertibile: contro le politiche di guerra in Italia esiste una soggettività plurale capace di muoversi sulla base di precise parole d’ordine, indipendentemente dalle mille sirene filo governative messesi in moto ben prima della risicata vittoria elettorale del governo di centro sinistra. Un intero ceto politico si è ritrovato solo, isolato dalle piazze, dalle aspettative tradite di milioni di ex “elettori”.
Le esperienze concrete delle realtà che da anni si battono contro le basi militari, la militarizzazione e lo scempio dei territori sono punti di riferimento imprescindibili per il rafforzamento di questo nuovo movimento cresciuto nel paese. Su questo reticolo di comitati, forum sociali, associazioni pacifiste, strutture antimperialiste, la Rete nazionale Disarmiamoli ha scommesso in questi mesi e continuerà a scommettere nel prossimo futuro, proponendo già alla fine di giugno un incontro nazionale per “rinserrare le fila” delle tante strutture incontrate dalle carovane contro la guerra che dal 19 al 9 giugno hanno attraversato l’Italia, per concentrarsi nelle manifestazioni romane.
Le lotte contro la base a Vicenza, lo scudo antimissilistico, le basi USA NATO, la presenza all’estero delle truppe coloniali italiane, la militarizzazione dei territori e della vita sociale escono enormemente rafforzata dalla manifestazione del 9 giugno. A noi la capacità di socializzare e radicare questa grande energia nelle lotte dei prossimi mesi.
Le tappe che hanno portato a questa nuova fase lasciano il segno di una identità forte, in dialettica diretta con i movimenti che in Italia e nel mondo si battono concretamente contro la militarizzazione e lo scempio dei territori, contro le basi militari e le logiche di guerra, siano esse uni o multi laterali.
La Rete nazionale Disarmiamoli ha praticato un concreto percorso di ricomposizione con l’obiettivo di riportare nell’agenda politica nazionale la lotta antimilitarista contro basi di guerra, accordi militari e truppe di occupazione all’estero. L’assunzione nelle piattaforme nazionali del movimento No War delle  parole d’ordine proposte in questi mesi è un importante passo in avanti in questa direzione. 
Si tratta ora di raccogliere le forze, rilanciando la mobilitazione sui temi e gli obiettivi che scaturiscono dalle recenti mobilitazioni, a partire dalla impellente questione Dal Molin.
L’incontro nazionale che proponiamo per sabato 30 giugno ha questo scopo, divenendo nel contempo momento di confronto tra realtà territoriali, rafforzamento della rete di relazioni ed organizzazione per le campagne del prossimo autunno.
I TEMI CHE PROPONIAMO ALLA DISCUSSIONE SONO:
1)      coordinamento delle mobilitazioni intorno alle “aree di crisi”, assumendo in pieno lo spirito del Patto di mutuo soccorso anche sul terreno della lotta antimilitarista, a partire dalla immediata mobilitazione al fianco del Presidio permanente No Dal Molin. Attenzione particolare andrà data nei prossimi mesi alle mobilitazioni contro la costruzione degli F35 a Cameri, contro l’ampliamento delle basi di Sigonella e camp Darby
2)      Rilancio della mobilitazione contro lo scudo antimissilistico, a partire dalla raccolta di firme sulla Petizione popolare
3)      Organizzazione del Comitato Promotore per la Legge di Iniziativa Popolare sui trattati internazionali e sulle basi e servitù militari
4) rafforzamento della rete di relazioni nazionale in previsione del rilancio autunnale delle mobilitazioni
Dalle manifestazioni al fianco della resistenza libanese nell’agosto del 2006 durante i bombardamenti israeliani, alla manifestazione del 17 febbraio al fianco del popolo palestinese, sino al corteo del 17 marzo che ricordava l’anniversario dell’invasione dell’Iraq, decine di migliaia di militanti si sono mobilitati, indipendentemente dalle strutture delle grandi “organizzazioni di massa”, impegnate a cogestire la “nuova” politica estera dalemiana. I 150.000 scesi in piazza il 9 giugno contro Bush e le politiche militariste del governo Prodi esprimono ora - questo è il dato di novità assoluta - una soggettività plurale indipendente da politiche estere con connotati chiaramente bipartisan. 
Su questa capacità di autonomia ed indipendenza è bene che tutti riflettano. Il movimento contro la guerra più che di leader avrà bisogno nei prossimi mesi di unità e radicamento, di contenuti in grado di amalgamare settori sociali diversi colpiti quotidianamente dai costi bellici, di coerenza nelle campagne contro la militarizzazione dei territori, a partire dalla battaglia che ci aspetta a Vicenza contro la base al Dal Molin.
Nel vivo di queste iniziative e mobilitazioni nasce l’ipotesi della Rete nazionale Disarmiamoli, con l’obiettivo di mettere a valore il lavoro di tante realtà territoriali impegnate da anni contro le basi USA NATO presenti nel nostro paese, contro la militarizzazione dei territori e della vita sociale.
In questo tragitto abbiamo incontrato altre reti di movimento, portatrici di culture e prassi politiche differenti, ma ugualmente determinate a tener fede agli obiettivi storici del “No alla guerra senza se e senza ma”. Con queste realtà abbiamo pianificato il progetto delle Carovane contro la guerra, per il disarmo e la pace, veicolo concreto per conoscere e confrontarci, dal Nord al Sud del paese, con i tanti comitati, social forum, associazioni e collettivi di “resistenti”, tessuto connettivo imprescindibile del presente e del futuro movimento contro la guerra.
Dal 19 maggio al 2 giugno abbiamo toccato oltre 50 realtà, grandi e piccole, dalla Sicilia al Veneto, dal Piemonte alla Toscana, dalla Puglia alla Campania, per giungere a Roma a contestare il militarismo dei fori imperiali, oggi legittimato anche dalla spilletta del Presidente della Camera.
Durante le tappe abbiamo raccolto le firme sulla Petizione popolare contro lo scudo antimissilistico, divulgato i testi delle leggi di iniziativa popolare contro accordi militari, basi USA / NATO e ordigni nucleari, diffuso i materiali e le informazioni di comitati ed esperti sulle basi e sulle guerre in atto, smascherando le false politiche “di pace” di un governo intriso di militarismo e servilismo verso il gigante d’oltreoceano.  
 
Il 30 giugno sugli obiettivi praticati sino ad oggi e sulle proposte che emergeranno durante il dibattito ci impegneremo, chiamando tutte le realtà del movimento No War ad un confronto fattivo, in grado di rafforzare complessivamente la lotta contro i venti di guerra che soffiano forte su tutto il continente eurasiatico e mediorientale.
 
Nei prossimi giorni invieremo le partecipazioni individuali e collettive all'incontro
 
La Rete nazionale Disarmiamoli!
www.disarmiamoli.org   info@disarmiamoli.org  3381028120



L'ITALIA ALLA SERBIA: "ATTACCATEVI AL TRAM"


(AGI) - Roma, 29 mag - "L'Italia non ha cambiato posizione sul
Kosovo. Sono cambiate le circostanze in cui dobbiamo agire. (SIC)
C'e' stata una raffinazione (SIC), un compimento del progetto
Ahtisaari. E' venuto il momento delle decisioni definitive. Non c'e'
piu' la possibilita' di portare avanti lo sforzo tremendo (SIC) che
l'Italia ha svolto nella fase precedente". Lo afferma sul Kosovo il
Presidente del Consiglio, Romano Prodi, al termine dell'incontro a
Palazzo Chigi con il Presidente della repubblica serba Boris Tadic.
Prodi aggiunge: "Esprimo l'augurio che la Serbia possa guardare al
futuro e lavorare perche' dal protocollo Ahtisaari possa derivare un
percorso che dia sicurezza e prosperita' alla comunita' serba (SIC)
in Kosovo.
L'Italia lavorera' al Consiglio di Sicurezza dell'Onu perche' si
possa operare in questa direzione".
KOSOVO: AMATO, SERBIA DEVE RISOLVERE QUESTO PROBLEMA

Il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, si dice "preoccupato del
fatto che possa andare avanti l'ipotesi di riconoscimenti unilaterali
del Kosovo che ricreano un clima di Balcani anni '90 e che noi
vogliamo evitare". Interpellato dai giornalisti, a margine di una
conferenza stampa, sulle parole del Presidente americano George W.
Bush, a favore dell'indipendenza del Kosovo, Amato ricorda che
"l'Europa nel suo insieme ha una posizione comune e si e' impegnata
ad aprire dei negoziati in questi giorni". "La Serbia sa che questo
problema va risolto - aggiunge poi Amato - e se non lo affronta con
il coraggio necessario (SIC) un governo appena eletto non lo affronta
nessuno, e se non lo affronta nessuno, viene affrontato, anche in
modi non corretti, da altri".

bruxelles, 16:25



(Fonte: ipsia balcani)


A PENSAR MALE NON CI SI AZZECCA SEMPRE... O SI?


From:   jtmv (Jean Toschi)
Subject: Re:[JUGOINFO] Visnjica broj 657
Date: June 13, 2007 3:10:55 PM GMT+02:00

Questa mattina alle 6 Euro News riferiva un comunicato della Casa Bianca nel quale si rendeva noto che il presidente aveva lasciato l'orologio nella mano di uno dei suoi accompagnatori prima di salire in auto. Hanno salvato la faccia del Presidente!!! JTMV


From:   jugocoord 
Subject: [JUGOINFO] Visnjica broj 657
Date: June 13, 2007 8:51:28 AM GMT+02:00
To:   Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli., Ova adresa el. pošte je zaštićena od spambotova. Omogućite JavaScript da biste je videli.


UN MINUSCOLO RISARCIMENTO

Mistero sull'orologio di Bush dopo il bagno di folla di domenica
(10/6/2007) in Albania. Stando alle immagini della televisione locale
il presidente esibiva un orologio all'arrivo. Ma, dopo i tanti
abbracci e strette di mano, il suo polso era nudo. Che fine ha fatto
l'orologio?

http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/esteri/bush-orologio/1.html

(segnalato da Sasha, che ringraziamo)




UN MINUSCOLO RISARCIMENTO


Mistero sull'orologio di Bush dopo il bagno di folla di domenica
(10/6/2007) in Albania. Stando alle immagini della televisione locale
il presidente esibiva un orologio all'arrivo. Ma, dopo i tanti
abbracci e strette di mano, il suo polso era nudo. Che fine ha fatto
l'orologio?

http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/esteri/bush-orologio/1.html

(segnalato da Sasha, che ringraziamo)

 

L’indépendance du Kossovo consacrerait l’arbitraire le plus noir et ouvrirait la voie aux divers séparatismes

 

Lettre ouverte à M. Pierre Moscovici,

Vice-président du Parlement européen

 

   Le 28 et 29 mars 2007, le Parlement européen a approuvé par 319 voix contre 268 le rapport sur l’avenir du Kosovo et le rôle de l’UE présenté par M. Joost Lagendijk (1). Ce rapport est une  proposition de résolution du Parlement européen qui valide les conclusions de M. Martti Ahtisaari, envoyé spécial du Secrétaire général des Nations Unies pour les pourparlers sur le statut final de la province serbe. Le diplomate finlandais préconise pour Pristina une forme d’indépendance à souveraineté limitée. Savourez l’oxymore... M. Ioannis Kasoulides, eurodéputé chypriote affilié au Parti Populaire Européen, s’est insurgé contre cette nouvelle notion. « Un pays indépendant est entièrement souverain, ou bien il n’est pas indépendant ». Tout ceci prêterait à sourire si  les 14 pages du rapport Lagendijk, malgré leurs dénégations (notamment paragraphe 3 p.5) ne représentaient pas une violation caractérisée, presque à chaque alinéa, de la Charte des Nations Unies relative à la souveraineté des Etats, de l’Acte final d’Helsinki de 1975 sur l’intangibilité des frontières des pays européens, et de la résolution 1244 du Conseil de sécurité des Nations Unies du 10 juin 1999 qui se réclamait justement du traité d’Helsinki pour réaffirmer la souveraineté de Belgrade sur le Kosovo et le maintien de ses frontières.

    Mais les eurodéputés français ont voté en faveur de ce texte ! Je frémis d’avance aux implications qu’il ne va pas manquer d’entraîner. Faut-il accuser l’ignorance de nos représentants? Non, M. Moscovici, je ne vous laisserai pas vous en sortir à si bon compte. Vous, vous savez.

   Le rapport commence (paragraphe B, p.3) par justifier l’agression de la Yougoslavie par l’OTAN en contorsionnant la chronologie des événements pour les faire coller à sa thèse. L’Alliance atlantique serait intervenue pour empêcher une expulsion massive de la population civile. C’est inexact: vous permutez les causes et les conséquences. Il n’y avait que 2.000 personnes déplacées avant le 23 mars 1999, et en quelques jours, après le début des bombardements, un million d’Albanais du Kosovo s’enfuirent ou furent expulsés de la province par les forces armées serbes. Cinq jours seulement avant la guerre, le 19 mars 1999, une note du Ministère allemand des Affaires étrangères classée « très confidentielle » concluait que la répression serbe n’était pas dirigée contre les Albanais en tant que groupe ethnique, mais contre les membres de l’UCK et ceux qui les soutiennent. (2) Ce qui change tout : il ne s’agissait plus de purification ethnique mais de légitime défense d’un Etat souverain face à une guérilla séparatiste. Cette note mettait justement en garde contre une initiative militaire occidentale qui risquait d’attirer des représailles contre la population civile albanaise. Et c’est précisément ce qui arriva.  Les conséquences, que votre rapporteur refuse obstinément de nommer « guerre », ce furent soixante dix-huit jours de bombardements. Quinze mille tonnes de bombes larguées sur tout le pays, dont des munitions à l’uranium appauvri pourtant interdites par la Convention de Genève, démenti flagrant à vos prétentions humanitaires. Votre non-guerre, en violant la Charte de l’ONU, celle de l’OTAN, la Convention de Vienne, de Genève, d’Helsinki, et accessoirement notre propre Constitution française, ouvrait également la voie à l’unilatéralisme tel que les Américains le pratiquent en Irak. Ceux-là mêmes qui le dénoncent aujourd’hui oublient opportunément de rappeler qu’ils ont été les initiateurs zélés du précédent.

   Vous traitez la Serbie comme si elle était toujours sous la poigne de Slobodan Milosevic. Dois-je vous rappeler qu’il a été chassé du pouvoir en octobre 2000 et est à ce jour décédé ? La Serbie est un Etat parfaitement démocratique, et malgré le marasme économique dans lequel se débat le pays, paria de votre « communauté internationale » l’on vit bien davantage en sécurité à Belgrade qu’à Pristina. Depuis huit ans, le Kosovo est dissocié de la Serbie et les lendemains radieux du pluriethnisme que vous nous aviez promis s’y font toujours attendre. Qu’est-ce qui vous permet de supposer que dans ce domaine, l’indépendance fera ce que huit années de protectorat onusien n’ont réussi à établir? Avec votre « société tolérante et non ségrégationniste » (alinéa D, p.4) vous vous gargarisez de mots, d’un optimisme de commande digne de l’ère Brejnev. Au Kosovo, la partition ethnique est une réalité. Songez que les Serbes, actuellement, ont une telle frayeur de l’indépendance que vous appelez de vos vœux, qu’ils exhument leurs morts et les emportent dans ce qui reste de Serbie. Après l’indépendance, si vous parvenez à empêcher la sécession des enclaves du nord de la province, vous aurez pour les Serbes au mieux des réserves indiennes, au pire des ghettos. Compte tenu de votre histoire familiale, comment pouvez-vous cautionner cela ?

   Quelle ironie que d’arracher à la Serbie 15% de son territoire pour en faire un Etat indépendant sur des critères ethniques (vos fameux 90% d’Albanais et 10% de Serbes, formule qui n’est pas sans rappeler le lâche abandon  de l’Europe de l’Est par Churchill à Yalta), en vous échinant parallèlement à maintenir une Bosnie-Herzégovine unitaire qui n’a plus de multiculturel que le vernis, depuis que les trois communautés qui la composent ont voté pour les camps nationalistes et se tournent ostensiblement le dos !

   Vous validez (alinéas E, F et G, p.4) les propositions de Martti Ahtisaari d’indépendance du Kosovo en renvoyant dos à dos les deux parties dont les positions se seraient radicalisées. En fait, vous punissez Belgrade pour les travers de Pristina. La Serbie a proposé pour le Kosovo « tout sauf l’indépendance ». Quel pays d’Europe laisserait une telle latitude à l’une de ses régions ? Les déclarations radicales, ce sont chez les Albanais du Kosovo que vous les trouverez, eux qui ne conçoivent rien d’autre que la sécession. De plus, c’est le non respect de la Résolution 1244 par l’OTAN et la mission des Nations Unies (la MINUK), notamment sur le plan monétaire, mais aussi de l’administration et la garde des frontières, qui a rompu les liens entre la capitale et sa province. Comment à présent prendre prétexte de cette rupture pour la rendre définitive ? Comment arguer (paragraphe J, p.4) du manque de confiance entre les communautés et de l’instabilité de la situation pour proposer la fuite en avant ? Surtout qu’un peu avant, (paragraphe I, p.4) vous admettez que « les relations entre le Kosovo et la Serbie doivent, étant donné l’étroitesse des liens culturels, religieux et économiques, être renforcées ». Quel raisonnement absurde ! D’abord vous dressez une frontière entre la province serbe et le reste du pays, puis vous appelez Pristina et Belgrade à renforcer leurs liens par-dessus vos barbelés !

   Votre rapporteur se félicite (paragraphe 8, p.6) de la proposition de Martti Ahtisaari qui dessine « les contours d’une large autonomie pour les communautés serbes et autres comportant un degré substantiel d’autonomie municipale ». En clair, vous préconisez l’indépendance pour la province, et l’autonomie pour les municipalités serbes de la province. Pousser le morcellement à l’extrême, balkaniser les Balkans, quel programme ! On retrouve là l’esprit de la Commission Badinter, lorsque durant l’hiver 1991-1992, cette brochette d’apprentis sorciers, non contente de se hâter de signer l’acte de décès d’une Yougoslavie encore vive en ouvrant la voie à l’indépendance des républiques séparatistes de Slovénie et de Croatie, a étendu ses largesses à l’ensemble des républiques de la fédération, précipitant la Bosnie-Herzégovine dans l’enfer que l’on sait. Réservez-vous, M. Moscovici, le sort de la Bosnie aux malheureuses populations du Kosovo ? Ou bien est-ce pour sa position stratégique, le seul aveu sincère du rapport Lagendijk (paragraphe L p.4) que vous souhaitez prolonger le chaos, prétexte à une présence militaire occidentale ? Pourquoi êtes-vous si pressé (alinéa 1 p.5) d’enterrer la Résolution 1244 qui disait le droit ?

   Dans un étrange esprit démocratique, le rapport appelle de ses vœux (alinéa 4 , p.5) l’établissement d’un gouvernement pro-européen en Serbie. Il faut être bien cynique pour s’étonner du score qu’enregistre l’extrême droite à Belgrade, car là encore, c’est l’effet miroir de votre attitude à l’égard du peuple serbe : le mépris appelle le mépris. Quelle autre choix laissez-vous aux Serbes dont vous mutilez le pays ? Après lui avoir arraché le Kosovo, cajolerez-vous la sécession des Albanais de la vallée de Presevo, des Musulmans du Sandjak de Novi Pazar, des Hongrois de Voïvodine ? Lorsqu’il ne restera plus de la Serbie qu’un carré de légumes, que croyez vous qu’il adviendra ? Jetterez vous encore l’opprobre sur les Serbes déterrant leurs fusils pour défendre les restes de leur maison commune ?

   A l’alinéa 34, p.10, M. Lagendijk invite « les pays voisins à respecter les frontières existantes ». Faut-il que l’Europe craigne l’Anschluss du Kosovo et d’une partie de la Macédoine à l’Albanie, pour qu’elle interdise à ces pays ce qu’elle s’autorise elle-même de faire : trancher dans le vif d’un Etat souverain, membre de l’ONU. Imaginez un seul instant le même scénario en France, M. Moscovici. La Bretagne, la Flandre, l’Alsace, le Pays Basque, l’Occitanie, la Catalogne, la Corse réclamant une « indépendance à souveraineté limitée »... Impossible ? Et pourquoi, puisque vous avez ouvert la boîte de Pandore ? Pensez-vous être crédible dans les cités-ghettos de nos banlieues lorsque vous mettez la citoyenneté en avant en France, tandis que vous brandissez l’ethnie à Bruxelles ? Il faut choisir : c’est la République, ou le communautarisme. Le second n’est pas soluble dans la première...

   Vous connaissez le proverbe roumain : quand la maison du voisin brûle, fait provision d’eau. Quel signal adressez-vous à ce membre de l’UE, qui siégeant à Bruxelles depuis à peine quatre mois, assiste ébahi dans l’enceinte du Parlement européen au dépeçage de son voisin, alors que Bucarest, avec 1.620.000 citoyens de souche hongroise concentrés en Transylvanie, abrite aussi en son sein son propre Kosovo ? Puisque vous mettez en péril son équilibre, comment vous étonner des prodigieux résultats du tribun d’extrême droite Corneliu Vadim Tudor, qui entend « gouverner le pays à la mitrailleuse » ? De la montée fulgurante de l’euroscepticisme dans ce pays qui a pourtant consenti des sacrifices considérables , depuis la chute de Ceausescu, pour rejoindre l’UE ? Ne craignez-vous donc pas de voir la Roumanie dériver à nouveau vers « des années égarées », en bottes et chemises vertes ? (3) Je lis quotidiennement plusieurs titres de la presse roumaine, M. Moscovici. Je connais donc votre implication personnelle dans l’adhésion de Bucarest à l’UE. Vous connaissez sa situation, et les craintes qui ont prévalu à son vote négatif du rapport Lagendijk, aux côtés de la Grèce, la Bulgarie, Chypre, la Slovaquie et l’Espagne. Pourquoi n’avez-vous pas daigné répondre à la proposition originale et constructive d’Adrian Severin, eurodéputé roumain, et socialiste comme vous ?

   Pourquoi ne tenez-vous aucun compte des griefs de ces pays opposés à votre plan ? Certes Athènes et Bucarest sont des alliés traditionnels de Belgrade. Mais laisser croire que la Roumanie, la Bulgarie et la Grèce n’ont voté que pour des raisons de bon voisinage avec la Serbie est très insuffisant et vous le savez. Que pensez-vous que la minorité turque de Bulgarie (10% de la population), déjà bien turbulente, va faire à présent ? Allez-vous aussi charcuter les frontières bulgares, lorsque les autorités de Sofia réprimeront brutalement les aspirations séparatistes de leurs populations turcophones? L’éclatement prévisible de la Macédoine, où un habitant sur trois est albanais, ne risque-t-il pas de faire tache d’huile du côté grec ? Athènes n’a-t-elle pas de raisons valables de contester votre approche du problème kosovien, elle qui a toujours en mémoire le douloureux traumatisme du désastre de Smyrne, lorsqu’en 1922, 1.500.000 Grecs d’Asie mineure furent rejetés à la mer par les Turcs, qui effaçaient ainsi 2.500 ans de présence hellénique de l’autre côté de la Mer Egée ?

   Et l’infortunée Chypre qui vit sous la menace permanente d’Ankara laquelle nie jusqu’à son existence, sait mieux qu’aucun autre, depuis Nicosie, la dernière capitale divisée d’Europe, ce que signifie la partition ethnique d’un pays. Etes-vous donc surpris que deux eurodéputés chypriotes aient pris la parole pour s’opposer avec force à votre rapport ? Leur intervention était-elle purement chimérique ?

   Chimérique aussi, l’attitude de la Slovaquie, travaillée au corps par sa population d’ascendance hongroise (10% de la population) ? Chimérique enfin, le comportement de l’Espagne, qui joue sa survie pour contrer les inexorables forces centrifuges qui détachent peu à peu ses provinces, le Pays Basque, la Catalogne, et l’Andalousie ? Cautionner l’indépendance du Kosovo, c’est valider le sort des armes. C’est céder à la loi du plus fort, celle de la jungle, laquelle on le sait, n’a rien à voir avec le droit. Vous prétendez que votre Europe est un gage de paix pour l’avenir, or ce sont de redoutables germes de guerre qu’elle est en train de semer.

   L’œil fixé sur le Kosovo, vous en oubliez qu’il est une province de la Serbie, et que c’est au niveau de ce pays qu’il faut examiner qui est majorité et qui est minorité. Les Serbes du Kosovo ne sauraient être une minorité dans leur propre pays. Si l’on raisonne à l’échelle de la Serbie, ce sont les Albanais, principalement établis au Kosovo, qui avec 17% de la population nationale, sont une minorité.

   Le Kosovo est, qu’on le veuille ou non, l’une des plus fortes concentrations d’art médiéval religieux au monde. Pour m’y être rendu, avant la tragédie qui a ensanglanté la région, j’ai pu constater de mes yeux ce que signifient 1370 sanctuaires disséminés sur un si petit territoire. Le nom officiel de la province, Kosovo et Métochie, toujours escamoté dans nos médias, ne l’est pas par hasard :  Kosovo est le génitif de Kos, un mot serbe qui signifie « merle », et Métochie qui dérive du grec Metohos, désigne un territoire rattaché à  un monastère. Certains de ces monastères, comme Gracanica ou Decani, sont classés au Patrimoine Mondial de l’Humanité par l’UNESCO. Depuis le début de la tutelle onusienne, en juin 1999, plus de cents édifices religieux, dont certains majeurs, du XIIIème ou XIVème siècle, ont été pulvérisés par des extrémistes albanais. Lorsqu’en Afghanistan, les Talibans ont dynamité les Bouddhas de Bâmyân, classés au Patrimoine Mondial de l’Humanité par l’UNESCO, le tollé a été général pour dénoncer la barbarie et l’obscurantisme. Lorsque « les Talibans d’Europe » dynamitent un monastère orthodoxe du XIIIème siècle au Kosovo, votre silence est éloquent... Compulsez donc le magnifique ouvrage de Gojko Subotic, « Terre sacrée du Kosovo » (Editions Thalia, 2006). Ouvrez-le à la page de l’église de la Mère-de-Dieu de Ljevisa, à Prizren, daté du XIVème siècle. Regardez bien ses lignes, ses fresques d’une émouvante beauté. Il n’y a plus que là que vous pourrez encore les admirer. L’édifice a été incendié et détruit par les Albanais lors des « événements de mars 2004 », ainsi que les désigne  pudiquement votre rapporteur, (alinéa C p.4) trop effrayé d’employer le mot juste : pogroms. En ce même mois, le village serbe de Svinjare a été vidé de ses habitants, pillé avant d’être entièrement brûlé par les Albanais sous le regard impassible des soldats français de la KFOR. Et c’est à ces gens-là que vous souhaitez accorder l’indépendance ! Pour les encourager dans leurs progrès démocratiques, sans doute ?

   Vous qui avez si durement critiqué le Président François Mitterrand pour avoir frayé avec René Bousquet, l’un des rouages de la Solution finale, n’êtes-vous pas gêné de côtoyer Agim Ceku, lequel, avant de devenir Premier ministre du Kosovo, fut un ancien barbouze de l’armée croate qui s’est illustré en Krajina par ses atrocités, avant de commander les bandes d’écorcheurs de l’UCK et d’être poursuivi pour crimes de guerre commis entre 1995 et 1999? Car malgré la présence de milliers de soldats de la KFOR, les enlèvements et les assassinats sont monnaie courante au Kosovo, et les Serbes n’en sont pas les seules victimes : ce sont tous les non-albanais, Roms, Juifs, Gorans, Ashkalis qui sont menacés. (4)

   Vous qui vous dites socialiste, n’êtes-vous pas gêné de vous retrouver dans la lâcheté intéressée de l’Europe que le grand Jaurès dénonçait dans des circonstances similaires voici plus d’un siècle ? (5) Le silence complaisant des médias occidentaux ne vous embarrasse-t-il pas ?

   « La solution apportée au Kosovo ne créera pas de précédent dans le droit international », dites-vous. Les circonvolutions des paragraphes 6 p.6 et 2 p.11 sont autant de prodigieuses acrobaties juridiques. L’on devine l’embarras du rédacteur, qui a certainement du répéter longuement son numéro d’équilibriste, mais hélas, sans conviction : tous vos postulats ne peuvent masquer les faits bruts. Comment procéderez-vous pour empêcher le précédent ? Au nom de quoi refuserez-vous aux Albanais de Macédoine (c'est-à-dire 30% de la population macédonienne) ce que vous avez concédé aux Albanais de Serbie (17% des habitants) ? Que direz-vous aux Hongrois et Sicules de Transylvanie qui ont multiplié, depuis l’an dernier notamment, les actions politiques agressives, les referendums illégaux sur l’autonomie d’un Territoire sicule couvrant environ trois départements roumains ? Ne comprenez-vous pas que le rapport Lagendijk abonde en leur sens, à eux qui enchaînent les déclarations et les manifestations provocantes à l’égard des symboles de l’Etat, arborent des brassards noirs en signe de deuil lors de la fête nationale roumaine, et dont une milice paramilitaire s’entraîne dans les Carpates ?

    Que ferez-vous face à la reconnaissance, sur la base du précédent kosovien, de la Transnistrie par le Kremlin, qui lie depuis longtemps le règlement des deux dossiers ? De quelle marge de manœuvre disposera l’Europe pour s’opposer à une présence russe doté du plus grand arsenal militaire de notre continent, à Colbasna, dans cette enclave à sa porte ?

   Le Kosovo est cadastralement serbe à plus de 58%. (6) C’est une réalité totalement passée sous silence dans le rapport de Joost Lagendijk. Comment allez-vous ménager le droit imprescriptible à la propriété privée (Article 17 de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme) avec l’indépendance d’un Kosovo albanais qui spolie les Serbes dans le berceau même de leur nation ? Vous avez appuyé le retour des Albanais chassés de chez eux, mais le sort des non-albanais, Serbes, Roms, Ashkalis, Juifs, Gorans, qui n’ont eu d’autre choix que la valise ou le cercueil vous indiffère. En huit ans, rien n’a été fait pour leur retour. Votre prétendue société multiethnique porte surtout la marque des Droits de l’Homme multistandards.

    Le vote du rapport Lagendijk au Parlement européen s’est fait précipitamment, par crainte d’être doublé. Votre rapporteur a lui-même reconnu que deux jours plus tôt, Martti Ahtisaari avait obtenu l’appui du Secrétaire général de l’ONU pour son plan. Le suivisme et la fuite en avant comme ligne politique, voilà qui n’est pas très glorieux. Le courage politique, c’est au contraire savoir dire « non » même lorsque tout le monde dit « oui ». Affirmer ses convictions même – et surtout - si elles vont à l’encontre des positions dominantes.

   Votre histoire familiale vous relie à la ville roumaine de Braïla, grand port danubien et patrie de Panaït Istrati. C’est un héritage dramatique, douloureux, qui vous donne une responsabilité particulière, et supplémentaire. Vous êtes un eurodéputé français, que n’affirmez-vous depuis l’hémicycle strasbourgeois, les valeurs de notre pays, où les citoyens sont égaux en droits et en devoirs, quelles que soient leurs origines ou leurs religions ? Ne seriez-vous pas devenu, pour paraphraser Panaït Istrati, la cloche fêlée de l’idée européenne, au point d’en perdre tout sens critique, jusque sur la question décisive du Kosovo ? Dans ce cas vous comprendrez aisément que je repousse le rapport de M. Joost Lagendijk avec le même dégoût et la même indignation que votre Constitution européenne. C’est l’Europe des tribus que vous nous construisez, M. Moscovici. La dictature des minorités agissantes. Et je n’en veux pas, ni pour moi, ni pour mes enfants.

   Depuis notre confort occidental, l’on peut s’accommoder de vos décisions irresponsables adoptées en notre nom, se dire « qu’il n’y a pas de fumée sans feu », que le Kosovo est de toute façon perdu pour la Serbie et que si le passé de la province fut incontestablement serbe et chrétien orthodoxe, son présent est tout aussi incontestablement albanais et musulman sunnite. On peut, en effet, fermer les yeux sur les pogroms anti serbes comme ceux de mars 2004, et sur le saccage irrémédiable d’un patrimoine artistique et religieux unique.

   Ou bien l’on peut, en homme libre – mais y en a-t-il encore ? – se dire que chaque homme que l’on tue, non parce qu’il a fait mais parce qu’il est, est une part de notre propre humanité qui s’en va, que chaque église qui est dynamitée au cœur de notre continent est une violence faite à notre propre église.

   A l’heure où le statut final du Kosovo va se décider, c’est en tout cas tout le sens de mon engagement. J’avais espéré – bien naïvement sans doute - qu’il était aussi le vôtre...

                                                                                                                                   

                                                                          Jean-Michel BERARD

                                                       Chroniqueur au mensuel B.I. Balkans-Infos

                                                                                      

(1) Parlement européen, rapport n° A6-0067/2007, disponible sur le site Internet http//:www.europarl.europa.eu/

(2) Jürgen Elsässer, La RFA dans la guerre du Kosovo, chronique d’une manipulation, Editions L’Harmattan, Paris, 2002, p.48 à 51

(3) Pierre Moscovici est le fils de Serge Moscovici, né en 1925 à Braïla, en Roumanie. Issu d’une famille d’origine juive, il fut exclu de son lycée par les lois antisémites, échappa de peu au pogrom de Bucarest en janvier 1941 par la Garde de Fer, milice fasciste roumaine, puis fut contraint au travail obligatoire jusqu’en 1944. En 1947, il quitta la Roumanie pour gagner Paris, où il devint le grand psychologue social que l’on sait. Serge Moscovici raconte cette odyssée dans ses mémoires, Chronique des années égarées, Editions Stock, Paris, 1997.

(4) Voir l’excellent documentaire en DVD de Michel Collon et Vanessa Stojilkovic, Les damnés du Kosovo, Bruxelles, 2000.

(5) Jean Jaurès, « Il faut sauver les Arméniens », Editions Mille et Une Nuits, Paris, 2006. Discours de 1896-1897.

(6) Ziua, (« Le Jour », quotidien roumain de diffusion nationale), « Le Kosovo, propriété des Serbes »,  Bucarest, 8 janvier 2007.




... vi giro, cari compagni, un altro articolo di Valerio Evangelisti dal sito di Carmilla on line. Tra queste analisi ed altri articoli che si trovano nel Reseau Voltaire a proposito del Venezuela mi sembra che si stia delineando un quadro abbastanza preoccupante. Bisognerebbe cercare di dare una forma organica un po' a tutto questo.
Pensiamoci.
Continuiamo ad esprimere la nostra solidarietà con la rivoluzione bolivariana, cubana e tutti i popoli dell'America latina che stanno costruendo qualcosa di diverso, in barba sia all'imperialismo internazionale che agli sproloqui di certi pentiti di casa nostra.
Buona lettura e resistiamo.
Claudia Cernigoi

 


 

 

Venezuela: chi manovra l' "opposizione studentesca democratica"? 
Ovvero, un autosputtanamento che rimarrà storico

di Valerio Evangelisti


Ricapitoliamo i fatti, già esposti in dettaglio qui e qui. Il 31 maggio scade la concessione dello Stato venezuelano al canale televisivo RCTV. Il governo del Venezuela decide di non rinnovarla, e di cedere le frequenze a una nuova tv non commerciale (“di strada” o “di quartiere”, la definiremmo in Italia).
Immediatamente, i corifei del neoliberalismo iniziano a starnazzare come gallin e. Si accusa il governo venezuelano, e in particolare il suo presidente Hugo Chávez, di avere chiuso un canale televisivo vicino all’opposizione, per motivi solo politici. Sarebbe la conferma che in Venezuela regna una dittatura.
Certo che i motivi erano politici. Nel corso del tentato colpo di Stato del 2002 RCTV aveva apertamente appoggiato i golpisti, ospitato nei propri studi loro riunioni, mandato propri tecnici a chiudere il canale 8, allora l’unica fonte di comunicazione televisiva in mano al governo.
Mettiamo che in Italia, al tempo dell’assassinio di Moro, una delle nostre tv private avesse detto che avevano fatto bene ad ammazzarlo. Per quanto tempo sarebbe rimasta nell’etere? Ma il Venezuela ha il torto di ribellarsi al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, agli schemi del neoliberalismo. Fomenta, invece delle tanto lodate privatizzazioni, la ri-nazionalizzazione (dietro risarcimento, invero fin troppo generoso) delle industrie strategiche, prima di tutte di quella petrolifera, un tempo completamente in mano ai cartelli stranieri. I criteri di valutazione del grado di democrazia del Venezuela sono dunque differenti. Poco importa che vi si svolgano elezioni completamente libere, che vedono Chávez ogni volta riconfermato (per forza, dicono gli oppositori: ha fatto iscrivere nelle liste elettorali indios, poveri e altra gentaglia che, prima di lui, non risultavano nemmeno all’anagrafe). Sottraendosi alle leggi del mercato ipercapitalista, costui è per definizione un dittatore spietato. Ciò che non erano i suoi predecessori di destra, corrottissimi, macchiati del sangue di centinaia di dimostranti, pronti a cedere ai gringos le ricchezze del paese. Brava gente, per definizione.
La campagna pro RCTV è guidata, in Europa, dal quotidiano El País, ritenuto “di sinistra”. La Spagna è stata tra i paesi più colpiti dalla nazionalizzazione del petrolio venezuelano, che ha arricchito il Venezuela e tolto entrate quasi gratuite agli spagnoli. El País lo trova scandaloso. Visti i precedenti della Spagna in America Latina, viene alla mente il proverbio “Un bel tacer non fu mai scritto”. Traduzione: abbiate almeno il pudore di starvene zitti, vecchi genocidi. Sputare giudizi su un continente che avete saccheggiato non fa per voi.
Il buffo è che RCTV, di cui tutti denunciano la chiusura, non è mai stata “chiusa”. Non rinnovata la concessione della frequenza in analogico, è stata lasciata libera di trasmettere via cavo, via satellite o per Internet. Il gruppo che la controlla possiede molti altri media, da compagnie telefoniche a quotidiani. In pratica, RCTV ha avuto la stessa sorte che il centrosinistra italiano auspicava, in un programma disatteso (nessuno lo ricorda più), per Rete 4 e, quale par condicio, per Rai Tre. Ciò che in Italia è ammissibile, “normale”, in America Latina diventa un attentato alla democrazia. La prova provata di una dittatura amorale. Condoleeza Rice è angosciata dalla morte in analogico di RCTV. Forse rimpiange le telenovelas che si interromperanno (in analogico), o i telegiornali scandalistici con colonna sonora sul fondo delle notizie, per renderle più drammatiche. L’impressione è che non sappia nemmeno cosa sia RCTV, e in generale le televisioni assurde che, legate a canali nordamericani, trasmettono in America Latina. Si sa, Condoleeza è un maschiaccio. Ha dunque bicipiti e muso canino in America, e coglioni in Europa.
La prima estensione europea di Condoleeza si chiama Gian Antonio Stella, e scrive su Il Corriere della Sera. Del Venezuela, e della vicenda specifica, non sa una mazza, è chiaro. Tuttavia reputa opportuno occuparsi di RCTV, denunciarne in tono iracondo la “chiusura” (inesistente), chiamare Chávez “caudillo rosso” e “dittatore”. Copre di contumelie, senza la minima documentazione, un presidente legittimo accusandolo di crimini mai commessi, tipo una repressione “spietata” degli studenti oppositori di cui non c’è traccia negli archivi. A chi si oppone al verbo neoliberale pare lecito addossare di tutto. Si noti che Stella è meritoriamente duro verso certi potentati nazionali. Se si passa però a quelli internazionali, vale per lui il motto recato da una nota marca di carte da briscola. Flector nec frangor. Mi piego ma non mi rompo. Soprattutto, mi piego, e da neoliberale mi sento autorizzato ad attribuire al nemico colpe che non ha.

Peggio ancora fa – lo dico con rammarico – l’altre volte ottima Giovanna Botteri, sul TG3 delle 19, lo stesso giorno in cui Stella eruttava disquisizioni infondate sul Corriere. Adesso la Botteri, di cui tutti conoscono il coraggio, è corrispondente dagli Stati Uniti. Forse vittima delle tv nordamericane – Murdoch docet – combina assieme fine concessione per RCTV, assassinio in Russia di Anna Politovskaia e censure in Cina e Iran. Illustra il mix con immagini di Chávez in visita al presidente iraniano. La libertà di informazione è minacciata in tutto il mondo, ma, si direbbe dal servizio, soprattutto in Venezuela. Dove, peraltro, l’80 per cento delle fonti informative sono in mani private, e principalmente in quelle dell’opposizione antichavista. Che cosa può saperne la Botteri? Come nel caso di Stella, pare preciso dovere dei nostri giornalisti parlare senza raccogliere elementi. E, se poi ne vengono a conoscenza, guardarsi bene dallo smentire quanto affermato.
A Caracas scendono in strada, a difesa di RCTV, gli studenti delle università private. La manifestazione è autorizzata, ma si verificano atti di vandalismo e aggressioni a una polizia che non carica né manganella. Sono arrestati 180 dimostranti, quasi tutti rimessi in libertà il giorno dopo. E’ questa la repressione “feroce” denunciata da Stella. Naturalmente i media europei, su impulso di quelli nordamericani, enfatizzano la protesta “spontenea”, mentre tacciono delle dimostrazioni, ben più massicce, a sostegno della neonata “tv di strada”.
Il 7 giugno si verifica un fatto insolito, per una “dittatura”. L’Assemblea Nazionale venezuelana invita a esprimersi al suo cospetto tanto gli studenti oppositori che quelli pro-governativi. Parleranno alternandosi ed esponendo le ragioni sia di consenso che di dissenso. Il tutto sarà ripreso dalle tv nazionali, sia pubbliche che private. Sono i video riportati più sotto, pubblicati su YouTube. Purtroppo sono in spagnolo, durano a lungo e sono meglio visibili in banda larga. Peccato, perché li conclude un vero e proprio colpo di scena, che infligge alla “opposizione democratica” studentesca un colpo da cui, temo, stenterà a riprendersi.
Per chi non può vedere i video, cerco di riassumerli. Prima, però, ricordo a chi non l’abbia vista la puntata di Report andata in onda su Radio Rai Tre domenica scorsa, e in particolare il segmento Revolution.com (chi non l’abbia seguito lo trova qua). Vi si parlava delle agenzie statunitensi che mobilitano masse studentesche in paesi ostili agli Usa, dotandole di finanziamenti, volantini, gadgets vari, manuali di istruzioni, persino logos, fino a innescare un colpo di Stato “pacifico”. Tecnica già sperimentata con successo in Serbia, nella Georgia, in Ucraina, nel Kirghizistan, e in corso di sperimentazione in altri paesi dell’Est europeo.
Ma torno ai video venezuelani. Nel primo vediamo uno studente oppositore di Chávez, tale Douglas Barrios, venire accolto alla tribuna da un applauso amichevole e leggere un discorso piuttosto efficace. Le frasi, martellanti, sono di quelle che si imprimono nella memoria. Reclama la libertà dei telespettatori di vedere ciò che preferiscono, fosse anche una merda come RCTV. Si dichiara estraneo alla politica. Accusa Chávez di stare instaurando una dittatura. Con un gesto plateale si sfila la maglietta rossa che indossava (il simbolo degli chavisti), dicendo che non vuole uniformi. Afferma che lui e i suoi compagni si ritirano por ahora (una sottigliezza dialettica: por ahora era stato il motto di Chávez, dopo il fallito tentativo insurrezionale del 1992). Esce dall’aula imitato dagli altri contestatori.
A quel punto, la parola è agli studenti “bolivariani”, mentre gli assenti cui dovevano alternarsi sono chiamati inutilmente. Il tono è tutto diverso: parlano per lo più senza leggere, con impeto ed emotività. Bellissime le parole di Osly Hérnandez. Lei, che ha la pelle scura, e per di più il seno piccolo, non sarebbe mai potuta apparire su RCTV. Altrettanto efficace l’intervento di un’altra studentessa, Libertad Velasco. Conferma la confluenza, nel discorso chavista, di temi femministi, sociali ed ecologici. Si merita un abbraccio da parte di Iris Varela, la bellissima e leggendaria “pasionaria” di Chávez, nota a chiunque abbia visto il documentario La rivoluzione non sarà teletrasmessa.
Gli interventi si susseguono, fino a quello, conclusivo, del leader studentesco Héctor Rodríguez. Ed è qui che si produce il colpo di scena. L’oppositore “democratico” Douglas Barrios aveva dimenticato sul tavolo l’ultima pagina del suo intervento scritto. Rodríguez la legge ai deputati. Si tratta di una vera e propria sceneggiatura, in cui sono indicati persino i gesti (“togliere la maglietta”). C’è anche la firma di chi ha scritto il copione: la società pubblicitaria Arts Publicidad, vincolata agli Stati Uniti. Scoppiano risate e applausi.
Ma c’è di più. Rodríguez mostra la pagina web dell’opposizione studentesca “democratica”. Vi figura un logo, che rappresenta un pugno chiuso. E’ lo stesso logo, disegnato negli Stati Uniti, già visto in Serbia perché adottato dall’organizzazione Otpor, poi riapparso nel Kossovo, in Georgia, in Ucraina, nel Kirghizistan ecc. Un logo ormai ben noto a chi abbia visto la puntata di Report che sopra ho indicato. Formidabile il commento di Rodríguez. Hanno abbattuto Milosevič. «La differenza è che Chávez non è Milosevič.»
Naturalmente, le nostre Stelle del giornalismo non prenderanno mai visione dei filmati. Non sia mai che i sussiegosi opinionisti nostrani parlino con cognizione di causa. Ne andrebbe della loro deontologia professionale. Per fortuna, Carmilla è molto più letta di tanti quotidiani. Ecco dunque, finalmente, i video da vedere, per capire quale “opposizione democratica” ci sia in Venezuela. Con un bonus: gli interventi degli studenti fanno comprendere come il “Socialismo del XXI secolo” venezuelano, lungi dall’essere fenomeno “populista”, “bonapartista” o “comunista” (il riferimento a Cuba non significa assunzione della stessa ideologia), abbia fatto proprie tematiche fondanti della sinistra attuale (non del centrosinistra: vade retro! Anzi, vada a farsi fottere tout court): femminismo, ambientalismo, antimperialismo, autogestione, ecc. Argomenti squisitamente libertari. Non è un caso se in Messico, quando viene proclamato uno sciopero, è ancora consuetudine esporre una bandiera rosso-nera.
Qui si trovano riuniti tutti i filmati dell’audizione degli studenti, davanti all’Assemblea Nazionale del Venezuela (fare caso, come già detto, agli interventi di Douglas Barrios, di Osly Hérnandez, di Libertad Velasco, di Héctor Rodríguez).

Qui le g rasse risate di Hugo Chávez davanti alla miserabile messinscena, e all’uso del suo motto “Por Ahora”.
Qui, infine, l’elemento comico. L’accusa alla studentessa bolivariana Andreina Tarazón di avere rubato l’ultima pagina della sceneggiatura degli oppositori, quando invece se la trovò sul tavolo.

Pubblicato Giugno 10, 2007 04:41 AM



Begin forwarded message:

From: Reseau Voltaire <newsletter-fr  @...>
Date: June 7, 2007 6:34:51 PM GMT+02:00
To: newsletter-fr  @...
Subject: [Réseau Voltaire] Coups d’État de velours
Reply-To: voltaire-hebdo-fr  @..., Reseau Voltaire <newsletter-fr  @...>



Voltairenet.org
Réseau de presse non-alignée

Coups d’État de velours

Coups d’État de velours
Action secrète : renversement de gouvernement, guerre psychologique...
Comment imposer un gouvernement pro-états-unien à un peuple ? Une technique plus efficace que les coups d’Etat militaires a été développée par la CIA : les coups d’Etat de velours ou révolutions colorées. S’appuyant sur des ONG et des mouvements de jeunesse, manipulant les sentiments de liberté et de résistance et structurant eux-mêmes la contestation, les Etats-Unis arrivent à imposer des gouvernements à leur service de manière relativement non-violente. De la Serbie à l’Ukraine en passant par le Liban, cette technique a été appliquée à travers le monde, souvent avec succès. A l’occasion de la récente fermeture d’une télévision au Venezuela, les stratèges états-uniens concentrent leurs efforts pour renverser le gouvernement d’Hugo Chavez. Afin d’identifier les mécanismes mis en œuvre et d’éviter à chacun d’être manipulé à son insu, le Réseau Voltaire propose ici plusieurs articles de référence sur c es techniques.





Coups d’État soft
L’Albert Einstein Institution : la non-violence version CIA


 Por Thierry Meyssan | Voltaire, édition internationale | 4 juin 2007 | La non-violence, en tant que technique d’action politique, peut être employée à n’importe quelle fin. Dans les années 1980, l’OTAN s’est intéressée à son utilisation pour organiser la résistance en Europe après une invasion de l’Armée rouge. Depuis quinze ans, la CIA en fait usage pour renverser des gouvernements récalcitrants, sans soulever d’indignation internationale. Elle dispose pour cela d’une agréable vitrine idéologique, l’Albert-Einstein Institution du philosophe Gene Sharp, qui a joué un rôle, de l’Irak à la Lituanie, en passant par le Venezuela et l’Ukraine. Pour les gratifier de leur efficacité, les membres de l’Albert Einstein Institution ont reçu deux promotions exceptionnelles : Thomas Schelling s’e st vu attribuer le prix Nobel d’économie 2005 et Peter Ackerman a pris la succession de James Woolsey à la tête de la Freedom House.

Stay-behind
Opération manquée au Venezuela


 Por Thierry Meyssan | Voltaire, édition internationale | 18 mai 2002 | Les manifestations apparemment sauvagement réprimées par le pouvoir vénézuélien, la démission du président Chavez sous la pression de l’armée, puis la constitution d’un nouveau gouvernement civil auraient pu apparaître comme une succession chaotique d’événements tragiques. Pourtant, la fuite précipitée du nouveau pouvoir devant un soulèvement populaire a permis de mettre en lumière les dessous d’une opération en réalité planifiée par Washington. Une occasion rare d’analyser les méthodes d’ingérence du réseau « stay-behind ».

Propagande
Faut-il brûler Hugo Chavez ?


 Por Thierry Meyssan, Cyril Capdevielle | Voltaire, édition internationale | 10 janvier 2006 | Une organisation de défense des droits de l’homme, le Centre Simon Wiesenthal, et les quotidiens français Libération et Le Monde ont lancé une rumeur diffamatoire contre le président du Venezuela, Hugo Chavez : il serait antisémite. Manipulant avec une mauvaise foi évidente une citation tronquée, ils tentent de discréditer une personnalité politique qui s’est imposée comme la référence anti-impérialiste à la fois pour les mouvements progressistes latino-américains et pour l’Organisation des pays exportateurs de pétrole.

Un quatrième pouvoir sans légitimité populaire
Hugo Chávez et RCTV : censure ou décision légitime ?


 Por Salim Lamrani | Voltaire, édition internationale | 1er février 2007 | Depuis huit ans, la CIA expérimente au Venezuela une nouvelle forme d’intervention basée sur la création d’une réalité politique virtuelle par des chaînes de télévision. En avril 2002, elle avait ainsi réussi à réaliser un coup d’État en lui donnant l’apparence télévisuelle d’un soulèvement populaire, avant que le président Chávez ne soit réinstallé au pouvoir par un véritable soulèvement populaire. Le gouvernement, qui n’avait pas sanctionné les putschistes, a décidé de ne pas renouveler la licence de ce groupe audiovisuel.

La stratégie de la tension
Le terrorisme non revendiqué de l’OTAN


 Por Silvia Cattori | Voltaire, édition internationale | 29 décembre 2006 | Daniele Ganser, professeur d’histoire contemporaine à l’université de Bâle et président de l’ASPO-Suisse, a publié un livre de référence sur « Les Armées secrètes de l’OTAN ». Selon lui, les États-Unis ont organisé en Europe de l’Ouest pendant 50 ans des attentats qu’ils ont faussement attribué à la gauche et à l’extrême gauche pour les discréditer aux yeux des électeurs. Cette stratégie perdure aujourd’hui pour susciter la peur de l’islam et justifier des guerres pour le pétrole.

« La révolution des roses »
Les dessous du coup d’État en Géorgie


 Por Paul Labarique | Voltaire, édition internationale | 7 janvier 2004 | Présenté comme un mouvement spontané et non violent, le soulèvement qui a forcé Edouard Chevardnadze à renoncer à la présidence de la Géorgie est en réalité le fruit d’une patiente manipulation. Enjeu stratégique et pétrolier entre la Fédération de Russie et les États-Unis, la Géorgie est devenue un champ clos d’affrontement des grandes puissances. La colère populaire, habilement déclenchée par l’Institut démocratique de Madeleine Albright et structurée par des associations de jeunesse financées par George Soros, a permis à la CIA de placer ses hommes au pouvoir à Tbilissi.

La Fondation états-unienne pour la démocratie
La NED, nébuleuse de l’ingérence « démocratique »


 Por Thierry Meyssan | Voltaire, édition internationale | 22 janvier 2004 | Dans son discours sur l’état de l’Union, le président Bush a annoncé le doublement du budget de la National Endowment for Democracy (NED, Fondation nationale pour la démocratie). Cet organisme a été créé par Ronald Reagan pour poursuivre les actions secrètes de la CIA en soutenant financièrement et en encadrant des syndicats, des associations et de partis politiques. Il se flatte d’avoir encadré et manipulé Solidarnosc, la Charte des 77 et bien d’autres encore. Géré par le département d’État en association avec les partis républicains et démocrates, le patronat et les syndicats, il a trouvé de nombreux relais institutionnels et individuels partout dans le monde, y compris en France...

Contrôle des démocraties
Stay-behind : les réseaux d’ingérence américains


 Por Thierry Meyssan | Voltaire, édition internationale | 20 août 2001 | Suite aux enquêtes de deux juges vénitiens, le président du Conseil italien confirme en 1990 l’existence du réseau Gladio. Ce réseau émane d’une structure beaucoup plus vaste, le « stay-behind », mis en place par les américains après la seconde guerre mondiale pour lutter contre l’influence communiste. Les citoyens des démocraties occidentales sont-ils réellement libres de leurs choix ?

Atlantisme
L’Institut d’histoire sociale, une officine anti-sociale


 Por Annie Lacroix-Riz | Voltaire, édition internationale | 2 novembre 2005 |Officine patronale française chargée de lutter contre l’influence communiste au sein du mouvement ouvrier, l’Institut d’histoire sociale fut animé au lendemain de la Seconde Guerre mondiale par d’ex-communistes corrompus et par des Collaborateurs fraîchement sortis de prison. Rapidement intégré dans les réseaux atlantistes, il fut abondamment financé par la CIA et joua un rôle actif dans la division du syndicalisme français. Documents d’archives à l’appui, le professeur Annie Lacroix-Riz retrace le détail de cette manipulation alors que la nouvelle politique états-unienne redonne vigueur à l’Institut d’histoire sociale.

Terrorisme
La Ligue anti-communiste mondiale, une internationale du crime


 Por Thierry Meyssan | Voltaire, édition internationale | 12 mai 2004 | Fondée à Taiwan par Tchang Kaï-Chek, le révérend Moon et des criminels de guerre nazis et nippons, la Ligue anti-communiste mondiale (WACL) a d’abord été utilisée sous Nixon pour étendre les méthodes de contre-insurrection en Asie du Sud-Est et en Amérique latine. Sept chefs d’État participaient alors à ses travaux. Elle a connu une nouvelle vitalité sous Reagan devenant un instrument conjoint du complexe militaro-industriel états-unien et de la CIA dans la Guerre froide. Elle fut alors en charge des assassinats politiques et de la formation des contre-guérillas dans toutes les zones de conflits, y compris en Afghanistan où elle était représentée par Oussama Ben Laden.

Washington et Paris renversent Aristide
Coup d’État en Haïti


 Por Thierry Meyssan | Voltaire, édition internationale | 1er mars 2004 |Washington et Paris se sont réconciliés pour défendre leurs intérêts impériaux dans les Caraïbes. Ils ont savamment organisé un coup d’État en Haïti pour renverser le président élu. Après avoir fabriqué une opposition de convenance autour du financier de la dictature des Duvalier, André Apaid, Washington a créé des groupes armés autour de l’ancien officier putschiste Guy Philippe. Tandis que Régis Debray et Véronique de Villepin-Albanel tentaient de contraindre Jean-Bertrand Aristide à la démission. En définitive, la rue restant fidèle à Aristide, les « rebelles » ne sont pas entrés dans Port-au-Prince. Ce sont les Forces spéciales états-uniennes qui ont dû enlever le président, dans son palais, au petit matin.

Les réseaux d’ingérence états-uniens (suite)
Freedom House : quand la liberté n’est qu’un slogan


 Voltaire, édition internationale | 7 septembre 2004 | Officine de propagande créée par Roosevelt pour préparer son opinion publique à la guerre, la Freedom House (Maison de la liberté) a rempilé pour stigmatiser le camp soviétique pendant la Guerre froide. Elle employait à l’époque des intellectuels occidentaux, dont deux Français. Aujourd’hui encore, c’est elle qui organise les campagnes médias internationales pour la liberté religieuse en Chine ou pour la paix en Tchétchénie. Freedom House est désormais présidée par James Woolsey, l’ancien patron de la CIA.

Un ami qui vous veut du bien
Pourquoi la Fondation Ford subventionne la contestation


 Por Paul Labarique | Voltaire, édition internationale | 19 avril 2004 | Depuis sa création, la Fondation Ford n’a pas varié dans ses objectifs de défense des intérêts stratégiques des États-Unis. Mais alors que pendant la Guerre froide, elle n’était qu’une couverture de la CIA, elle a acquis une autonomie au cours des vingt dernières années et a développé une nouvelle méthode d’ingérence, le soft power : intervenir dans les débats internes de ses adversaires en subventionnant les uns pour faire échouer les autres, voire en favorisant des rivalités stérilisantes. Dernier exemple, le financement du Forum social mondial pour tenter de le neutraliser.

Mercenariat
Beslan : un an après, le mystère s’éclaircit


 Por Thierry Meyssan | Voltaire, édition internationale | 31 août 2005 | Il n’est pas prudent de considérer l’actualité internationale en faisant abstraction des réalités stratégiques. Lors de la prise d’otages du 3 septembre 2004 à Beslan, en Russie, qui causa la mort de 186 enfants, les relais médiatiques dominants s’étaient démarqués de l’horreur en affirmant leur soutien aux « Tchéchènes modérés » d’Aslan Maskhadov, appuyés par Londres et Washington. Pourtant, un an plus tard, Chamil Bassaïev, organisateur de l’opération conçue pour occasionner un carnage, vient d’être proclamé vice-Premier ministre du gouvernement en exil. Avec du recul, on constate donc qu’une fois de plus l’émotion immédiate sert des intérêts plus complexes : le contrôle des ressources de la Caspienne.

Opération Northwoods
Quand l’état-major américain planifiait des attentats terroristes contre sa population


 Por Thierry Meyssan | Bibliothèque | 5 novembre 2001 | Conçue en 1962, par l’état-major interarmes des Etats-Unis, l’opération "Northwoods" prévoyait une série d’attentats tuant des civils et des militaires américains pour mobiliser l’opinion publique contre Fidel Castro. Un attentat contre un bâtiment de guerre et un détournement d’avion avaient notamment été planifiés. Parmi les conjurés se trouvaient d’actuels responsables de l’armée des États-Unis. La réalisation de ce plan dément fut empêchée in extremis par le président John F. Kennedy.


(Message over 64 KB, truncated)

From: adri.ale
Subject: [Italia Cuba-Collegno] LE MENZOGNE E LE FROTTOLE DI BUSH
Date: June 9, 2007 3:30:12 PM GMT+02:00
To: Italia-Cuba_Collegno @ yahoogroups.com

L'Ambasciata di Cuba in Italia invia il testo delle riflessioni del
Comandante in Capo, Dott. Fidel Castro Ruz dal titolo "LE MENZOGNE E
LE FROTTOLE DI BUSH", dello scorso 7 giugno 2007.


Riflessioni del Comandante in Capo

Non mi piace l'idea di sembrare una persona vendicativa e desiderosa
di incalzare un avversario. Mi ero ripromesso d'aspettare un po' per
vedere come si sarebbero sviluppate le contraddizioni tra Bush ed i
suoi alleati europei sul vitale tema del cambiamento climatico.
George Bush ha però esagerato nel rilasciare una dichiarazione che
abbiamo appreso venerdì scorso da una nota dell'agenzia AP. Il
Presidente degli Stati Uniti ha affermato che si recherà in
Vaticano "con la mente aperta e con un gran desiderio d'ascoltare il
Papa" ed ha assicurato che "divide con lui i valori del rispetto alla
vita, della dignità dell'uomo e della libertà".

"La storia ha dimostrato che le democrazie non si dichiarano guerra e
perciò il modo migliore per rafforzare la pace è promuovere la
libertà", ha aggiunto.

"Sarà la prima visita del mandatario nordamericano a Benedetto XVI.
Il suo ultimo viaggio in Italia è stato nell'aprile del 2005 per i
funerali di Papa Giovanni Paolo II", segnala l'agenzia.

In una delle mie riflessioni ho detto che non sarò né il primo né
l'ultimo che Bush ha ordinato - o autorizzato i suoi agenti – di
uccidere. Nell'apprendere la sua inusitata dichiarazione, ho pensato
che se Bush avesse letto qualche libro di storia, sarerebbe cosciente
che proprio lì a Roma nacque un impero che ha nutrito il vocabolario
del linguaggio politico per quasi duemila anni e, nel corso del
tempo, nacque anche lo Stato del Vaticano dopo la promulgazione da
parte di Costantino dell'editto di Milano a favore degli adepti della
religione cristiana, all'inizio del IV secolo della nostra era.

Gli storici narrano che l'imperatore Nerone, che aveva ordinato
l'incendio della capitale dell'impero, nel pieno della tragedia
esclamò soddisfatto: "Che grande poeta muore!"

"Se gli storici avessero ragione! Se Bush fosse un poeta! Se gli
abitanti del pianeta fossero soltanto quelli dell'epoca! Se non
esistessero le armi nucleari, chimiche, biologiche e di distruzione
di massa! Anche se si trattasse di un fatto triste, compresa la morte
del poeta, chi si allarmerebbe per l'incendio di ciò che oggi sarebbe
solo un grande villaggio?

È evidente che Roma non è ancora compresa nei suoi 60 ed oltre oscuri
angoli del mondo che le forze militari statunitensi devono essere
pronte ad attaccare preventivamente e in modo inatteso, come
proclamato da Bush a West Point il primo giugno 2002.

Bush pretende ora di abbindolare il Papa Benedetto XVI. La guerra in
Iraq non esiste, non costa un centesimo, né una goccia di sangue, né
sono morte centinaia di migliaia di persone innocenti in un
vergognoso baratto di vite umane in cambio di petrolio e gas, imposto
con le armi ad un popolo del Terzo Mondo. Non esistono nemmeno i
rischi di un'altra guerra contro l'Iran, compresi i possibili
attacchi nucleari tattici per imporre la stessa infame ricetta. Siamo
tutti obbligati a credere che la Russia non si senta minacciata da
una possibile pioggia di proiettili nucleari, annientatori e precisi,
che diano luogo ad una nuova e sempre più pericolosa corsa agli
armamenti.

Seguendo il goffo corso delle sue grossolane menzogne, potremmo
domandarci: "Perché Bush ha posto in libertà un terrorista famoso e
reo confesso come Posada Carriles proprio lo stesso giorno in cui si
commemorava il 45° Anniversario della sconfitta imperialista di
Girón? Peggio ancora, gli dispiacerà forse almeno un po'
l'ingiustizia di tenere in prigione, alcuni di loro con due
ergastoli, i 5 eroi cubani che informavano la loro patria sui piani
terroristi? Proibito pensare che Bush ignorasse chi finanziò gli
innumerevoli piani per uccidere Castro!

Abbiamo visto fare a Bush strane ed insensate smorfie mentre parlava
in cerimonie ufficiali alla presenza di senatori e rappresentanti
degli Stati Uniti, vantandosi dei nemici eliminati su suo personale
ordine. Ha creato dei centri ufficiali di tortura ad Abu Ghraib e
nella base navale di Guantánamo; i suoi agenti, in modo illegale,
hanno compiuto sequestri di persona in numerosi paesi dove gli aerei
della CIA volavano, compiendo viaggi segreti, con o senza il permesso
delle autorità competenti. Le informazioni dovevano essere ottenute
utilizzando delle ben studiate torture fisiche.

Come gli é venuto in mente che il Papa Benedetto XVI possa
condividere con lui i valori come il rispetto per la vita, la dignità
dell'uomo ed la libertà?

Cosa ci dice il dizionario della lingua spagnola?

Frottola: menzogna abilmente mascherata.

Abbindolare: ingannare, confondere, approfittando del candore
dell'ingannato.

Ho promesso brevi riflessioni, rispetto quindi la parola data.


Fidel Castro Ruz
7 giugno 2007
Ore 16:45

Fonte:
http://www.granma.cu/italiano/2007/junio/vier8/riflessioni-fidel.html

Liberazione sputa su Cuba

Altri testi pervenuti a commento degli inqualificabili articoli apparsi sul giornale del PRC


=== 1: LINK ===

Le nostre rassegne precedenti:

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5503

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5504


Reportage ostile e superficiale su Cuba

Bruno Steri e Franco Forconi su Liberazione del 01/06/2007

http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16047


LA COLTA EUROPA E I ROZZI BARBARI 

Bianca Bracci Torsi, su Liberazione il 2 giugno 2007

http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16063


LETTERA APERTA A PIERO SANSONETTI E ANGELA NOCIONI 

Clemente Granieri su esserecomunisti.it

http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16110


VIVA CUBA! 

Pablo Genova su Liberazione del 3 giugno 2007

http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16096


GIOVANI COMUNISTI :: ORDINE DEL GIORNO SU CUBA 

Esecutivo Nazionale del 3 giugno 2007

http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=16112


=== 2 ===

La sinistra di classe non può fare a meno di Cuba,
Cuba non può fare a meno della sinistra di classe
 
La protesta contro la vergognosa campagna di diffamazione di Cuba e della sua rivoluzione da parte del quotidiano Liberazione, organo del Partito della Rifondazione Comunista, ha registrato oggi un alto momento unitario con un sit-in di protesta davanti alla sede del giornale/partito in via del Policlinico a Roma. Molte organizzazioni ed associazioni, in maniera semispontanea, hanno presidiato l’ingresso del quotidiano con bandiere cubane e cartelloni anti-Sansonetti/Nocioni per respingere la tesi secondo la quale Cuba sarebbe, come scrive ignobilmente Sansonetti, “in controtendenza rispetto alla primavera latino-americana”, dimostrando così di ignorare completamente il complesso dei fenomeni di lotta anti-imperialista messi in campo in quella parte di continente proprio perché il lungo processo di resistenza di Cuba è stato un esempio-guida fondamentale. 
Con la manifestazione odierna si è tracciata una linea di demarcazione netta tra l’autodefinitosi “pensiero moderno” di Liberazione e quelle che sono le battaglie di una sinistra di classe che, invece, alle “originalità modaiole” di questa cosiddetta sinistra radicale oppone un deciso rifiuto. 
Appare singolare che si continui ad insistere sul concetto di modernità, come fa anche oggi e sempre dalle colonne di Liberazione Rina Gagliardi (oggi parlamentare del Prc e, quindi, a pieno titolo a nome del partito che rappresenta), quando invece il termine giusto dovrebbe essere quello di trasformismo. È noto a tutti infatti che la posizione di questo quotidiano appare mutata ad appena un anno di distanza dall’ingresso al governo del Prc, per cui diviene un’operazione acrobatica definire l’idiosincrasia per Cuba una scelta ideale “di una sinistra moderna”. In quest’ultimo anno non è cambiato nulla a Cuba rispetto al passato, né si sono registrati arretramenti rispetto al percorso di costruzione del socialismo. Si tratta quindi di trasformismo bello e buono, di una esigenza di revisione della propria natura politica e nulla più.
Con le diverse sensibilità individuali e collettive, oggi tante associazioni ed organizzazioni politiche, da Italia-Cuba a Nuestra América, dal Comitato “con la Palestina nel cuore” al movimento di liberazione dello Sri Lanka, dall’Assemblea Nazionale Anticapitalista al Comitato Comunista “Gramsci”, dalla Rete dei Comunisti al Movimento per l’Unità dei Comunisti, dalla Cooperativa Zona Rossa ai compagni di Radio Città Aperta ed a tanti altri compagni di altre associazioni, ed in ordine sparso, tra i quali anche militanti del sindacato RdB e di Rifondazione Comunista, è stato ribadito il no a questa ignobile campagna e la necessità che la lotta a difesa di Cuba e della sua rivoluzione continui ininterrottamente fino al giorno 9 giugno, quando saremo chiamati ad una grande risposta di lotta contro la visita di Bush e contro la politica militarista del governo Prodi.
Il 9 giugno noi saremo in piazza Esedra, perché la nostra è una scelta inequivocabile, netta e di sostegno a quanti, Cuba in testa, dell’antimperialismo ne hanno fatto e ne fanno una questione fondamentale, lasciando piazza del Popolo a quanti, invece, anteponendo le questioni di vincolo partitico alla lotta dei popoli, si ritroveranno in piazza con Sansonetti, Nocioni e Gagliardi. Soprattutto quelle associazioni che, ritenendo esaurita l’esperienza del Comitato 28 giugno, non riconoscono a nessun titolo la presenza dello stesso in piazza del Popolo, come annuncia un comunicato in circolazione in queste ore, come squallido epigono delle politiche imperialistiche che anche certa sinistra dimostra di assumere a riferimento, nascondendosi dietro una falsa modernità che non è solo revisionismo, ma trasformismo bello e buono. Chi sta con Cuba ci sta sempre e non secondo gli umori della segreteria del suo partito, per questo Cuba non può fare a meno della sinistra di classe, come la sinistra di classe, soprattutto in questo momento, non può fare a meno di Cuba.

 

Roma, 5 giugno 2007

 

Radio Città Aperta -Comitato Comunista “Gramsci” -  Assemblea Nazionale Anticapitalista - Nuestra America 
 - Con la Palestina nel Cuore - Proteo


=== 3 ===

Le radici governiste-imperialiste
degli attacchi di Liberazione a Cuba e all’America Latina
 
Fulvio Grimaldi
5/6/07
 
Caro Sansonetti,
 
l’intestazione al direttore di “Liberazione” è puramente retorica e serve solo a inserirmi nell’uragano di lettere deprecatorie che hanno sotterrato ad perpetuum ogni dignità professionale e politica del soggetto. Non ha nessun senso scrivergli. Non solo perché lui, che qualche malizioso chiama Sionetti, poi distribuisce rampogne ed eulogie dei lettori secondo la tecnica dei media di regime, in modo tale da creare un rapporto pro-contro che rifletta quello tra le due ore di Santoro e le mille ore dei tg e talkshow di regime. Anche e soprattutto perché né Sansonetti, né gli altri direttori del house organ della casta regnante del PRC, contano un fico secco. Stanno a Bertinotti come Al Maliki o Karzai stanno a Bush.
E mi sorprende, nella pur salutare esplosione di indignazione che ha circonfuso il foglietto scandalistico e ne ha ulteriormente frazionato il seguito politico e ridicolizzato le vendite, che molti si siano sorpresi. Come se le volgarità, sciatterie, sostanze tossiche, veline miamensi e merci avariate varie vendute dalla scrivana Nocioni  – sulle quali altri hanno già steso gli opportuni coccodrilli da fosse comuni del giornalismo di stagione – fossero, non il semplice “balzo in avanti” di un vetusto e noto venditore di cianfrusaglie con licenza di falso, ma l’inusitata e subitanea involuzione di una giornalista e del direttore che ha la faccia di difenderla (della Gagliardi, antica condirettrice dei miei tempi, e del suo accorruomo in difesa degli indifendibili,  non mette neanche conto scrivere: l’anziana signora è da sempre vocata al sacrificio di una qualche ipotetica identità propria nel corso delle messe cantate  al pontefice di turno).
 
Nel corso delle mie frequentazioni di “Liberazione” e del PRC, da collaboratore tra il 1998  e il 2003 e da lettore per qualche anno ancora, finchè ho retto al prolasso delle strutture etico-deontologiche e all’inversione politica del giornaletto, si sono alternati direttori e vicedirettori, da  Chalabi si è passati a Jaafari, da questi ad  Allawi e poi ad Al Maliki e ognuno si portava dietro i suoi famigli. Ma da quando Fausto Bertinotti, passando da Bertinotti in Vespinotti e poi in Prodinotti e ancora in Bertisconi, per culminare infine, glorificando in Libano la Folgore, in Bushinotti, da quando, dopo la scissione, si è assiso solitario sul trono imperiale sostenuto da un cooptato esercito di cortigiani, nulla in “Liberazione” si muove che il sovrano non voglia. Per quanto possano fingere di avere un ruolo sia Curzi, sia Gagliardi, sia l’ex-vicedirettore Cannavò, sia Sionetti, sia lo stesso Franco Giordano. A guardar bene, da dietro le scapole gli parte un filo sottile che arriva tra le manone di quel tale, segretario di partito o presidente della Camera che sia. E allora prendiamocela con il burattinaio e abbandoniamo al loro tristo – ma ben remunerato – destino ascari, fantocci e comprimari. E anche i reggicoda che fanno finta di fare fronda per tenere al guinzaglio i bassotti riottosi. In questo film le comparse e i figuranti sono ancora, dopo vari salassi, parecchie decine di migliaia. Ci vuole poco più di un po’ di acume e di autonomia, un po’ meno cieco affidarsi al primo imbonitore, per far rifluire nelle loro grotte questi quattro assatanati di poltrone e cavernicoli della coerenza e dell’etica.
 
Le programmate diffamazioni, negazioni, falsificazioni di Angela Nescioni (non è un errore) hanno radici lontane di pura per quanto malamente mimetizzata natura governista, borghese, a tendenza sionista-imperialista, come accennato nel titolo. Siamo nel maggio 2003 e scusate se ricordo  un episodio che mi riguarda personalmente, ma che ha significato trascendente: la mia cacciata da “Liberazione” su due piedi, dopo quattro anni di collaborazione, per aver scritto nella mia rubrica che quelli processati a Cuba erano terroristi mercenari degli Usa, dei quali si era scoperto un programma di attentati e dirottamenti che avrebbero dovuto destabilizzare il paese e avviarne il tanto atteso rientro nei ranghi della catena di supermercati e lupanari oligarchico-statunitensi. Era uno sgambetto alla marcia del partito, che il suo duce si affannava ad avviare, all’ingresso nella sfera delle compatibilità confindustriali, vaticane e atlantiche. Una marcia che in quel momento avanzava al suono delle fanfare anticubane del capitalismo mondiale, cui Bertinotti aggiungeva il suo graditissimo piffero di corista di terza fila, visto che Cuba più che mai si era posta come simbolo e innesco della resistenza dei popoli al terrorismo imperialista, dall’America Latina all’Iraq e a tutto il Medioriente. La foia anticubana di Bertinotti, cui Marco Consolo, latinoamericanista del dipartimento esteri, forniva la cosmetica copertura dei suoi personali flirt con la rivoluzione bolivariana, era necessitata da un’ulteriore obiettivo strategico: eliminare dall’orizzonte dei compagni nutritisi dell’illusione della rifondazione comunista il modello cubano. Intollerabile era la prospettiva che iscritti, militanti ed elettori  ponessero a confronto di un governo pseudodemocratico, espropriato delle sue scelte sovrane, massacrato da predatori sociali, spedito in guerre coloniali di  rapina e sterminio, corrotto e mafizzato fino al midollo, un paese che stava mostrando a centinaia di milioni, tra America Latina e resto del mondo, che sconfiggere il capitalismo e bloccare  l’imperialismo era possibile. Da Fidel a Chavez era impellente cancellare dall’orizzonte del reale e del vero una fenomenologia che rischiava di sotterrare definitivamente la mitologia di un partito che si dice rappresentante di lavoratori, di sfruttati e oppressi, della pace e che, nei fatti, agisce da calmiere collaborazionista dei poteri forti. Tutto qui.
 
Ma andiamo un po’ più indietro. L’uomo che, proveniente da esperienze politico-sindacali di fiancheggiamento con riserva degli ukase padronali, si era impadronito dello zoccolo duro antagonista sopravvissuto alla degenerazione piccista-diessina, per farne il cavallo che lo avrebbe innalzato, di Vespa in Vespa, al più alto soglio possibile della carriera, aveva lanciato il suo affondo nel congresso nazionale di Rimini, sette anni fa. Due erano stati gli strumenti principali per avviare una mutazione genetica, astutamente graduale, che lo sprovveduto Occhetto aveva voluto operare nel giro di 24 ore. “L’imperialismo non esiste” e “la non-violenza è la nostra stella polare”. Con la negazione dell’imperialismo era riuscito a confondere la vista a chi, guardando meglio, dalla prima guerra all’Iraq, alla Somalia e poi alla Jugoslavia, avrebbe riconosciuto e più adeguatamente combattuto, al pari dei popoli aggrediti e squartati, la perfetta materializzazione di ciò che Lenin aveva definito lo stadio supremo del capitalismo. E l’élite militarista israelo-anglo-statunitense, con i suoi ascari coltivati tra Roma, Varsavia e Tokio, ancora gliene rende grazie. Occultato così il mostro che minaccia la fine delle specie viventi, gli ha spianato l’avanzata con il concetto  escatologico della non-violenza, perfetto meccanismo del disarmo unilaterale dei subalterni sodomizzati.  Non-violenza sublimata nel silenzio sulla Nato, le basi stragiste, l’industria bellica, e, a livello di delirio, nello strombazzamento delle virtù della Folgore e corpi speciali vari.
Insomma, non solo i comunisti non avrebbero più mangiato bambini, ma la racaille della Terra avrebbe preso serenamente schiaffi e fosforo bianco offrendo l’altra guancia. L’alto esempio avrebbe naturalmente modificato nel profondo i fosforizzatori e li avrebbe convinti a redimersi distribuendo aspirine e caramelle.
 
Tutto questo era, da tempi biblici rispetto alle stronzate della Nescioni, formulato nelle pagine di “Liberazione”. Fin da quando, nel 1999, mentre D’Alema bombardava la Jugoslavia e l’imperialismo non esisteva più, il vicedirettore Cannavò, ora redento leader della “Sinistra critica”, cestinava i miei pezzi da Belgrado che delenda erat perché dimostravano che Milosevic era tutt’altro che un dittatore, ma che erano le tirannie oligarchiche imperialiste che frantumavano la Jugoslavia socialista e facevano pulizia etnica e fosse comuni. E poi titolava a tutta trionfante prima pagina, sulla morte della Jugoslavia, “La primavera di Belgrado”. Primavera che poi veniva esaltata anche a Kiev e Beirut, per l’immensa soddisfazione della National Endowment for Democracy, un’articolazione Cia, che tali primavere foraggiava con esperti del Pentagono, patrioti amati da Cannavò come Otpor, e sacchi di dollari.
Fin da quando, da Gaza e Ramallah, citavo l’inqualificabile Maruan Barghuti che si permetteva di non stigmatizzare la lotta armata di liberazione di quattro pezzenti contro lo stato più guerrafondaio e poliziesco del mondo. Fin da quando dall’Iraq riferivo che, forse, qualche balla satanizzante su Saddam, ad uso degli invasori predatori, i media dell’editore di riferimento Usa la diffondevano e che forse gli iracheni, con una sanità migliore della nostra e gratuita e un’istruzione invidiata da tutto il Terzo Mondo e gratuita, con la casa e il lavoro per tutti, qualche diritto umano dopottutto ce l’avevano. E, rientrato a Roma, trovavo pezzi mutilati di quanto contrastava con la vulgata embedded e Curzi e “l’oppositore di corte,
Claudio Grassi, che mi supplicavano di stare al gioco, di moderarmi, di guardare altrove, magari verso gli inceneritori, ma neanche tanto.
 
Cari amici, l’episodio Nescioni su Cuba e Venezuela non è che una casella importante del gioco dell’occhetto prolungato nel tempo dal nostro Prodinotti, sempre più Bushinotti. E’ un ulteriore carico di deiezioni espresse dal processo fisiologico di chi ritiene di crescere su ciò che liquida. Arriverà di peggio, prima della sua inesorabile fine. Intanto abbiamo la fortuna che dietro a questo maleodorante cumulo si è acceso un possente ventilatore. Si chiama Cuba.
 

=== 4 ===

From: Daniele Barbieri 
Date: June 4, 2007 11:09:11 AM GMT+02:00
To: forum  @...-forum.org
Subject: due msg a SANSONETTI su Cuba e "Liberazione"


Lettera aperta a nome di tutte le compagne e compagni dell'Associazione
di solidarietà con Cuba "La Villetta"

caro direttore

Non è mia abitudine intervenire su un lavoro così delicato come so
essere quello del giornalista, ne conosco tanti che faticosamente e
onestamente lo hanno scelto come impegno della loro vita professionale
ed umana, magari da precari in redazioni prestigiose e, mi creda, non lo
faccio a cuor leggero, ma devo porre a Lei e a tutta la redazione di un
giornale a me caro una doverosa critica, naturalmente politica.

Sono stato sollecitato dagli eventi ad usare lo strumento della lettera
aperta per chiederLe spiegazioni, nella forma più pacata ed onesta,
sull' articolo che secondo me falsifica la dura realtà di Cuba e che
indica una vera e propria caduta di stile da parte di una giornalista
che si definisce comunista di un giornale comunista.

Come avrà certamente intuito, mi riferisco alla compagna Angela Nocioni
e al pezzo da lei scritto sulla situazione cubana.

Ho letto in queste ore, come sarà certamente capitato anche a Lei, le
centinaia di lettere, comunicati ecc. che girano in rete e devo dire che
ne condivido lo spirito, anche se talvolta non la forma, perché leggo vi
leggo la voglia di ribellarsi ad una fondamentale questione di etica
morale (quella comunista) e allo stesso tempo la rabbia per la
solidarietà tradita.

A mio parere il pezzo tralascia le ragioni di fondo che portano a
situazioni di disagio sociale tra la popolazione cubana e allora proverò
ad elencarne alcune in modo che, se Lei cortesemente vorrà ospitare
questa mia, i lettori di Liberazione potranno comprendere meglio.

Pur ammettendo gli errori del passato che gli stessi compagni cubani non
nascondono, vi è una prima riflessione da fare. La mitica URSS è implosa
nel 1989 e, primo grossolano errore, tutti i suoi nemici e falsi amici
si aspettavano che anche Cuba cadesse sotto le macerie del cosiddetto
socialismo reale. Schiacciata fra i due blocchi, Cuba aveva fatto una
scelta di campo, quella di diventare un paese socialista in quel
continente martoriato da terribili dittature. Al tempo stesso proprio in
quella scelta maturava la voglia di sperimentare, applicando fino in
fondo la teoria dell' "hombre nuevo" Tutto questo enorme e sicuramente
contraddittorio sforzo le ha permesso di resistere e di andare avanti.

Il bloqueo -e non l'embargo come viene erroneamente definito- dura da
oltre 48 anni ed è ancora imposto visto che all'ultimo voto all'ONU solo
gli USA e Israele lo vogliono mantenere mentre la totalità degli altri
stati membri lo ha condannato. Ma evidentemente questo ancora non basta.

Ed è proprio dal vergognoso blocco economico che bisogna partire per
comprendere che se non arriva cemento le coabitazioni sono
drammaticamente necessarie poiché senza cemento, mattoni, cavi elettrici
Šnon si possono ristrutturare ne' tanto meno costruire nuove case.

Che questa situazione produca scontento è normale, lo è meno se la si
presenta come la scelta di un governo incurante dei bisogni dei suoi
cittadini per costringerli in situazioni da terzo mondo.

Se poi si racconta che con pochi dollari si può mangiare una pizza in un
locale "privato" ci si dimentica di dire che i Paladar (appartamenti
trasformati in trattorie a conduzione familiare che pagano le giuste
tasse avendo requisiti idonei) ci sono da anni e che si mangia
mediamente bene:questo dimostra che esistono forme di libera iniziativa
privata. Ma perché non si spiega meglio che quel locale cui la Nocioni
si riferisce è dedicato alla memoria di un nostro giovane connazionale,
Fabio Di Celmo, assassinato da una bomba nel corso di un attentato
pianificato dalla CIA e organizzato dal "signor" Posada Carriles? Questo
losco figuro è stato però liberato l'11 maggio da un carcere Usa su una
cauzione di 250.000 dollari e ora vive a Miami protetto dai suoi "datori
di lavoro" come premio per aver organizzato i peggiori attentati contro
i popoli non solo cubano ma anche nicaraguenseŠ.. perché non si dice che
a Giustino, padre di Fabio, quella attività non serve per guadagnare
soldi- non sono quelli che gli interessano- ma che quel locale serve a
ricordare a tutti che gli è stato ammazzato un figlio?

Viceversa dalla Nocioni che di Cuba vuole esasperare le contraddizioni e
le negatività voglio elencare alcune delle ragioni per cui noi siamo con
Cuba:

Perché questa notte 100 milioni di bambini dormiranno per strada e
nessuno di loro è cubano.

Perché ogni giorno 250 milioni di bambini sono costretti a lavorare e
nessuno di loro è cubano.

Perché ogni 7 secondi muore di fame un bambino e non è cubano.

Perché nonostante un'infame blocco economico Cuba ha una mortalità
infantile inferiore a quella degli USA e una aspettativa di vita molto
superiore agli USA.

Perché l'esercito rivoluzionario cubano non ha mai invaso, bombardato,
assassinato, torturato o avvelenato la popolazione di altri paesi.

Perché l'esercito rivoluzionario cubano non ha mai sparato contro il
proprio popolo.

Perché non ne possiamo più di una certa sinistra sempre pronta ad
attaccare Cuba ma colpevolmente imbelle se non complice di fronte alle
guerre "umanitarie".

Perché Cuba non rappresenta l'ultimo baluardo di un mondo che è stato ma
il primo avamposto di un mondo in costruzione sicuramente con tantissimi
limiti ed errori.

Infine caro direttore senza il coraggio dei cinque giovani cubani,
vergognosamente definiti spioni rinchiusi nelle terribili carceri
speciali USA e al sacrificio quotidiano dei loro familiari e delle loro
dolcissime e tenacissime mogli ridotte a "letterine"nell'articolo, altri
attentati sarebbero stati compiuti a Cuba e altri cittadini inermi
sarebbero stati uccisi. Noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere quelle
donne e ci vergogniamo per loro che siano state trattate con tanto
volgare disprezzo. Alla compagna/donna Angela Nocioni vorrei poter dire
sommessamente che la dignità è cosa rara e non si compra! E allora anche
se non si condividono tutte le scelte di quel governo e di quel popolo a
quel governo e a quel popolo e a quella rivoluzione si deve rispetto,
non lo si deve insultare, tradire e consegnare nelle mani delle
politiche guerrafondaie.

Oggi il continente latinoamericano non potrebbe respirare quella ventata
di speranza democratica senza l'eroica resistenza del popolo cubano e
sarebbe difficile anche per noi continuare a sperare in "un altro mondo
possibile".

Mi permetta un'ultima battuta: non sono per il boicottaggio del giornale
ma rifletto sui dati.

Nella mia città, Bologna, si vendono mediamente 345 copie di Liberazione
e un centinaio a Imola contro i circa 2000 iscritti al partito. Tenendo
conto dei 43000 voti ottenuti alla ultime elezioni non crede, caro
direttore, che se certi argomenti fossero trattati in maniera diversa ci
sarebbe anche un ritorno positivo per il giornale?

Saluti internazionalisti.

Mauro Collina (Presidente "La Villetta "di Bologna, membro del direttivo
nazionale dell'Associazione di solidarietà con Cuba "La Villetta)


=== 5 ===

Al direttore Piero Sansonetti,

6/6/07

Direttore,

sono la segretaria del Circolo della Tuscia dell'Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba. Unisco la mia alle tantissime voci che, accolte o censurate dal suo quotidiano, le hanno significato il disagio e la rabbia di una rilevantissima parte dei suoi lettori, molti dei quali presumibilmente lei perderà dopo le cronache faziose, unilaterali e scorrette dell'inviata Nocioni e  le successive esternazioni tristemente giustificatorie sue e di Rina Gagliardi.

Non torno sui demeriti, le insettezze e le volgarità che sono state scritte contro Cuba e, prima, contro il governo bolivariano del Venezuela. Molti hanno fatto in proposito gli opportuni rilievi. Le avanzo solo una spiegazione del tonfo informativo ed etico sul paese più socialista che c'è da parte di un giornale che si ostina a definirsi comunista. In America Latina, come abbiamo potuto ripetutamente constatare di persona, il governo cubano è visto da centinaia di milioni di persone come la possibilità realizzata di resistere al mostro imperialista, di affermare la pace contro coloro che esportano guerre globali e permanenti, di sconfiggere assedi genocidi, di affermare i fondamentali diritti umani - che, le piaccia o no, sono individuali nella misura in cui sono anzittutto collettivi - quali quelli alla conoscenza-istruzione-critica, della salute, della casa, del lavoro, dell'infanzia e vecchiaia protette, di operare in solidarietà con altri popoli per diffondere questi diritti e per attrezzarsi alla sconfitta di colonialismo e imperialismo. E tutto questo a partire da un sottosviluppo, da un'esclusione, da uno sfruttamento oligarchico-colonialista secolare spaventoso, spesso da embarghi criminali. Solo un esasperato eurocentrismo li può mistificare.Oggi l'editore di riferimento del suo giornale siede in parlamento e non riesce ad ostacolare a un governo che esporta, al seguito della più brutale potenza militare mai comparsa sulla faccia della Terra, bombe, massacri di civili, occupazioni di paesi, rapine di risorse, un governo che prosegue il massacro sociale contro le categorie deboli maggioritarie iniziato dalla destra, che lascia i giovani in preda all'insicurezza assoluta, che mistifica da sicurezza una crescente repressione sociale, che punisce gli anziani, che trascura il progresso civile, culturale e  tecnologico del paese, che allarga in misura drammatica il divario tra una elite di straricchi e una massa di impoveriti, che spoglia la scuola della sua forza, autonomia, dignità, universalità, che devasta l'ambiente in misura forse irreversibile dando invece spazio proprio agli interessi devastatori che appaiano legali o siano di chiara marca criminale. Allora credo che la spiegazione delle posizioni assunte dal suo giornale sui due paesi più equi e progressisti di oggi non possa che essere questa: dobbiamo diffamare Cuba e il Venezuela, esagerarne le carenze e inventarne delle altre, occultare le conquiste ad ogni livello, perchè altrimenti i nostri iscritti, militanti, elettori, simpatizzanti avrebbero a disposizione termini di confronto letali per noi e per il nostro ruolo politico e istituzionale attuale. E così, direttore... Sarei felice di una sua smentita documentata. A leggere i recenti risultati elettorali parrebbe proprio che questo è il rischio che le menzogne e deformazioni di Liberazione vogliono evitare. Nel nostro circolo sono numerosi, attivi e fortemente motivati, oltre ad essere  brave avanguardie sul territorio, i compagni di Rifondazione. Le imputo il disagio, il disorientamento e la tristezza che sono stati loro inflitti.

Sandra Paganini, segretaria del Circolo della Tuscia, ANAIC.

=== 6 ===

---- Original Message ----- 
From: Giovanni Caggiati 
To: Liberazione 
Sent: Monday, June 04, 2007 11:43 AM
Subject: lettera al direttore (3-6-'07)

Caro direttore,
chiediti cosa sarebbero Cuba, l'America Latina, il mondo intero, senza la Cuba attuale pur con tutti i problemi che ha: saremmo più avanti o saremmo più indietro nella lotta per la liberazione dall'imperialismo e dal capitalismo? Tu dirai che auspichi, per l'isola, non il ritorno al sistema antecedente quello di Castro ma più libertà. Bene. Ma allora l'approccio dev'essere diverso da quello della Nocioni e di Liberazione, deve tener conto delle concrete e specifiche condizioni storiche e politiche, l'atteggiamento dev'essere costruttivo e la critica, pure necessaria, non distruttiva e sprezzante. Se poi quella della Nocioni volesse essere una "critica di sinistra" (sui limiti di socialismo a Cuba, nel Venezuela di Chavez, nella Bolivia di Morales, ecc.), allora è almeno singolare che questo punto di vista sia il punto di vista dell'organo di un partito che fa parte di un Governo il quale di sinistra non ha nulla. 

Giovanni Caggiati - Parma, 3 giugno '07

----- Original Message ----- 
From: Giovanni Caggiati 
To: Liberazione 
Sent: Friday, June 08, 2007 3:53 PM
Subject: lettera al direttore (8-6-'07)

Caro direttore,
in riferimento alla polemica su Cuba fa bene il lettore Grieco a richiamare su Liberazione di oggi la democrazia e il socialismo di togliattiana, berlingueriana, e ingraiana memoria. Così come meglio farebbe Rina Gagliardi a prendere in considerazione il fatto che fra l'ottobre del '17 e la fine ingloriosa del '91 c'è stata anche una via democratica al socialismo che, per quanto non priva di insufficienze, limiti e contraddizioni, in Italia è stata comunque diversa concezione strategica e teorica e anche il motivo principale delle maggiori conquiste realizzate sul piano sociale e della democrazia, che fecero del nostro Paese la realtà più avanzata di tutto l'Occidente capitalistico. Fino ad introdurre in Italia "elementi di socialismo" come disse Berlinguer. Senonchè questo richiamo a democrazia e socialismo c'entra poco o nulla con gli articoli di Angela Nocioni: quegli articoli erano una critica solo distruttiva e sprezzante.

Giovanni Caggiati - Parma, 8 giugno '07


=== 7 ===

Guastarazze di Asicuba Umbria al direttore di Liberazione

 

Gentile direttore di Liberazione, da comunista e da amico di Cuba da oltre 15 anni sono sconcertato e amareggiato dalla quantità di falsità contenute nell'articolo "Cuba si salvi chi può..." a firma di Angela Nocioni.

 

Un articolo che farebbe onore alle colonne di "Libero" e de "Il Giornale" scritto con una dose di disinformazione che raggiunge in alcuni punti il parossismo.

 

Mi sorprende e mi addolora come un giornale come Liberazione sia disposto a stipendiare una giornalista che scrive delle vere e proprie menzogne, travisando completamente la realtà senza nemmeno curarsi di dare alle sue parole un benché minimo

(Message over 64 KB, truncated)


-------- Original-Nachricht --------
Datum: Wed, 6 Jun 2007 21:21:53 +0200
Von: "Kaspar Trümpy" 
Betreff: Reisebericht aus Kosovo

Vor ca. einem Jahr eröffnete unsere Aussenministerin Micheline Calmy-Rey in Belgrad den verdutzten Serben, dass die Schweiz für einen unabhängigen Kosovo eintrete. Für eine offizielle Vertreterin der neutralen Schweiz eine doch recht unbedarfte Parteinahme!

Zum besseren Verständnis der Vorgänge im Kosovo, im Attachement ein fünfteiliger Bericht über und aus dem Kosovo von "Ossietzky"-Redakteur Eckart Spoo.

K.Trümpy


---


Neue Rheinische Zeitung, 8.5.07 – 6.6.07  (www.nrhz.de)

Ziel deutscher Außenpolitik: die Zerstückelung Jugoslawiens

Bei den Serben im Kosovo - Teil 1

Von Eckart Spoo

Das Gezeter von Düsseldorfer Kommunalpolitikern, verstärkt durch Tiraden in Medien wie dem „Kölner Stadt-Anzeiger“, machte es dem Schriftsteller Peter Handke vor einem Jahr unmöglich, den Düsseldorfer Heinrich-Heine-Preis anzunehmen. Daraufhin ersannen Autoren der Berliner Zeitschrift „Ossietzky“, Künstler und Wissenschaftler spontan den Berliner Heinrich-Heine-Preis und sammelten - unterstützt auch von der NRhZ - bei mehr als 500 Spendern das stattliche Preisgeld von 50.000 Euro, wobei von vornherein klar war, daß Peter Handke das Geld nicht für sich behalten, sondern an die Menschen im „Elendstrichter“ des Kosovo weitergeben wollte. Auf seiner Osterreise nach Velika Hoca wurde Handke u.a. vom „Ossietzky“- Redakteur Eckart Spoo begleitet.
 

Dem deutschen Botschafter in Belgrad, Andreas Zobel, fehlt es nicht an Selbstbewußtsein. Er demonstrierte es dieser Tage auf einem „Forum für internationale Beziehungen der Europa-Bewegung in Serbien“. Da drohte er den Serben: Das Kosovo-Problem sollte schnellstmöglich im Sinne einer „überwachten Unabhängigkeit“ gelöst werden, andernfalls könnten Probleme in der Vojvodina und im Sandschak „eröffnet“ werden. Von Diplomaten erwartet man üblicherweise eine höfliche, zurückhaltende Sprache. Herr Zobel aber hielt es für richtig, der Regierung des Staates, in dem er akkreditiert ist, überdeutlich mitzuteilen, was er von ihr hält. Er sagte: Serbien habe „eine bessere politische Elite“ verdient. Wer so grob poltert und die Politiker seines Gastlandes beleidigt, hat offenbar anderes im Sinne, als sich beliebt zu machen. Für serbische Ohren, vor allem für historisch geschulte, wurde hier ein teutonischer „Herr im Hause“-Anspruch hörbar, dem es gleichgültig ist, welche Sorgen und Ängste er weckt.

Deutsches Militär war im vorigen Jahrhundert an drei Angriffskriegen gegen Serbien beteiligt: 1914, 1941 und 1999. Beim dritten Mal gehörte es zu den Siegern, und die deutsche Diplomatie war nun darauf bedacht, daß in Belgrad Politiker an die Regierung kamen, von denen zu erwarten war, daß sie sich deutschen Wünschen nicht widersetzten. Besonders deutlich wurde das, als nach dem Bombenkrieg der NATO gegen Serbien Zoran Djindjic serbischer Ministerpräsident wurde, der während des Krieges in Deutschland gelebt und in Serbien den Spitznamen „der Deutsche“ erhalten hatte. Djindjic wurde Opfer eines Attentats. Aber für eine grundsätzlich deutschfreundliche Politik ist gesorgt, unter anderem durch die Medien.

Die führende Tageszeitung Serbiens, „Politika“, gehört inzwischen zur Hälfte dem deutschen Medienkonzern, an dessen Spitze Bodo Hombach steht. Während des Krieges gegen Serbien war Hombach die rechte Hand Gerhard Schröders im Bundeskanzleramt, nach dem Krieg wurde er von Schröder auf den Balkan entsandt, und er erwarb dort eine Zeitung nach der anderen für den Essener WAZ-Konzern: in Kroatien, Makedonien, Bulgarien, Rumänien und eben auch in Serbien. Die große serbische Boulevardzeitung „Blic“ gehört einem anderen deutschen Medienkonzern, Bertelsmann, der weltweit auch unter dem Namen Random House aktiv ist. Deutscher Einfluß auf die serbischen Angelegenheiten ist also gesichert. Aber wenn ein Botschafter so plump auftritt wie Herr Zobel, kann die Regierung des Gastlands dazu nicht schweigen. Und so traf dann auch bald ein offizieller serbischer Protest in Berlin ein. Andere Regierungen hätten einen Diplomaten, der sich dermaßen daneben benimmt, sofort zur persona non grata erklärt.

Das deutsche Auswärtige Amt schwieg dazu. Eine Beamtin behauptete, die Äußerungen seien aus dem Zusammenhang gerissen worden – aber das in Belgrad veröffentlichte Wortprotokoll machte diese Ausrede zunichte. Die verlangte Distanzierung unterblieb.

Der Auswärtige Dienst ist in vielen Ländern ein Hort des Konservativismus, so auch und gerade in Deutschland. Über ganze Generationen von Diplomaten hinweg wird dort Kontinuität gepflegt. Eine Konstante deutscher Außenpolitik ist die Hochnäsigkeit gegenüber Serbien. Und das Bemühen, Serbien zu schwächen.

Nach den Erfahrungen des Ersten und des Zweiten Weltkriegs hatten sich die südslawischen Völker bundesstaatlich zusammengeschlossen. Der gemeinsame Partisanenkampf gegen Hitler-Deutschland, an dem sich Menschen aller Nationalitäten beteiligt hatten, gehörte zu den politischen Grundlagen der Einheit Jugoslawiens in den Jahrzehnten unter Präsident Tito. Unmittelbar nach Wiederherstellung der Einheit Deutschlands 1990 begann die deutsche Außenpolitik wieder mit dem Zerstückeln Jugoslawiens. Trotz dringender Warnungen und Beschwörungen des damaligen Generalsekretärs der Vereinten Nationen, Perez de Cuellar, betrieb der deutsche Außenminister Genscher die Unabhängigkeit Sloweniens und Kroatiens; darauf folgte die Sezession Makedoniens, Bosnien-Herzegowinas, Montenegros. Zum Teil führten die separatistischen Bewegungen zu Massenvertreibungen, Gegenwehr, Bürgerkrieg. Serbien erhielt zwar durch die Resolution 1244 des Weltsicherheitsrats internationale Anerkennung für die Grenzen seines Territoriums einschließlich Kosovo, aber die US-Regierung bestärkte albanische Separatisten im Kosovo, die auch deutsche Unterstützung erhielten.

Mit der unwahren Behauptung, der serbische Präsident Slobodan Milosevic wolle die albanische Bevölkerungsmehrheit aus Kosovo vertreiben, begründete 1999 die NATO ihren Bombenkrieg gegen Serbien. Seitdem steht Kosovo unter internationaler Verwaltung, obgleich es völkerrechtlich weiterhin zu Serbien gehört. Der finnische Diplomat Martti Ahtisaari empfahl vor einigen Monaten die Abtrennung Kosovos von Serbien, Berlin spendete kräftigen Beifall. In der deutschen Hauptstadt beschäftigt man sich schon lange damit, für ein unabhängiges Kosovo eine Verfassung auszuarbeiten. Woran es noch fehlt, ist die Zustimmung Serbiens zur Preisgabe des Landesteils, der als die Wiege des Serbentums gilt. Ob die Drohung des deutschen Botschafters, andernfalls könnten Probleme in der Vojvodina und im Sandschak „eröffnet“ werden, ob also die Drohung mit weiterer Zerstückelung Serbiens geeignet ist, die Politiker in Belgrad umzustimmen, wage ich nicht vorherzusagen.


Ziel deutscher Außenpolitik: die Zerstückelung Jugoslawiens

Bei den Serben im Kosovo - Teil II

Von Eckart Spoo


Die systematische Zerstückelung Jugoslawiens seit 1991 hatte zur Folge, daß viele Hunderttausende Menschen ihre Heimat verlassen mußten, in der ihre Familien seit Jahrhunderten ansässig waren. So erging es zum Beispiel den Serben, die, als Kroatien die Unabhängigkeit erhielt, aus der Krajina vertrieben wurden, einem Teil Kroatiens, der bis dahin überwiegend serbisch besiedelt war. Der Bürgerkrieg in Bosnien-Herzegowina löste neue Flüchtlingsströme aus. 1999 begann dann während des Bombenkriegs der NATO die Vertreibung der Serben und Roma und anderer Bevölkerungsgruppen aus der zumeist von Albanern bewohnten serbischen Provinz Kosovo. Albanische Zivilisten fanden damals vor den Bomben Schutz in großen Lagern, die die NATO hinter den Grenzen Albaniens und Montenegros errichtet hatte. Derweil mußten andere Bevölkerungsgruppen nicht nur die allnächtlichen Bombardements erdulden, sondern auch den Terror der von NATO-Staaten ausgerüsteten und angeleiteten kosovo-albanischen Nationalisten. Dieser Terror ging weiter, als der Bombenkrieg beendet war und deutsche, britische, französische, US-amerikanische, auch russische, georgische, italienische, österreichische Truppen und die Vereinten Nationen die Verantwortung für Sicherheit und Ordnung in der Provinz übernahmen. Immer wieder wurden beispielsweise aus dem Mittelalter stammende, zum Weltkulturerbe gehörende serbisch-orthodoxe Kirchen und Klöster überfallen, in Brand gesteckt, zerstört. Viele Menschen wurden Opfer solcher Überfälle. Mehr als 200.000 Serben verließen Kosovo und zogen nach Zentralserbien, wenngleich sie dort nichts Besseres erwartete als eine klägliche Existenz in Flüchtlingslagern, denn das ganze Land war nach den NATO-Bombardements und nach jahrelangem Embargo verarmt.

Um die noch verbliebenen Serben im Kosovo kümmerten sich ausländische Soldaten in der Weise, daß sie zum Beispiel in etlichen Orten um die Kirche, in der ein Pope als letzter Serbe ausharrte, dicke Stacheldrahtverhaue zogen und die Zufahrten mit Panzern verstellten. Ebenso wurden einzelne noch von Serben bewohnte Dörfer oder Stadtviertel abgesperrt. Die Bewohner erhielten militärische Begleitung, wenn sie die Enklaven verließen.

Eine solche Enklave wollten wir – der Schauspieler und aktive Gewerkschafter Rolf Becker, die Fotografin Gabriele Senft und ich – in der Stadt Prizren besichtigen, dem Hauptort der deutschen Besatzungszone im Kosovo. Rolf Becker wandte sich vorher an das deutsche Verteidigungsministerium in Berlin und ersuchte darum, uns den Zugang zu dieser Enklave zu ermöglichen. Die Antwort lautete: „In Prizren gibt es keine serbische Enklave mehr.“ Die Bewohner seien wegen albanischer Angriffe wegtransportiert und auf Bundeswehrgelände „sicher und gut untergebracht“ worden; inzwischen lebten sie in Flüchtlingslagern in Zentralserbien.

Wir fahren nach Prizren und treffen dort am Beginn der Straße, die in die frühere Enklave führt, zwei Bundeswehrsoldaten, die diese Auskunft bestätigen. Angeblich, sagt einer, lebe noch ein alter Serbe irgendwo in den Trümmern, aber er wisse das nicht genau, er habe ihn nie zu Gesicht bekommen...

Wir gehen die Straße hoch, schauen in einige Trümmergrundstücke hinein, sehen verkohlte Balken, herausgerissene Fenster, drinnen Reste von Möbeln, einen Frauenschuh, einen Kinderschuh. An den Straßen Schilder, die dort schon vor 2004 angebracht waren. „KFOR-Area“ steht darauf; wir befinden uns also auf einem Gelände, für das die internationale Streitmacht im Kosovo (Kosovo Force) besondere Verantwortung übernommen hat. Weiter steht auf den Schildern: „Betreten verboten. Vorsicht, Schußwaffengebrauch“ in vier Sprachen: deutsch, englisch, albanisch, serbisch. Als aber im März 2004 Albaner anrückten und die ersten Häuser in Brand steckten, hinderte die anwesende Bundeswehr sie nicht daran; sie sah ihre Hauptaufgabe darin, die Opfer des Überfalls abzutransportieren. Nicht alle überlebten den Pogrom. Damit war die ethnische Säuberung Prizrens abgeschlossen.

Oberhalb der Enklave, auf dem Vorplatz einer geschlossenen Kirche, hat die Bundeswehr 1999 einen Schießstand eingerichtet. Viele deutsche Politiker haben sich hier bis 2004 gemeinsam mit Soldaten fürs Fernsehen filmen lassen und jedesmal versichert, Deutschland und seine Streitkräfte garantierten die Sicherheit der Bewohner. Die Garantie taugte nicht viel.

Wozu sind die Soldaten jetzt noch an diesem Platz? Einer von ihnen sagt uns: „Wir sind quasi zur Dekoration hier. Manchmal fahren wir noch Patrouillen, aber das übernimmt mehr und mehr die hiesige Polizei.“ Denn in Prizren und Umgebung bis zur albanischen Grenze gebe es ja keine Serben mehr außer einigen wenigen, die, zum Beispiel durch Heirat, in die albanische Gesellschaft eingebettet seien.

Über vielen Gebäuden und Denkmälern weht die albanische Nationalfahne: ein schwarzer Adler auf rotem Grund – als gehörte Kosovo zu Albanien. Und als wäre vollendet, was im Zweiten Weltkriegs unter italienischer und deutscher Besatzung die Kämpfer der albanischen „Liga von Prizren“ und der albanischen SS-Freiwilligendivision „Skanderbeg“ durch Massenmord an den serbischen Nachbarn angestrebt hatten: ein ethnisch gesäubertes Großalbanien, wozu übrigens auch Teile Makedoniens gehören sollten.


Ziel deutscher Außenpolitik: die Zerstückelung Jugoslawiens

Bei den Serben im Kosovo – Teil III

Von Eckart Spoo

 
Velika Hoca ist ein Dorf im Süden Kosovos, wo wir über Ostern bei dem Bauern Bogoljub Stasic Quartier gefunden haben. Auf dem Hof geht es an diesem Ostersonntagmorgen 2007 so lebhaft zu wie an jedem Morgen: Hühner gackern, Hähne krähen, Tauben gurren, zwei kleine Schweine quieken und grunzen in ihrem Verschlag, und die Hunde bellen. Zur vollen Stunde, wenn die Glocke in der benachbarten St. Stefanskirche bimmelt, jaulen die Hunde, und ihr Jaulen dauert genau so lange wie das Bimmeln, keine Sekunde länger. Im Hof blühen die Obstbäume. Strahlendes Blütenweiß unter blauem, wolkenlosem Himmel. Das Dorf ist rings umgeben von Hügeln mit Weinfeldern. Aus der Ferne leuchtet von Osten, Süden und Westen der Schnee von über 2000 Meter hohen Felsmassiven. Man könnte sich kein friedlicheres, freundlicheres Bild vorstellen, wenn man nicht wüßte, daß die Weinhänge von Stacheldrahtrollen durchzogen sind. Und wenn man nicht auf einem Hügel den großen Wach- und Schießstand sähe, auf dem die Fahnen mehrerer fremder Länder aufgezogen sind. Es ist ein Schießstand der Kosovo Forces (KFOR).

An die 700 Serben leben hier noch in einer Enklave, und auch in der vier Kilometer entfernten Stadt Orahovac (albanisch: Rahovec) besteht noch ein serbisches Wohnviertel. Es sind zwei der letzten serbischen Enklaven in einer Region, die völkerrechtlich nach wie vor zu Serbien gehört, aber nach dem Willen der NATO und des finnischen Diplomaten Ahtissari unabhängig werden soll.

In der Frühe des Ostersonntags bringt unser Gastgeber Bogoljub uns nach Landessitte gefärbte Eier ins Zimmer. Seine Frau Vidosava hat feine alte Muster mit Wachs aufgetragen, die Eier dann mit roter Farbe bestrichen und schließlich das Wachs entfernt. Jedes Ei ein Kunstwerk. Bogoljub und sein behinderter Sohn Vladica bringen uns auch frisches Wasser zum Trinken, Kaffee und Halva, rot und süß. Mit Vladica als Dolmetscher können wir uns verständigen. Wir erfahren: Bogoljub und Vidosava hatten etwa neun Hektar Land, bevor der Krieg begann, der Bombenkrieg der NATO gegen Serbien. Neun Hektar – das reichte ihnen. Aber nun liegt etwa ein Drittel dieser Fläche in dem Gebiet, das die Albaner besetzt haben; und die haben inzwischen Häuser darauf gebaut. Das verbliebene Land reicht den Stasićs nicht mehr. Das Leben ist schwerer geworden. Für den Verlust ihres Eigentums wurden sie nicht entschädigt. Die beiden älteren Söhne, Stanislaw und Dalibor, die in Belgrad studieren sollten, versuchen jetzt, sich dort irgendwie durchzuschlagen.

Wir wollen uns waschen, aber aus der Leitung kommt kein Tropfen Wasser. „Die Albaner haben es abgestellt“, klagt Bogoljub. „Immer wieder. Es ist eine Katastrophe.“ Für ihn hat alles Unglück im Leben nur noch einen Namen: „die Albaner“. Er hat keinerlei Kontakt zu ihnen. Viele von ihnen hat er auch früher nicht gekannt, nicht kennen können, denn sie sind neu angesiedelt worden. Zu Hunderttausenden sind sie aus Albanien zugewandert. Die Besatzungsmächte haben es geschehen lassen. So sieht Bogoljub nun für sich und vor allem für seine Söhne hier im Heimatort keinerlei Perspektive mehr. Er bittet uns: „Helft uns, Asyl in Deutschland zu finden. Die ganze Familie will auswandern.“ Er hat sich schon an die deutsche Botschaft in Belgrad gewandt, wurde aber mit der Bemerkung zurückgeschickt, er habe nicht die richtigen Papiere.

Der österreichische Dichter Peter Handke nennt diese Enklaven den „Elendstrichter Europas“. Den noch hier lebenden Menschen – „beschützt und bewacht von jenen Staaten, den westeuropäischen, die ihnen mit Bombengewalt den eigenen Staat = Jugoslawien geraubt, geraubschatzt haben“ (Handke) – hat er die 50.000 Euro zugedacht, mit denen der ihm verliehene Berliner Heinrich-Heine-Preis dotiert ist. An diesem Ostersonntag reicht er das Preisgeld weiter an den Bürgermeister des Ortes, Dejan Baljoševic. Der Ortsname Velika Hoća bedeutet: viele Väter. Handke wünscht dem Dorf viele Kinder. Zukunft.

Eigentlich sollte Handke im vergangenen Jahr den Düsseldorfer Heinrich-Heine-Preis erhalten. Eine unabhängige Jury von Literaturkennern hatte ihm diese Auszeichnung in Heines Geburtsstadt zuerkannt. Aber gleich nach der Entscheidung erhob sich Geschrei bei der Mehrheit der Kommunalpolitiker, bei Christdemokraten, Freidemokraten und vor allem auch bei Sozialdemokraten und Grünen, denn im Winter 1998/99 hatten diese beiden Parteien die Bundesregierung gebildet, und ihr Kanzler Gerhard Schröder war noch nicht vereidigt worden, als er dem damaligen US-Präsidenten Clinton schon zusagte, Deutschland werde sich am Bombenkrieg gegen Jugoslawien beteiligen. Daß dies ein Verbrechen war, wollen sie bis heute nicht eingestehen, sondern halten sich an den Lügen und Greuelmärchen fest, die damals von den Kriegspropagandisten in Bonn und Brüssel ersonnen wurden.

Handke, der den Krieg in Jugoslawien unmittelbar miterlebte, das Land schon vorher gut kannte und auch seitdem immer wieder besuchte, worüber er in mehreren Büchern anschaulich berichtet hat, wurde in Düsseldorf als „Serbenfreund“ diffamiert, vor allem weil er es gewagt hatte, den früheren serbischen und jugoslawischen Präsidenten Slobodan Milosević in der Haftanstalt in Den Haag zu besuchen und später sogar einige Abschiedsworte an dessen Grab zu sprechen. Er forderte „Gerechtigkeit für Serbien“ und machte sich damit verhaßt. Nicht nur in Deutschland. Auch in Frankreich, wo er meistens lebt. Die Comédie Française setzte ein Handke-Stück vom Spielplan ab.

Das Gezeter der Düsseldorfer Kommunalpolitiker, verstärkt durch Tiraden in den Medien, machte es Handke unmöglich, den dortigen Preis anzunehmen. Daraufhin ersannen Autoren der Berliner Zeitschrift „Ossietzky“, Künstler und Wissenschaftler spontan den Berliner Heinrich-Heine-Preis und sammelten bei mehr als 500 Spendern das stattliche Preisgeld von 50.000 Euro, wobei von vorn herein klar war, daß Peter Handke das Geld nicht für sich behalten, sondern an die Menschen im „Elendstrichter“ weitergeben wollte – was nun an diesem Ostersonntag geschieht. Überschwenglich dankt ihm der Bürgermeister von Velika Hoca: daß es in Europa doch Menschen gebe, die sich der Serben im Kosovo erbarmen.


„Teile und herrsche“ war die Devise der Sieger im Jugoslawien-Krieg

Bei den Serben im Kosovo – Teil IV

Von Eckart Spoo


 Die größte serbische Enklave im Kosovo ist der Nordteil der Stadt Kosovska Mitrovica. Unter den rund 25.000 verbliebenen Serben leben hier auch 3.000 bis 4.000 Albaner. Südlich des Flusses Ibar wohnen nur Albaner, keine Serben. Nur wenige Serben wagen es, den Fluß zu überqueren. Sie haben Angst. Sie leiden unter der Isolierung, der Enge und Perspektivlosigkeit. Es gibt keine Arbeit.

Seit dem Krieg rosten die Werkshallen und Maschinen der Trepca-Werke, die seit dem 19. Jahrhundert der größte Arbeitgeber weit und breit waren. In den Bergen des nördlichen Kosovo lagern wertvolle Erze, ein großer Reichtum. Die Trepca-Werke waren Eigentum des serbischen Staates, sind es noch. Wem sollen sie künftig gehören? Politiker fremder Länder beraten darüber. Die United Nations Mission in Kosovo (UNMIK) zahlt den unbeschäftigten Angestellten monatlich 30 Euro. In einem Zweigwerk im Norden der Stadt können immerhin 1.000 Menschen noch arbeiten. Ihr Monatslohn beträgt zwischen 80 und 130 Euro. Für das Bildungs- und das Gesundheitswesen kommt Serbien.
 
Wir besuchen ein Flüchtlingsheim in einem alten Schulgebäude. Klassenräume wurden mit Bretterwänden geteilt, so daß 40 Familien oder Einzelhaushalte in 40 Zimmern unterkamen. Die UNMIK liefert für jeden Haushalt jährlich zwei Kubikmeter Holz zum Heizen. Das Holz lagert auf den Fluren. Wasser gibt es nur am Ende eines Flurs im Erdgeschoß; eine japanische Hilfsorganisation hat vier Boiler geschenkt, eine große Hilfe.
Die fünfköpfige Familie Amusi ist seit 1999 in dem Heim untergebracht. Mutter Sevdiga und ihre Kinder leben von 50 Euro Witwenrente. Ihr Heimatort Vuctren liegt nicht weit entfernt, aber für sie unerreichbar. Ilinka Petkovic (39) war mit ihrem Mann und zwei Söhnen nach Deutschland geflüchtet. Vor drei Jahren wurde die Familie von den deutschen Behörden abgeschoben – unerwünscht.
 
Gibt es wirklich keine Perspektiven? Wenn nach dem Ahtisaari-Plan die ganze serbische Provinz Kosovo für unabhängig erklärt wird, „bleibt uns hier nichts mehr“, meint Dubravka G. eine gebildete Frau, die uns als Übersetzerin hilft. „Man möchte doch in Ruhe leben, nachts in Ruhe schlafen können“, sagt sie. Andere können sich vorstellen, daß der Norden des Kosovo abgetrennt wird und bei Serbien bleibt – „möglichst mit einer hohen Mauer nach Süden geschützt“.

Blazo Milosawljevic, führender serbischer Gewerkschafter im Kosovo, kennt viele Albaner und hält Kontakt mit ihnen. Er argumentiert: „Die Trepca-Minen und die Trepca-Werke können nur in Betrieb genommen werden, wenn Serben und Albaner sich darüber verständigen. Man soll endlich uns selber darüber verhandeln lassen, statt aus der Ferne über uns entscheiden zu wollen. Auch die Albaner sind größtenteils arbeitslos. Auch ihre Perspektive ist düster, wenn wir nur immer weiter auseinanderdividiert werden.“ Ähnlich hören wir es von anderen: Die Invasoren sollen sich heraushalten. Unter den einfachen Menschen sei zwar viel Angst verbreitet, aber die Scharfmacher und Terroristen seien in der Minderheit, und jedem nachdenklichen Menschen sei klar: „Eine Zukunft gibt es nur im Miteinander.“
 
Heimweh nach Jugoslawien wird selten eingestanden, ist aber weit verbreitet. Wie reich, wie zukunftsträchtig könnte der Balkan sein, wenn er nicht immer weiter zerstückelt würde.

Die Sieger des Krieges gegen Jugoslawien folgen der alten imperialistischen Devise, nach der sich einst schon die Römer gerichtet haben: divide et impera, teile und herrsche. Aber den Menschen auf dem Balkan, welcher ethnischen oder religiösen Gruppe sie auch angehören, nützt das nicht, es schadet ihnen nur. Einst unter Präsident Tito haben sie friedlich zusammengelebt, und in einer Großstadt wie Belgrad gelingt das auch heute. An die hunderttausend Albaner wohnen in Belgrad, das sind etwa ebenso viele wie die verbliebenen Serben im Kosovo. Wieso ist an der einen Stelle ein friedliches Zusammenleben möglich, an der anderen nicht?

Nicht jede ethnische oder religiöse, mehr oder weniger hell- oder dunkelhäutige Gruppe braucht unbedingt ihren eigenen Staat. Man muß nicht alle Menschen umsiedeln, bis sie nur unter ihresgleichen leben. Und man muß die nun entstandenen Kleinstaaten auf dem Balkan nicht in immer noch kleinere Stücke zerhauen. Nur 600.000 Einwohner hat Montenegro. Soll die serbische Minderheit in diesem Staat etwa auch einen separaten Staat für sich fordern und dafür kämpfen? Je kleiner die Staaten, desto schwächer sind sie, wirtschaftlich und politisch. Und umso abhängiger von den Großmächten.

Die USA strebten schon lange nach einem großen Stützpunkt im Zentrum des Balkans. Jugoslawien, das keinem Block angehörte und auf seine Blockfreiheit stolz war, hätte den USA niemals erlaubt, auf jugoslawischem Boden Militär zu stationieren. Doch gleich nach dem NATO-Bombenkrieg gegen Jugoslawien, nach der Besetzung des Kosovo, errichteten die USA dort ihren Stützpunkt Bondsteel. Eine riesige Machtbasis, wie für die Ewigkeit gebaut.


Erinnerungen an den Bombenkrieg der NATO gegen Serbien

Bei den Serben im Kosovo - Teil V

Von Eckart Spoo


Frieden und Wohlstand in Kosovo, auf dem ganzen Balkan wie überall auf der Welt hängen davon ab, daß die Menschen sich nicht nach Aussehen, Sprache, Religion, nationaler oder sozialer Herkunft auseinanderdividieren lassen, daß sie sich nicht gegeneinanderhetzen lassen, sondern ihre gemeinsamen Interessen wahrnehmen.

Die Jugoslawen hatten unter Tito und auch unter Milosevic Beachtliches zur Verständigung geleistet. Ein Symbol war der Radio- und Fernsehsender in Novi Sad, der Programme in etlichen Sprachen ausstrahlte und für sein Verständigungswerk mit einem europäischen Friedenspreis ausgezeichnet wurde. Im Bombenkrieg der NATO gegen Serbien wurde er total zerstört. Ein Bruch des Völkerrechts. Rolf Becker und ich waren damals mit einer Gruppe gewerkschaftlich organisierter Kriegsgegner in dem überfallenen Land. Was wir in jenem Mai 1999 erlebten und erfuhren, widersprach allem, was deutsche, holländische, französische, britische oder US-amerikanische Zeitungen berichteten. Bis auf minimale Ausnahmen verbreiteten die westeuropäischen und nordamerikanischen Medien nur das, was die NATO in Brüssel und die Regierungen der Mitgliedstaaten verlautbarten, und das war mehr oder weniger frei erfunden. Völlig falsch war zum Beispiel die immer wieder verbreitete Propaganda-Behauptung, zivile Ziele würden nicht bombardiert; würden dennoch einzelne getroffen, dann seien das bedauerliche „Kollateralschäden“. In Wahrheit wurden beispielsweise fast alle industriellen Arbeitsplätze in Rest-Jugoslawien zerstört, auch Chemie-Kombinate, Kraftwerke, Brücken, Schulen, Wohnviertel.

Damals trafen wir in Belgrad den Korrespondenten der Arbeitsgemeinschaft der Rundfunkanstalten Deutschlands (ARD), Klaus Below. Man hätte annehmen können, daß er während des Krieges täglich auf den deutschen Fernseh-Bildschirmen zu sehen wäre. Aber von ihm war wenig zu hören und zu sehen. Denn alles, was er zu berichten wußte, widersprach der NATO-Propaganda. Wir trafen ihn voller Bitterkeit und Wut über pervertierte deutsche Medien.

Das serbische Fernsehen (RTS) zeigte das Ausmaß der Zerstörungen. Es hätte als Informationsquelle genutzt werden können. Aber das deutsche Außenministerium intervenierte bei der Zentrale des europäischen Satellitenfernsehens in London und erreichte, daß das RTS-Signal abgestellt wurde.

Bombardiert wurde damals auch die Zentrale des RTS mitten in Belgrad. 16 Menschen wurden getötet, 130 verletzt. Ein schweres Kriegsverbrechen. Die NATO hätte dafür zur Verantwortung gezogen werden müssen. Aber die Sieger des einseitigen Bombenkriegs schoben die Schuld den Besiegten zu. Sie verlangten, daß RTS-Direktor Dragoljub Milanovic vor Gericht gestellt und verurteilt wurde. Begründung: Er hätte damals, als die Bomben fielen, den Sendebetrieb einstellen, die Beschäftigten nach Hause schicken sollen. Die gewendete serbische Justiz folgte diesem Verlangen – ähnlich wie die Sieger und ein von ihnen initiiertes Sondertribunal in Den Haag die Auslieferung des jugoslawischen Präsidenten Milosevic erreichten. Milosevic starb in der Haft an einer vom Gefängnisarzt falsch behandelten Herzkrankheit; in dem nicht beendeten Prozeß war es der Anklage nicht gelungen, ihm eine einzige Straftat nachzuweisen.

RTS-Direktor Milanovic wurde zu zehn Jahren Haft verurteilt – ein schändliches Urteil.
Wir treffen in Belgrad auf der Rückreise aus dem Kosovo Milanovics Frau Ljiljana. Sie war Redakteurin des RTS, wurde nach der Verhaftung ihres Mannes entlassen. Kürzlich hat sie ein Buch fertiggestellt, in dem der Fall dokumentiert ist. In den Belgrader Buchhandlungen liegt es nicht aus. Der Fall ist peinlich, man spricht nicht darüber – über diese Demütigung des von NATO-Bomben besiegten serbischen Volkes. Doch! Etliche namhafte serbische Kulturschaffende unterschrieben im vergangenen Jahr eine Petition für Dragoljub Milanovic. Aber Ministerpräsident Kostunica weigerte sich, die Delegation zu empfangen, die ihm die Petition überbringen wollte – so berichtet uns Ljiljana Milanovic, die jetzt noch fünf Jahre warten muß, bis ihr Mann aus der Haft entlassen wird.

„Gerechtigkeit für Serbien!“ forderte schon 1996 der österreichische Dichter Peter Handke. Mit mehreren Büchern versuchte er, seinen Lesern in Westeuropa die Wahrheit über dieses schöne Land, dieses leidende Volk nahezubringen, und er wurde daraufhin selber in westeuropäischen Medien beschimpft und verspottet. Jetzt bangt er um die Provinz Kosovo, die nach dem Willen Deutschlands und anderer NATO-Mächte von Serbien abgespalten werden soll. In diesen „Elendstrichter Europas“, wie er sagte, gab er das Preisgeld des ihm verliehenen Berliner Heinrich-Heine-Preises und verband mit dieser großzügigen Geste die Hoffnung, „ein nicht nur episodisches Aufmerksamwerden“ zu bewirken. Aber er weiß, wie schwierig das ist in unserer Medienwelt. Voriges Jahr bei Slobodan Milosevics Beerdigung in dem serbischen Städtchen Pozarevac sagte er: „Die Welt, die vermeintliche Welt, weiß alles über Slobodan Milosevic. Die vermeintliche Welt kennt die Wahrheit. Eben deshalb ist die vermeintliche Welt heute nicht anwesend, und nicht nur heute und hier. Ich kenne die Wahrheit auch nicht. Aber ich schaue. Ich begreife. Ich empfinde. Ich erinnere mich. Ich frage. Eben deshalb bin ich heute hier zugegen.“ Eben deshalb waren einige Kollegen und ich Ostern mit Peter Handke im Kosovo.




Invito con preghiera di far girare il comunicato. Grazie.

 

MARTEDÌ 12 GIUGNO
ORE 18.30
ALLA CASA DEL POPOLO DI SOTTOLONGERA
VIA MASACCIO 24
(CAPOLINEA AUTOBUS 35/)

 

PROIEZIONE DEL FILM “TRST” 
SULL’INSURREZIONE DI TRIESTE

 

Si tratta di un film (oggi difficilmente reperibile) girato nel 1950 sulla base di una sceneggiatura stesa dal famoso scrittore France Bevk, una sorta di “fiction” che, parlando di fatti e personaggi realmente esistiti, dà una visione inedita di alcuni aspetti della lotta di liberazione dal nazifascismo a Trieste .
In uno stile scarno e privo di retorica vengono presentati partigiani, nazisti, poliziotti e spie che si muovevano nella Trieste di fine guerra.
Nel corso del film possiamo vedere anche interessanti scorci di una Trieste che non esiste più, oggi invasa dalla cementificazione.
Quando uscì, questo film fu contestato in Jugoslavia: ma di questo parleremo nel corso del dibattito seguente alla proiezione.
Sarà presente lo storico professor Samo Pahor.

 

La proiezione è organizzata dal Circolo Primo Maggio di Rifondazione Comunista in collaborazione con la redazione del periodico La Nuova Alabarda di Trieste.

 

per la Redazione il Direttore
Claudia Cernigoi

per contatti: nuovaalabarda @ yahoo . it