Informazione


(sul Manifesto-Appello per il Kosmet e sulla conferenza stampa di cui si parla qui si veda: 




 Guido Ricci,  31 maggio 2007


Iniziative     

Una conferenza organizzata dal senatore del Prc Fosco Giannini per non dimenticare la martoriata terra jugoslava. Hanno partecipato anche Franca Rame, Lidia Menapace, Haidi Giuliani, Falco Accame, Don Gallo e il presidente del Forum Belgrado 



Sebbene non se ne parli quasi mai, nonostante quei luoghi passino raramente sulla bocca della classe dirigente italiana, con le regioni dell'ex-Jugoslavia l'Italia mantiene un legame saldissimo. Se non altro dal punto di vista militare: su 24 missioni e 7516 uomini impegnati nelle missioni all'estero, nei Balcani il nostro paese ne vede operare 2255, un impegno che risulta secondo solo a quello sul territorio libanese, dove i militari italiani sono solo 200 in più.
Una regione, quindi, in cui il nostro ministero della Difesa ha investito molte energie per difendere, evidentemente, altrettanti interessi. D'altronde come ha dichiarato il viceministro alle Attività produttive con delega al commercio estero, Adolfo Urso, "sono circa 30.000 le imprese italiane registrate nei Balcani. Una cifra che fa dell'Italia il primo paese per presenza numerica nei Balcani". Eppure queste cifre non dovrebbero generare stupore. Cos'altro ci saremmo dovuti aspettare, dato l'impegno con il quale l'Italia si è prodigata nella vergognosa "guerra umanitaria" (termine coniato ad hoc dal governo di centro-sinistra) 8 anni fa?
Eppure in questi 18 anni che ci separano dai bombardamenti con cui la Nato ha devastato qualsiasi speranza di pace nei Balcani, molte pentole si sono scoperchiate, rivelando l'orrenda mistura generata da quell'aggressione: lo scandalo della missione Arcobaleno, la tragedia dell'uranio impoverito (con il quale l'occidente ha contaminato non solo i soldati, ma intere generazioni balcaniche), il golpe di Belgrado dell'ottobre 2000, il riconoscimento da parte della Commissione Onu della montatura attorno alla falsa strage di Racak. Tutto senza l'onore dei riflettori, tutto semi ignorato dalla grande informazione, interessatasi, solo per poco, unicamente alla morte-evento di Milosevich.
Ma cosa rimane in Kosovo? In estrema sintesi: 300.000 serbi, rom e albanesi non irredentisti cacciati dalle loro terre; 3.000 desaparecidos (1.300 dei quali dati per morti); un regime di vero e proprio apartheid con le minoranze costrette a vivere in enclavi circondate dal filo spinato; un intero patrimonio culturale distrutto e dato alle fiamme; testimoni scomodi eliminati. E' questo il Kosovo dell'Uçk, quel Kosovo che il "mediatore" Ahtisaari vorrebbe indipendente (con tanto di Costituzione e bandiera), stracciando la stessa risoluzione Onu 1.244 con la quale si era posto fine ai bombardamenti e rendendo così concreta la nascita dell'ennesimo narco-stato nella regione, passaggio obbligato per armi, droga, esseri ed organi umani come nuove e orrende fonti di lucro.
Ma il Kosovo non è solo un problema serbo: è un problema europeo perché la tentazione di una soluzione superficiale della questione, pronunciandosi frettolosamente a favore dell'indipendenza, rischia di rappresentare un pericoloso precedente, una nuova ingerenza ingiustificata che rischierebbe di gettare nel caos altri scenari in cui la richiesta di indipendenza ha una storia anche più lunga e meno contraddittoria di quella della regione kosovara.
Ma è anche un problema italiano, e non solo per i motivi di cui dicevamo prima. E' un problema italiano perché se venisse proclamata l'indipendenza in quei territori si ricomincerebbe a sparare ed i nostri soldati sarebbero lì a partecipare nuovamente ad un conflitto. Da che parte spareranno questa volta? Dalla parte dei ribelli serbi, a cui a quel punto ogni speranza verrebbe strappata, o dalla parte dell' Uçk, pronto a massacrare nuovamente tutte le minoranze che vivono in questa sfortunata zona dei Balcani?
E' necessario che l'occidente rialzi lo sguardo verso i Balcani, è vitale per la costruzione della pace non trascurare quel territorio ancora così a rischio, non riporlo in un angolo della nostra coscienza per riconsiderarlo unicamente quando il sangue riprenderà a scorrere. Questo è stato il fine principale della conferenza stampa organizzata oggi (31/05 ndr.) dal senatore del Prc Fosco Giannini. Come egli stesso ha dichiarato "Vogliamo farci strumento, cassa di risonanza di un popolo che chiede verità e giustizia.". Una conferenza importante, grazie alla quale abbiamo potuto raccogliere le importanti testimonianze di Franca Rame, che ha descritto le torture e le violenze cui sono state sottoposte le donne serbe, prime e principali vittime del conflitto. Abbiamo avuto la straordinaria occasione di ascoltare il Presidente del Forum Belgrado, che ci ha descritto la realtà tremenda in cui sono costretti a vivere i profughi serbi e le violenze cui sono sottoposti quelli del Kosovo Metohija, illuminandoci, al contempo, sulle plateali violazioni della risoluzione 1244 dell'Onu. Abbiamo avuto anche la fortuna di prestare attenzione alle importanti riflessioni di Don Gallo e Lidia Menapace sulla assurdità e la barbarie dei conflitti. Ed a loro si sono affiancati altri importanti interventi come quello di Haidi Giuliani e di Falco Accame. L'intento è chiaro e lo riassume bene Giannini: "Amplificando tutte queste voci abbiamo tentato di ripuntare i riflettori sul Kosovo, di rilanciare un percorso di discussione che siamo sicuri continuerà in tutta Italia anche grazie all'appello lanciato dal Forum Belgrado e che grazie all'impegno portavoce italiano Enrico Vigna sta raccogliendo numerose e qualificate adesioni. E' fondamentale che in tutte le sedi politiche, sociali, istituzionali si riapra il ‘caso Kosovo' anche rimettendo in discussione la natura della missione militare italiana in quelle terre".

 


Commenti

#1 · Ras-Putin

31 maggio 2007, 20:35
Finalmente un po di luce nel tunnel delle menzogne che hanno accompagnato sistematicamente le tragedie della ex Yugoslavia. E badate bene, quello che leggete e’ solo una “piccola lampadina” in un un ambiente enorme. Ci sara’ ancora tanto da “rischiarare”, se ci sara’ la volonta’ di andare fino in fondo...

#2 · Max

1 giugno 2007, 10:00
Intanto per capire il perche’ del Kosovo bisogna conoscere il “babau” e cioe’ il defunto Presidente Milosevic e le circostanze della sua morte. E’ appena uscito un libro di John Laughlands sull’argomento:ecco alcune recensioni:http://www.morningstaronline.co.uk/index2.php/free/culture/books/the_law_in_their_own_hands e amcora http://www.spectrezine.org/reviews/precious6.htm

#3 · MR

1 giugno 2007, 14:19
E vergognoso con quanta parzialità sia scritto questo articolo. Vergognoso e ridicolo. Studiate la storia!

#4 · quirino

1 giugno 2007, 17:20
ho avuto l’opportunità di guardare un documentario ‘i dannati del kossovo’ e ne sono rimasto impressionato. Perchè nessuno racconta ciò che sta succedendo in quella terra? giustifico quanto ha scritto MR, in quanto spero che come me, egli sia rimasto vittima del silenzio dei media in questi anni: solo un nazista potrebbe giustificare tanto razzismo e tanta atroce violenza.

#5 · Max

1 giugno 2007, 19:43
Temo che sara’ difficile che gli occhi si rialzino sul Kosovo di oggi, in quanto la vergogna del fallimento della nostra politica estera e’ tale che ci vorrebbe un coraggio da leoni per rimettere in discussione la storia a “lieto fine” che ci hanno propinato fino ad oggi.Non occorre andare in Cecenia per difendere i diritti umani, basterebbe fare un centinaio di km da qui per scoprire un “buco nero” senza fondo sui diritti calpestati dell’uomo. Direi che e’ proprio in Kosovo ed ancora prima nella ex Yugoslavia che la sinistra italiana ed europea ha ammainato la bandiera bianca della resa al necolonialismo occidentale a guida USA.



From:   r_rozoff
Subject: Kosovo, Serbia: West's Selective Attack On International Law
Date: June 2, 2007 3:51:57 PM GMT+02:00


http://en.fondsk.ru/article.php?id=767

Strategic Cultural Foundation
June 2, 2007

Another Exam for Russia at the Balkans
Pyotr Iskenderov

Trying to be as dexterous as possible about granting
sovereignty to its restless trustees, Kosovo’s
Albanian extremists, the West shows its unique
foxiness, masquerading its true head-notes and
juggling with arguments.

Should the U.S. and the EU be as resourceful when it
comes to other international crises, the problems of
North Cyprus, Kashmir, of the Kurds, Palestinians, and
who knows what else would be long solved.

“The status quo cannot last longer,” said Herve
Morand, the newly appointed French foreign Minister on
May 28.

And nothing loath, he based his statement on the
bloody anti-Serbian pogroms in Kosovo in March of
2004.

According to him, those events were an indication of
the need to consolidate the province’s status as soon
as possible.

Mind you, he only spoke about granting sovereignty to
Kosovo, never mentioning the possibility of punishment
of those to blame, nor disarmament of the Albanian
militants, nor granting to Serbs real guarantees of
their security, and this is exactly what the draft of
the French resolution tabled at the UN Security
Council is all about.

UN General Secretary Ban Ki-moon who has not yet been
sitting in his chair for a mere 6 months is also
rushing the Security Council to come up with a
resolution on Kosovo.

“I hope that the Security Council will approve the
resolution without delay and I am trying to make it
hurry. I personally asked the leaders of a certain
number of nations represented in the Security Council
to support the move,” South Korea’s ex-foreign
minister said several days ago, unfortunately not
offering any explanation why he was not as eager to
call for the UN Security Council to hurry up putting
out the centres of tensions in all the remaining
“hotbeds”.

The main reason behind such haste is that unlike its
views of other regions, the west’s sympathies and
antipathies in regards of Kosovo are as clear as can
be, based on the far-stretching financial and
geopolitical calculations in view of which the
problems of peace-making and fundamental norms of
international law lose their significance.

Placed on the scale of the balance are active leaders
of the Albanian underworld who control prostitution,
slave sales and drug traffic at both the Balkans and
in many countries of the European Union. The
influential pro-Albanian lobby in Europe and the
United States ensures their political security.

Suffice it to recollect the former CIA chief, George
Tenet.

NATO treats the Albanian separatists in Kosovo
especially tenderly.

None other than the “Kosovo Liberation Army” (KLA)
terrorists staged an alleged mass firing of peaceful
Albanians in the village of Racak in Kosovo, giving
the West the longed-for pretext for the disruption of
the peaceful negotiations at Rambouille and the
go-ahead for the start of bombing Yugoslavia.

In the course of this bombing the KLA and NATO
headquarters maintained close contacts, jointly
directing missile and bomb attacks and preparing a
land operation.

The other sclae of the balance has the Serbs.

The West has for 15 years viewed them as the evil for
all on the Balkans and it has not even once tried to
pretend to be objective over any of the conflicts
involving Serbs.

Even in 2000 when local Albanian extremists staged an
armed riot that was backed by the KLA militants,
Western politicians, diplomats and the military
cracked down indignantly on Belgrade, accusing it of
an alleged refusal to settle the issue with Albanians
in provinces Presevo, Medvedji and Buyanovca.

As for the 5-kilometre NATO-established demilitarized
zone, it separated Kosovo from Serbia from the
territory of the latter. The Yugoslav army and police
were not allowed to enter the zone, whereas Albanian
militants continued to cross the border to Kosovo
uninhibited.

So it was not expected by anyone that the U.S., EU and
NATO would seriously take into account Belgrade’s
interests in Kosovo.

But even given that, what happened in reality was
beyond the worst premonitions.

At present the West is completely prepared to ignore
Serbia that still regards Kosovo as its integral part
according to the UN SC resolution 1244 of June 10,
1999.

Can there be any other interpretation of the statement
made by Condoleezza Rice during her recent visit to
Moscow?

Speaking about the U.S. stance on Serbia she said that
the country should be integrated into Europe, so the
U.S. supports the “Partnership for Peace” initiative
Serbia adopted within the framework of cooperation
with NATO.

“We believe that Serbia and Kosovo should leave the
past behind and start moving on into future,” she
said, also making it clear that she thought highly of
cooperation between Russia’s and the U.S. ambassadors
to the United Nations, Vitaly Churkin and Zalmai
Khalilzad, the man who, before taking the current job,
acted as the political mouthpiece in favour of the
U.S. aggression against Iraq in his then position as
the American Ambassador to Baghdad.

No one but Khalilzad authored the phrase:
”the long-term future of Kosovo and Serbia is their
integration in the EU, but to get there Kosovo needs
'internationally supervised sovereignty'”.

As for the Martti Ahtisaari plan, according to Ms.
Rice the United States is doing what it can to make
Russians realise that there exist clear-cut serious
guarantees for the Serbian minority.

Here you are! So this is the biggest snag of Kosovo’s
problem!

It only takes persuading Russia that the plan to grant
sovereignty to Kosovo “clearly and seriously”
guarantees the rights of Kosovo Serbs.

But the U.S. State Secretary keeps silent about the
fact that this document bluntly violates the
international legal status of the Serbian state.

She needs to promise that Kosovo’s Serbs will be taken
care of only for the vindication of the desecration of
the rights of Serbia itself.

By way of translation of such a train of thought into
the plane of American realities we would conclude the
following: should Texans of the Mexican descent fail
settling some dispute with the progeny of local
cowboys, such a problem should be tackled exclusively
within the borders of this state, exclusive of
interference by the federal authorities, Congress and
the White House.

But what about the European Union, to which Washington
is now selling a new sovereign state of drug dealers
and traders in “human commodities”?

Brussels has its own “Kosovo religion”, or the
“Three-No” rule.

Here’s what Hernot Erler, a German minister, whose
country is the 2007 EU and Big-8 Chairman, said: “At
the outset of negotiation over Kosovo the Contact
group succeeded in reaching a consensus on the
principles of solving the problem on the basis of the
“Three-No” principle:

“No” Kosovo division; “no” annexing by other states,
and “no” return of its status before 1999 when Kosovo
was a part of Serbia.”

Based on this, the EU rendered full support to “the
Ahtisaari plan”, which, as Russian diplomats in
private conversations with the author of these lines
acknowledged, was in reality prepared in Brussels.

What can be said about this?

Until 1999 province of Kosovo was a part of Serbia as
an autonomy along the same lines as Voevodina.

So, the decision taken by the Contact Group only
signifies that it reconsidered that status, which is
not tantamount to granting Kosovo its sovereignty.

Moreover, the preamble to UNSC Resolution 1244
confirms the commitment of the members states to the
sovereignty and territorial integrity of the Union
Republic of Yugoslavia and other states in the region


(Message over 64 KB, truncated)


http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/7661/1/51/


Un archeologo per la pace

01.06.2007    scrive Nicole Corritore



Fabio Maniscalco, nonostante la grave malattia probabilmente dovuta all’esposizione all’uranio impoverito, è un infaticabile ricercatore. Nei Balcani ha svolto ricerche sui beni culturali nelle aree di crisi. Un impegno che potrebbe valergli la candidatura al Nobel per la pace. Nostra intervista


In questi giorni è apparso più volte sulla stampa l'appello a sostegno della sua candidatura al Premio Nobel per la Pace 2008. Cosa ha spinto vari studiosi a sostenere la sua candidatura? 


I motivi vanno ricercati nelle lettere che vari politici e studiosi hanno inviato al comitato norvegese che assegna il Nobel per la Pace e che comunque sottolineano l'attività di ricerca che svolgo da più di un decennio a favore della salvaguardia del patrimonio culturale nelle aree di guerra. Sono stati tutti molto affettuosi. Ovviamente, non credo di meritare un premio Nobel per la pace, ma non nascondo che mi ha fatto estremamente piacere sapere che oltre 150, tra politici e illustri studiosi da tutto il mondo si sono mobilitati per me. 


A proposito di questa sua attività. Lei ha operato anche in paesi dell'area dei Balcani e rispetto a questo Lei rivolse diversi appelli finalizzati alla tutela della pace attraverso la salvaguardia della memoria storica, della salvaguardia dei beni culturali, in zone di crisi. Ci può raccontare in breve quando e come ha operato in queste aree? 


Abbiamo visto come, negli ultimi conflitti soprattutto, la memoria storica e anche il patrimonio culturale delle diverse identità divengono obiettivi strategici per annichilire il nemico e per eliminarlo da quel territorio in una sorta di “damnatio memoriae”. È evidente, dunque, che la comunità politica internazionale e, di conseguenza, i contingenti multinazionali di peace-keeping, dovrebbero considerare prioritaria la salvaguardia dell'identità culturale delle diverse nazioni in guerra. 

Per quanto riguarda i Balcani, ho avuto modo di lavorare in Bosnia a partire dall'inizio del 1996 fino al 1997. Ero ufficiale addetto stampa dell'esercito italiano, in realtà ufficiale in ferma breve. Quindi chiesi proprio per non perdere tempo inutile in una caserma italiana, di essere inviato in Bosnia per monitorare la situazione del patrimonio culturale. Sarebbe stata la prima volta che un militare faceva una cosa del genere durante un conflitto e nell'immediato dopoguerra. 


Era un interesse che aveva sviluppato anche prima di partire? 


Sono laureato in lettere antiche e mi sono specializzato in archeologia subacquea ad Aix en Provence. Subito dopo la laurea ho indirizzato i miei interessi anche alla salvaguardia del patrimonio culturale. Inizialmente ho collaborato per un certo periodo con la Procura della Repubblica di Napoli, con la Criminalpol, per un lungo periodo ho collaborato con il Generale Roberto Conforti, comandante del Reparto Tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri. Grazie ad una mia ricerca, pubblicata nel 2000, la banca dati del Comando Carabinieri si è arricchita di circa il 50% dei dati, relativamente ai furti d'arte verificatisi a Napoli dal dopoguerra agli anni 2000. Questa era la mia attività in Italia. 

In Bosnia Erzegovina, poiché non c'era libera uscita (per il rischio di cecchini, di mine, di ordigni inesplosi), durante la prima missione IFOR non fui autorizzato a fare il monitoraggio. In realtà il Generale Pedone e il Tenente colonnello Scalas avevano capito l'importanza dell’iniziativa, ma nessuno voleva assumersi la responsabilità di autorizzare un ufficiale a svolgere un’attività non contemplata dalle Regole di ingaggio in un’area particolarmente rischiosa (originariamente si prevedeva circa il 10% di perdite/feriti). 

Tuttavia, inoltrarono la mia istanza scritta allo Stato Maggiore dell'esercito, per ottenere un’autorizzazione ad assecondare le mie richieste. Io feci presente che lo Stato Maggiore dell'esercito avrebbe sicuramente risposto in ritardo e forse anche con un no. Quindi da un lato mi fecero firmare una sorta di liberatoria in cui dichiaravo di aver preso visione della risposta negativa al mio “Appunto”, dall'altro mi si disse che nel tempo libero a mio rischio e pericolo, a piedi e/o con mezzi di fortuna, avrei potuto svolgere attività a favore dei beni culturali bosniaci. In questo modo io mi accollavo anche il “rischio” di una denuncia al tribunale militare qualora fossi rimasto ferito o avessi avuto problemi di altro genere durante il monitoraggio. 

Ho sempre saputo di correre dei rischi, al di là della malattia di cui soffro oggi, e anche oggi, che la mia vita com'è noto è appesa ad un filo, sono convinto che la mia morte sarebbe pianta dai familiari, da qualche amico, invece la distruzione dei beni culturali, pensiamo a Roma senza il Colosseo, dovrebbe rimanere nella memoria dell'umanità, per le future generazioni. 


Quale situazione trovò e quale fu il risultato di questo primo lavoro? 


La situazione era estremamente drammatica, trovai una città fantasma nel caso di Sarajevo, la Bosnia intera assolutamente irriconoscibile. È anche indescrivibile il senso di desolazione che si prova nel percorrere delle strade deserte in un momento, almeno all'inizio, in cui erano presenti cecchini. Una situazione surreale. 

Per quanto riguarda il patrimonio culturale una profonda distruzione, molti hanno parlato del ponte di Mostar come simbolo della distruzione del patrimonio dei Balcani, dell'ex Jugoslavia, invece sono convinto che la vera distruzione monumentale, culturale, della Bosnia sia simboleggiata dalla biblioteca nazionale ed universitaria di Sarajevo. Dove tra l'altro ebbi modo di individuare la scomparsa, antecedente alla distruzione del 1992, di buona parte dei volumi antichi e degli incunaboli. La prova sta nel fatto che oltre il 90% dei volumi che si sono salvati dall'incendio sono tutti contemporanei e privi di alcun valore. Quindi questo primo monitoraggio è servito anche per vedere quali potevano essere le modalità per salvaguardare precedentemente il conflitto. La mia attività didattica ed operativa si concentra principalmente nella salvaguardia e non nella tutela dei beni culturali. 

Per preservare i beni culturali in caso di conflitto è necessaria la salvaguardia, consistente in tutte quelle attività necessarie per prevenire o limitare i danni durante la guerra. Quando il conflitto è in corso diviene più difficile, se non impossibile proteggere edifici monumentali, siti archeologici e beni culturali mobili. 


Quale la reazione della popolazione con cui è venuto a contatto nel suo lavoro di monitoraggio? 


In Bosnia creai delle schede di inventariazione per beni culturali mobili e immobili. Ebbi una grossa collaborazione a livello locale (incontrando, nel 1997, il Ministro della Cultura bosniaco, che ebbe parole di elogio per il lavoro svolto), un po' meno da parte del referente UNESCO che era sul campo. Lo contattai per sapere che cosa aveva fatto in modo da darci una mano e non fare le stesse cose. Mi rispose “qui sparano, è pericoloso, in bocca al lupo...”. 

Nella mia ricerca di dati cercavo di avere notizie da tutte le fazioni in lotta, per incrociare le informazioni e cercare di mantenere un'autonomia sotto il profilo del giudizio. Il risultato di questo lavoro fu la realizzazione di un video reportage e di un volume che però la Regione Militare Meridionale e l'esercito fece proprio. Il Generale Vozza, allora Comandante della Regione Militare Meridionale, scrisse la prefazione. Il volume, dal titolo Sarajevo. Itinerari artistici perduti, fu pubblicato con tanto di fotografia dei generali Pedone e Vozza, che presero il merito dell’iniziativa. Ovviamente, poiché il mio scopo era raggiunto, accettai di buon grado che l’Esercito italiano si assumesse il merito dell’attività a favore dei beni culturali bosniaci. 


Il libro, secondo lei, è riuscito a spostare l'attenzione su questo ambito... 


Il Generale Pedone e Vozza ebbero encomi da numerosi Ministri, dal Presidente della Repubblica, etc. I media nazionali ed internazionali ne parlarono, fui ospite del comandante della NATO-Sud Europa a Shape, dove presentai i risultati del monitoraggio a tutti i comandanti degli eserciti e delle difese della NATO. In parte sono riuscito a sensibilizzare quei comandanti nei confronti dei beni culturali. Ovviamente molti sono andati in pensione e non hanno trasmesso quei valori ai successori. 

Grazie al mio lavoro in Bosnia ho potuto in seguito, anche monitorare la situazione del patrimonio culturale in Albania durante la crisi del 1997. In quell’anno ero a Korce, come addetto stampa dell’8° Reggimento bersaglieri. Lì mi recai dopo aver ottenuto la promessa del colonnello Santroni di ottenere 3 mezzi con cui recarmi in giro per verificare le problematiche connesse al patrimonio culturale locale. Ebbi anche un salvacondotto dal comandante del contingente multinazionale, generale Forlani. In Albania mi sono dedicato quasi esclusivamente alla tutela del patrimonio culturale mobile e mi sono infiltrato nel mercato clandestino dell’arte. 

Anche l’attività in Albania ha dato un riscontro positivo. Il volume in cui veniva sintetizzata l’attività svolta, reca le prefazioni dell’allora ministro della Difesa Beniamino Andreatta e del Capo di Stato maggiore dell’Esercito. Inoltre, ebbi modo di contattare i referenti dell’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze di Albania, con cui collaboro ancora oggi. Nel 2006 l’Accademia mi ha nominato professore per chiara fama di salvaguardia dei beni culturali. 


Poco fa accennava alla sua malattia. Pubblicamente è stato detto che si pensa sia correlata alla sua permanenza e alla sua attività svolta nei Balcani... 


Per quanto riguarda la malattia, ho subito recentemente l'asportazione dello stomaco, del duodeno, di parte dell'intestino, di metà pancreas e della cistifellea a causa di una forma rara e anomala di adenocarcinoma del pancreas. Un tumore che, considerando l’assenza di fattori di rischio e la forma estremamente anomala con cui si è manifestato, potrebbe essere messo in relazione con l’esposizione all’uranio impoverito e/o metalli pesanti. Con i miei fratelli, che sono medici, abbiamo avuto modo di verificare anche attraverso specifica letteratura scientifica numerosi casi di adenocarcinoma del pancreas messi in correlazione con l'esposizione a uranio impoverito. 

Prima dell’intervento sono stato ricoverato in day Hospital/Day Surgery in 4 ospedali diversi, dove mi hanno diagnosticato ulcere duodenali recidivanti. Dopo l'intervento chirurgico, sono stato dimesso con una diagnosi di possibile tumore al duodeno; poi, l’esame istologico ha purtroppo dato l'esito inaspettato e inizialmente più temuto. Difatti, l’adenocarcinoma del pancreas è il tumore più devastante: oltre il 90% dei pazienti non sopravvive oltre i 3-5 anni di vita. 


Esiste una commissione parlamentare d'inchiesta sull’uranio impoverito. Come valuta il lavoro d'inchiesta della Commissione e la situazione oggi nel mondo militare? 


Personalmente non posso fare valutazioni rispetto al lavoro della commissione perché non so come hanno lavorato fino ad ora. Posso dire che alcuni dati di partenza erano evidentemente falsati, mi riferisco al lavoro della Commissione Mandelli. Non credo per malafede di chi faceva le indagini, ma effettivamente per una non corretta osservazione dei dati. Per esempio il numero di militari effettivamente impegnato nel corso degli anni in quelle aree, considerando che le brigate operative sono sempre le stesse che si alternano. Io personalmente posso essere stato contato per cinque volte perché sono andato più volte in missione in quelle zone. 

Contemporaneamente ci sono altre problematiche connesse all'operatività: oltre il 60% dei militari impiegati fuori area è utilizzato per attività logistiche e dunque all'interno degli accampamenti. Quindi sottoposti a fattori di rischio relativamente bassi. Mentre chi è realmente operativo rappresenta più o meno un 30-35% del contingente. Volendo fare un'indagine seria, i dati andrebbero rivisti. 

Le faccio un esempio pratico. Io ero addetto stampa e quindi ero continuamente in giro per accompagnare i giornalisti. Ho appreso, appunto, recentemente che alcuni giornalisti hanno avuto anche loro problemi connessi all'uranio impoverito. La domanda è che cosa avviene alle popolazioni locali, che sono le più esposte, negli anni, ai rischi di contaminazione (infiltrazioni nelle falde delle acque, pozzi, inquinamento delle colture, etc.). 

Voglio anche dire che comprendo l'atteggiamento del nostro esercito o di alcuni politici che tendono a non dare la dovuta attenzione a questa problematica. Atteggiamento dovuto in primo luogo al fatto che abbiamo tanti militari impegnati in aree, anche in Libano, dove sono state utilizzate armi all'uranio impoverito, per cui divulgare e far sapere che c'è effettivamente questo rischio, spingerebbe tanti nostri militari, che lo fanno come lavoro temporaneo, a dare le dimissioni. 

Contemporaneamente, ci sono altre problematiche connesse alle popolazioni locali, che sono state bombardate dalla NATO e/o dagli USA. Il riconoscimento causa-effetto tra uranio impoverito/metalli pesanti/tumori aprirebbe sicuramente la strada a dei contenziosi internazionali nei confronti degli USA, della NATO e anche della stessa Italia, con conseguenze che si possono immaginare. Quindi capisco che si continui a negare l'esistenza di questa causa-effetto. 


Lei possiede dei dati che accertano che la sua malattia è correlata alla presenza di nano-particelle di metalli pesanti? 


Sulla prima pagina della mia scheda clinica c'è scritto, oltre ai dati anagrafici, l'anamnesi che cita “presunta malattia contratta a causa di esposizione a uranio impoverito” . Personalmente ho autorizzato sia il policlinico di Verona dove sono in cura, sia l'Osservatorio Militare a studiare, a pubblicare e divulgare i miei dati. Perché spero che quello che è accaduto a me non accada ad altri. 

Nel mio caso intervenendo prima avrei subito soltanto l'asportazione della testa del pancreas e non avrei avuto infiltrazioni, metastasi, nei linfonodi. Voglio che il mio caso venga reso noto, perché magari informando correttamente i medici ed i pazienti, altri non corrano il rischio di perdere organi vitali e la vita stessa, a causa di diagnosi errate. Ci tengo tuttavia a precisare che la diagnosi tardiva non è colpa dei medici, ma dipende dall’anomalia della mia malattia. 


Nonostante la malattia lei non si è arreso e oggi dirige la prima rivista scientifica multidisciplinare on line dedicata alla tutela e valorizzazione dei beni culturali - il “Web Journal on Cultural Patrimony” ( http://www.webjournal.unior.it/ ), di cui è fondatore. Quali sono i suoi progetti futuri? 


Questa rivista scientifica on line è nata nel giugno 2006 ma nasce da un'esperienza pregressa, una collana monografica giunta al sesto numero, “Mediterraneum, tutela e valorizzazione dei beni culturali e ambientali”. Nata nel 2002 ma in cartaceo e con una larga divulgazione soprattutto accademica, ma non quanto può permettere internet. Ecco perché ho creato il WJCP, semestrale e gratuito, che permette agli studiosi di paesi meno abbienti, che non hanno la possibilità di divulgare le proprie ricerche la possibilità di farle conoscere e di essere in contatto con studiosi di altre nazioni. Al momento mi accingo a preparare il terzo numero che uscirà a breve e contemporaneamente ho accettato un contratto di direzione di corsi di formazione a distanza per la Palestina. 

Contemporaneamente sto lavorando ad un nuovo progetto in Albania. E' già stato istituito presso l'Accademia delle Scienze di Albania un centro di archeologia subacquea e come sapete l'Accademia funge da ministero per i beni culturali. Però non hanno materialmente le strutture, le attrezzature per far partire il centro, quindi sto per far partire un progetto a costo zero. Inviterò il ministero degli Interni, il ministero dei Beni Culturali e della Difesa a donare attrezzature dismesse. Le revisioniamo e le doniamo al centro di archeologia subacquea. Sempre a costo zero... io ho paura a maneggiare i soldi, gli stessi 6.000 dollari che mi darà l'UNESCO per il corso di formazione palestinese li investirò in un progetto di monitoraggio dei beni culturali lungo il muro israeliano. Dopodiché... spero di star bene, perché il direttore del centro di archeologia, Adrian Anastasi, mi ha invitato a collaborare ad alcune campagne di archeologia subacquea in Albania. 



Lo scudo missilistico è una mossa di guerra

1) Lo Scudo in Europa è una mossa di guerra - di Noam Chomsky

2) Intervento al Senato di Fosco Giannini - Senatore PRC - 31 maggio 2007 - sullo scudo missilistico


=== 1 ===


Lo Scudo in Europa è una mossa di guerra

di Noam Chomsky

Il Manifesto, 30/05/2007

L'installazione di un sistema di difesa missilistica in Europa orientale è praticamente una dichiarazione di guerra.
Provate a immaginare come reagirebbe l'America se la Russia, la Cina, l'Iran o qualunque potenza straniera osasse anche solo pensare di collocare un sistema di difesa missilistica sui confini degli Stati uniti o nelle loro vicinanze, o addirittura portasse avanti questo piano. In tali inimmaginabili circostanze, una violenta reazione americana sarebbe non solo quasi certa, ma anche comprensibile, per ragioni semplici e chiare.
E' universalmente noto che la difesa missilistica è un'arma di primo colpo. Autorevoli analisti militari americani la descrivono così: «Non solo uno scudo, ma un'abilitazione all'azione». Essa «faciliterà un'applicazione più efficace della potenza militare degli Stati uniti all'estero».
«Isolando il paese dalle rappresaglie, la difesa missilistica garantirà la capacità e la disponibilità degli Stati uniti a "modellare" l'ambiente in altre parti del mondo». «La difesa missilistica non serve a proteggere l'America. E' uno strumento per il dominio globale».
«La difesa missilistica serve a conservare la capacità americana di esercitare il potere all'estero. Non riguarda la difesa; è un'arma di offesa e è per questo che ne abbiamo bisogno». Tutte queste citazioni vengono da autorevoli fonti liberali appartenenti alla tendenza dominante, che vorrebbero sviluppare il sistema e collocarlo agli estremi limiti del dominio globale degli Stati uniti.
La logica è semplice e facile da capire: un sistema di difesa missilistica funzionante informa i potenziali obiettivi che «vi attaccheremo se ci va e voi non sarete in grado di rispondere, quindi non potrete impedircelo».
Stanno vendendo il sistema agli europei come una difesa contro i missili iraniani. Se anche l'Iran avesse armi nucleari e missili a lunga gittata, le probabilità che le usi per attaccare l'Europa sono inferiori a quelle che l'Europa venga colpita da un asteroide. Se dunque si trattasse davvero di difesa, la Repubblica Ceca dovrebbe installare un sistema per difendersi dagli asteroidi.
Se l'Iran desse anche il minimo segno di voler fare una simile mossa, il paese verrebbe vaporizzato. Il sistema è davvero puntato contro l'Iran, ma come arma di primo colpo. Fa parte delle crescenti minacce americane di attaccare l'Iran, minacce che costituiscono di per sé una grave violazione della Carta delle Nazioni unite, sebbene questo tema non emerga.
Quando Mikhail Gorbaciov permise alla Germania unita di far parte di un'alleanza militare ostile, accettò una grave minaccia alla sicurezza della Russia, per ragioni troppo note per rivederle ora. In cambio il governo degli Stati uniti si impegnò a non allargare la Nato a est. Questo impegno è stato violato qualche anno più tardi, suscitando pochi commenti in Occidente, ma aumentando il pericolo di uno scontro militare.
La cosiddetta difesa missilistica aumenta il rischio che scoppi una guerra. La «difesa» consiste nell'aumentare le minacce di aggressione in Medio Oriente, con conseguenze incalcolabili, e il pericolo di una guerra nucleare definitiva.
Oltre mezzo secolo fa, Bertrand Russell e Alfred Einstein lanciarono un appello ai popoli del mondo perché affrontassero il fatto che ci troviamo di fronte a una scelta «netta, terribile e inevitabile. Dobbiamo porre fine alla razza umana, o l'umanità è disposta a rinunciare alla guerra?».
Accettare il cosiddetto «sistema di difesa missilistica» colloca la scelta a favore della fine della razza umana in un futuro non troppo distante.


=== 2 ===

Care compagne e compagni,

vi invio il mio intervento di ieri al Senato sulla questione dello scudo stellare. 

Fosco Giannini - Senatore PRC


Intervento al Senato di Fosco Giannini - Senatore PRC - 31 maggio 2007


“L’installazione di un sistema di difesa missilistica in Europa orientale è praticamente una dichiarazione di guerra”.
Così ha scritto ieri sulla stampa italiana il grande intellettuale statunitense Noam Chomsky, che così ha proseguito: “Provate ad immaginare come reagirebbe l’America se la Russia, la Cina, l’Iran o qualunque potenza straniera osasse anche solo pensare di collocare un sistema di difesa missilistica sui confini degli Stati Uniti o nelle loro vicinanze, o addirittura portasse avanti questo piano. In tali inimmagibabili circostanze, una violenta reazione americana sarebbe non solo quasi certa, ma anche comprensibile”.
E ciò perché - prosegue Chomsky – “ è universalmente noto che la difesa missilistica è un’arma di primo colpo”.

 

Che cos’è, dunque,  questo pericolosissimo e nefasto “scudo missilistico” statunitense che dovrà essere installato in Europa e che il governo italiano sembra aver accettato e segretamente concordato con la Casa Bianca ? 
Perché, di fronte ad una questione di così grande dimensione strategica, il Parlamento italiano non è stato messo, e non è ancora messo,  in condizione di discutere e decidere autonomamente? Perché tale questione non la si rende di pubblico dominio ? Perché non la si racconta al nostro popolo?  
Volevo solo, signor Presidente, ricordarle un dato: nella Repubblica Ceca, Paese coinvolto nel progetto Usa di “scudo missilistico”, il movimento pacifista, le forze democratiche e i giovani comunisti hanno già raccolto 300 mila firme, volte ad ottenere un referendum sulla collocazione dello “scudo stellare”. Una grande mobilitazione sociale che ha contribuito alla messa fuori legge dei giovani comunisti cechi.
E’ questo il prezzo che i popoli europei dovranno pagare per il progetto americano? E cioè: subordinazione alle politiche di guerra di Bush, allineamento, sottomissione delle volontà popolari e svuotamento dei poteri parlamentari ?

 

Ma che cos’è, nel concreto, lo “scudo stellare europeo” ?

 

Il piano statunitense prevede l’installazione dei primi 10 missili intercettori in Polonia e di una stazione radar nella Repubblica ceca. 
La funzione dei missili intercettori è distruggere i missili balistici nemici una volta lanciati. Sul territorio statunitense, ne sono già stati installati 17  (14 in Alaska e 3 in California), che saliranno a 21 nel 2007 e a 30 nel 2008. 
Nel momento in cui gli Stati uniti porteranno a termine lo “scudo” anti-missili disporrebbero di un sistema non di difesa ma di offesa: sarebbero infatti in grado di lanciare un first strike contro un paese dotato anch’esso di armi nucleari, fidando sulla capacità dello “scudo” di neutralizzare o attenuare gli effetti di una eventuale rappresaglia. Proprio per questo Usa e Urss avevano stipulato nel 1972 il Trattato Abm che proibiva tali sistemi, Trattato che l’amministrazione Bush – significativamente -  ha cancellato nel 2002. 

 

Ufficialmente, l’installazione dei missili intercettori in Europa dovrebbe servire a proteggere gli Stati uniti e l’Europa stessa dai missili balistici della Corea del nord e dell’Iran. Nessuno di questi paesi, né un altro «stato canaglia», ha però oggi missili in grado di minacciare gli Stati uniti e l’Europa. Per di più la Corea del nord, se volesse colpire gli Stati uniti, lancerebbe i suoi missili non certo verso ovest e non certo al di sopra dell’Europa. E, se si volessero neutralizzare i missili iraniani (che non possono raggiungere gli Usa e l’Europa, né sono armati di testate nucleari), occorrerebbe installare i missili intercettori in Turchia o altri paesi limitrofi.
Secondo Mosca, il piano statunitense di installare missili intercettori nell’Europa orientale mira, essenzialmente, ad acquisire un ulteriore vantaggio strategico sulla Russia ed è per questo che  al Pentagono pensano di installare altri missili ancora più a est, probabilmente in Ucraina. 
Allo stesso tempo potrebbe essere aumentata la loro gittata, così da minacciare i sistemi spaziali russi. Né può essere sottovalutata la possibilità che questi missili siano un giorno armati di testate nucleari.  

 

Immediato è il vantaggio che gli Usa possono acquisire installando in Europa stazioni radar, tipo quella che intendono collocare nella Repubblica ceca. Essa sarebbe la prima installazione di una rete di sofisticati centri di intelligence, attraverso cui il Pentagono potrebbe monitorare, ancor più efficacemente di quanto è in grado di fare oggi, non solo il territorio russo ma l’intero territorio europeo. L’Italia, per la sua posizione geografica, sarebbe inoltre particolarmente adatta per l’installazione sia di radar che di missili intercettori rivolti verso il Medio Oriente e il Nord Africa. 
L’altro vantaggio per Washington sarebbe quello di avere in mano un altro strumento per impedire che l’Unione europea possa un giorno rendersi militarmente autonoma dagli Stati uniti. L’intero sistema di stazioni radar e postazioni missilistiche in Europa dipenderebbe infatti dal Centro di comando, controllo, gestione della battaglia e comunicazioni, all’interno della catena di comando che fa capo al presidente degli Stati uniti d’America.

 

E’ dunque facile capire – tra l’altro - che , sul piano geopolitico, uno degli obiettivi primari dell’installazione dello “scudo” americano è la divisione chirurgica dell’Europa : da una parte l’area originaria dell’Ue, dall’altra un’Europa dell’est sottomessa politicamente, economicamente e militarmente agli Usa. 
 Con due obiettivi: l’interruzione del progetto di costruzione di una grande Europa ( pericolosa per gli Usa) e la messa in campo di un vasto fronte – specificamente militare  -  contro la Russia.

 

La Russia, di fronte al tentativo statunitense di acquisire un ulteriore vantaggio strategico nei suoi confronti, ha già annunciato che prenderà delle contromisure, adottando «metodi adeguati e asimmetrici» e   Putin ha già  annunciato la moratoria del Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa,  firmato dai paesi della Nato e del Patto di Varsavia nel 1990. 
Il piano statunitense di installare missili intercettori e radar nell’Europa orientale, a ridosso del territorio russo, viene dunque considerato a Mosca un ulteriore passo dell’espansione della Nato a est. Nel 1999 essa ha inglobato i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si  è estesa ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Repubblica jugoslava). Ora sta per inglobare Albania, Croazia e Macedonia, e si prepara a fare lo stesso con Georgia e Ucraina. Contemporaneamente, gli Stati uniti hanno installato nuove basi militari in Romania e Bulgaria e, tra breve, faranno lo stesso in Montenegro. 
La risposta di Putin al progetto di “scudo stellare” è stata durissima ed ha evocato tutto il pericolo insito nella scelta americana: Putin ha avvertito che se gli Usa installeranno missili e radar a ridosso del  territorio russo, la Russia potrebbe anche ritirarsi dal Trattato Inf del 1987, che ha permesso di eliminare i missili nucleari a raggio intermedio in Europa.
L’Europa, e in particolare l’Italia che ha già aderito al programma dello “scudo” statunitense, rischia di ricadere nell’incubo politico e militare di una nuova guerra fredda avente buone possibilità di trasformarsi in un inferno nucleare.


Le conseguenze per l’Italia    

 

L’accordo quadro prevede una serie di accordi specifici che coinvolgeranno nel programma dello “scudo” statunitense non solo le industrie militari italiane, soprattutto quelle del settore aerospaziale, ma anche università e centri di ricerca. 
L’accordo quadro comporta quindi una ulteriore militarizzazione della ricerca, a scapito di quella civile, sotto la cappa del segreto militare. 
Comporta un ulteriore aumento della spesa militare italiana (già al settimo posto su scala mondiale), soprattutto dei programmi di investimento derivanti da accordi internazionali, ai quali l’ultima Finanziaria ha destinato 4,5 miliardi di euro in tre anni. 
Comporta un ulteriore rafforzamento dei comandi e delle basi statunitensi in Italia (comprese quelle dotate di armi nucleari), con la conseguenza che il nostro paese diverrà ancor più trampolino di lancio delle operazioni militari statunitensi verso sud e verso est. 
Comporta ulteriori pericoli per il nostro paese che, per la sua collocazione geografica, costituisce una postazione ottimale in cui installare i missili intercettori: le zone di installazione diverranno di conseguenza bersagli militari, come negli anni ’80 la base di Comiso in cui erano installati i missili nucleari statunitensi.
Inoltre, estendendo lo “scudo” all’Europa, gli Usa potrebbero scaricare sugli alleati parte dei costi per lo sviluppo del sistema, ammontanti finora a 10 miliardi di dollari annui.

 

In questo quadro estremamente pericoloso appare davvero inquietante il comportamento del governo italiano, particolarmente reticente nel raccontare i fatti relativi all’accordo con il governo Usa sullo “scudo stellare” e i fatti relativi alla firma dell’accordo.

 

Il generale Henry Obering, direttore dell’Agenzia Usa di difesa missilistica, ha annunciato il 27 marzo 2007, di fronte al comitato per i servizi armati della Camera dei rappresentanti, che l’Italia entra ufficialmente nel programma dello “scudo” anti-missili che gli Usa vogliono estendere all’Europa.
“Ho il piacere di annunciare che lo scorso febbraio abbiamo stabilito un memorandum di accordo quadro con l’Italia e possiamo ora iniziare a sviluppare possibilità di condivisione di tecnologie di difesa missilistica, analisi, e altre forme di collaborazione”. Così  ha parlato il generale americano Henry Obering. 

 

Nessun annuncio, invece, da parte del governo italiano. 
Quando il 12 marzo il segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer dichiara che  “in materia di difesa missilistica non ci devono essere paesi di serie A e paesi di serie B all'interno della Nato” il ministro degli esteri Massimo D'Alema dice di condividere l’opinione di Scheffer, auspicando che la proposta degli Usa di estendere il loro “scudo” all’Europa venga discussa dalla Nato e dalla Ue. Non dice però che l’Italia ha, a questo punto, già sottoscritto il memorandum di accordo quadro ed è stata quindi promossa in «serie A».
La firma dell’accordo quadro viene dunque tenuta segreta al parlamento e, a quanto si dice, anche a parte della coalizione governativa.

 

Il governo italiano ha anche smentito, dobbiamo dire un po’ affannosamente, di aver firmato l’accordo con il governo Usa.
Ma le contraddizioni all’interno del governo sono davvero strane e,  per molti versi,  inquietanti.  
Il sottosegretario di stato per la difesa Marco Verzaschi ( dell’Udeur) ha infatti  dichiarato, il 12 aprile 2007 alla Camera dei deputati : 
“Da parte italiana, è stato recentemente firmato un Accordo quadro di cooperazione Italia-Usa che amplia il perimetro di tale cooperazione al settore della difesa da missili balistici”. 
Il sottosegretario Verzaschi non ha però spiegato perché  il governo italiano avesse finora tenuto segreto un accordo di tale portata, né ha precisato chi l’abbia firmato lo scorso febbraio. 
Il sottosegretario alla difesa Giovanni Forcieri aveva annunciato, tramite la sua segreteria, che avrebbe ufficialmente smentito di averlo firmato lui. 
A ciò che ci risulta, però, il ministro Forcieri deve ancora far pervenire la propria smentita.
Resta dunque il “mistero” di chi l’abbia firmato. Tuttavia, crediamo che la questione essenziale non sia quella di chi ha firmato, ma perché il governo Prodi abbia , segretamente,  firmato .
A dare una spiegazione ha provato – in modo contraddittorio – ancora  il sottosegretario Verzaschi. 
“Il citato Accordo quadro di cooperazione – ha dichiarato in aula – si inserisce nelle molteplici iniziative intraprese in ambito Nato, dove, fin dal 1996, sono state avviate varie attività volte alla realizzazione di idonei strumenti a protezione dell'Alleanza dal rischio derivante dall'uso di missili balistici equipaggiati con armi di distruzione di massa da parte di nazioni ostili o gruppi terroristici”
L’accordo per lo “scudo” sarebbe avvenuto, dunque, in ambito NATO?
Non sembra affatto di questo parere  il generale Obering, che  ha invece chiarito che lo schieramento in Europa, da parte degli Stati uniti, di missili anti-missili non rientra in ambito Nato e che “gli Usa non sono disponibili a cedere la responsabilità del progetto” (15 marzo 2007). 

 

Le ultime elezioni amministrative, signor Presidente, ci dicono chiaramente che il governo Prodi rischia di consumare il rapporto con il proprio blocco sociale di riferimento. La fiducia nei  confronti del governo Prodi si va assottigliando giorno dopo giorno.
Non potremo certo riconquistarla proseguendo politiche di guerra al servizio della potenza americana. Né, tantomeno, spostando enormi risorse economiche dalla spesa sociale a quella militare.
Vi sarebbe una sola parola d’ordine per costruire l’alternativa e ridare fiducia al nostro popolo: via dall’Afghanistan e via dalle guerre, più autonomia dagli Usa e dalla Nato, meno favori alle grandi fortune capitalistiche e  - finalmente ! – più stato sociale, più salari e più pensioni ! 



http://www.resistenze.org/sito/se/ap/seap7e29-001585.htm

www.resistenze.org - segnalazioni resistenti - appuntamenti - 29-05-
07

Verità e giustizia per i popoli del Kosovo Metohija

Il Forum di Belgrado (che raccoglie eminenti personalità culturali e
politiche della Serbia, ex Repubblica Federale Jugoslava) ha denunciato
i pericoli di nuove violente conflittualità e destabilizzazioni nei
Balcani e in Europa, legate agli esiti dei negoziati a proposito della
definizione dello Status futuro della provincia serba del Kosovo.

Ormai la verità è sotto gli occhi di tutti: l’operazione Kosovo, ha
raggiunto gli obiettivi politici, militari e geostrategici della Nato e
della cosiddetta comunità internazionale, ma è stato un totale
fallimento per i popoli della regione.

Numerose personalità del mondo politico e della cultura hanno
sottoscritto l'appello SOS Yugoslavia impegnandosi attivamente per
promuovere un futuro di pace e progresso nella regione del Kosovo.

Giovedì 31 maggio 2007 – ore 14

Sala conferenze stampa del Senato Palazzo Madama, 2 - Roma

Conferenza stampa con

Fosco Giannini (Senatore PRC-SE)
Mauro Bulgarelli (Senatore Verdi)
Lidia Menapace (Senatrice PRC-SE)
Franca Rame (Senatrice Italia dei valori)
Don Andrea Gallo (Fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto,
Genova)
Enrico Vigna (Portavoce del Forum Belgrado-Italia)

In collegamento telefonico da Belgrado Z. Jovanovic (ex Ministro
Esteri Jugoslavia e Presidente del Forum Belgrado)

---

IL MANIFESTO-APPELLO OGGETTO DELLA CONF. STAMPA E' LEGGIBILE QUI:
http://www.resistenze.org/sito/as/forbe/asfb7e15-001527.htm
OPPURE QUI:
https://www.cnj.it/INIZIATIVE/appellokosmet07.htm





Naviga e telefona senza limiti con Tiscali
Scopri le promozioni Tiscali Adsl: navighi e telefoni senza canone Telecom

http://abbonati.tiscali.it/adsl/

(english / italiano)


La lettera di Cindy Sheehan al movimento pacifista USA parla anche a quello italiano

di Marco Santopadre*

Il tradimento dei democratici, che hanno votato il sostegno alle guerre di George Bush (ad eccezione di tre senatori), è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E Cindy Sheehan, la madre di Casey - il figlio soldato ucciso nel 2004 a 24 anni a Baghdad - diventata il simbolo del “no” alla guerra, ha annunciato con una lettera piena di rabbia e di amarezza la sua intenzione di lasciare il movimento pacifista USA. 
Riferiscono i giornali di oggi che la Sheehan, più nota come "mamma pace", arrestata più volte durante sit-in sotto la Casa Bianca e il ranch texano di Bush, avrebbe deciso di abbandonare la militanza attiva nel movimento pacifista americano. In una lettera pubblicata sul suo blog, - e in Italia da Manifesto e Liberazione - afferma che "da quando mio figlio è morto, non ho mai smesso di dare un senso al suo sacrificio". 

Gli Stati uniti sono diventati una "deserto fascista dominato dalle corporations "continua la mamma anti-guerra che accusa i democratici - che l'hanno appoggiata fino a quando erano all'opposizione - di averla «demonizzata» quando li ha attaccati per non aver mantenuto l'impegno di cercare di mettere fine al conflitto ora che sono maggioranza al Congresso. Durissimo è anche il giudizio verso un movimento pacifista subordinato ai Democratici che «spesso antepone gli ego personali alla pace e alla difesa della vita umana».

Cindy Sheehan scrive che "sono stata la beniamina della sinistra finchè mi sono limitata a protestare contro Bush e il partito Repubblicano...ma quando ho cominciato a trattare il partito Democratico con lo stesso metro di giudizio usato per quello repubblicano, il sostegno alla mia causa ha cominicato ad erodersi e la "sinistra" ha cominciato a gettarmi addosso gli stessi insulti della destra".

"Peace Mom" come è stata sopranominata Ciny Sheehan, rivela di avere le idee chiare anche su un'altra trappola micidiale quando sostiene che "Se non troviamo alternative a questo corrotto sistema bipartitico, la nostra repubblica morirà e sarà sostituita da quello verso cui stiamo rapidamente discendendo senza incontrare resistenze: il deserto fascista delle corporations".

La lettera di Cindy Sheean sembra parlare anche al movimento contro la guerra e alla sinistra in Italia, dove - anche qui - nei mesi scorsi si è consumato il tradimento della politica della sinistra di governo nei confronti degli obiettivi storici del movimento - missione Afghanistan in primis - e la subordinazione di una parte dell’associazionismo pacifista che ha scelto la strada del collateralismo al governo Prodi piuttosto che quella dell’autonomia. Lo scenario bipolare che il nucleo duro del governo vorrebbe imporre al paese prende spunto proprio da quel modello di governabilità maggioritario e bipartitico imperante nei sistemi anglosassoni. C'è tanta materia su cui riflettere. Ci auguriamo che ci rifletteranno e in breve tempo anche coloro che il 9 giugno hanno deciso di separarsi dai movimenti e dalla coerenza dei contenuti per andarsene a Piazza del Popolo su una piattaforma che rappresenta esattamente l'opposto e motivo di amarezza di quanto sostenuto da Cindy Sheehan.


* direttore di Radio Città Aperta (Roma)
www.radiocittaperta.it



Lettera di dimissioni

di Cindy Sheehan
29.5.2007


Ho dovuto sopportare un bel po' di scherno e di odio da quando Casey fu
ucciso, e soprattutto da quando divenni il cosiddetto "volto" del
movimento statunitense contro la guerra. In special modo da quando ho
reciso ogni residuo legame che mi connetteva al partito democratico,
sono stata ulteriormente insultata sui blog "liberali" come Democratic
Underground. I rimarchi più miti vanno da "meretrice dell'attenzione"
a "finalmente ci liberiamo di questa immondizia".

Sono giunta a tali conclusioni dolorose il mattino del Memorial Day. Non
è l'esplodere di riflessioni fatte sul momento, ma cose a cui penso da
circa un anno. Le conclusioni a cui sono giunta mi spezzano il cuore.

La prima conclusione è che sono stata cara alla cosiddetta sinistra sino
a che ho limitato la mia protesta a George Bush ed al partito
repubblicano. Naturalmente, sono stata calunniata come marionetta del
partito democratico. L'etichetta serviva a marginalizzare me ed il mio
messaggio. Com'era possibile che una donna avesse idee proprie o
lavorasse al di fuori del sistema bi-partitico?

Tuttavia, quando ho cominciato a valutare i democratici con gli stessi
standard che usavo per i repubblicani, il sostegno alla mia causa ha
iniziato ad erodersi, e la "sinistra" ha preso ad etichettarmi con le
stesse calunnie della destra.

Credo che nessuno mi abbia prestato attenzione, mentre dicevo che la
questione della pace e delle persone che muoiono senza motivo non è una
faccenda di "destra/sinistra", ma di "giusto/sbagliato". Vengo
considerata una radicale perché credo che le politiche di parte vadano
accantonate quanto centinaia di migliaia di persone stanno morendo per
una guerra basata sulle menzogne, e sostenuta sia dai democratici sia
dai repubblicani. Mi sorprende che gente che sa essere affilata e
sottile come un raggio laser quando si tratta di bugie, mistificazioni
ed espedienti politici provenienti da un partito altrui, rifiuti di
riconoscere le stesse magagne nel proprio.

La lealtà cieca ad una parte è pericolosa da qualsiasi lato si situi. Gli
altri popoli del mondo guardano a noi americani come a delle
barzellette, perché permettiamo ai nostri leader così tanta attitudine
sanguinaria, e se non troviamo alternative a questo corrotto sistema a
due, la nostra repubblica morirà e sarà rimpiazzata da ciò in cui stiamo
rapidamente scivolando senza controllo e bilanciamento: la terra
devastata del corporativismo fascista.

Io vengo demonizzata perché non guardo al partito o alla nazionalità,
quando ho di fronte una persona: guardo al suo cuore. Se una persona
appare, si veste, agisce e parla e vota come un repubblicano, per quale
motivo dovrebbe avere sostegno, anche se si fa chiamare "democratico"?

Sono anche giunta alla conclusione che sto facendo quel che sto facendo
perché sono una "meretrice dell'attenzione" anziché avere il reale
bisogno di impegnarmi. Ho investito tutto quel che avevo nel tentativo
di portare pace e giustizia ad un paese che non vuole saperne di
entrambe le cose. Se c'è un individuo che vuole entrambe, normalmente
non fa nulla di più di partecipare ad una marcia di protesta o di sedere
davanti al suo computer a criticare gli altri. Ho speso ogni singolo
centesimo del denaro che ho avuto da un paese "grato" quando mio
figlio è stato ucciso, ed ogni centesimo che ho ricevuto per le
conferenze o i libri. Ho sacrificato 29 anni di matrimonio, ed ho
viaggiato per lunghi periodi stando lontana dal fratello e dalle sorelle
di Casey, e la mia salute ne ha sofferto, e i conti dell'ospedale si
vanno accumulando dalla scorsa estate, quando sono quasi morta.

Ho usato tutto ciò che avevo per tentare di far smettere a questo paese
il massacro di innocenti esseri umani. Sono stata chiamata con gli
epiteti più deprecabili che menti piccine potessero pensare, e sono
stata minacciata di morte moltissime volte.

La più devastante delle conclusioni a cui sono giunta questa mattina
eccola: Casey è davvero morto per niente. Il suo sangue prezioso è stato
prosciugato in un paese lontano, lontano dalla famiglia che lo amava, e
lui è stato ucciso dal suo stesso paese, che si aggrappa e si muove
secondo una macchina di guerra che arriva persino a controllare quel che
pensiamo.

Ho tentato di tutto, da quando è morto, per dare significato al suo
sacrificio. Casey è morto per un paese che si preoccupa di più di sapere
chi sarà il nuovo "Idolo Americano" che di quanta gente verrà uccisa
nei prossimi mesi, mentre i democratici ed i repubblicani giocano alla
politica con vite umane. E' straziante per me sapere che ho vissuto in
questo sistema per così tanti anni, e che Casey ha pagato il prezzo
della mia lealtà. Ho mancato verso mio figlio, e questo è ciò che mi fa
più male.

Ho anche tentato di lavorare all'interno di un movimento per la pace che
spesso mette gli ego personali al di sopra della pace e della vita
umana. Il tal gruppo non lavora con il tal altro, il tal tizio non verrà
all'iniziativa se ci sarà la tal tizia, e si può sapere perché tutta
l'attenzione se la prende Cindy Shehaan? E' difficile lavorare per la
pace se nello stesso momento in cui viene nominata ha alle spalle così
tante divisioni.

I nostri coraggiosi giovani uomini e giovani donne in Iraq sono stati
colà abbandonati indefinitamente dai loro leader vigliacchi, che li
muovono come pedine su una scacchiera di distruzione, e il popolo
iracheno è stato destinato alla morte ed a destini peggiori della morte
da individui più preoccupati delle elezioni che di loro. Vedrete, in
cinque o dieci o quindici anni, le nostre truppe torneranno zoppicando a
casa portandosi dietro un'abbietta sconfitta, e i nostri nipoti
vedranno i loro genitori morire senza ragione, solo perché i nonni hanno
continuato a sostenere questo sistema corrotto. George Bush non verrà
mai sottoposto all'impeachment, perché se i democratici scavano troppo
profondamente potrebbero portare alla luce un po' di scheletri dalle
loro stesse tombe, ed il sistema si perpetuerà all'infinito.

Io sto per prendermi ciò che mi resta ed andare a casa. Vado a casa a
fare la madre dei miei figli sopravvissuti, e a tentare di riguadagnare
un po' di quel che ho perduto. Tenterò di mantenere alcune relazioni
positive e buone che ho intrapreso durante il viaggio a cui sono stata
forzata dalla morte di Casey, e tenterò di riparare alcune di quelle che
si sono spezzate da quando mi sono impegnata totalmente in questa
crociata per tentare di cambiare un paradigma che, temo, è scolpito in
un marmo immobile, inflessibile, rigido e bugiardo.

"Camp Casey" è servito al suo scopo. E' in vendita. Qualcuno è
interessato a cinque bellissimi acri di terra a Crawford, in Texas?
Prenderò in considerazione ogni offerta ragionevole. Ho sentito dire che
presto anche George Bush se ne andrà da là, il che rende la proprietà di
maggior valore.

Questa è la mia lettera di dimissioni come "volto" del movimento
statunitense contro la guerra. Non è il momento del rendiconto, perché
non smetterò mai di cercare di aiutare le persone che, nel mondo,
vengono ferite dall'impero americano, ma ho finito di lavorare
all'interno o all'esterno di questo sistema.

Questo sistema resiste con forza all'aiuto che gli si vuole dare, e
divora le persone che tentano di aiutarlo. Io ne esco prima che consumi
me o qualche altra persona che amo, nonché il rimanente delle mie
risorse. Addio, America. Non sei il paese che amo, ed ho finalmente
capito che non ha importanza quanti sacrifici io faccia: nessuno di essi
farà di te il paese che desidero, a meno che tu non lo voglia. Adesso
tocca a te.


---

The text of Cindy Sheehan's open letter to the antiwar movement can be read, for instance, here:

---

From:   actioncenter   @...
Subject: Defend Cindy Sheehan
Date: May 30, 2007 6:01:35 PM GMT+02:00

DEFEND CINDY SHEEHAN

Cindy Sheehan made public two letters this weekend. The first letter announced her resignation from the Democratic Party over the agreement by the Democratically-controlled Congress to unconditionally fund the criminal and colonial war in Iraq that killed her son Casey and hundreds of thousands of others, mostly Iraqis. 

In the second letter, coming a day after the first, Sheehan announced that she would no longer be active in the peace movement. The reason for her first letter is self-evident. Why did she feel compelled to write the second one? 

It should come as no surprise to anyone that Sheehan has been the target of endless threats and attacks by pro-war groups, right-wing talk radio, and the corporate media. But they haven’t been the only attackers. As Sheehan has stepped up her criticism of the Congressional Democrats' complicity in the war, she has come under attack, some as venomous and personal as any right-wing Republican attack, by some who insist that the antiwar movement must be limited to protesting against Bush and the Republicans. Some of the same forces, who are closely tied to the Democrats, were happy to use Sheehan as long as she limited her criticism to Bush, but then viciously turned on her after she announced her resignation from the Democratic Party over the war. 

Cindy Sheehan has come to the conclusion that she has been pushed out of the antiwar movement and it’s not hard to understand why she feels this way. She feels pushed out by the betrayal of the Democrats on the war funding. She feels pushed out by the isolation and hostility not only from the “right,” but also from many in the orbit of the Democratic Party that Sheehan had once considered allies. She feels pushed out be the failure of the various coalitions in the antiwar movement to put aside egos and narrow agendas in the interest of forging an independent and militant mass movement powerful enough to shut the war down. 

Some good can come from this, if the antiwar movement takes this as a turning point. Many of us made a struggle to demand that Congress cut off all war funding and end the war a priority this spring.  Some of us did this, not based on any expectation that Congress would actually end Bush’s war, but to clearly expose the Democratic Party and to demonstrate that they are as much of a pro-war party as the Republicans.  If the antiwar movement can absorb this reality, as painful as it is, than it will be all the much harder for the movement to be pulled off the streets and made an appendage of the Democratic Party. 

The movement owes a debt to Cindy Sheehan for striking a blow against those who plan to mislead the antiwar movement and tie it to the pro-war Democratic Party.

The rank and file of the antiwar movement stands in solidarity with Cindy Sheehan, not with those who are beholden to the Democratic Party. It takes courage for a mother, catapulted into the world spotlight after camping out in Crawford Texas two summers ago to protest the death of her son in Iraq, to stand up to and openly break with powerful politicians who would be all too willing to provide her a platform with all the perks if she simply toed the line. 

It is our hope that after Cindy Sheehan had taken the time to re-unite with her family, and do whatever she feels necessary to repair the toll that all of this has taken on her family and herself, that she will once again be a leading voice against war, against empire, and for justice at home and abroad.




COME INTITOLARE UNA VISNJICA DEL GENERE?


Da Il manifesto del 30/05/2007, pag. 2 - Foto notizia
E' la vita degli uomini che vale molto, ma molto meno delle cuoia
dei tonni destinati al macello. E' l'ultimo orrore immortalato nel
mare delle tragedie, tra Malta e la Libia, che ora ha fatto il giro
del mondo: 27 naufraghi aggrappati a una gabbia per tonni trainata da
un peschereccio spagnolo, il cui capitano si è rifiutato di caricarli
a bordo perché temeva che la sua merce, ben più preziosa, andasse in
malora. I naufraghi, rimasti a mollo per tre giorni, salvati per
miracolo da una nave della marina italiana che passava lì per caso,
hanno raccontato di aver «incrociato» altri pescherecci mentre
annaspavano in mare, ma tutti hanno fatto finta di non vederli.

La Foto Ap si può vedere ad es. alla pagina:

http://www.tesseramento.it/immigrazione/pagine52298/newsattach966_Da%
20Il%20manifesto%20del%2030-05%20a.pdf

ALTA INTENSITÀ


"Investimenti destinati ad un modello professionale: Saranno tagliati
i volontari a ferma breve. In futuro un esercito combattente.
Destinati al fronte. Il futuro dei militari italiani è sempre più
all'estero, impegnati in missioni umanitarie e di mantenimento della
pace. Ma è bene tener presente che queste missioni possono comportare
operazioni di combattimento anche ad alta intensità".

http://www.difesa.it/files/rassegnastampa/070530/EJ0CO.pdf

Segnaliamo questa intervista al Generale Mini, già impegnato alcuni anni fa al comando delle truppe di occupazione italiane in Kosovo. Le tesi qui avanzate meriterebbero ciascuna un'ampia riflessione e disamina, impossibili da sviluppare in questa sede. È però il caso di notare, in particolare, come nonostante tutto riaffiorino, quasi compulsivamente, i luoghi comuni sulle presunte "cancellazione dell'autonomia" e "repressione" in Kosovo per "iniziativa di Milosevic". Vengono cioè assunti come veri, in partenza, proprio quegli argomenti che sono stati alla base della "campagna di guerra psicologica condotta nei confronti dei nostri stessi decisori": menzogne costruite nei laboratori occidentali della disinformazione strategica precisamente allo scopo di conseguire lo squartamento della Jugoslavia, giustificando via via la politica del separatismo razziale di Rugova, il terrorismo UCK, la aggressione militare NATO, la occupazione coloniale KFOR, e la (sesta!) secessione "etnica". Finchè queste fallaci premesse non saranno messe in discussione una volta per tutte, sarà a nostro avviso ben difficile poter incidere sulle scelte o addirittura sul corso degli eventi, per determinare finalmente un cambio di rotta... (a cura di I. Slavo)  


http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=15833%20%20

«Italia apprendista stregone in Kosovo»

di Tommaso Di Francesco

su Il Manifesto del 24/05/2007

«L'ostinazione a decretare la perdita di sovranità della Serbia, nonostante la risoluzione 1244, non trova riscontro in altra parte del mondo. Così si impone una soluzione di forza, violenta come la guerra "umanitaria"». Parla il generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo: «Si vuole imporre una secessione. Non mi scandalizzo per la realpolitik. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia»


Si va a tappe forzate all'Onu, dopo che la «mediazione» dell'incaricato Martti Ahtisaari è stata sospesa dal Consiglio di sicurezza. Gira una bozza di risoluzione che prevede unilateralmente l'indipendenza, seppur «internazionalmente controllata per un certo periodo». E' scontro. Washington è pronta al riconoscimento anche se il Consiglio di sicurezza fosse bloccato da un veto russo. Di questo parliamo con il generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo. «Penso che quello di Ahtisaari - ci dice - è un tentativo fallito. La responsabilità più grave sta nell'averlo messo nelle condizioni di gestire un negoziato a senso unico. Così raccoglie i frutti di una manovra non tesa a risolvere il problema di tutte le etnie kosovare, ma della ricerca di una rottura con la Serbia anche con il ricatto». 

Non le sembra che l'Onu abbia svolto troppe e contrapposte parti in commedia?

Qui le Nazioni Unite hanno dimostrato le dimensioni della crisi di credibilità di cui soffrivano da tempo. Ricordo gli accordi di pace di Kumanovo del 1999, e il fatto che la Risoluzione 1244 è stata approvata dopo quegli accordi raggiunti esclusivamente fra le parti militari. Gli accordi hanno sancito due cose: 1) i serbi mantenevano la sovranità su tutto il territorio nazionale e 2) le forze internazionali sarebbero entrate sul territorio serbo, ma solo in Kosovo, dopo il ritiro unilaterale delle forze militari, paramilitari e di sicurezza serbe. Era un ritiro ovviamente poco spontaneo, ma sostanza e forma di un accordo internazionale erano state rispettate. Da quel momento l'Onu è stato sottoposto a pressioni di ogni genere per smentire questa conferma di sovranità della Serbia.

Ma esistono ora gli standard democratici, di salvaguardia delle minoranze, dei diritti umani e religiosi in Kosovo? 

Non solo non esistono standard democratici per le minoranze, ma neppure standard umani. Sulla minoranza serba e su quelle che gli albanesi considerano conniventi con i serbi soltanto perché parlano serbo o dialetti vagamente slavi pesano pregiudizi e criminalizzazioni ingiuste e false. Potrebbe sembrare paradossale, ma la discriminazione e la mannaia della pulizia etnica si sono scatenate proprio contro quei serbi e non serbi che ritenendo di non aver fatto nulla di male sono rimasti a casa propria. E sono stati questi ad essere massacrati per primi, a questi sono state sottratte le legittime proprietà con la forza e l'omicidio. Chi si è macchiato dei delitti contro gli albanesi, e sono stati molti a tutti i livelli, non ha avuto la possibilità di goderne finché è rimasto in Kosovo e chi è riuscito a scappare sta ancora nelle liste dei ricercati. Chi vuole tornare o insiste a non volersene andare dal Kosovo è gente che non ha nulla di cui pentirsi salvo il fatto di appartenere ad una certa etnia. Ora però il problema si è aggravato, tra coloro che parlano d'indipendenza ci sono quelli che ritengono che tale status internazionale dia loro il diritto alla pulizia etnica, interrotta dalle forze di sicurezza della Nato. E tra i serbi che parlano di riappropriazione del Kosovo c'è chi non vuole esercitare una responsabilità di governo equa e democratica, ma vuole vendetta. In più s'inserisce una connessione di corruzione e crimine che aumenta e il rischio che la situazione sfugga di nuovo al controllo.

Perché la comunità internazionale insiste per l'indipendenza senza vedere il precedente che rischia di rappresentare, nei Balcani con l'irrisolta pace di Dayton in Bosnia Erzegovina e in Macedonia, ma anche nel Caucaso e nella stessa Europa?

Si rendono conto dei rischi, ma forse il Kosovo vuole proprio essere il laboratorio di una nuova scrittura delle regole dell'ordine internazionale. Forse si vuole limitare il potere degli stati, si vuole stabilire un principio che la sovranità degli stati non è assoluta e che può essere limitata, ampliata o revocata con un semplice intervento di forza, sia essa militare o politico. Si vogliono forse ripristinare i sistemi delle «colonie», dei «territori», dei «protettorati» o quello delle «amministrazioni fiduciarie». E' da diversi anni che si cerca un nuovo ordine mondiale e che si tenta di riscrivere le regole a suon di pretesti e bombardamenti. La Bosnia ha fatto da laboratorio per la spartizione fra etnie di un territorio nel momento in cui una repubblica si separava dalla federazione. A Timor si è completato il processo di decolonizzazione dando l'indipendenza ad un territorio già colonia portoghese invasa da uno stato terzo. In Kosovo forse si cerca di fare il passo determinante: imporre la secessione. Non sono una verginella da scandalizzarmi per il pragmatismo politico o per l'uso della forza. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia. L'ostinazione nel prendere le parti di una etnia fino ad arrivare a decretare la perdita di sovranità dello stato in cui essa è legalmente inserita non trova riscontro in nessuna altra parte del mondo. 

Il ministro degli esteri Massimo D'Alema, favorevole all'indipendenza, aveva finora insistito sul compromesso. Ora poi in Serbia c'è un nuovo governo e una unità forte, tra il premier Kostunica e il presidente Tadic, sul rifiuto dell'ultranazionalismo ma anche sul rifiuto dell'indipendenza del Kosovo. Perché D'Alema in un momento così delicato, ha provocatoriamente dichiarato all'«Espresso»: «I serbi hanno perso il Kosovo quando hanno cercato di risolvere il problema sopprimendo l'autonomia, invadendolo e facendo pulizia etnica», attribuendo così ai serbi tout-court l'iniziativa che fu invece di Milosevic?

Condivido il giudizio secondo il quale Milosevic e la sua dirigenza hanno «perso» ogni autorità morale sul Kosovo con la cancellazione dell'autonomia e la repressione. Così come noi italiani avremmo perduto qualsiasi autorità morale se avessimo commesso crimini contro le nostre stesse popolazioni o contro quelle poste sotto la nostra tutela anche in regime di occupazione. Ma la giustizia applicabile agli uomini non è la stessa applicabile agli stati. Un uomo si può condannare a morte, un governo si può rovesciare, uno stato si può sanzionare ma non si può più annientare o frazionare. Anche perché non sono gli stati a commettere i crimini, nonostante il termine tanto di moda dello «stato canaglia», ma gli uomini. La sottrazione di sovranità era un diritto di forza che spettava alla guerra di conquista e di aggressione, ma questa guerra è stata dichiarata illegale dalla Carta delle Nazioni Unite. La secessione potrebbe essere raggiunta come termine del processo di autodeterminazione di un popolo, ma è dubbio che questo caso possa essere applicato al Kosovo. I Kosovari non hanno completato la guerra di liberazione. Rugova aveva provato a dichiarare l'indipendenza quando ancora non si sparava, ma non lo ha preso sul serio nessuno. Forse proprio perché non sparava. In piena guerra cosiddetta umanitaria, lui, che comunque era il rappresentante ufficiale degli albanesi kosovari, cercava un accordo con Milosevic e si sarebbe accontentato di un ritorno all'autonomia. E' stato preso per un traditore o per un incapace d'intendere e volere. Forse lo scopo di Rugova non era idealistico come quello del Mahatma Ghandi; forse voleva semplicemente evitare una guerra che lui come ideologo della non violenza e come leader sapeva di perdere. Sarebbe stato superato da altri leader, quelli con i fucili e le uniformi da forze speciali occidentali. Quelli che si erano messi in contatto con Al Qaeda, con i Mujaheddin reduci dall'Afghanistan e dalla Bosnia e quelli che trafficavano in armi e droga. Quelli che in Albania si addestravano con contractor americani pagati a mille dollari al giorno. Lui stesso si convinse a mettere in piedi un esercito di liberazione il cui leader, Zemaj, è stato ammazzato dopo la guerra come gli altri trenta capi del partito di Rugova trucidati in meno di due anni non dai serbi ma dagli stessi avversari politici kosovari. La cosiddetta guerra «umanitaria» in cui è intervenuta la Nato ha interrotto qualsiasi tentativo di soluzione relativamente indolore. E' stato uno dei primi esempi d'ingerenza umanitaria ma non è mai stato ufficialmente un supporto internazionale ad una guerra di liberazione. Tanto è vero che la risoluzione 1244 al termine della guerra stessa ribadisce ancora la sovranità della Serbia. Il Kosovo, perciò, fino ad oggi non è ancora formalmente e sostanzialmente perduto. Ma è indubbio che le pressioni americane sono per l'indipendenza e che l'Italia con i recenti guai nei rapporti con gli americani e con una serie di negoziatori affaticati tende ad usare quel poco di credibilità che gode in Serbia cercando di convincerla a cedere.

Non le sembra che nel 1999 qualcuno, al momento di scatenare la guerra Nato motivata allora come «umanitaria» - 78 giorni di raid aerei su tutta l'ex Jugoslavia con tanti «effetti collaterali» sanguinosi -, non abbia detto la verità al paese e agli stessi militari impegnati, alla fine, in una guerra funzionale ad una secessione etnica? 

La guerra «umanitaria» in Kosovo è stata il risultato di una serie di logiche razionali spinte da manipolazioni emotive. E' il risultato quasi perfetto di una campagna di guerra psicologica condotta nei confronti dei nostri stessi decisori. Non mi meraviglia affatto che molti di essi potessero essere in buona fede. Fin dall'inizio era chiaro che Milosevic non costituiva una minaccia alla sicurezza internazionale, ma usava gli stessi metodi del predecessore Tito per cercare di tenere insieme un puzzle che si stava sfasciando. Era anche chiaro che i presunti massacri e le pulizie etniche di Milosevic dovevano essere provate e verificate. Era chiaro che Stati Uniti e Gran Bretagna avevano già deciso per la spaccatura del Kosovo già ai tempi di quella della Bosnia. Si trattava di una diffusa volontà di punire la Serbia per i fatti bosniaci e per la sua aspirazione a costituire nei Balcani un potere nazionalista serbo che avrebbe cementato una sorta di alleanza slava che di fatto avrebbe ostacolato la tanto sognata espansione occidentale e della Nato a est. Queste certezze erano però poco spendibili a sostegno di un piano d'intervento armato contro la stessa Serbia. Era necessaria una forte spinta emotiva come era successa con il cosiddetto lager di Triplojie in Bosnia. La mossa dell'ambasciatore Walker che denunciò il presunto massacro di Racak fece precipitare le cose proprio nel momento in cui sarebbe servita la calma. Racak fece fallire i colloqui di Rambouillet. Le proposte americane e la stessa presenza dei rappresentanti dell'Uck al tavolo del negoziato erano per i Serbi delle vere e proprie provocazioni. Nessuno si chiese come mai dopo dieci anni di sopportazione, all'improvviso gli albanesi si spostavano in massa oltre il confine albanese e macedone senza allontanarsi di un solo chilometro in più. Gli stessi serbi erano convinti di vincere la battaglia dell'epurazione albanese. Da noi la catastrofe umanitaria aveva più potere persuasivo di qualsiasi discorso alla Camera, ma si parlava anche di cose meno auliche «fermiamoli lì prima che arrivino qui». La situazione era talmente nebulosa che i tribunali tedeschi dichiararono di non avere elementi per considerare profughi i kosovari che chiedevano asilo. E mettevano in dubbio i presunti massacri. Oggi si sta imponendo una soluzione di forza altrettanto violenta della guerra passata. E mi chiedo se non fosse stato meglio imporla subito dopo la guerra, come parte di una debellatio o di un trattato di pace fra parti belligeranti. Allora, anche se illegale come la soluzione di oggi, sarebbe stata capita. Ma anche qui ha agito l'ipocrisia e questa guerra di 78 giorni e otto anni è stata chiamata in tutti i modi possibili fuorchè quello che avrebbe consentito una soluzione drastica. Mi rammarica vedere che gli scrupoli del generale Jackson nel trattare i Serbi come avversari legittimi erano inutili, che la determinazione di Kfor nel salvaguardare i diritti di tutti era strumentalizzata e che gli oltre trecentomila soldati che si sono avvicendati pensando di partecipare ad un processo di stabilizzazione e di pace (compresi gli oltre centocinquanta che ci hanno rimesso la pelle) sono serviti solo a prendere tempo e spendere soldi per una soluzione di forza già scontata e che non risolve niente. Mi dispiace che la nostra ostinazione militare nel difendere i diritti di tutti oggi si traduca in quella della difesa dei diritti di una parte a scapito dell'altra. Mi dispiace vedere che di fronte agli esperimenti di laboratorio politico chi ci rimette è sempre una parte dei cittadini, quella più debole, quella meno tutelata anche dalla giurisdizione internazionale. Ieri erano gli albanesi, oggi sono i serbi. Con questi criteri domani potrebbe succedere anche a noi.




L’eroina “fa bene alla nostra salute”: le forze di occupazione sostengono in Afghanistan  il traffico delle droghe 

Profitti per molti miliardi di dollari per il crimine organizzato e le istituzioni finanziarie Occidentali 

by Prof. Michel Chossudovsky

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

Le forze di occupazione in Afghanistan forniscono l’appoggio al traffico di droga, che procura tra 120 e 194 miliardi di dollari di entrate al crimine organizzato, alle agenzie di spionaggio e alle istituzioni finanziarie dell’Occidente. 
I proventi per molti miliardi di dollari di questo redditizio traffico illecito sono depositati nelle banche Occidentali. Quasi la totalità dei redditi si accumula per interessi corporativi e in favore di associazioni criminali fuori dell’Afghanistan. 
Il traffico di droga della Mezzaluna d’Oro, promosso dalla CIA all’inizio degli anni Ottanta, continua ad essere protetto dai servizi di spionaggio Statunitensi, in collegamento con le forze di occupazione della NATO e dell’esercito Britannico. Secondo gli ultimi sviluppi, le forze di occupazione Britanniche hanno favorito la coltivazione del papavero da oppio tramite annunci pubblicitari a pagamento via radio. 
"Un messaggio radio trasmesso attraverso tutta la provincia ha assicurato gli agricoltori locali che la Forza Internazionale di Assistenza alla Sicurezza (ISAF) a guida NATO non avrebbe interferito con la raccolta attuale del prodotto della coltivazione dei campi di papavero. Questo messaggio affermava: “Alle rispettabili popolazioni di Helmand. I soldati dell’ISAF e dell’Esercito Nazionale Afghano (ANA) non distruggeranno i campi di papavero. Loro sanno che molta gente dell’ Afghanistan non ha scelta nella coltivazione del papavero. L’ISAF e l’ANA non desiderano impedire alla gente di guadagnarsi i mezzi per il loro sostentamento.” ( Riportato da The Guardian, 27 aprile 2007)                                                                                                                                           Mentre i discutibili messaggi sull’oppio sono stati con indifferenza messi da parte come uno sfortunato incidente, vi sono indicazioni che l’economia dell’oppio viene promossa a livello politico ( compreso il governo Britannico di Tony Blair).
Il Senlis Council, un comitato di esperti internazionale specializzato nelle problematiche legate alle politiche sulla sicurezza, sta proponendo la pianificazione in Afghanistan dello sviluppo di esportazioni lecite di oppio, con il proposito di favorire la produzione farmaceutica di antidolorifici, come la morfina e la codeina. Secondo il Senlis Council, "le coltivazioni di papavero sono indispensabili e, se opportunamente regolate, possono costituire una fonte legale di reddito per i contadini Afgani ridotti in povertà, mentre, allo stesso tempo, possono privare di molte delle loro rendite i signori della droga e i Talebani." (John Polanyi, Globe and Mail, 23 September 2006)
Il Senlis Council offre un’alternativa quando propone che "una coltivazione di papavero regolata in Afghanistan" possa venire sviluppata per produrre i necessari farmaci contro il dolore. Però, il rapporto del Senlis trascura di fare il punto sulla questione che è già esistente una struttura per le esportazioni lecite di oppio, comunque caratterizzata da forniture superiori in quantità alla richiesta.
La campagna del Senlis fa parte di una campagna propagandistica, che tende a contribuire a fornire una falsa legittimazione all’economia Afgana dell’oppio, (Vedere il Progetto Senlis nei dettagli), e alla fine serve i potenti interessi in gioco. 
Quanti acri coltivati a papavero da oppio sono richiesti per rifornire l’industria farmaceutica? Secondo la Direzione per il Controllo Internazionale sui Narcotici (INCB), che ha un mandato per prendere in esame le problematiche inerenti alla fornitura e alla richiesta di oppiacei usati per scopi medici, "la fornitura di tali oppiacei per anni è stata a livelli ben superiori alla domanda globale".(Asian Times, febbraio 2006)  La INCB ha raccomandato di ridurre la produzione di oppiacei, dato che le forniture risultano superiori alla domanda. 
Attualmente, è l’India il più grosso esportatore di oppio legale, fornendo circa il 50% delle partite lecite alle compagnie farmaceutiche interessate alla produzione di farmaci contro il dolore. Anche la Turchia è un importante produttore di oppio legale. 
Il lattice dell’oppio Indiano "viene venduto ad industrie farmaceutiche e/o chimiche autorizzate, come la Mallinckrodt e la Johnson & Johnson, secondo norme stabilite dalla Commissione delle Nazioni Unite sui Farmaci Narcotici e dalla Direzione per il Controllo Internazionale sui Narcotici, che richiedono una vasta certificazione opportuna alla rintracciabilità della droga. " (Opium in India)
In India, l’area destinata alla coltivazione legale di papavero da oppio sotto controllo Statale è dell’ordine modesto di 11.000 ettari, considerando comunque che la domanda globale dell’industria farmaceutica mondiale richiede approssimativamente 22.000 ettari di terra assegnata alla produzione di oppio. L’oppio per uso farmaceutico non è fornito in modo insufficiente. La richiesta da parte dell’industria farmaceutica è già soddisfatta. 

La produzione di oppio Afgano sta spiccando il volo

Le Nazioni Unite hanno annunciate che la coltivazione del papavero da oppio in Afghanistan sta spiccando il volo. Nel 2006 si è avuto un incremento del 59% per le aree destinate alla coltivazione del papavero da oppio. Viene valutato che la produzione di oppio è aumentata del 49% rispetto al 2005.                                                                                                                                                                 I media Occidentali in coro accusano i Talebani e i signori della guerra. Funzionari Occidentali hanno dichiarato di ritenere che "il commercio viene controllato da 25 trafficanti, compresi tre ministri del governo." (Guardian, op. cit).                                                                                                      

Allora, per amara ironia, la presenza dell’esercito USA è servita per rafforzare più che sradicare il traffico di droga. La produzione di oppio è aumentata di 33 volte, dalle 185 tonnellate del 2001 sotto i Talebani alle 6100 tonnellate del 2006. Le aree coltivate sono aumentate di 21 volte dall’invasione del 2001 guidata dagli USA. Quello che i documenti dei mezzi di informazione di massa mancano di evidenziare è che nel 2000-2001 è stato proprio il governo dei Talebani ad essere funzionale nel mettere in applicazione con successo un programma di sradicazione della droga, con l’appoggio e la collaborazione delle Nazioni Unite.  Realizzato nel 2000-2001, il programma dei Talebani  di sradicazione della droga aveva portato ad un calo del 94% nella coltivazione del papavero da oppio. Nel 2001, secondo dati dell’ONU, la produzione di oppio era crollata a 185 tonnellate. Immediatamente dopo l’invasione dell’ottobre 2001 a guida USA, la produzione è drammaticamente aumentata, riguadagnando i suoi livelli storici.                                                               

Il Dipartimento dell’ONU su Droghe e Crimine, con sede a Vienna, valuta che il raccolto del 2006 sarà dell’ordine di 6.100 tonnellate, 33 volte il livello della produzione del 2001 sotto il governo dei Talebani  (un aumento del 3200 % in 5 anni). La coltivazione nel 2006 ha raggiunto un record di 165.000 ettari rispetto ai 104.000 nel 2005 e ai 7.606 nel 2001 sotto i Talebani.

Un traffico di molti miliardi di dollari  

 Secondo le Nazioni Unite, nel 2006 l’Afghanistan ha fornito quasi il 92% delle forniture mondiali di oppio, che viene usato per produrre eroina. Le Nazioni Unite stimano che per il 2006 il contributo del traffico di droga all’economia Afgana è dell’ordine di 2,7 miliardi di dollari. Quello che manca di venire sottolineato è il fatto che il 95% dei profitti generati da questo lucroso contrabbando va nelle tasche di comitati di affari, del crimine organizzato e di istituzioni bancarie e della finanza. Solo una piccola percentuale arriva agli agricoltori e ai commercianti del paese di produzione.  (Vedere UNODC, The Opium Economy in Afghanistan, 
http://www.unodc.org/pdf/publications/afg_opium_economy_www.pdf , Vienna, 2003, p. 7-8)

"L’eroina Afgana viene venduta sul mercato internazionale dei narcotici ad un prezzo cento volte più alto del prezzo pagato ai contadini per il loro oppio fuori del campo".(Dipartimento di Stato USA, citazione riferita dalla Voce dell’America (VOA), 27 febbraio 2004).

Sulla base dei prezzi all’ingrosso e al dettaglio sui mercati Occidentali, i profitti generati dal commercio della droga Afgana sono colossali. Nel luglio 2006, il prezzo su strada dell’eroina in Gran Bretagna era dell’ordine di 54 lire sterline, pari a 102 dollari al grammo.  

Narcotici sulle strade dell’Europa Occidentale

Con buona approssimazione, un chilogrammo di oppio produce 100 grammi di eroina pura. 6100 tonnellate di oppio consentono di produrre 1220 tonnellate di eroina, pura al 50%. Il grado di purezza dell’eroina al dettaglio può variare, e sta su una media del 36%. In Gran Bretagna, il grado di purezza raramente supera il 50%, mentre negli USA si aggira sull’intorno del 50-60 %. 

Sulla base dell’assetto dei prezzi al dettaglio in Gran Bretagna per l’eroina, i proventi totali derivati dal traffico dell’eroina Afgana dovrebbero aggirarsi sui 124,4 miliardi di dollari, assumendo un grado di purezza del 50%.  Tenendo come valido un rapporto medio di purezza del 36% e il prezzo medio Britannico, il valore in contante derivato dalle vendite dell’eroina Afgana dovrebbe ammontare sui 194,4 miliardi di dollari.  Sebbene queste cifre non costituiscano valutazioni precise, nondimeno danno l’idea dell’assoluta grandezza di questo traffico di narcotici multimiliardario in dollari fuori dell’Afghanistan. Preso come riferimento questo primo dato che fornisce una valutazione prudente, il valore in contante derivato da queste vendite di eroina, una volta raggiunti in Occidente i mercati al dettaglio, supera i 120 miliardi di dollari all’anno. (Vedere anche le nostre valutazioni in dettaglio per il 2003 in The Spoils of War: Afghanistan's Multibillion Dollar Heroin Trade, by Michel Chossudovsky, - Il bottino di guerra: il traffico di eroina dell’Afghanistan per molti miliardi di dollari. L’UNODC valuta che il prezzo medio al dettaglio dell’eroina per il 2004 sia stato di circa 157 dollari al grammo, considerata una percentuale media di purezza).  

Narcotici: traffico appena inferiore a quello delle armi e del petrolio 

Le valutazioni precedenti sono conformi alle stime ONU rispetto alla natura e all’importanza del traffico globale di droga.  

Il commercio Afgano in oppiacei (92 % della produzione mondiale di oppiacei) costituisce una quota larga del giro d’affari annuale su scala mondiale relativo ai narcotici, che è stato stimato dalle Nazioni Unite essere dell’ordine dei 400-500 miliardi di dollari.    

 (Douglas Keh, “Drug Money in a Changing World – Denaro dalla droga in un mondo che cambia”, Documento tecnico No. 4, 1998, Vienna UNDCP, p. 4. Vedere anche “United Nations Drug Control Program, Report of the International Narcotics Control Board for 1999 – Programma delle Nazioni Unite per il Controllo sulle Droghe, Rapporto della  Direzione per il Controllo Internazionale sui Narcotici ”, E/INCB/1999/1 Nazioni Unite, Vienna 1999, p. 49-51, e Richard Lapper, “UN Fears Growth of Heroin Trade – le Nazioni Unite temono lo sviluppo del traffico dell’eroina, Financial Times, 24 febbraio 2000). 

Sulla base dei dati del 2003, il traffico di droga costituisce “il terzo più importante commercio globale in termini di denaro contante dopo il commercio del petrolio e delle armi ." (The Independent, 29 febbraio 2004). 

L’Afghanistan e la Colombia (con la Bolivia e il Perù) costituiscono i più grossi sistemi economici di produzione della droga nel mondo, che alimentano una florida economia criminale. Questi paesi sono pesantemente militarizzati. Il traffico di droga viene protetto. Un’ampia documentazione denuncia che la CIA ha giocato un ruolo centrale nello sviluppo dei triangoli della droga, sia nell’America Latina che in Asia. Il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha valutato che nel complesso il denaro sporco riciclato si aggira fra i 590 e i 1500 miliardi di dollari all’anno, che rappresentano il  2-5 % del Prodotto Interno Lordo mondiale. (Asian Banker, 15 agosto 2003).
Viene stimato dall’IMF che una grande percentuale del denaro sporco riciclato mondialmente viene collegato al traffico dei narcotici, un terzo del quale viene collegato al triangolo dell’oppio della  Mezzaluna d’Oro.  

Michel Chossudovsky è collaboratore costante di Global Research. Professore di Economia all’Università di Ottawa, è autore di "La Globalizzazione della Povertà", seconda edizione, 
Common Courage Press, 2001,  di “War and Globalization – Guerra e Globalizzazione”, di “The Truth behind September 11 – La verità dietro l’11 settembre” .

© Copyright Michel Chossudovsky, Global Research, 2007

L’indirizzo url di questo articolo è: www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=20070604&articleId=5514 

*****

Perché la legalizzazione dell’oppio Afgano a scopi terapeutici è un’idea destinata al fallimento  

L’idea di legalizzare le coltivazioni di papavero da oppio dell’Afghanistan per uso terapeutico è riapparsa fra le notizie di questa settimana. Secondo l’“Independent on Sunday”(IOS), ora Tony Blair sta “prendendo in considerazione” il piano che era stato respinto dagli USA ed anche dal Ministero degli Esteri. Anche se lo IOS ce l’ha messa tutta per glorificarsi per i suoi recenti ed estesi servizi sulle droghe, evidentemente questa storia vede la sua fonte nel portavoce del Primo ministro, cosicché non esistono ragioni perché non sia vera.                                                                     Un altro articolo nel Pachistano “ Daily Times” ha affermato  che anche la NATO apertamente stava“prendendo in considerazione” il progetto.
Non è il caso di sorprenderci che questo piano venga preso per lo meno in considerazione.  L’Afghanistan è, come sempre, lacerato dal caos e dalla guerra: gli sforzi attuali di affrontare il traffico illegale di oppio sono chiaramente falliti in modo teatrale. Aggiungiamo a questo il fatto che tutti sanno che i piani di estirpazione proposti sono irrimediabilmente impraticabili ed non hanno alcuna possibilità di successo, e comunque vi può essere una potenziale apertura per prendere in considerazione soluzioni più radicali. Sfortunatamente “considerare” non è “fare”. Quando verrà preso in “considerazione” questo progetto, si riscontrerà che nella sua forma attuale il piano corrisponde ad un’idea destinata a fallire.                                                                                                   Di seguito viene riportato un articolo che appare nel Druglink magazine  di questo mese, in cui si danno le ragioni di tutto questo.

Campi di sogni

Il progetto di Senlis Council di autorizzare la produzione di oppio Afgano a scopo terapeutico ha raccolto molta pubblicità ed appoggi ad alto livello, il più recente dal BMA, l’Ordine dei Medici Britannico. Può questo piano costituire una “pallottola d’argento”, nello stesso tempo curando le ferite dell’Afghanistan e fornendo una soluzione alla “crisi mondiale della sofferenza”? Purtroppo no, argomenta Steve Rolles della “Transform Drug Policy Foundation”.

Almeno superficialmente, questa idea esercita una grande attrazione. Al presente, più della metà della produzione mondiale di oppio è legale ed autorizzata per il mercato farmaceutico (morfina, diamorfina, codeina). Questa produzione non genera profitti criminali, non alimenta conflitti, o non viene venduta ai tossicomani agli angoli delle strade. Noi abbiamo la possibilità di aiutare l’Afghanistan sul cammino verso la sua stabilità economica e politica, e collegare questo al problema dell’evidente diminuzione di richiesta di oppiacei per uso terapeutico per il controllo del dolore? Sfortunatamente no – questa soluzione, che sembra essere una “pallottola d’argento”, deve far fronte ad un insieme di ostacoli di ordine pratico e politico che la rende quasi completamente inattuabile.
Per prima cosa, la “carenza” di oppio ad uso terapeutico è del tutto fittizia. Attualmente, la produzione di oppio legale avviene principalmente in Tasmania, Turchia e in India, sotto lo stretto controllo di agenzie delle Nazioni Unite sulle droghe. Evidentemente, il problema non è dato da una penuria di oppio, ma piuttosto da un sottoutilizzo della produzione attuale. L’INCB, International Narcotics Control Board, la Direzione per il Controllo Internazionale sui Narcotici ha valutato che la domanda mondiale annuale di oppiacei legali (equivalenti in morfina) era di 400 tonnellate metriche e che la sovrapproduzione, dal 2000, aveva permesso di stoccare quantità “che potevano coprire la domanda mondiale per due anni”. La produzione annuale in Afghanistan corrisponde a 610 tonnellate di equivalenti a morfina ( ed è in aumento).  Inondare un mercato già sovra saturo potrebbe potenzialmente provocare esattamente lo sbilanciamento domanda/offerta che il sistema di controllo dell’ONU aveva come obiettivo di prevenire. Quindi, qualsiasi primo intervento dovrebbe avere lo scopo di indirizzare ad una produzione inferiore rispetto a quella attuale e a ben ponderare sulle problematiche attinenti, politiche, burocratiche e legali, prima di prendere seriamente in considerazione una qualche possibilità realistica di legalizzazione della produzione Afgana. 
Il secondo problema è assolutamente di ordine pratico rispetto alla fallimentare situazione in Afghanistan, zona di guerra che presenta ostacoli insormontabili. Sebbene questa transizione dall’illecito al lecito sia stata realizzata in Turchia ed in India, questa ha richiesto un alto livello di investimenti infrastrutturali, l’intervento statuale e apparati di sicurezza, istituzioni delle quali                 l’Afghanistan è interamente carente, visto il suo stato attuale caotico e senza legge. La produzione Afgana dovrebbe anche lottare per competere sui mercati internazionali, con i suoi costi per unità valutati da David Mansfield (1) almeno dieci volte più alti della produzione industrializzata Australiana, la più cara in assoluto. 
Per ultimo vi è il fatto che la richiesta di oppiacei per uso non terapeutico non si annullerà, anche se per ipotesi venisse meno la produzione di oppio Afgano. Rimarrebbe sempre l’opportunità di profitti illeciti lucrativi – a coprire l’assenza della produzione Afgana inevitabilmente arriverebbero altre produzioni illecite – o dall’Asia Centrale o da altre parti. Più verosimilmente, la domanda verrebbe soddisfatta da un’aumentata produzione Afgana da parte degli stessi agricoltori, dei signori della guerra e dei profittatori, e potenzialmente la situazione diverrebbe peggiore.                      Il piano non ha più prospettive di portare a liberazione dalla produzione illecita di oppio per uso non terapeutico di quelle che per decenni hanno avuto uno sviluppo alternativo sempre fallito e l’estirpazione delle coltivazioni. Le brutali realtà economiche dell’offerta e della domanda nella piazza di un mercato completamente privo di regole ed illegale assicureranno tutto questo.                     Ad un certo momento, vi potrà essere posto per legalizzare su piccola scala l’oppio Afgano in futuro, sicuramente per necessità mediche domestiche e forse come parte di un piano di amnistia o come un programma di transizione per i contadini da indurre a coltivazioni alternative. Ma il piano Senlis, così come è stato immaginato attualmente, è un’idea destinata al fallimento - 'visioni da pallottola d’argento ' come lo definisce il TransNational Institute (2). Sanho Tree (membro dell’Istituto di Analisi Politiche di Washington DC) ha descritto il piano come "un’immagine speculare del proibizionismo – di buone intenzioni ma mal concepita, proprio dall’estremo opposto allo spettro politico ". Sebbene risulti senza dubbio proficua per stimolare un dibattito sulla produzione autorizzata di oppio, la proposta sta ora proiettando un’ombra  su un lavoro politico più meditato e cauto che sta impegnado altre Organizzazioni non Governative sulle politiche della droga. Per organizzazioni come “Transform” esiste ora un pericolo, che un tale progetto di “legalizzazione” ipergonfiato ma alla fine predestinato al fallimento sia potenzialmente una mina di un movimento di riforma che tenta di promuovere una ricerca meno pubblicizzata di modelli realistici per la produzione e la fornitura di droga secondo precise normative.    






No Bush-No War Day

Contro la guerra permanente di Bush
Contro l’interventismo militare del governo italiano
L'ultimo comunicato delle reti e delle organizzazioni promotrici della manifestazione nazionale del 9 giugno

 


Si terrà sabato 9 giugno il corteo convocato a Roma da un’ampia coalizione di reti, associazioni, sindacati di base, centri sociali forze politiche che hanno promosso il “No Bush-No War Day”. La manifestazione partirà alle ore 15 da piazza della Repubblica per arrivare fino a piazza Navona.  Si tratta di un primo importante risultato che consente di affermare il diritto all’agibilità politica del centro di Roma anche nel giorno della venuta di Bush. Non ci saranno quindi né “zone rosse” né blindature della città.
Sarà una manifestazione partecipata e popolare, pacifica e determinata, fortemente unitaria vista la pluralità di forze e di culture che ha saputo finora raccogliere – già oltre 200 le adesioni - e aperta a ogni tipo di contributo. Lo si evince dal tipo stesso di piattaforma – “contro la guerra permanente di Bush e contro l’interventismo militare del governo Prodi” – che raccoglie quanto seminato dal movimento contro la guerra degli ultimi anni. Un movimento che si è sempre trovato unito nel chiedere il ritiro delle truppe italiane dai fronti di guerra, che ha sempre contrastato l’aumento delle spese militari, che recentemente si è stretto attorno a Emergency continuando a chiedere la liberazione di Hanefi. Un movimento solidale con il popolo palestinese e con il suo diritto alla terra dopo quarant’anni di occupazione israeliana. Un movimento che contrasta l’avallo italiano allo scudo missilistico USA e che il 17 febbraio scorso ha manifestato compatto contro la decisione del governo italiano di autorizzare il raddoppio della base Usa a Vicenza. 
Pensare che un movimento che si riconosce contro la guerra “senza se e senza ma”, possa separare le responsabilità dell’amministrazione statunitense da quelle del governo del proprio paese, significa consegnarsi a un’idealità antiguerra in grado di riconoscere le responsabilità dell’unilateralismo armato ma muto di fronte alla guerra quando questa diventa multilaterale. 
Del resto, la stessa, recente, scelta del parlamento italiano di dare il via libera, senza nemmeno una votazione, al rafforzamento della missione in Afghanistan con l’invio di nuovi armamenti offensivi, dimostra la crucialità delle responsabilità italiane sullo scacchiere della guerra globale.
La piattaforma che indice il corteo del 9 è incentrata su questi temi: per questo è di per sé unitaria perché parla il linguaggio del movimento. Per queste ragioni la discuteremo nei prossimi giorni, a livello locale e nazionale, con chiunque ci si voglia confrontare seriamente e nel merito. Organizzeremo assemblee, dibattiti, forum e confronti nel migliore spirito che proviene dall’esperienza dei movimenti di massa di questi anni e con la convinzione che non ci siano rivendicazioni immediate più efficaci di queste per rilanciare il movimento contro la guerra come dimostra anche l’esperienza autorganizzata della Carovana contro la guerra. Organizzeremo comitati unitari con l’auspicio che restino sui territori anche dopo il 9 giugno per dare sostanza reale al movimento e farlo fuoriuscire dal solo coordinamento di soggettività organizzate. 
Manifesteremo in tanti, dunque, contro Bush e le politiche di guerra del governo italiano: invitiamo tutti e tutte a partecipare a questo corteo; altre polemiche non ci interessano. 
Altri vogliono manifestare su una piattaforma diversa che non contempli nessun riferimento al governo italiano: si tratta di una divergenza che non può essere nascosta vista la sua rilevanza; una divergenza che si manifesta negli obiettivi che perseguiamo: il ritiro immediato dall’Afghanistan, la revoca del Dal Molin, la revoca dello Scudo spaziale, la revoca degli F35, il taglio delle spese militari a favore di quelle sociali. 
Vogliamo infine che sia garantita la piena agibilità politica a Roma ma anche nella preparazione dei giorni precedenti. Crediamo che debba essere garantito il diritto a manifestare senza limitazioni già a partire dalle città da cui si prepara la mobilitazione. Per questo chiederemo con forza nei prossimi giorni alle Ferrovie italiane, e alle autorità politiche competenti, di farsene garanti.
Nel paese dei privilegi e dei costi della politica che sia almeno concesso il diritto di partecipare a una manifestazione nazionale.

per informazioni e adesioni :9giugnonobush@...



( This text in the original english version can be read here:

http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?SectionID=45&ItemID=12823

or here: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5466

Setting the Stage for Turmoil in Caracas:

Washington’s New Imperial Strategy In Venezuela

by Chris Carlson - May 15, 2007 )



La nuova strategia imperiale di Washington in Venezuela

di Chris Carlson - Traduzione di Eleonora Volpe

Washington sta perfezionando una nuova strategia imperialistica - già sperimentata in Serbia nel 2000 - per mantenere la propria supremazia nel mondo. Mentre le invasioni militari e l'installazione di dittature erano il sistema tradizionale per controllare le popolazioni straniere e tenerle fuori dei piedi, di recente il governo USA ha sviluppato una nuova strategia, meno complicata e brutale, ma molto più sottile. Così sottile, da risultare quasi invisibile.

È stata talmente invisibile in Serbia, che nessuno sembra averla notata nel 2000, quando il governo è stato rovesciato, il paese è stato aperto a privatizzazioni in massa e un enorme numero di industrie e imprese del settore pubblico e le risorse naturali sono cadute nelle mani degli USA e delle multinazionali. Allo stesso modo, ben pochi hanno notato come, di recente, siano state vittime della stessa strategia - e con gli stessi risultati - molti paesi dell'ex-blocco Sovietico.

I paesi che non cedono alle pretese dell'impero e dell'espansione del capitalismo globale vengono fatti oggetto di un ben congegnato piano segreto ...

... per cambiarne la situazione politica e aprire la strada agli investimenti [stranieri]. Gruppi sostenuti dagli USA operano all'interno del paese per far cadere il presidente in carica, come se non ci fosse stato alcun intervento esterno. E ora Washington ha rivolto la sua attenzione alla nuova grande minaccia: l'America Latina e, in particolare, il Venezuela.

La nascita del Nuovo ordine Mondiale

Durante la seconda metà del XX secolo, i capitalisti dei paesi sviluppati hanno esaurito le opportunità di investimento e di crescita nei mercati domestici. Le grandi compagnie hanno raggiunto un punto in cui l'espansione all'interno dei confini nazionali non era quasi più possibile e l'unica opzione era quella di trovare nuove opportunità all'estero.

I crescenti conglomerati corporativi si sono messi alla ricerca di nuove vie per espandere le loro operazioni nel mondo, investendo, privatizzando e acquistando qualunque cosa su cui potessero mettere le mani. Il capitale nazionale voleva diventare internazionale e, alla fine del secolo, è divenuto letteralmente globale.

"Diventa grosso o sarai divorato", questa divenne la nuova filosofia e così fu deciso di diventare grandi mangiandosi intere nazioni. Con l'aiuto della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, dappertutto le economie sono state aperte alla privatizzazione. Le reti di telecomunicazione ed elettriche, i sistemi idrici e le risorse naturali sono stati acquistati dai ricchi capitalisti nei vari paesi del mondo, il libero mercato è diventato l'ordine del giorno, un paradiso per il capitale internazionale, dove le ricchezze del pianeta vengono concentrate sempre di più nelle loro mani [1].

Alcuni paesi, tuttavia, sono determinati a non lasciarsi mangiare. Le privatizzazioni sono invise a quelle popolazioni che hanno sviluppato la folle idea che le risorse naturali debbano appartenere a loro e non a delle multinazionali straniere. Così, si sono creati focolai di resistenza in diverse aree del mondo e alcune nazioni non hanno voluto accettare la logica del capitalismo globale. Ma Washington è ben decisa ad aprire il mondo all'espansione delle multinazionali e cerca di piegare quei paesi che si oppongono, vuoi con la forza, vuoi con l'astuzia.

Il caso della Yugoslavia: un modello di cambio di regime

È stata la Yugoslavia e, più esattamente, la Serbia il luogo in cui la nuova strategia di Washington ha realmente preso forma per la prima volta. Da li è stata poi esportata in altri paesi, nel tentativo di ripetere il grandioso successo dell'esperimento serbo. Non è difficile capire perché. Dopo la caduta del regime di Milosevich, quel che restava dell'ex-paese socialista, inclusi alcuni dei giacimenti di risorse naturali maggiori in Europa, è caduto nelle mani degli USA e di altri investitori stranieri.

Si tratta di una strategia sofisticata. Con l'intenzione di sbarazzarsi di un regime indesiderato, il governo USA si dedica al rafforzamento e all'unificazione dell'opposizione al governo locale. Questo include il sostegno finanziario ai partiti politici di opposizione e la creazione di organizzazioni non-governative tese a scardinare il governo.

Inoltre, gli USA arruolano consulenti politici e agenzie di sondaggio per aiutare il candidato favorito a vincere nei ballottaggi. Nel caso in cui non riescano a vincere le elezioni, falsi sondaggi creano dubbi sui risultati ufficiali del voto e l'opposizione grida ai brogli. Le proteste di massa e i mezzi di comunicazione mettono sotto pressione il governo affinché cada o ceda alle richieste dell'opposizione [2].

Anche se può sembrare poco plausibile, è stata proprio questa la strategia che ha fatto cadere Slobodan Milosevich in Serbia nel 2000. Dopo che la guerra nel Kossovo e i bombardamenti della NATO ebbero fallito nel produrre un cambio di regime, gli Stati Uniti si impegnarono nel rafforzamento degli oppositori interni a Milosevich, riunendoli sotto un unico candidato, Vojislav Kostunica e pompando circa 40 milioni di dollari nella sua campagna elettorale. [3] ONG finanziate dagli USA e consulenti elettorali aiutavano con la propaganda e lavoravano dietro le quinte per organizzare una resistenza di massa contro Milosevich. [4] Il giorno delle elezioni "Assistenti elettorali" istruiti in USA furono mandati in giro per tutto il paese a monitorare i risultati. Gli USA arrivarono perfino a dotare i giovani attivisti di migliaia di bombole di pittura spray e di adesivi per coprire il paese con slogan anti-Milosevich [5].

Secondo i dati ufficiali, nessuno dei candidati aveva ottenuto la maggioranza al primo turno, rendendo quindi necessario un secondo turno. Ma i consulenti USA pubblicarono i propri exit-poll, assegnando a Kustunica un'enorme vittoria che Milosevich rifiutò di riconoscere. [6]

L'opposizione allora gridò ai brogli e i gruppi sostenuti dagli USA inscenarono atti di resistenza non violenta per mettere il governo sotto pressione. Gruppi armati aggredirono l'Assemblea Federale e il quartier generale della TV di stato. [7] Massicce proteste e rivolte costrinsero Milosevich a cedere. Così, il secondo turno non si fece e il candidato di Washington, Vojislav Kustunica, prese il potere. La strategia aveva funzionato.

Ma per quale motivo gli USA avevano preso di mira proprio la Serbia e, in particolare, la piccola provincia del Kossovo? La risposta va cercata tornando all'epoca dell'amministrazione Reagan e a un documento segreto sulla "Politica USA verso la Iugoslavia", datato 1984. Una versione censurata fu rivelata solo nel 1990, per sostenere gli "sforzi atti a promuovere una 'rivoluzione tranquilla' con lo scopo di far crollare il governo e i partiti comunisti". [8]

Il governo USA si è prodigato per anni nello smantellare e dividere la Iugoslavia socialista, sostenendo tutti i movimenti di indipendenza all'interno delle varie province, incluso l'intervento militare del 1999 per aiutare il Kossovo a separarsi. Quello che, un tempo, fu un relativo successo economico sotto il famoso Josip Tito, l'economia socialista basata su compagnie di proprietà sociale, controllate dai lavoratori, non consentiva investimenti stranieri o capitali USA. Questo è il peccato mortale nel moderno capitalismo globale. Come ha detto Michael Parenti:

"La Yugoslavia era l'unica nazione dell'Europa dell'Est che non accettava di smantellare il proprio assistenza sociale e il settore dell'economia pubblica. Era l'unico stato che non implorava di entrare nella NATO. Percorreva - e quel che ne rimane ancora precorre - una via indipendente, non in sintonia col Nuovo Ordine Mondiale". [9]

Frammentare il paese in stati piccoli e dipendenti, distruggendone l'economia era lo scopo prefissato. Milosevich, un ammiratore del socialista Tito, era l'unica barriera da superare.

Il premio per tutto questo lavorio fu sostanzioso. Tolto di mezzo Milosevich, uno dei primi passi intrapresi dal nuovo governo fu quello di abrogare la legge sulla privatizzazione del 1997, in modo da permettere che il 70% di un'impresa fosse venduta a investitori stranieri. [10] Nel 2004 la missione ONU nel Kossovo annuncio' la privatizzazione di 500 imprese. Le multinazionali USA vi avevano fatto la parte del leone: la Philip Morris aveva comprato una fabbrica di tabacco del valore di 580 milioni di dollari, la U.S. Steel si era assicurata un affare da 250 milioni di dollari con un produttore di acciaio, la Coca-Cola si era accaparrata una produzione di acqua in bottiglia per 21 milioni di dollari e la lista non si ferma qui. [11]

Inoltre, gli investitori occidentali si erano guadagnato l'accesso a quello che il New York Times aveva definito "un brillante bottino di guerra", ovvero la seconda maggiore riserva di carbone d'Europa, insieme a vasti giacimenti di piombo, zinco, oro, argento e perfino petrolio. [12] Ma la vera gemma era situata nel Kossovo: l'enorme complesso minerario di Trepca, valutato oltre 5 miliardi di dollari e oggi aperto al miglior offerente. [13]

Il successo di questa strategia in Serbia è stata una lezione importante per i fabbricanti di politica di Washington. L'avrebbero applicata molte altre volte nell'Europa dell'Est, in paesi come la Georgia (2003), l'Ucraina (2004), il Kyrgyzstan (2005) e in Bielorussia (senza successo, 2001). In ognuna di queste famose "Rivoluzioni Colorate" ogni movimento sostenuto dagli USA ha rimosso il governo in cambio di politiche più favorevoli al "libero mercato", promosse da Washington. [14]

Così, la strategia preferita per cambiare un regime è oggi questo nuovo sistema di resistenza non violenta e l'impero volge il suo sguardo al Sud America, dove è emersa improvvisamente una nuova minaccia al capitalismo globale.

Il problema del Venezuela

Se le miniere di Trepca sono state la tombola dell'intervento in Serbia, in Venezuela questo è rappresentato dalla compagnia petrolifera di stato PDVSA. Il Venezuela possiede uno dei maggiori giacimenti di petrolio del mondo, che forse supera perfino tutte i giacimenti dell'Arabia Saudita se si contano anche i depositi di materiale greggio.

Ed è la PDVSA che detiene, in Venezuela, il monopolio totale delle riserve petrolifere nazionali. Con una capacità di produzione di 4 milioni di barili al giorno e un reddito di 65 miliardi di dollari all'anno, la compagnia possiede anche una rete di oltre 15mila stazioni di benzina negli USA e diverse raffinerie in USA ed Europa, imponendosi, in tal modo, come la seconda maggiore compagnia petrolifera di tutta l'America Latina. [15]

Si può essere certi che le multinazionali sognano di mettere le mani sulla PDVSA, come anche su altre compagnie venezuelane del settore pubblico. Infatti, era proprio quello che facevano negli anni '90. Nel 1998 le multinazionali avevano già fatto in tempo ad acquistare la compagnia telefonica nazionale, la maggiore compagnia elettrica, mentre la PDVSA subiva la così detta "apertura" al capitale internazionale, un modo grazioso per dire "privatizzazione". [16]

Ma quello stesso anno Hugo Chavez venne eletto presidente in base a una piattaforma anti-imperialista e la svendita all'asta del Venezuela subì un arresto improvviso. Difatti, Hugo Chavez è diventato un vero problema per le multinazionali imperialiste e i loro servitori di Washington. Egli non solo ha fermato la privatizzazione, ma sta rinazionalizzando tutto quello che era stato privatizzato. Oggi, la privatizzazione della compagnia petrolifera statale è proibita per legge e il governo, che ne ha il controllo completo, ne impiega i proventi per finanziare lo sviluppo del paese.

Ma quel che più di tutto preoccupa Washington e i suoi sponsor è che questa tendenza si va propagando in tutta l'America Latina. Il governo di Chavez ha costruito dei legami forti con molti dei suoi vicini e altri ne seguono l'esempio. Paesi come la Bolivia e l'Ecuador si stanno riprendendo il controllo dei loro immensi giacimenti di gas e di petrolio, lasciando sempre meno spazio alle multinazionali che invece speravano di possederli, un giorno.

Di conseguenza, Washington sta dispiegando le sue forze nel Venezuela sul modello serbo, georgiano e ucraino, con l'intenzione di sbarazzarsi della minaccia-Chavez. Dopo aver fatto molti tentativi in questi ultimi anni, incluso un breve colpo di stato, manipolazioni elettorali e proteste di massa, Washington non è riuscita a far cadere questo leader popolare. Ma non ci ha rinunciato. Al contrario, sta aumentando il proprio coinvolgimento.

Ripetendo in Venezuela l'esperienza dell'Europa dell'Est

La nuova strategia imperialistica contempla una cosa chiamata "Angoli Americani". Questi "angoli" sono piccoli uffici che Washington sparge un po dappertutto nella nazione-bersaglio e che funzionano come mini-ambasciate. Non è del tutto chiaro cosa facciano veramente questi "angoli", ma all'interno ci si può trovare un mare di informazioni sugli Stati Uniti, opportunità di studio all'estero, corsi di inglese e propaganda filo-USA. Inoltre, queste mini-ambasciate organizzano svariati eventi, corsi e seminari per studenti. è interessante notare come [questi centri] siano particolarmente abbondanti nei paesi che Washington cerca di destabilizzare. L'ex-Iugoslavia aveva un totale di 22 "Angoli Americani", di cui 7 in Serbia. L'Ucraina ne ha 24, la Bielorussia 11, la Russia 30 e l'Iraq 11. Il maggior numero si trova nell'Europa dell'Est, dove Washington ha concentrato la sua opera di destabilizzazione negli anni più recenti. [17]

Esistono almeno 4 "Angoli Americani" in Venezuela, un numero maggiore che in tutti gli altri paesi dell'America Latina, e gli USA finanziano letteralmente centinaia di altre organizzazioni nel paese, spendendo oltre 5 milioni di dollari all'anno. [18] Tutte insieme, queste organizzazioni finanziate dagli USA lavorano per trapiantare l'esperienza dell'Est Europeo in Venezuela. Come riporta la Reuters, l'opposizione in Venezuela sta già imparando da un colonnello a riposo dell'esercito USA, Robert Helvey, le tattiche serbe per far crollare l'attuale regime:

"Halvey - che ha allevato giovani attivisti nel Myanmar e che in Serbia ha istruito gli studenti per aiutare il crollo dell' ex-leader della Iugoslavia, Slobodan Milosevich, nel 2000 - in queste settimane sta dando lezioni di opposizione non violenta in una università' dell'est di Caracas" dice l' articolo. "Né Halvey, né gli organizzatori del seminario di Caracas hanno rilasciato dettagli su quali siano esattamente le tattiche di opposizione insegnate. Ma nel suo lavoro in Serbia, prima della caduta di Milosevich, Halvey si era occupato del tirocinio di studenti su come organizzare scioperi e minare l'autorità di un regime dittatoriale", ha riportato la Reuters. [19]

Più di recente, nella città universitaria di Merida, Neil Foley, un professore di storia proveniente dal Texas, ha ospitato un evento sponsorizzato dall'ambasciata statunitense presso il centro Venezuelano-Americano (Cevam). Non è un "Angolo Americano" ufficiale, ma mira allo stesso scopo. Foley, che ha parlato anche in vari "Angoli" in Serbia, ha condotto seminari sia in Bolivia che in Venezuela sui "Valori americani". [20]

Ho ascoltato uno degli interventi di Foley e, come mi aspettavo, si trattava di una vera e propria propaganda filo-USA imposta agli studenti universitari. Il professore ha lanciato esattamente il messaggio per il quale l'ambasciata USA lo ha pagato, parlando delle meraviglie della societa' americana e della "democrazia americana". Secondo Foley, gli Stati Uniti risolvono ogni problema con la tolleranza e col "dialogo" tra le parti. Mandando un messaggio trasparente agli studenti venezuelani, Foley ha suggerito che qualsiasi governo non corrisponda a questi standard "deve essere rovesciato". [21]

Tutti questi sforzi convergono in una vasta campagna intesa a unire, rafforzare e mobilitare l'opposizione al governo Chavez, democraticamente eletto. Il fine ultimo, naturalmente, è quello di destabilizzarlo organizzando e dirigendo gruppi di oppositori che si impegnino in atti di resistenza pacifica a proteste di massa. Proprio come nel 2002, quando gruppi venezuelani di opposizione inscenarono proteste che divennero violente e portarono al rovesciamento temporaneo di Chavez, la campagna finanziata dagli USA cerca di destabilizzare il governo in ogni modo possibile, magari provocando anche atti di violenza di cui, più tardi, incolperanno quello stesso governo. [22]

Oggi, quasi tutti gli elementi della strategia adoperata in Serbia e in altri paesi dell'Europa dell'Est sono stati realizzati in Venezuela, con Washington che dirige e controlla la campagna venezuelana di opposizione. Gli stessi "consulenti elettorali" basati a Washington e usati in Serbia, come Penn, Schoen e Berland, vengono impiegati in Venezuela per pubblicare falsi exit-poll e gettare dubbi sulle elezioni.

Questa strategia di manipolazione elettorale fu applicata nel 2004, durante il referendum sulla fiducia al presidente, quando la ONG Sumate, finanziata da Washington, e la Penn, Schoen e Berland esibirono risultati fasulli, sostenendo che Chavez aveva perso il referendum. Fecero poi la stessa cosa prima delle elezioni del 2006, affermando che l'oppositore di Chavez era "chiaramente in testa"[23]

Sia nel 2004 che nel 2006 i falsi exit-poll cercavano di dar credito alle accuse di frode sostenute dall'opposizione, nella speranza che nascessero proteste di massa contro il governo. La strategia è fallita, ma ha ugualmente messo in dubbio la legittimità del governo Chavez, offuscandone l'immagine a livello internazionale.

Questi tentativi di destabilizzazione prendono forma, nelle settimane entranti, come proteste anti-governative a Caracas, per respingere i provvedimenti contro la TV privata RCTV. Gruppi di opposizione protestano contro la decisione del governo, sostenendo che "viene lesa la loro libertà di espressione", e organizzano una grande marcia nella capitale per il 27 maggio, il giorno in cui scade la licenza della RCTV.

Tutti i media privati pubblicizzano la marcia di protesta contro il governo e incitano il pubblico a prendervi parte. Secondo le previsioni, ci sarà uno spettacolare dispiegamento di forze, sia a favore che contro il governo, il quale ha avvertito che potranno esserci forme di violenza e tentativi di farne ricadere la responsabilità sul governo stesso, con lo scopo di destabilizzarlo. In questi ultimi giorni, i servizi di sicurezza hanno scoperto alcuni gruppi di opposizione in possesso di 5 fucili ad alta precisione e 144 bottiglie Molotov, dimostrazione del fatto che si preparano degli atti di violenza. [24] [25]

Fu proprio questo stesso tipo di protesta che, nel 2002, portò a dozzine di morti e centinaia di feriti e al temporaneo rovesciamento del governo. Canali televisivi privati come RCTV manipolarono dei filmati per far ricadere la colpa sui sostenitori di Chavez e accusarono il governo di atti contro i diritti umani. Per evitare una situazione analoga al colpo di stato del 2002, il 27 e 28 maggio gli attivisti filo-governativi sono stati incaricati di monitorare le proteste dell'opposizione con foto e video.

Se non fosse stato per le immense proteste di massa a favore del governo, quando Chavez fu rovesciato nel 2002, la strategia di Washington avrebbe già eliminato questo popolare presidente. Ma siccome ha fallito, l'impero continua a provarci. Come ha già fatto in Ucraina, Serbia, Georgia e in altri paesi, la strategia richiede la presenza di un vasto numero di gente per riempire le strade contro il governo, senza curarsi se il governo sia sostenuto dal popolo o meno, democraticamente eletto o no, i gruppi di opposizione tentano di imporre la propria volontà, mettendolo sotto pressione.

Quello che la maggior parte di questi oppositori probabilmente non sa è che sono pedine su uno scacchiere più vasto, inteso ad aprire la via al "libero mercato" del capitalismo globale e alle privatizzazioni. Mentre enormi multinazionali si spartiscono il mondo tra di loro, piccole nazioni come la Serbia e il Venezuela non sono altro che ostacoli sgraditi. Nella lotta mondiale a chi diventa più grosso e a chi viene divorato, il fatto che alcuni paesi preferirebbero non diventare un pasto, semplicemente non interessa i burocrati di Washington.


Chris Carlson - Traduzione di Eleonora Volpe per luogocomune.net

Fonte : http://venezuelanalysis.com/articles.php?artno=2035

Chris Carlson è un giornalista freelance e un attivista che vive in Venezuela.

Questo il suo blog: http://www.gringoinvenezuela.com/


[1] To read more about how the World Bank and IMF force privatization on poor countries, Third World Traveler has a large section devoted to the topic. http://www.thirdworldtraveler.com/IMF_WB/IMF_WB.html

[2] Michael Barker has a 4 part series of articles on Znet that explain this strategy in further detail. http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?ItemID=10987

[3] Michael A. Cohen and Maria Figueroa Küpçü, Privatizing Foreign Policy, World Policy Journal, Volume xXII, No 3, Fall 2005 http://worldpolicy.org/journal/articles/wpj05-3/cohen.html

[4] Chulia, Sreeram. Democratisation, Colour Revolutions and the Role of the NGO's: Catalysts or Saboteurs?, Global Research, December 25, 2005, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=20051225&articleId=1638

[5] Michael Dobbs, 'US advice guided Milosevic opposition: political consultants helped Yugoslav opposition topple authoritarian leader', The Washington Post, 11 December 2000, http://www.washingtonpost.com/ac2/wp-dyn?pagename=article&contentId=A18395-2000Dec3&notFound=true

[6] Ian Traynor explains how opposition "exit polls" have been strategically used to weaken or overthrow regimes in Eastern Europe in his November 2004 article in The Guardian. "US campaign behind the turmoil in Kiev," http://www.guardian.co.uk/ukraine/story/0,15569,1360236,00.html

[7] Chris Marsden, "How the West organised Milosevic's downfall," World Socialist Web Site, 13 October 2000, http://www.wsws.org/articles/2000/oct2000/yugo-o13_prn.shtml

[8] Finley, Brooke. "Remembering Yugoslavia: Managed News and Weapons of Mass Destruction," from the book Censored 2005, Project Censored, Seven Stories Press, 2004.
[9] Michael Parenti, The Media and Their Atrocities, You Are Being Lied To, pg. 53 , The Disinformation Company Ltd., 2001

[10] Neil Clark, "The Spoils of Another War - NATO's Kosovo Privatizations," Znet, September 21, 2004, http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?ItemID=6275

[11] Elise Hugus, "Eight Years After NATO's "Humanitarian War" - Serbia's new "third way", Z Magazine, April 2007, Volume 20 Number 4, http://zmagsite.zmag.org/Apr2007/hugus0407.html

[12] Hedges, C., "Kosovo War's Glittering Prize Rests Underground," New York Times, 08/08/98

[13] Michel Chossudovsky, "Dismantling Former Yugoslavia, Recolonizing Bosnia-Herzegovina," Global Research February 19, 2002, Covert Action Quarterly, Spring 1996-06-18, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=MIC20020219&articleId=370

[14] Jonathan Mowat, "Coup d'État in Disguise: Washingtons's New World Order "Democratization" Template," Global Research, February 9, 2005, http://www.globalresearch.ca/articles/MOW502A.html

[15] http://es.wikipedia.org/wiki/Petróleos_de_Venezuela

[16] Steve Ellner, The Politics of Privatization, NACLA Report on the Americas, 30 April 1998, http://www.hartford-hwp.com/archives/42/170.html

[17] http://veszprem.americancorner.hu/htmls/american_corners_worldwide1.html

[18] Jim McIlroy & Coral Wynter, "Eva Golinger: Washington's 'three fronts of attack' on Venezuela," Green Left Weekly, 17 November 2006, http://www.greenleft.org.au/2006/691/35882

[19] Pascal Fletcher, "US democracy expert teaches Venezuelan opposition," Reuters, April 30, 2003, http://www.burmalibrary.org/TinKyi/archives/2003-05/msg00000.html

[20] On the web page of the U.S. Embassy in Bolivia it shows that Neil Foley gave a speech in La Paz, Bolivia for "U.S. Culture Week" the week before he was in Venezuela. http://www.megalink.com/USEMBLAPAZ/english/Pressrel2007En/0404-USweek-eng.pdf

[21] From my personal notes of Mr. Foley's speech at the University of the Andes in Merida, Venezuela on April 16, 2007

[22] For the best, most detailed, account in English of the 2002 coup, read Gregory Wilpert's recent article, "The 47-Hour Coup That Changed Everything," www.venezuelanalysis.com/articles.php?artno=2018

[23] See my previous article "Coup d'État in Venezuela: Made in the U.S.A. - The U.S.-designed Plan to Overthrow Hugo Chavez in the Days Following the Election," Venezuelanalysis.com, November 22, 2006 www.venezuelanalysis.com/articles.php?artno=1884

[24] President Chavez announced that his intelligence had infiltrated opposition groups and found a man belonging to an opposition group with 5 sniper rifles with silencers and scopes. "Chávez anuncia incautación armas vinculadas a complot en su contra," Milenio.com, May 6th, 2007, http://www.milenio.com/index.php/2007/05/05/65937/ Also, police in Los Teques, near Caracas, found 144 Molotov cocktails all ready to be used to "take them out to the street next week with the intention of disturbing the public order and for direct confrontation with authorities," Prensa Latina, May 9, 2007, http://www.prensalatina.com.mx/article.asp?ID=%7BEEAA37C7-DE27-48EB-A23B-CDC19EAD2ADA%7D)